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Enciclopedia delle scienze sociali (1997)

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Riccardo Varaldo e Beniamino Stumpo

di Riccardo Varaldo e Beniamino Stumpo

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Economia e diritto

di Riccardo Varaldo

1. Introduzione

La pubblicità è una delle espressioni più eloquenti dell'economia moderna e uno dei fattori che maggiormente caratterizzano la vita e la dinamica dei mercati, oltre che le modalità della competizione tra le imprese.

La rilevanza della pubblicità sotto il profilo economico si può osservare almeno da tre diverse angolature: 1) l'ottica dell'impresa: la pubblicità si configura come uno strumento attraverso il quale le imprese, compiendo investimenti in mezzi di comunicazione di massa, trasmettono messaggi mirati al mercato e ai clienti potenziali ed effettivi, al fine di avere un risultato positivo (in termini di aumento delle vendite, stabilizzazione dei livelli del fatturato, penetrazione in nuovi mercati, conquista di nuove fasce di consumatori, ecc.); 2) l'ottica del consumatore: la pubblicità incide sull'economia dei consumi, sul comportamento del consumatore e sulle modalità secondo cui vengono compiute le scelte di acquisto, nella misura in cui possono determinarsi preferenze verso un prodotto piuttosto che un altro in funzione essenzialmente della notorietà del nome di marca che serve a identificarlo e differenziarlo, e quindi dell'efficacia delle azioni pubblicitarie messe in atto dall'impresa produttrice; 3) l'ottica dei gestori dei mezzi di comunicazione di massa: la pubblicità è un'importante fonte di risorse per tutti i soggetti privati e pubblici che gestiscono mezzi di comunicazione di massa (stampa, televisione, radio, ecc.) e che offrono servizi specializzati nel settore.

Data l'incidenza crescente che la pubblicità è venuta ad assumere nelle entrate dei gestori dei mezzi di comunicazione e di informazione, i criteri di allocazione degli investimenti pubblicitari tra i vari media sono andati assumendo una rilevanza generale tale da indurre l'introduzione di forme di regolamentazione giuridica, a salvaguardia del diritto all'informazione e al mantenimento di una pluralità di fonti e mezzi.In questa sede l'attenzione sarà rivolta essenzialmente ai problemi di economia della pubblicità, vista come particolare leva di azione sul mercato, e a taluni elementi di regolamentazione giuridica che negli anni più recenti sono venuti ad assumere rilevanza in coincidenza con l'estensione dell'uso di questo particolare strumento e degli investimenti effettuati nel settore.

2. Le diverse componenti della pubblicità

Per gli studiosi di economia la pubblicità è un tema degno di interesse essenzialmente sotto due profili fondamentali, strettamente interrelati: a) gli effetti della pubblicità sulla domanda dei beni; b) le influenze economiche esercitate dalla pubblicità sulla struttura dei mercati, la condotta delle imprese e le performances.

Le discussioni in merito agli effetti della pubblicità trovano origine nella distinzione proposta da Kaldor (v., 1950) tra pubblicità di tipo informativo e pubblicità di tipo persuasivo.Il ruolo informativo della pubblicità: i consumatori hanno proprie gerarchie di preferenze nell'insieme delle caratteristiche dei beni, tuttavia per esercitare fondatamente le loro scelte essi devono essere consapevoli dell'esistenza di tutti i prodotti disponibili sul mercato e della relativa collocazione in tale insieme. La pubblicità, con il suo contenuto informativo, offre ai consumatori la possibilità di soddisfare meglio preferenze esistenti e di compiere scelte in piena autonomia e consapevolezza. La pubblicità concorre quindi ad aumentare l'efficienza dei mercati in quanto, estendendo la quantità delle informazioni disponibili, li rende più trasparenti e concorrenziali. Date queste circostanze, in mercati imperfetti sotto il profilo informativo, la concorrenza nella pubblicità si presenta più efficiente rispetto alla concorrenza di prezzo.

