Pubblica amministrazione

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Pubblica amministrazione

Marco D'Alberti

(v. amministrazione pubblica, II, p. 993; App. I, p. 112; II, i, p. 162; IV, i, p. 116; V, i, p. 150)

Il secolo 20° è stato caratterizzato da una graduale espansione della p. a., che si è verificata tanto nei paesi, come la Francia, in cui i corpi burocratici hanno assunto storicamente un ruolo essenziale nella formazione e nei mutamenti dello Stato, quanto nei paesi, come quelli del ceppo anglosassone, nei quali gli apparati amministrativi si sono sviluppati assai dopo la formazione degli ordinamenti nazionali.

Si sono moltiplicati i ministeri, o i dipartimenti di Stato, e dunque gli apparati del governo centrale; ha assunto un rilievo crescente il governo locale; sono emersi enti pubblici non governativi di livello nazionale; sono aumentati i dipendenti delle amministrazioni centrali, periferiche e locali; si sono potenziati gli apparati degli organismi internazionali e sovranazionali (la cui trattazione esula dalla presente voce). Tale crescita delle strutture è stata conseguenza dei più vasti compiti che si sono ricondotti all'amministrare pubblico: all'originaria attività giuridica, rivolta al mantenimento dell'ordine esistente, si è aggiunta una larga sfera di attività sociale, già consistente agli esordi del secolo anche nelle esperienze anglosassoni, e, soprattutto dagli anni Trenta, un'attività economica che, specialmente nell'area eurocontinentale, si è prolungata fino alla gestione e al controllo puntuale di imprese.

L'ultimo decennio del Novecento è stato ricco, in Italia come in altre nazioni e nell'Unione Europea, di trasformazioni legislative che incidono sull'organizzazione e sul funzionamento della p. a. e possono modificare la sua stessa definizione tradizionale, a lungo utilizzata dalla dottrina giuridica dell'area eurocontinentale, secondo cui la p. a. è composta dall'insieme di strutture di tipo burocratico e imprenditoriale facenti capo allo Stato-governo e agli enti pubblici territoriali e funzionali (aventi cioè attribuzioni generali sul proprio territorio, ovvero competenze circoscritte a determinate materie) e chiamate a svolgere funzioni di cura concreta del pubblico interesse (v. amministrazione pubblica, App. II).

Si possono distinguere trasformazioni legislative che riguardano in via diretta materie e oggetti diversi rispetto alla p. a., ma producono indirettamente effetti sul ruolo e sull'assetto di quest'ultima, e trasformazioni che consistono in specifiche riforme delle attività e degli apparati amministrativi, e dunque incidono sulla p. a. in modo diretto.

Liberalizzazioni e privatizzazioni

Quanto al primo tipo di trasformazioni, grande importanza va riconosciuta ai regolamenti e alle direttive della Comunità Europea, recepiti o in via di recezione nei vari Stati membri, che, in maniera e dimensioni diverse, hanno disposto la liberalizzazione di settori e mercati tradizionalmente riservati al monopolio dello Stato e dei pubblici poteri: così è avvenuto, fra l'altro, per il trasporto aereo, le telecomunicazioni, le ferrovie, le poste, l'energia elettrica, il gas (si vedano, rispettivamente, i regolamenti CEE 2407/92 e 2408/92; e le direttive 96/19/CE, 91/440/CEE, 97/67/CE, 96/92/CE, 98/30/CE). Ciò comporta che in tali settori gli enti pubblici, o le società con partecipazione statale, in precedenza muniti di privilegi e retti da regole speciali, sono chiamati ad agire sullo stesso piano degli altri operatori e a rispettare le norme antitrust (dettate dalla l. 10 ott. 1990 nr. 287). Queste ultime norme, più in generale, si applicano a ogni attività economica svolta da soggetti privati o pubblici, anche al di là della liberalizzazione comunitaria.

Va poi sottolineata la rilevanza del processo di privatizzazione, che ha riguardato sia enti pubblici non economici sia imprese pubbliche. La privatizzazione delle imprese pubbliche è la vicenda più rilevante e, nel nostro paese, ha assunto particolare intensità negli anni Novanta (si vedano, soprattutto, le leggi 8 ag.1992 nr. 359 e 30 luglio 1994 nr. 474). Le privatizzazioni di imprese pubbliche non trovano una base formale cogente nel diritto della Comunità Europea, poiché l'art. 295 (ex art. 222) del Trattato CE lascia agli Stati membri la scelta sulla natura pubblica o privata del regime di proprietà. Nella sostanza, però, le istituzioni comunitarie hanno mostrato ampio favore per le privatizzazioni, considerandole idonee al migliore perseguimento degli obiettivi dell'integrazione europea. In Italia va distinta la privatizzazione formale da quella sostanziale.

