PUBBLICISTICA

Federiciana (2005)

Pubblicistica

Claudia Villa

La tradizione aristocratica e dinastica, che già nel XII sec. aveva dimostrato di saper presentare considerevoli episodi di autocelebrazione, costruendosi un'immagine affidata soprattutto alle lasse volgari delle chansons de geste, si realizza in forma diversa, con una meticolosa selezione di temi e con un'attenta ricerca di figure, nella proposta elaborata da Federico II e dalla sua corte. La politica di esaltazione dell'imperatore è sostenuta dal costante e metodico sviluppo di pochi argomenti accortamente individuati per la parte pubblica e quella privata di un protagonista che probabilmente ideò e diresse personalmente queste iniziative. Infatti Federico stesso appare, in duplice ritratto, nelle raffigurazioni del suo De arte venandi cum avibus: come imperatore, fornito delle insegne regali assegnategli dalla tradizione familiare e dinastica, e come auctor del manuale fondativo di una disciplina, secondo la duplice dichiarazione rivolta alla posterità: "Autor est vir inquisitor et sapiente amator / Divus Augustus Fredericus secundus Romanorum imperator".

La parte pubblica e imperiale dell'uomo di potere, che trova la propria legittimazione nel suo ruolo di principe al quale Dio assegna il compito di dominare il caos attraverso la legge ‒ secondo il concetto che innerva il prologo del Liber Augustalis ‒, fu celebrata con l'allusione ai temi biblici ed evangelici. Lì, fra i tanti possibili ‒ si pensi al confronto di Carlomagno con Davide ‒ fu scelto il motivo del vicarius Christi, dunque il paragone con Cristo. Donde l'elaborazione di uno stile particolare, correttamente denominato dalla storiografia tedesca Salvatorstil: dove una speciale attenzione è riservata non soltanto alla tessitura di frasi traboccanti di un lessico ambiguo e allusivo, ma anche alla musicalità del periodo, ottenuta con un attento uso del cursus e delle figure retoriche. Uno stile che evoca le forme del gotico flamboyant: perché metafore e similitudini si inseguono e si sviluppano, inoltrandosi nei giochi di parole e nelle più arrischiate etimologie per proporre nuove figure e ulteriori associazioni.

Collegato alla venuta di Cristo, il tema del ritorno della giustizia e della realizzazione di un'età felice, significata dall'avvento di un puer, appare già implicitamente suggerito dal poema di Pietro da Eboli, quando il poeta di Enrico VI costruisce l'elogio di Federico bambino recuperando gli accenti della IV Ecloga virgiliana. Da questa rapida e quasi prevedibile suggestione procedono le massicce riprese e gli ampliamenti del tema: fino all'estremo recupero dell'immagine della vite ‒ evocata da Cristo nell'ultima cena, secondo il racconto evangelico ‒, intorno alla quale si avviluppano molte altre equivalenze, anche favorite dalla trasparente omonimia con il protonotaro Pier della Vigna.

In tal senso rappresentano una summa di queste immagini sia la predica di Nicola di Bari, sia la lettera di Nicola da Rocca, inviata a Pier della Vigna, vivente testimonianza, già nel nome che evoca quello del principe degli Apostoli, della figura di Cristo rappresentata dall'imperatore. Più in generale le riprese evangeliche affiorano costantemente e costituiscono il puntello dei testi elaborati e diffusi dalla Magna Curia per essere ripresi anche da funzionari minori, come appare dal De regimine principum del giudice Orfino da Lodi.

Per la parte profana e forse più privata converrà ricordare la notevole diffusione della letteratura su Alessandro Magno. Il suo mito, già ben presente alla letteratura latina e volgare del sec. XII, dal Roman d'Alexandre all'Alexandreis di Gualtiero di Châtillon, sembra acquistare nuova forza nei versi di Quilichino da Spello; diventa elemento di paragone negli scritti di Pietro da Prezza e, soprattutto, sembra stimolare molto più accurate riflessioni storiche e antiquarie, come dimostrano gli interventi, posteriori al 1232, del notaio Giovanni Idruntino in un codice greco di Diodoro Siculo.