Il ruolo persuasivo della pubblicità: sotto questo profilo, il compito della pubblicità realizzata da un'impresa è quello di modificare la forma delle mappe di indifferenza dei consumatori nello spazio delle caratteristiche dei beni, in modo da rafforzarne il grado di preferenza verso i propri prodotti e aumentarne il costo di spostamento verso un'altra marca concorrente. Attraverso queste azioni la pubblicità genera quindi effetti: sull'elasticità della domanda rispetto al prezzo, rendendola più rigida; sulla curva di domanda, spostandola verso destra; sul valore della marca, contribuendo ad aumentarlo e consolidarlo. In altri termini, lo scopo perseguito dalle imprese attraverso la pubblicità nella sua forma persuasiva è quello, data la specificazione del prodotto in tutti i suoi elementi oggettivi e dati i prezzi, di incrementare il numero dei consumatori che preferiscono il proprio prodotto a quello dei concorrenti. Secondo alcuni studi, l'obiettivo perseguito da un'impresa attraverso la pubblicità è, nel 75% dei casi, quello di penetrare un mercato o di espandere le vendite.Questa analisi richiama la problematica della desiderabilità sociale della pubblicità, che in genere viene vista sotto due profili. Da un lato, si evidenzia l'effetto distorsivo della pubblicità sulle preferenze dei consumatori, che condurrebbe a un'allocazione non ottimale delle risorse; dall'altro, si sottolinea il ruolo socialmente utile della pubblicità come fonte di sostentamento dei mezzi di comunicazione di massa privati, la cui maggiore offerta è ritenuta più desiderabile a livello sociale.

Nonostante gli sforzi tesi a distinguere le diverse finalità della pubblicità, da parte di molti autori (v. Devine e altri, 1976; v. Needham, 1978) si evidenzia, in sede di analisi economica, la grande difficoltà di separare operativamente le sue due componenti, che sarebbero sistematicamente compresenti in ogni messaggio pubblicitario. Nella realtà, infatti, gli annunci pubblicitari da un lato contengono sempre informazioni, nel senso che aumentano la consapevolezza dei consumatori, dall'altro svolgono, parallelamente, un ruolo persuasivo. Si tratterebbe allora di distinguere il 'grado' di presenza delle due componenti.

In questo dibattito vi sono alcuni punti che meritano di essere sottolineati: a) la domanda dei consumatori è influenzata da molte forze, una delle quali è la pubblicità, ma non è possibile isolare con precisione l'effetto di una forza rispetto all'altra; b) non vi sono modi oggettivi per distinguere tra bisogni autentici e bisogni spuri, e quindi risulta difficile separare la domanda spontanea da quella 'indotta' dalla pubblicità; in ogni caso, i consumatori scelgono in base ai loro desideri; c) risulta spesso difficile stabilire dei parametri per giudicare la razionalità della scelta, soprattutto alla luce di recenti indagini che hanno dimostrato come il principio della massimizzazione dell'utilità da parte dei consumatori sia sovente disatteso; d) è difficile che il consumatore possa decidere in completo isolamento, senza influenze esterne, dato che, in ogni caso, le preferenze si formano sulla base di informazioni.

Comunque, pur in presenza di difficoltà operative nella separazione tra le due componenti, la discussione in merito agli effetti economici della pubblicità sulla struttura di mercato e sulle imprese non può prescindere dalla considerazione della loro rilevanza analitica.

3. Le influenze economiche della pubblicità

Efficacia della pubblicità secondo la natura dei prodotti

In merito all'efficacia della pubblicità secondo la natura dei prodotti si possono fare diverse riflessioni, che di frequente si legano strettamente a quelle connesse all'incidenza della pubblicità nei diversi settori.

Sotto un primo aspetto, si ritiene che la pubblicità sia più efficace nel caso di prodotti di basso valore unitario, per i quali non è conveniente andare alla ricerca di informazioni aggiuntive o del prezzo più basso; in questi casi la pubblicità avrebbe un ruolo importante nel processo di scelta dei consumatori come fonte di informazioni. Nel caso di prodotti ad alto valore unitario, invece, si ritiene che la pubblicità sia meno determinante, in quanto non costituisce l'unica fonte di informazioni: dato l'ammontare della spesa da sostenere, il consumatore è infatti incentivato a intraprendere una ricerca più attiva di informazioni presso diverse fonti.