La prima consiste nella trasformazione, per legge o per provvedimento amministrativo, di un ente pubblico di tipo economico in società per azioni: enti come l'IRI, l'ENI, l'INA, l'ENEL sono stati trasformati in società per azioni nel 1992 con legge; altri enti, come le Ferrovie dello Stato e le Poste italiane, hanno subìto analoga trasformazione tramite provvedimento del CIPE (1992 e 1998). Cambia, dunque, la forma, ma la sostanza, cioè il capitale, resta in mano pubblica. Tale trasformazione ha prodotto, comunque, effetti di rilievo: i consigli d'amministrazione delle società risultanti dalla trasformazione sono stati in taluni casi fortemente ridimensionati dal punto di vista quantitativo e modificati nella composizione. L'acquisita natura di società per azioni ha comportato una più estesa applicazione delle norme del codice civile e del diritto societario comune. Parallelamente, il Ministero delle Partecipazioni statali è stato soppresso: quindi, l'IRI, l'ENI e le diverse società in mano pubblica hanno cessato di appartenere al sistema delle partecipazioni statali e di sottostare alle direttive di quel Ministero; il controllo pubblico è passato al ministro del Tesoro, che lo esercita da azionista e non da titolare di potestà di direzione politico-amministrativa. Altro tipo di controllo continua a essere attribuito a ministri di settore, quando questi ultimi sono competenti a conferire alle società una concessione che disciplina lo svolgimento dell'attività imprenditoriale (come avviene nel caso di servizi pubblici, per es. nel settore dell'energia elettrica): la giurisprudenza di Cassazione ha affermato che la società concessionaria, anche se completamente privata, è pur sempre organo indiretto della p. a., ma è tesi discutibile e lo stesso strumento della concessione è in via d'essere ridimensionato (nelle telecomunicazioni e, in parte, nel trasporto ferroviario è già stato sostituito da autorizzazioni, che comportano un controllo pubblico molto meno penetrante). Permane inoltre, secondo la giurisprudenza costituzionale, il controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria della società. In definitiva, la privatizzazione formale comporta, se non un distacco completo dalla p. a. degli enti trasformati in società, un mutamento delle regole applicabili, più vicine al diritto societario comune.

La privatizzazione sostanziale consiste, invece, nella cessione totale o parziale del capitale azionario da mani pubbliche a mani private. Sono stati sottoposti a tale privatizzazione, fra l'altro, il Credito italiano e la Banca commerciale, l'INA e, successivamente, la TELECOM Italia. Azionista pubblico è il ministro del Tesoro. Fino a quando, a seguito della cessione azionaria, permane una partecipazione maggioritaria dello Stato al capitale, vale comunque il controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria della società. Se viene meno la partecipazione maggioritaria dello Stato, può rimanere, in alcuni settori indicati dalla legge e nei servizi pubblici, la titolarità in capo al ministro del Tesoro di poteri speciali che consistono, fra l'altro, nel diritto di nomina di almeno un amministratore o un sindaco della società, e nel gradimento su taluni movimenti dei pacchetti azionari; nei settori di pubblico servizio resta anche la concessione, nei limiti sopra indicati. In definitiva, la privatizzazione sostanziale, quando conduce alla perdita del controllo azionario da parte del ministro del Tesoro, porta con sé il distacco della società dall'ambito dei soggetti riconducibili alla pubblica amministrazione.

Liberalizzazioni e privatizzazioni producono l'effetto di modificare le regole e di attenuare il peso dell'attività di p. a. consistente nella gestione diretta di imprese: le imprese pubbliche vengono affiancate nei settori liberalizzati da operatori privati, sono sempre più soggette al diritto comune delle società e alle norme sulla concorrenza, vedono attenuarsi i loro legami di dipendenza dal governo e, se sottoposte a privatizzazione sostanziale con perdita del controllo azionario dello Stato, cessano di essere pubbliche ed entrano nell'universo dell'imprenditoria privata.

La p. a. arretra nella gestione di attività economiche e assume funzioni di regolazione e di garanzia: la regolazione, in senso stretto, si concreta nell'adozione di misure prevalentemente generali, ma talora particolari, di natura privatistica e pubblicistica - provvedimenti, contratti, regole tecniche, standard -, che disciplinano secondo criteri oggettivi, trasparenti e non discriminatori (per utilizzare la terminologia della normativa comunitaria) imprese e mercati; e la garanzia consiste fondamentalmente nella repressione di illeciti, come avviene nell'applicazione delle norme antitrust. Alcuni ministeri conservano quasi esclusivamente funzioni regolatorie (è il caso, in Italia, del Ministero delle Comunicazioni); Regioni, Province e Comuni si distaccano sempre più dalla gestione e dai controlli puntuali sulle imprese che erogano servizi locali; si sviluppano le autorità indipendenti, con funzioni di regolazione e garanzia.

Le autorità indipendenti

Le leggi istitutive di autorità indipendenti costituiscono un altro fattore di trasformazione che produce effetti indiretti sulla p. a.: le leggi istitutive delle autorità riguardano, infatti, la disciplina di materie diverse, come i mercati mobiliari, la concorrenza, i servizi di pubblica utilità, la riservatezza dei dati personali (v. riservatezza, in questa Appendice), ma introducono nell'ordinamento organismi che sotto il profilo soggettivo rientrano, sia pure latamente, nel novero delle p. a., arricchendone la morfologia.

La vicenda ha inizio in Italia negli anni Settanta, con la CONSOB (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, istituita nel 1974), ma si consolida negli anni Novanta. Sono del 1990 l'istituzione dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (l. 10 ott. 1990 nr. 287) e quella del Garante per la radiodiffusione e l'editoria (l. 6 ag. 1990 nr. 223); seguono, poi, l'Autorità per l'energia elettrica e il gas nel 1995 (l. 14 nov. 1995 nr. 481); il Garante per la protezione dei dati personali nel 1996 (con le leggi 31 dic. 1996 nr. 675 e 676); e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nel 1997 (l. 31 luglio 1997 nr. 249), che è chiamata a occuparsi tanto di media quanto di telecomunicazioni, riassorbendo le competenze del Garante per la radiodiffusione e l'editoria.