L'equiparazione con Alessandro, che superò in grandezza suo padre, alimenta una equivalenza che perdura anche dopo la morte di Federico: nel ricordo di Pietro da Prezza, fedele all'idea dell'aquila orientale e del veloce volo dei suoi aquilotti; e nelle aspettative ricavate dalle storie di Alessandro, in cui si intrecciano i richiami alle popolazioni di Gog e Magog ‒ isolate e contenute dal Macedone ‒ suscitati dai più recenti timori prodotti dalla politica espansionistica dei tartari.

Interpreti e suggeritori del progetto sotteso a questa pubblicistica imperiale sono i grandi laici della Curia che appaiono accanto a Federico a partire dagli anni Trenta; naturalmente Pier della Vigna, come fu chiaro ai contemporanei, quando ricuperiamo il racconto di Rolandino da Padova, là dove mostra come l'imperatore in pubblico parlasse soprattutto per bocca del suo logoteta; o il resoconto di Francesco Pipino, quando riferisce di aver visto a Napoli una rappresentazione dell'imperatore in trono e di Pietro in cathedra, secondo una trasparente allusione che saldamente impone la figura del logoteta, nuovo s. Pietro, custode e depositario delle chiavi del Regno. Pier della Vigna è il massimo rappresentante di questo stile ridondante, distintivo di un epistolario che altre cancellerie, perfino nei secoli dopo, si preoccuperanno di conservare e di studiare. Il suo modello appare condiviso da altri maestri di retorica come Nicola da Rocca, Terrisio di Atina, Pietro da Prezza, attivo ancora dopo la morte di Federico accanto a Manfredi, e probabile ispiratore, nel Manifesto ai Romani, di un modello principe che, come Giulio Cesare, può conquistare il dominio con la sola forza delle sue capacità personali. Con discreto eclettismo, temi già noti e di ampia diffusione sono prontamente riadattati al contesto imperiale; per esempio l'idea dell'allattamento, suggerito da una immagine della filosofia in Boezio, è impiegata da Pier della Vigna per significare l'eloquenza profana della Magna Curia e sembra provocare una reazione se, alla fine del Duecento, appariranno exempla in cui religiosi "inassueti ad loquendum" potranno parlare dopo l'apparizione della Madonna, "domina speciosissima porrigens ei ubera sua dicens ut ea suggeret"; secondo un procedimento che coinvolge anche s. Bernardo (Berlioz, 1988, p. 280).

In questi accorti ricuperi si dimostra quanto, oltre il diletto, la letteratura possa essere coltivata anche per una utilitas che in sostanza coinvolge gli usi e le attitudini della giurisprudenza: perché i richiami a Livio da parte di Pietro da Prezza, o la lettura di Omero, citato come fonte del diritto in alcuni passi del Digesto, da parte di Giovanni Idruntino, sembrano confermare l'impegno su autori la cui conoscenza è necessaria per una maggiore consapevolezza dei riscontri e dei parallelismi impiegati secondo un'attenta tecnica della persuasione. Nella politica d'immagine si assumono altri elementi in funzione di immediato riconoscimento: dall'uso simbolico del colore verde, alle abitudini personali del sovrano, noto per i suoi spostamenti eccezionalmente rapidi o per i viaggi di parata in cui era accompagnato anche dal suo serraglio.