Sotto un altro aspetto, occorre considerare fino a che punto l'impresa riesce a creare bisogni e/o criteri di scelta nuovi o a modificare bisogni e/o criteri di scelta preesistenti. La pubblicità è maggiormente efficace nel caso di prodotti per i quali le preferenze dei consumatori non sono saldamente basate su valutazioni oggettive. Ciò varia nel grado per diverse tipologie di prodotto, ed è probabile che la pubblicità sia più efficace nei casi in cui il consumatore non dispone di strumenti sufficienti per valutare il prodotto. Per tale distinzione è utile riprendere la classificazione di Nelson (v., 1974), che distingue tra beni con caratteristiche di 'esperienza' e beni con caratteristiche di 'ricerca'. Le caratteristiche verificabili con l'esperienza sono quelle di cui il consumatore può accertarsi solo dopo l'acquisto; le informazioni così ottenute, quindi, influenzano gli acquisti successivi, ma non il primo. Al contrario, le caratteristiche di ricerca sono valutabili agevolmente dal consumatore anche prima di effettuare l'acquisto.

La domanda per i beni con caratteristiche di esperienza, quindi, ha maggiori probabilità di essere influenzata dalla pubblicità, in quanto il processo di formazione delle preferenze non può seguire criteri oggettivi. Per tali beni la pubblicità serve ad attrarre l'attenzione dei consumatori sull'esistenza di caratteristiche del prodotto verificabili con l'acquisto. Una volta sperimentato il prodotto, i consumatori tenderanno a riacquistare, a parità di prezzo, il bene di qualità superiore. Con questa prospettiva, le imprese che producono beni di più elevata qualità sono maggiormente incentivate a spendere in pubblicità, perché qualora il loro messaggio pubblicitario avesse successo osserverebbero un comportamento di riacquisto in futuro.

L'intensità di pubblicità nei diversi settori

L'indice più comunemente usato per misurare l'intensità di pubblicità in un settore è dato dal rapporto spese per pubblicità/vendite, abbreviabile con la sigla A/S (advertising/sales) che indica quanto mediamente viene speso in pubblicità in relazione al fatturato. Va precisato che questo indicatore non tiene conto dell'impiego degli altri strumenti promozionali a disposizione dell'impresa, con i quali certamente può agire sinergicamente.

Secondo l'impostazione classica, il livello ottimale della spesa pubblicitaria si fissa dove il ricavo marginale da vendite aggiuntive equivale al costo marginale dei messaggi pubblicitari. È stato notato in diversi studi che l'intensità di pubblicità misurata dal rapporto A/S è diversa da settore a settore, e simile per settori in diversi paesi. Sembrerebbe dunque che esistano condizioni specifiche che determinano un'elevata intensità di pubblicità in alcuni settori piuttosto che in altri. Su tale fenomeno incide un ampio numero di fattori, per i quali in certi casi non è facile stabilire se essi rappresentino la causa o l'effetto. Nell'analisi vanno considerati: 1) le caratteristiche del prodotto; 2) le caratteristiche del mercato, in termini di avvicendamento dei consumatori, e quindi della permanenza sul mercato di consumatori esposti ai messaggi pubblicitari precedenti, di frequenza di acquisto, che favorisce la persistenza della base di informazioni creata con la pubblicità, e di grado di 'decadimento' dell'informazione, che determina l'uscita del prodotto considerato dal set evocato del consumatore; 3) i rendimenti delle campagne pubblicitarie, in termini di copertura e di ripetizioni dei messaggi; 4) la concorrenza per l'attenzione del cliente, che dipende dal ciclo di vita e dalle dimensioni del mercato, dal grado di complessità del prodotto, dal grado di segmentazione del mercato e dalla varietà dei prodotti disponibili; 5) il lancio di nuovi prodotti; 6) l'ingresso di nuovi concorrenti.

È stato osservato che i settori nei quali i prodotti sono altamente pubblicizzati tendono ad avere alcune caratteristiche comuni: la domanda ha una bassa elasticità; il prodotto offre maggiori opportunità per la differenziazione; il costo dello shopping around è elevato rispetto ai benefici attesi; il prodotto può avere qualità nascoste che non si possono valutare al momento dell'acquisto (experience quality); nuovi prodotti o marche sono lanciati di frequente e sostenuti da campagne pubblicitarie; l'identità degli acquirenti è in rapida evoluzione e quindi il tasso di decadimento dei messaggi precedenti è alto; i gusti e la fedeltà dei consumatori sono molto variabili.