Tre sono gli elementi caratteristici delle autorità indipendenti, che seguono, in parte, il modello statunitense delle independent agencies. In primo luogo, la loro 'missione' consiste nell'assicurare tutela a interessi individuali, collettivi e diffusi, ovvero a libertà e diritti costituzionalmente garantiti, che siano minacciati da poteri forti, pubblici o privati: è così per i diritti dei risparmiatori nei confronti delle insidie degli intermediari e degli emittenti nei mercati mobiliari; per la libertà di iniziativa economica e per gli interessi e i diritti dei consumatori nei confronti delle imprese che provocano chiusure dei mercati e distorsioni della concorrenza; per gli interessi degli utenti di servizi di pubblica utilità, come l'erogazione dell'elettricità e del gas, le radiotelevisioni o le telecomunicazioni; per il diritto alla riservatezza nei confronti di qualunque operatore organizzato che effettui il trattamento dei dati personali. In secondo luogo, le autorità sono dotate di particolare expertise tecnica e di indipendenza o semi-indipendenza nei confronti del governo, garantita sul piano strutturale e funzionale. Sotto il profilo strutturale, la preposizione dei titolari agli organi di vertice delle autorità può prescindere del tutto dal governo e derivare da una determinazione dei presidenti di Camera e Senato (come avviene per l'Autorità garante della concorrenza e del mercato) o da un'elezione delle Camere (come è, fra l'altro, nel caso del Garante per la protezione dei dati personali); se alla procedura di preposizione prende parte il governo, il peso di quest'ultimo è attenuato da interventi parlamentari di vario tipo (così avviene, per es., nel caso della CONSOB, dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas, e del presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Sotto il profilo funzionale, l'azione delle autorità non è sottoposta a direttive specifiche del governo. Tutto ciò non significa che le autorità siano franche da controlli: valgono comunque il controllo conoscitivo del Parlamento sull'attività svolta, il controllo giurisdizionale e il controllo della Corte dei conti sul rendiconto della gestione finanziaria. In terzo luogo, le autorità indipendenti possono svolgere funzioni di tipo diverso: normative, amministrative e quasi-giudiziali. Nella tradizione statunitense spesso si registra la compresenza di tali funzioni. Nell'ordinamento italiano, si può distinguere fra autorità regolatrici e autorità garanti. Le prime svolgono prevalentemente funzioni di tipo normativo, tecnico o amministrativo: vi rientrano la CONSOB e le autorità preposte alla vigilanza sui servizi di pubblica utilità. Le autorità di garanzia svolgono rilevanti funzioni di tipo quasi-giudiziale, a tutela di libertà e di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e a salvaguardia di principi dell'ordinamento comunitario: possono ascriversi a tale categoria l'Autorità garante della concorrenza e del mercato e il Garante per la protezione dei dati personali.

Le autorità indipendenti, in definitiva, possono considerarsi come corpi amministrativi peculiari: rientrano, latamente, nell'insieme delle strutture che compongono la p. a. centrale; svolgono, però, funzioni in buona parte estranee all'attività tradizionalmente considerata tipica delle p. a. - cioè la cura concreta del pubblico interesse - poiché esercitano in larga misura poteri normativi o regolatori generali, ovvero potestà quasi-giudiziali in posizione di terzietà o neutralità rispetto a interessi pubblici e privati; non sono soggette, in via generale, all'indirizzo politico. In domaines sensibles, settori nei quali libertà, diritti e interessi di individui, di associazioni, di imprese rischiano gravemente di essere compromessi da rilevanti poteri pubblici o privati, l'ordinamento legittima le autorità indipendenti a prendere il posto, o ad attenuare il ruolo, degli organi politici e delle amministrazioni ordinarie a essi facenti capo, al fine di assicurare a quegli interessi, diritti e libertà la massima protezione possibile.

Le trasformazioni amministrative di portata generale. - Venendo alle trasformazioni legislative che riguardano direttamente la p. a., è da notare che gli anni Novanta sono stati caratterizzati da interventi che aspirano a realizzare riforme amministrative di portata generale: è stato così, fra l'altro, in Francia (specialmente con gli interventi promossi dal ministro per la Funzione pubblica dopo il 1996), in Spagna (con la legge sul procedimento amministrativo nr. 30 del 1992 e la legge sull'organizzazione amministrativa nr. 6 del 1997), negli Stati Uniti (con le normative d'attuazione del programma poliennale Reinventing Government, dal 1993).

L'Italia ha attraversato, nell'ultimo decennio, tre fasi importanti di riforme amministrative di portata generale: la prima nel 1990 (principalmente con le leggi sulle autonomie locali, la l. 8 giugno 1990 nr. 142, e sul procedimento amministrativo, la l. 7 ag. 1990 nr. 241); la seconda nel 1993-94 (con il d. legisl. 3 febbr. 1993 nr. 29 sull'organizzazione e il personale; la legge finanziaria 24 dic. 1993 nr. 537; le altre misure promosse dal ministro per la Funzione pubblica, S. Cassese); la terza dal 1997 (con la l. 15 marzo 1997 nr. 59 sul decentramento, il riordino dello Stato e la semplificazione; la l. 3 apr. 1997 nr. 94 sul bilancio e la contabilità dello Stato; la l. 15 maggio 1997 nr. 127 sullo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo; la l. 16 giugno 1998 nr. 191 che modifica la nr. 59 e la nr. 127 del 1997; il d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112 sulle funzioni conferite a Regioni ed enti locali; i d. legisl. 30 luglio 1999 nr. 286, 300 e 303, sui sistemi di valutazione e sul riordino dei ministeri e della Presidenza del Consiglio; le altre misure promosse dal ministro per la Funzione pubblica, poi sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, F. Bassanini).