I temi della pubblicistica si realizzano perfino nei manifesti in pietra. A ovest la Porta di Capua, dominata dalla statua della giustizia incoronata di vite nel segno del rinnovamento ‒ secondo l'explicit del Liber Augustalis ‒ e dai busti degli estensori del Liber, Taddeo da Sessa e Pier della Vigna, trascina la simbologia della ianua biblica e annuncia l'ingresso nel Regno della giustizia (e insieme l'abbandono dei domini della Chiesa). A est l'ottagono di Castel del Monte posto, come una corona, su un'altura che domina la Via Adriatica, ripete ossessivamente i multipli dell'otto, numero della giustizia; e all'interno si orna di mascheroni di chiara ascendenza classica, perfino collegabili a reminiscenze della VI Ecloga virgiliana, dove il Sileno ubriaco si rivela capace di esporre i significati profondi delle dottrine epicuree sulla formazione del mondo e l'ordinamento del caos. In questa volontà di propaganda per immagini si inseriscono anche il rilievo dell'ambone della cattedrale di Bitonto, probabilmente eseguito nel 1229, al ritorno di Federico dalla crociata, e le scritture esposte, con versi, che, come a Napoli, accompagnavano le effigi del sovrano; mentre lapidi celebrarono l'invio a Roma del carroccio, la fondazione di Augusta e l'erezione del palazzo di Foggia.

La forza di questo tipo di propaganda può essere misurata anche negli usi e nelle repliche degli avversari. Un buon esempio della diffusione e dello sfruttamento, in campo avverso, degli stessi argomenti è rappresentato dai poemi guelfi per la sconfitta di Parma, conservati nel registro di Albert Behaim, insieme al Secretus secretorum, uno speculum attribuito ad Aristotele che lo avrebbe preparato per Alessandro Magno. I poemi, che deliberatamente adottano un linguaggio liturgico negli incipit "Vexillum victorie, Parma, ferens gaude" e "Pange, linguam, gloriam prelii felicis", sembrano conoscere la contemporanea pubblicistica in lingua greca, prodotta dalla Magna Curia, perché riprendono i giochi etimologici che, con opposti intenti e in prospettiva fortemente ghibellina, Giovanni Idruntino aveva adoperato contro Parma; così l'etimologia negativa adottata per il nome di Federico: "Fredefremunt dentes ridendi more carentes / Sui.Sonat ‒ ricus ‒ quod sit derisus iniquus", ripete, ribaltandoli, i procedimenti celebrativi adottati, fra gli altri, da Enrico di Avranches, mentre i testi profetici e sibillini, utili alla pubblicità del sovrano, possono ugualmente essere tradotti nell'idea, cara alla parte guelfa, che in Federico debba essere riconosciuto l'Anticristo.

La memoria della pubblicistica imperiale, alimentata dal fascino di scritture che continuarono a segnare la prosa delle cancellerie fin dentro il Quattrocento, non sembra destinata a perdersi; con il mito di Federico ne eredita i testi il ghibellino ordinatore del codice Fitalia (Palermo, Biblioteca della Società Siciliana per la Storia Patria, ms. IB 25), vicinissimo all'autore del Chronicon Siciliae e attivo a Palermo nel terzo decennio del Trecento; mentre una singolare eco di una pubblicistica ben sperimentata si raccoglie nella costruzione dell'immagine trionfale di Alfonso d'Aragona: celebrato nell'arco di Castelnuovo a Napoli, rifatto sull'arco di Capua, esaltato da Bartolomeo Facio con la traduzione della biografia di Alessandro Magno di Arriano, ritratto nella medaglia di Pisanello dove si onora, in Alfonso, la liberalità che era stata di Federico.

fonti e bibliografia

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I testi assegnati a Nicola da Rocca appaiono ora in edizione critica: Nicola da Rocca sen.-Nicola da Rocca iun., Epistolae, a cura di F. Delle Donne, Firenze 2003; i versi di Giovanni Idruntino sono pubblicati in M. Gigante, Poeti bizantini di Terra d'Otranto nel secolo XIII, Napoli 19792; i poemi guelfi dopo la sconfitta di Parma in Das Brief- und Memorialbuch des Albert Behaim, a cura di T. Frenz-P. Herde, in M.G.H., Briefe des späteren Mittelalters, I, 2000.

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