Per quanto riguarda le caratteristiche dei prodotti, l'intensità di pubblicità riflette un elevato livello della domanda di informazioni relativamente a esse. Le caratteristiche del prodotto offrono all'impresa l'opportunità di rivolgersi direttamente al consumatore, per illustrare e spiegare il prodotto e/o per accentuarne le differenze rispetto ai prodotti concorrenti. La bassa elasticità e l'elevato costo dell'acquisizione di informazioni rispetto al valore dell'acquisto, offrono l'opportunità di sfruttare le imperfezioni del mercato derivanti da ignoranza o inerzia del consumatore. Le altre caratteristiche, infine, rappresentano per le imprese dei forti incentivi a mantenere alto il livello della pubblicità per evitare un veloce decadimento dei suoi effetti sulle vendite.

Gli effetti della pubblicità sul comportamento dei consumatori

Fra gli strumenti di comunicazione del marketing, la pubblicità ha una natura relativamente poco selettiva rispetto ai segmenti-obiettivo del mercato. I messaggi, infatti, raggiungono inevitabilmente anche consumatori non interessati all'acquisto dei prodotti pubblicizzati, e sotto questo aspetto lo strumento pubblicitario è meno efficiente rispetto ad altri. Ciononostante, in alcuni casi esso può rivelarsi la tecnica di marketing più cost effective: da parte di alcuni autori è stato mostrato che le imprese con costi di pubblicità più elevati tendono ad avere costi totali di marketing più bassi, ottenendo così un marketing mix più efficiente.

Gli effetti della pubblicità sul comportamento del consumatore sono distinguibili in effetti di breve e di lungo termine. Nel breve termine, la pubblicità determina un incremento delle vendite sia grazie alla sua funzione informativa sull'esistenza del prodotto, sul mix di caratteristiche incorporate in esso e sulla sua qualità, sia grazie all'influenza che può esercitare sulle preferenze dei consumatori, indirizzandole verso il prodotto considerato. Una misura dell'efficacia della pubblicità è l'elasticità di breve termine delle vendite rispetto alla spesa pubblicitaria, cioè, l'incremento percentuale delle vendite rispetto a un dato aumento percentuale delle spese pubblicitarie.

Gli effetti di lungo termine si riconducono al concetto di elasticità di lungo periodo proposto da Nerlove e Arrow (v., 1969): le spese pubblicitarie, oltre a stimolare le vendite nel breve termine, contribuiscono a formare una base di fedeltà alla marca che si protrae oltre il periodo corrente (v. Hay e Morris, 1991). Le condizioni di mercato sono influenzate dalla fedeltà alla marca da parte dei consumatori, alla quale le spese pubblicitarie forniscono un contributo che declina gradualmente nel tempo. Tale efficacia di lungo termine dipende essenzialmente da due fenomeni: 1) la 'dimenticanza', che rappresenta il tasso di decadimento della fedeltà alla marca indotta dalla pubblicità (nel mercato della birra degli Stati Uniti, ad esempio, tale fedeltà diminuisce di circa il 50% all'anno); 2) il tasso di avvicendamento dei consumatori in un mercato: se da un periodo all'altro le vendite sono effettuate agli stessi clienti, gli effetti della pubblicità vengono conservati; se invece le vendite sono dirette a clienti diversi, come ad esempio nel caso delle automobili, l'effetto ottenuto presso i consumatori raggiunti dai messaggi pubblicitari del periodo precedente non risulterà efficace nel periodo successivo.

La pubblicità di un dato periodo, dunque, entra direttamente nella funzione di domanda dei consumatori, sia attraverso effetti di breve periodo legati alle funzioni informative o alle modifiche delle preferenze, sia attraverso la costruzione della fedeltà alla marca. Gli effetti complessivi si avvertono sull'elasticità della domanda rispetto al prezzo, che risulta ridotta. Infine, se all'irrigidimento della domanda si accompagna un'apprezzabile differenziazione del prodotto l'impresa è in grado di chiedere ai consumatori un prezzo superiore a quello concorrenziale (premium price).