In sintesi, può dirsi che le riforme italiane degli anni Novanta, traendo spunto anche da esperienze straniere, sono intervenute sui seguenti aspetti dell'organizzazione e dell'attività amministrativa: il decentramento, il riordino delle amministrazioni centrali, l'autonomizzazione dell'alta burocrazia, la partecipazione degli amministrati ai procedimenti amministrativi e alle attività di servizio pubblico, la semplificazione normativa e amministrativa.

Il decentramento aveva ricevuto due impulsi significativi grazie alle normative di trasferimento di funzioni dal centro alle Regioni e agli enti locali (del 1972 e del 1977). L'assetto di Comuni e Province rimaneva disciplinato dal testo unico del 1934 (r.d. 3 marzo 1934 nr. 383): la legge nr. 142 del 1990 ha provveduto a dettare una nuova normativa sul punto e la legge nr. 265 del 1999 ha previsto un ampliamento dell'autonomia degli enti locali. La legge nr. 59 del 1997 ha disposto, in via di delega legislativa, un terzo ampio conferimento di funzioni amministrative dallo Stato a Regioni ed enti locali (è poi intervenuto il d. legisl. nr. 112 del 1998): il conferimento riguarda tutte le funzioni e i compiti amministrativi esercitati dallo Stato o da enti pubblici nazionali e relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle varie collettività regionali e locali, ovvero localizzabili nei rispettivi territori. Sono esclusi dal conferimento, e restano allo Stato e agli enti nazionali, le funzioni e i compiti riconducibili ad alcune materie che vengono espressamente elencate. Si inverte, in tal modo, per le sole funzioni amministrative, il criterio adottato dalla Costituzione, che elenca espressamente le materie nelle quali le Regioni hanno competenza normativa e amministrativa (artt. 117 e 118), lasciando allo Stato tutto ciò che è al di fuori dell'elenco. L'inversione del criterio comporta il riconoscimento a favore delle autonomie regionali e locali di un'estesa sfera di attribuzioni amministrative. Le autonomie vengono ancor più rafforzate dai progetti di revisione costituzionale in chiave federalistica.

Una novità importante del nuovo decentramento amministrativo è che, per la prima volta, la legge nr. 59 del 1997 prevede fra i principi da osservare nei conferimenti di funzioni alle autonomie regionali e locali quello dell'adeguatezza: l'amministrazione che riceve le funzioni deve essere idonea, sul piano organizzativo, a garantire l'esercizio delle funzioni medesime. È una previsione che, sotto il profilo pratico, tiene conto dei limiti dei precedenti decentramenti, con i quali talora si sono riversati delicati compiti su strutture locali del tutto inadeguate a riceverli: sembra, però, che di tale previsione si stia tenendo poco conto nella fase d'attuazione.

Il riordino delle amministrazioni centrali, problema da sempre fondamentale per i riformatori delle istituzioni, in Italia ha assunto particolare rilievo a partire dagli anni Settanta, a seguito delle prime misure di decentramento amministrativo a favore delle Regioni. Il trasferimento di funzioni e risorse dal governo centrale al governo locale rende necessarie riduzioni quantitative e riorganizzazioni degli apparati centrali, sia dello Stato che degli enti pubblici nazionali. Tali obiettivi non hanno trovato adeguata realizzazione; la legge nr. 59 del 1997 tenta nuovamente, indicando tre percorsi di riforma.

Innanzitutto, prevede che sia razionalizzato l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, potenziando le funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento del presidente del Consiglio, ed eliminando o trasferendo a Ministeri o a enti pubblici funzioni e risorse concernenti compiti operativi o gestionali. Ad attuare tale previsione è intervenuto il d. legisl. nr. 303 del 1999, che configura in modo non dissimile dal modello del Prime Minister's Office la Presidenza del Consiglio, la quale, rispetto alla riforma del 1988 (l. 23 agosto 1988, nr. 400), si vede affidare una più forte missione di raccordo con il Parlamento e con gli altri organi costituzionali, con l'Unione Europea e con il sistema delle autonomie, ed è chiamata a più impegnative funzioni di indirizzo e di progettazione delle politiche generali, nonché a un più intenso coordinamento legislativo e amministrativo, mentre è liberata dal peso di molti adempimenti puntuali. In secondo luogo, la legge nr. 59 del 1997 prevede che siano riordinati i ministeri: riducendone il numero; ridistribuendone le competenze anche in considerazione delle esigenze derivanti dai rapporti con l'Unione Europea; ridisegnandone l'organizzazione interna; affidando attività tecnico-operative ad apposite agenzie; modernizzandone le strutture periferiche. In attuazione di questa seconda previsione della legge nr. 59 è stato varato il d. legisl. nr. 300 del 1999, che riduce a dodici, a partire dalla 14ª legislatura, il numero dei ministeri, ne disegna un'organizzazione per grandi dipartimenti, attribuisce funzioni tecnico-operative, già esercitate da ministeri o da enti pubblici, ad agenzie poste sotto la vigilanza di ministri ma dotate di ampia autonomia, secondo un modello simile a quello britannico delle Next Steps Agencies. In terzo luogo, la stessa legge nr. 59 prevede che sia riveduto il sistema degli enti pubblici nazionali: fondendo o sopprimendo enti con funzioni omologhe o complementari; procedendo alla liquidazione di enti inutili; trasformando in associazioni o in persone giuridiche di diritto privato enti che non svolgono attività di rilevante interesse pubblico; costituendo strutture imprenditoriali al posto di enti con elevata autonomia finanziaria. Al rafforzamento del tradizionale imperativo della soppressione degli enti inutili si aggiunge, dunque, un più marcato impulso a riportare nella sfera privatistica enti che le forzature del fascismo e del secondo dopoguerra avevano attratto nell'orbita pubblicistica.

Il dato di fondo che si ricava dal nuovo quadro delle amministrazioni centrali è la possibilità di una maggiore compattezza dell'azione di governo e degli apparati ministeriali; al tempo stesso, si arricchisce la morfologia dell'organizzazione amministrativa: ai ministeri si affiancano non più soltanto gli enti pubblici, ma anche le autorità indipendenti e le nuove agenzie tecniche.

L'autonomizzazione dell'alta burocrazia trova il suo fondamento in norme o prassi in base alle quali i più elevati funzionari delle pubbliche amministrazioni, collocati nell'area dirigenziale, assumono un rilevante peso decisionale, che attenua la loro subordinazione rispetto agli organi di governo. La vicenda, comune a vari paesi, con le differenze legate ai diversi sistemi costituzionali e politici, acquista maggiore consistenza con la crescita quantitativa e qualitativa dei compiti attribuiti alle p. a. e con il rafforzamento delle loro attività tecniche.

La legislazione amministrativa italiana ha conosciuto storicamente tre diverse formule di rapporti tra politici e burocrati, almeno per quel che riguarda il ruolo dei ministri nei confronti dei dirigenti statali.

Con Cavour, nel 1853, si stabilì un rapporto di stretta gerarchia tra ministro e strutture burocratiche dirigenziali, che furono configurate come semplici uffici interni coadiutori dei ministri, semmai investiti di deleghe su materie specifiche. Questa prima formula è durata più di un secolo, fino agli anni Settanta del Novecento, e ha conosciuto attuazioni diverse, perché in questo lungo arco temporale si è passati dalla monarchia alla repubblica, dallo Statuto albertino alla Costituzione del 1948, sono mutati più volte gli assetti politici sostanziali, ha avuto ben tre variazioni la normativa generale sugli impiegati dello Stato (1908, 1923, 1957). La seconda formula è stata introdotta nel 1972 dal d.p.r. sulla dirigenza statale (30 giugno 1972 nr. 748). Ha trovato conferma, ma si è attenuato, il rapporto gerarchico fra ministri e dirigenti: a questi ultimi, infatti, è stata riconosciuta una sfera limitata di competenze proprie. La seconda formula è durata venti anni e ha ricevuto scarsa attuazione pratica, poiché i dirigenti non hanno utilizzato l'autonomia, sia pure circoscritta, loro conferita. La terza formula compare negli anni Novanta. Il decreto legislativo del 1993 (nr. 29) sull'organizzazione e il personale delle p. a., più volte modificato negli anni seguenti, traccia la distinzione tra funzioni di indirizzo e controllo, che spettano ai ministri e agli organi politici, e funzioni di gestione, che competono ai dirigenti. In concreto, i ministri e gli organi di governo di enti pubblici e di altre p. a. definiscono indirizzi, obiettivi, programmi, direttive generali; i dirigenti adottano tutti gli atti e i provvedimenti di attuazione e gestione. Ne deriva che i dirigenti non hanno più una competenza limitata, come era stato previsto nel 1972, ma una sfera generale di attribuzioni per la gestione amministrativa; la loro subordinazione gerarchica nei confronti del ministro è sostituita da un rapporto di semplice direzione.

Dunque, la terza formula, introdotta negli anni Novanta, conferisce un rilevante peso decisionale ai dirigenti, seguendo la via dell'autonomizzazione dell'alta burocrazia; la sfera decisionale dei dirigenti si rafforza sia verso l'esterno sia nei confronti dei loro dipendenti, che non sono più regolati da uno speciale statuto pubblicistico, ma sono disciplinati dal diritto comune del lavoro nell'impresa e sottoposti a poteri dirigenziali equiparati a quelli del privato datore di lavoro. È da vedere come tutto ciò si realizzerà in concreto. La minore autonomia riconosciuta ai dirigenti negli anni Settanta, come si è detto, è rimasta inattuata; potrà realizzarsi la maggiore autonomia prevista negli anni Novanta?