Tenuto conto degli effetti di lungo termine la decisione sulla quantità di risorse da allocare alla pubblicità è controversa: secondo alcuni autori, la pubblicità va considerata come una forma di investimento, e come tale va valutata secondo formule finanziarie che scontino i ritorni progressivi (ad esempio il valore attuale netto). Altri autori, invece, più di recente, contestano addirittura che vi siano effetti di lungo termine della pubblicità, rilevando forti tassi di decadimento in alcuni settori.

Stimare gli effetti di lungo termine della pubblicità sulla domanda è comunque difficile, anche perché è necessario inserire un'altra variabile importante, la reazione delle altre imprese. Esse possono reagire o realizzando a loro volta delle campagne pubblicitarie, oppure intervenendo con decurtazioni di prezzo. Queste due misure presentano caratteristiche profondamente differenti e possono avere una diversa efficacia, sia perché hanno tempi di risposta non omogenei, sia perché i segmenti di consumatori raggiunti con le due azioni promozionali possono essere diversi, soprattutto a causa delle diverse elasticità della domanda al prezzo espresse dai consumatori. La funzione di risposta alla pubblicità è stata stimata in diversi settori. Questa funzione è influenzata da molteplici fattori, che determinano un'elasticità della domanda variabile rispetto alla pubblicità. In molti settori esistono diversi effetti-soglia nella curva di risposta alla pubblicità. La prima soglia rappresenta l'investimento minimo affinché i risultati siano apprezzabili a livello di vendite (tratto AB). La seconda soglia (punto C) segna una variazione nei rendimenti. Prima di essa i rendimenti sono positivi e, in alcuni casi, crescenti, dopo di essa vi è una fase di rendimenti decrescenti, fino ad arrivare, in taluni casi, a rendimenti negativi per un effetto di supersaturazione (tratto DE).

La fase di rendimenti decrescenti è spiegabile in base a due fattori. Da un lato, all'aumentare dei messaggi pubblicitari e a parità di costo del messaggio, diminuisce la possibilità di usare canali mirati al segmento-obiettivo e, di conseguenza, la selettività del messaggio. Dall'altro, all'aumentare del numero di messaggi sul canale mirato, vi sono rendimenti decrescenti all'esposizione ai messaggi da parte del consumatore, fino ad arrivare alla soglia di supersaturazione. Ciò implica, dunque, un costo marginale crescente dei messaggi pubblicitari.

Legame della pubblicità con i cicli economici

Considerati gli effetti che la pubblicità è in grado di esercitare sulla domanda, essa potrebbe avere una funzione anticiclica, riuscendo a stimolare le vendite in periodi di recessione. La pubblicità, cioè, potrebbe mitigare gli sbalzi dei cicli economici e stabilizzare l'economia. Questa tesi va analizzata sulla base di due serie di considerazioni.

Da un lato, occorre verificare se le imprese cerchino di affrettare l'uscita dalle recessioni incrementando i loro sforzi promozionali per aumentare le vendite, ferme a bassi livelli. Dall'altro, occorre esaminare se la pubblicità abbia un effetto stabilizzante di lungo periodo sulle aspirazioni dei consumatori e sui loro livelli di consumo, limitando così al minimo i rischi di recessioni dovute a contrazioni cicliche della domanda. Per quanto riguarda il primo aspetto, si registra un riscontro empirico negativo: le spese pubblicitarie mostrano un andamento prociclico, aumentando in fasi di ripresa e diminuendo in fasi di recessione. Non vi sono invece verifiche empiriche dirette sulla seconda questione. I test dell'ipotesi che la pubblicità aumenti i consumi aggregati non hanno fornito ancora indicazioni chiare.

Gli effetti della pubblicità sulla struttura dei mercati

La pubblicità ha effetti importanti anche su aspetti di benessere e di performances economiche, analizzati dagli studiosi secondo tre direttrici principali: l'efficienza tecnica, l'efficienza allocativa, l'efficienza distributiva.