A tal fine vanno rimossi ostacoli interni ed esterni alla pubblica amministrazione. All'interno, i meccanismi di reclutamento dei dirigenti al livello iniziale restano insoddisfacenti negli apparati centrali e, soprattutto, locali; la formazione rimane debole, specialmente in ordine ai problemi comunitari e internazionali: su entrambi i fronti sono indispensabili interventi efficaci. All'esterno, il problema maggiore è quello del ruolo effettivo che sarà giocato dai politici. Anzitutto, va assicurata un'attuazione rigorosa delle norme che ne prevedono l'estromissione dalle attività di gestione: molto dipenderà da come saranno strutturati in concreto gli uffici di diretta collaborazione con i ministri, che sostituiranno i gabinetti e le segreterie particolari, e verranno chiamati a svolgere funzioni di 'supporto' e 'raccordo' con l'amministrazione. Inoltre, è necessaria un'attuazione equilibrata delle norme sugli incarichi dirigenziali. Le funzioni di dirigenza più importanti (come quelle di segretario generale di ministeri, di direttore di dipartimenti, o di direttore di uffici dirigenziali generali) sono attribuite con incarico governativo a tempo determinato a chi sia già dirigente di carriera ovvero, entro limiti quantitativi determinati, a persone, anche esterne all'amministrazione, di particolare e comprovata qualificazione professionale. Non è più prevista la nomina governativa che immette definitivamente in ruolo. Gli incarichi superiori (segretario generale, capo dipartimento), compiti e poteri dei quali sono definiti dalle singole amministrazioni, sono sottoposti a conferma al cambio del governo; il che potrebbe comportare, per queste posizioni, un 'sistema delle spoglie' che vanificherebbe in parte l'autonomia dei dirigenti: la nuova maggioranza potrebbe revocare gli incarichi conferiti dalla vecchia, affidandoli a uomini di sicura fedeltà politica. Per le amministrazioni statali i pericoli appaiono limitati, perché le posizioni 'a rischio' sono poche, nell'ambito di strutture molto articolate; nelle amministrazioni regionali e locali, invece, la dirigenza spesso ha sofferto di forte contiguità con la politica, vicenda che non favorì i primi due decentramenti e ostacolerebbe il buon esito del terzo. Il 'sistema delle spoglie' è stato duramente criticato nello stesso ordinamento statunitense, che lo aveva introdotto fin dal terzo decennio dell'Ottocento. Da quelle critiche provengono alcuni insegnamenti da non dimenticare: sulla fedeltà politica deve prevalere la fiducia professionale; la qualità di un governo, centrale o locale, dipende molto da quella dei suoi più elevati dirigenti di carriera.

La partecipazione degli amministrati (individui, associazioni, imprese) alla p. a. viene codificata nel 1990, con la legge generale sul procedimento amministrativo (la nr. 241). L'amministrazione è tenuta a comunicare agli interessati l'inizio del procedimento, che deve avere un termine certo; i diretti destinatari del provvedimento finale e coloro che possono trarne pregiudizio hanno diritto di prendere parte al procedimento prima della sua conclusione, presentando note, memorie e documenti scritti, che l'amministrazione deve tenere in adeguata considerazione; vi è un responsabile del procedimento, che ne conduce l'istruttoria assicurando la compiuta partecipazione degli interessati; il provvedimento finale deve avere idonea motivazione; nel corso di un procedimento e anche al di fuori di esso, gli amministrati hanno diritto di accesso ai documenti amministrativi, per far valere situazioni giuridicamente rilevanti. Tale normativa riprende e rafforza orientamenti già espressi in pronunce dei giudici e si ispira ai modelli stranieri con forti tradizioni di partecipazione, specialmente quello statunitense e quello tedesco.

La legge italiana presenta alcune lacune: per es. esclude dalle garanzie di partecipazione procedimenti che richiedono un forte coinvolgimento degli amministrati, come quelli che conducono all'adozione di atti normativi o di misure amministrative generali (quali piani e programmi); e l'attuazione della legge mostra ancora diverse ombre, soprattutto nelle amministrazioni locali.

Va riconosciuta, però, l'importanza della scelta generale compiuta, in base alla quale l'amministrato può far valere la sua voce ancor prima che la decisione amministrativa sia adottata e, per esercitare al meglio tale facoltà, ha diritto di prendere visione di documenti amministrativi e di aver conoscenza delle principali informazioni sui fatti e sugli interessi che l'amministrazione deve valutare ai fini del decidere. Con ciò si supera, in via di principio, un tradizionale limite proprio del diritto continentale delle p. a., che confinava la voce dell'amministrato alla fase successiva rispetto all'adozione della decisione da parte dell'amministrazione, tramite i ricorsi amministrativi e giurisdizionali. In altri termini, da un modello classico che era fondato su un meccanismo di decisione amministrativa unilaterale e pressoché segreto, e che lasciava emergere gli elementi di giustizia solo dopo che l'amministrazione avesse deciso secondo autorità, si passa a un nuovo modello basato su un meccanismo di decisione amministrativa partecipato e trasparente, che trova già in sé elementi di giustizia, prima e al di fuori delle aule giudiziarie.

È poi da sottolineare che si rafforza il principio della 'contrattualità amministrativa'. Se all'inizio del secolo la regola era il provvedimento unilaterale e autoritativo dell'amministrazione, e l'eccezione il contratto, oggi l'equilibrio si è ampiamente modificato. L'amministrazione fa largo uso del contratto e dell'accordo con individui, associazioni e imprese. In particolare, la legge nr. 241 del 1990 prevede accordi in corso di procedimento e accordi sostitutivi di provvedimento finale: anche in tal modo si accentua la partecipazione degli amministrati all'azione amministrativa.

Un'altra forma di partecipazione che si sviluppa negli anni Novanta riguarda il ruolo degli amministrati come utenti di servizi di pubblica utilità. La stessa legge sul procedimento amministrativo prevede che il diritto di accesso ai documenti amministrativi possa essere esercitato anche nei confronti di concessionari (siano pure imprese private) di pubblici servizi. Più in generale, norme riguardanti diversi settori di pubblica utilità (poste, comunicazioni di massa, elettricità e gas ecc.) hanno previsto forme di partecipazione degli utenti, tramite appositi comitati o audizioni pubbliche, con finalità di controllo sulla qualità e sulla congruità delle prestazioni fornite dalle imprese - pubbliche o private - che erogano servizi pubblici. La partecipazione in funzione di controllo è resa più efficace dall'esistenza di 'carte dei servizi', che nei vari settori stabiliscono criteri e parametri relativi ai contenuti e alle modalità delle prestazioni. L'inosservanza delle 'carte' giustifica misure sanzionatorie nei confronti della struttura che eroga il servizio.

Il potenziamento della partecipazione degli amministrati all'attività di amministrazione e di erogazione dei servizi pubblici ha un valore storicamente importante, perché offre nuovi sostegni ai diritti di 'cittadinanza amministrativa', che nel nostro Paese, diversamente rispetto all'esperienza britannica e a quella francese, erano rimasti assai deboli e mai all'altezza dei diritti di 'cittadinanza politica'.

Infine, la semplificazione non è parola d'ordine nuova per le riforme amministrative. Se ne parlò all'inizio del secolo, quando i liberali sottolinearono la necessità di una riduzione degli impiegati pubblici e degli interventi della p. a.: quella semplificazione rispondeva all'ideale liberista di contenere il ruolo dei pubblici poteri nell'economia e nella società. Di semplificazione si parlò di nuovo fra le due guerre, quando dalla Francia s'importò l'idea di rendere la p. a. simile a una macchina imprenditoriale: si proposero, dunque, semplificazioni di procedure e di controlli con finalità di tipo efficientistico. Negli anni Novanta è emersa una terza prospettiva di semplificazione, seguita in diversi Paesi (specialmente negli Stati Uniti, in Francia e in Italia): essa non ha obiettivi prioritari di tipo neoliberista, né finalità principalmente efficientistiche, ma si propone, accanto agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, di "facilitare la vita della gente" (secondo l'espressione utilizzata dai riformatori francesi), cioè degli amministrati. La nuova semplificazione, quindi, intende favorire essenzialmente gli interlocutori della p. a. - individui, associazioni, imprese -: in Francia, per esempio, le misure più importanti di semplificazione riguardano la riduzione delle autorizzazioni o concessioni alle imprese e la creazione di maisons des services publics, luoghi nei quali vengono concentrati gli 'sportelli' di servizi diversi, per evitare al cittadino onerose perdite di tempo.

Le misure di semplificazione introdotte in Italia negli anni Novanta riguardano sia il piano normativo che quello amministrativo. Sotto il primo profilo, l'Italia è tra i paesi a più alto numero di leggi; ora si è previsto un sistema di codificazione che, tramite l'emanazione di testi unici, dovrebbe riordinare e semplificare la disciplina di importanti materie e settori. Fra i primi a essere individuati: l'ambiente e il territorio, l'espropriazione, i tributi, la documentazione amministrativa, l'agricoltura, la pesca, l'università e la ricerca, il pubblico impiego, le attività industriali (si veda in proposito la l. 8 marzo 1999 nr. 50). Sotto il profilo amministrativo, la semplificazione riguarda anzitutto i procedimenti. Già la legge generale del 1990 conteneva norme di semplificazione sulle conferenze di servizi, per consentire l'esame contestuale di interessi pubblici facenti capo ad amministrazioni diverse, sugli accordi fra p. a., sulle attività consultive e di valutazione tecnica, sull'autocertificazione, sulle autorizzazioni amministrative. Le leggi successive degli anni Novanta hanno proseguito il cammino, stabilendo criteri di semplificazione basati, fra l'altro, sulla riduzione dei procedimenti, delle loro fasi e dei tempi di conclusione; sul riordino delle competenze degli uffici; sull'indennizzabilità degli amministrati in casi di ritardo o di incompleto assolvimento degli obblighi dell'amministrazione; sulla soppressione dei procedimenti che comportano costi più elevati dei benefici, anche introducendo forme di autoregolazione; sull'adeguamento ai principi della normativa comunitaria, anche sostituendo i procedimenti di concessione amministrativa, talora incompatibili con il principio della concorrenza, con autorizzazioni o licenze. Alle misure di semplificazione amministrativa possono ricondursi anche quelle concernenti la documentazione amministrativa, la certificazione anagrafica, l'informatizzazione, i controlli su regioni ed enti locali (si veda, in partic., la l. 15 maggio 1997 nr. 127); più in generale, lo stesso graduale passaggio dai controlli sui singoli atti delle amministrazioni a controlli sui risultati dell'attività amministrativa e dei servizi pubblici, che si rafforza negli anni Novanta, rientra nell'arco di una semplificazione volta, come si è detto, a tutelare essenzialmente i diritti degli utenti a ottenere prestazioni adeguate.

Al problema della semplificazione si è riconosciuta importanza tale che si è prevista una legge annuale in materia e si è costituito, nell'ambito della Presidenza del Consiglio dei ministri, un apposito Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure (si veda la legge nr. 50 del 1999).

Il significato delle riforme in atto

Le riforme legislative degli anni Novanta mirano, direttamente o indirettamente, a una p. a. che sia: meno invasiva, ma incisiva, negli interventi in materia di attività economiche e sociali, essendo anteposte la regolazione e la funzione di garanzia alla gestione puntuale; più prossima agli amministrati in termini di decentramento, partecipazione, decisioni rese secondo criteri di giustizia; più coesa negli apparati centrali; più autonoma dalla politica, specialmente tramite le autorità indipendenti e l'alta burocrazia; più semplice, a vantaggio dei suoi interlocutori.