Nella direttrice dell'efficienza tecnica si analizza la questione dell'efficienza complessiva nell'utilizzo delle risorse da parte di un'azienda; nel caso della pubblicità si considera il problema se i costi sostenuti in azioni pubblicitarie consentano di raggiungere economie di scala o se, favorendo la riduzione del ciclo di vita dei prodotti, ostacolino la minimizzazione dei costi, riducendo così la performance globale.

Per quanto riguarda l'efficienza allocativa, la questione principale è se gli effetti della pubblicità conducano all'allocazione di risorse maggiormente desiderabile. In quest'ottica viene valutato soprattutto il ruolo della pubblicità come fonte di informazioni: da un lato, si sostiene che la prassi di includere il prezzo della pubblicità nel prezzo del prodotto riduca la discrezionalità del consumatore nella scelta di ricevere o meno i messaggi pubblicitari. Il consumatore pagherebbe il costo di un'attività dalla quale trae poco vantaggio, e dunque sul mercato si offrirebbe più pubblicità di quanta il consumatore sarebbe disposto a pagare se avesse un prezzo separato. D'altro lato, tuttavia, le considerazioni precedenti poggiano sull'ipotesi che la pubblicità non rappresenti per il consumatore una fonte preziosa di informazioni: al contrario, in alcune situazioni di imperfezione dei mercati, la pubblicità risulta il mezzo più efficiente per reperire informazioni.

I dibattiti più articolati riguardano indubbiamente il terzo aspetto, quello dell'efficienza distributiva, che verrà qui illustrato più in dettaglio. In tale prospettiva viene esaminata la possibilità che la pubblicità determini una redistribuzione del reddito dai consumatori ai produttori nonché il raggiungimento di posizioni monopolistiche in funzione dei legami tra la pubblicità e il livello dei prezzi, il livello delle barriere all'entrata, la concentrazione dei mercati.

La crescita della pubblicità in senso moderno è legata al tentativo di ottenere, in qualche misura, un controllo del mercato: la pubblicità risulta conveniente se i suoi effetti possono essere ristretti alla domanda di una marca specifica e non alla categoria di prodotto in senso ampio. La nostra analisi parte, dunque, dalla considerazione fondamentale che la decisione delle imprese di sostenere costi di pubblicità sia intrinsecamente connessa con il processo di differenziazione dei prodotti. Se un'impresa ritiene di differenziare il proprio prodotto, avrà convenienza a informarne i consumatori. In molti casi, inoltre, la pubblicità non è conseguenza della differenziazione, ma coincide con essa: è il messaggio pubblicitario in sé che rende differenti agli occhi del consumatore dei beni altrimenti identici tra loro. Per tali motivi si trova un'associazione positiva tra l'intensità di pubblicità e il grado di differenziazione dei prodotti, che è una manifestazione di concorrenza imperfetta o monopolistica.

Il legame fra pubblicità e differenziali di prezzo

Una delle conseguenze dirette della combinazione di differenziazione del prodotto e pubblicità è, come accennato sopra, che l'impresa che fa ricorso alla pubblicità può richiedere un prezzo superiore a quello delle imprese che non vi fanno ricorso. Un aumento dei prezzi si rende infatti possibile in conseguenza dell'irrigidimento della curva di domanda dei consumatori determinato dalla pubblicità che produce un vantaggio in termini di immagine.

I risultati empirici mostrano dati contraddittori. Alcuni studi non mostrano alcuna relazione tra la pubblicità e il livello dei prezzi (v. Devine e altri, 1976); altri, invece, basati soprattutto su indagini condotte nel mercato statunitense, riportano dati significativi sui differenziali di prezzo dei prodotti pubblicizzati rispetto alle marche commerciali delle grandi imprese di distribuzione. Nel caso della candeggina, ad esempio, il prezzo del prodotto pubblicizzato era tra il 24 e il 37% più alto.

Il differenziale di prezzo è spesso legato in un rapporto circolare di causa ed effetto con diversi fattori. In primo luogo, più si riesce a mantenere prezzi elevati, grazie all'immagine, più è difficile per i consumatori scoprire se un prodotto è effettivamente superiore a un altro. Ad esempio, nel mercato dei cosmetici sussistono significativi differenziali di prezzo tra prodotti pubblicizzati e non pubblicizzati, che pure utilizzano gli stessi principî attivi. Inoltre, soprattutto quando le caratteristiche oggettive dei prodotti concorrenti non sono molto diverse, o è più difficile capirlo, la differenziazione dell'immagine rende possibile differenze di prezzo tanto maggiori quanto più importanti sono le considerazioni di status che influenzano le decisioni. Infine, i differenziali di prezzo collegati all'immagine sono tanto maggiori quanto più sensibile sarebbe il danno derivante da possibili esperienze negative di consumo. Il consumatore avverso al rischio tenderà a scegliere il prodotto più conosciuto.