Molte di queste finalità sono comuni alle legislazioni di diversi ordinamenti: in Francia si punta a un'amministrazione che sia simple, proche, moderne; negli Stati Uniti si prevede di semplificare norme e procedure, secondo la parola d'ordine che impone di tagliare il red tape, il nastro rosso che tiene insieme le pratiche amministrative.

Naturalmente, le riforme legislative non equivalgono a riforme amministrative realizzate. Se si guarda all'attuazione effettiva nel nostro paese, per alcuni aspetti la via nuova è intrapresa, anche se occorrono consolidamenti ulteriori: è così per il ruolo meno intrusivo della p. a. in materia di attività economiche, fortemente voluto dalle normative sulla liberalizzazione e sulla concorrenza e dalle politiche di privatizzazione. Per altri aspetti, si è appena agli esordi, come accade per il riordino dell'amministrazione centrale e per la semplificazione. Per altri profili ancora, si pongono delicati problemi operativi: è così per la ristrutturazione organizzativa delle amministrazioni regionali e locali, necessaria a rendere credibile il nuovo decentramento; nonché per il potenziamento concreto della dirigenza, ancora fragile al suo interno ed esposta a nuove possibili forme di ingerenza della politica.

Il livello di effettiva realizzazione delle riforme varate negli anni Novanta potrà misurarsi nei prossimi anni. In ogni caso, le trasformazioni prospettate sono assai rilevanti e prefigurano modificazioni strutturali talmente ampie da imporre un superamento della stessa definizione tradizionale di p. a., che si è utilizzata per molti decenni negli ordinamenti dell'Europa continentale. Tale definizione riconduce alla p. a. le strutture burocratiche e imprenditoriali facenti capo al governo centrale e locale, con funzioni tipiche di cura concreta e puntuale dell'interesse pubblico. Essa era già stata criticata dalla migliore dottrina giuridica del secondo dopoguerra che, sotto il profilo strutturale, aveva sottolineato un distacco progressivo del potere amministrativo dal potere governativo e, sotto il profilo funzionale, aveva segnalato come di cura puntuale di interessi pubblici si occupassero anche il Parlamento (con leggi particolari) e i giudici (con la volontaria giurisdizione) e come la p. a. svolgesse anche attività di cura generale di interessi pubblici, tramite l'attività normativa (regolamenti governativi, ministeriali, prefettizi). Oggi quella definizione tradizionale va assolutamente riveduta. Ormai, le strutture imprenditoriali tendono a essere maggiormente assorbite nella sfera privata; quelle che restano pubbliche vedono attenuarsi la loro dipendenza dal governo, che non è più titolare di potestà pubblicistiche di indirizzo e di direttiva, ma soltanto dei poteri propri dell'azionista privato nelle società commerciali. Le strutture burocratiche guadagnano in autonomia rispetto al governo: gli alti dirigenti delle amministrazioni possono essere sentiti direttamente dinanzi a commissioni parlamentari, senza il filtro del ministro di settore e al di là, dunque, del principio della responsabilità ministeriale. Nascono, nell'ambito delle strutture amministrative, autorità dotate non solo di autonomia, ma d'indipendenza, o semi-indipendenza, nei confronti del governo.

Sotto il profilo funzionale, la cura concreta di interessi pubblici perde sempre più consistenza come criterio distintivo dell'attività tipica della pubblica amministrazione. A tale attività, svolta essenzialmente con strumenti a contenuto particolare, quali il provvedimento amministrativo e il contratto, si affiancano sempre più numerose le già estese funzioni normative della p. a., esercitate con atti a contenuto generale. Si aggiunge, inoltre, la cosiddetta attività di regolazione, che consiste, come si è visto, in un insieme di misure eterogenee, prevalentemente generali ma talora puntuali - provvedimenti amministrativi, contratti, normazioni tecniche, piani, fissazione di standard e di criteri in materia di tariffe, prezzi e qualità - accomunate dalla finalità di disciplinare secondo criteri oggettivi, trasparenti e non discriminatori, un determinato settore o mercato.

Infine, vanno considerate le funzioni quasi-giurisdizionali svolte da strutture latamente riconducibili alla p. a.: sono, essenzialmente, le funzioni esercitate dalle autorità indipendenti o semi-indipendenti di regolazione e di garanzia. Per le autorità regolatrici, tali funzioni assumono un rilievo non primario, di completamento dell'attività di regolazione: per esempio, l'Autorità per l'energia elettrica e il gas e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sono chiamate a risolvere le controversie tra utenti dei rispettivi servizi e imprese erogatrici. Per le autorità di garanzia, le funzioni quasi-giurisdizionali possono assumere rilievo primario: è il caso dell'accertamento degli illeciti anticoncorrenziali, che è il principale compito istituzionale dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Le tendenze in atto impongono, dunque, una nuova definizione di p. a., che ricomprenda, sotto il profilo strutturale (o soggettivo), gli organismi dipendenti, autonomi e indipendenti dal governo, centrale o locale (ovviamente estranei agli apparati parlamentari e giudiziari); e includa, sotto il profilo funzionale (od oggettivo), sia le attività di cura concreta e puntuale degli interessi pubblici che quelle normative, regolatrici e quasi-giurisdizionali.

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