Occorre fare un'altra considerazione relativamente al prezzo: anche se il prezzo totale del prodotto pubblicizzato è superiore, la somma del costo del prodotto più la spesa in pubblicità può ancora essere inferiore alla somma del costo del prodotto più i costi della ricerca delle informazioni alternative che il consumatore avrebbe dovuto procurarsi autonomamente.

Il legame fra la pubblicità e le barriere all'entrata

Gli effetti della pubblicità sulla creazione di barriere all'entrata vanno esaminati sotto diversi aspetti. Vi sono, infatti, considerazioni legate sia alla creazione di uno stock di informazioni che determina la costruzione dell'immagine e la fedeltà alla marca da parte dei consumatori, sia alla differenza tra i costi pubblicitari sostenuti dalle imprese già presenti nel settore e i costi sostenuti da quelle che vi fanno il loro ingresso.

Relativamente a quest'ultimo aspetto, da un lato, secondo alcuni autori, la pubblicità favorisce la creazione di barriere all'entrata proprio perché determina l'irrigidimento delle curve di domanda dei consumatori riguardo ai prodotti delle marche esistenti (v. Martin, 1993). Le imprese che desiderano entrare nel mercato, dunque, devono sostenere una maggiore spesa pubblicitaria per contrastare tale rigidità della domanda e subiscono quindi uno svantaggio assoluto in termini di costo: cioè il costo della pubblicità per unità venduta è più elevato per le nuove imprese che per quelle già esistenti. Dall'altro lato, occorre fare delle considerazioni riguardanti la costruzione di barriere all'entrata derivanti dalla possibile esistenza di economie di scala nella spesa pubblicitaria. Tali considerazioni si basano su diverse osservazioni. Come è stato mostrato sopra, la funzione di risposta alla pubblicità presenta una prima soglia oltre la quale la pubblicità comincia a esercitare i suoi effetti, e determina una fase di rendimenti crescenti: ciò suggerirebbe che le imprese esistenti più grandi ottengono un vantaggio nella spesa pubblicitaria. Esisterebbe, cioè, un aumento dell'elasticità della domanda alla pubblicità all'aumentare del valore assoluto della spesa pubblicitaria. Tali considerazioni sono basate anche sull'osservazione di un legame positivo tra l'ammontare della spesa pubblicitaria e il rapporto A/S.

I messaggi pubblicitari possono generare economie di scala anche grazie al fenomeno del 'passaparola' (word-of-mouth): se la 'spinta' iniziale è debole, si esaurisce rapidamente, ma se la massa critica inizialmente colpita è sufficientemente grande, la diffusione è ampia e interessa un vasto segmento di popolazione. Inoltre, al di là di una certa soglia di spesa, la pubblicità può presentare rendimenti crescenti perché offre delle opportunità di ottimizzazione del costo del mix dei canali impiegati. Le imprese esistenti godono di economie di scala anche grazie ai vantaggi derivanti dall'effetto cumulativo della pubblicità, che persiste accanto agli effetti di breve termine. L'impresa esistente raggiunge con la pubblicità il gruppo di consumatori meno fedeli e rafforza le abitudini di acquisto del proprio gruppo di consumatori a un costo pubblicitario per unità monetaria di vendita inferiore rispetto all'impresa che fa il suo ingresso nel mercato. Dato questo svantaggio iniziale, dovuto alla cumulatività degli effetti della pubblicità, nel medio e breve periodo la nuova impresa che cerca, attraverso campagne pubblicitarie, di aumentare le vendite di un prodotto simile a quello delle imprese esistenti può essere costretta a effettuare investimenti molto ingenti e può trovarsi di fronte a una diminuzione del rendimento nella funzione di risposta alla pubblicità, prima di aver raggiunto la dimensione delle imprese consolidate. Da parte di alcuni autori, però, si sottolinea che la ripartizione nel tempo delle spese per generare fedeltà determina, dal punto di vista economico, lo stesso costo totale per le imprese esistenti e per quelle nuove.

Inoltre, anche se le vendite associate a ogni livello di costo pubblicitario sono maggiori per le imprese esistenti, ciò non implica necessariamente che il livello ottimo del rapporto A/S sia inferiore per le imprese esistenti rispetto a quelle nuove, poiché questo dipende anche dal livello di elasticità della domanda al prezzo, dalle elasticità incrociate della domanda al prezzo e dalle campagne pubblicitarie dei concorrenti. Sono applicabili infatti le osservazioni di Dorfman e Steiner (v., 1954) sulla relazione ottima tra variabili price e non price. Mostrando che il rapporto ottimale di A/S dipende dai valori dell'elasticità della domanda alla pubblicità e al prezzo del prodotto, bisogna ricordare che l'elasticità al prezzo dipende dal livello di quest'ultimo. Inoltre, il livello ottimo di pubblicità di un'impresa dipende non solo dalla reazione dei concorrenti in termini di pubblicità, ma anche in termini di prezzo.

L'esistenza di barriere all'entrata va esaminata anche sotto un altro punto di vista: secondo alcuni autori, la pubblicità genera sui mercati flussi informativi che offrono alle imprese che desiderano entrare in un mercato la possibilità di costruirsi un'identità. La pubblicità è allora un mezzo per entrare in nuovi mercati, piuttosto che una barriera, poiché consente alle imprese di farsi conoscere dai consumatori e di costruirsi una presenza sul mercato. La pubblicità, facendo conoscere l'esistenza di nuovi prodotti, rende possibile una loro diffusione più rapida sui mercati, e quindi stimola l'ingresso delle imprese.

Il rapporto tra pubblicità e concentrazione del mercato

La questione del legame tra pubblicità e concentrazione dipende fortemente da quanto è stato detto a proposito della possibile creazione di barriere all'entrata grazie alla pubblicità. Se, infatti, è vero che esiste la possibilità di ottenere economie di scala o rendimenti crescenti attraverso di essa, si può anche ipotizzare che si possa raggiungere un certo livello di concentrazione del mercato. Inoltre, il legame intrinseco tra pubblicità e differenziazione è collegato anche al fatto che la differenziazione dei prodotti è uno degli elementi che stanno alla base della concorrenza monopolistica e della concentrazione dei mercati.

L'ipotesi è dunque che la pubblicità favorisca la concentrazione perché avvantaggia le grandi imprese, e che gli effetti di lungo periodo della pubblicità creino una condizione monopolistica durevole che scoraggia l'ingresso nel mercato da parte di nuove imprese. La domanda da porsi è se, a parità di condizioni, il livello di concentrazione viene elevato per effetto della pubblicità. Numerosi studi hanno analizzato la relazione esistente tra la pubblicità e la concentrazione nel mercato, con risultati controversi. Alcune indagini empiriche hanno portato alla luce una relazione non lineare, avente la forma di una U rovesciata, che rappresenta una funzione emersa da uno studio sui beni di consumo durevoli nel Regno Unito (v. Doyle, 1968).

La maggiore intensità di pubblicità è stata registrata in mercati oligopolistici, piuttosto che in condizioni di concorrenza o di monopolio. In uno studio condotto nel 1978 su 209 imprese del settore manifatturiero negli Stati Uniti, il livello di spese pubblicitarie più elevato è stato trovato in corrispondenza del valore del rapporto di concentrazione delle prime quattro imprese (fatturato delle prime quattro imprese diviso il fatturato totale del mercato), le quali realizzano un fatturato complessivo che varia tra il 43 e il 51% del totale del mercato.

Le ricerche sulla più alta propensione alla pubblicità da parte delle imprese oligopoliste sono incentrate sulla direzione dei legami causali: la pubblicità conduce alla concentrazione dei mercati, oppure sono le imprese oligopoliste che hanno maggiori incentivi a investire in pubblicità? Nella prima ipotesi ci troviamo di fronte a due fenomeni: il rapporto tra pubblicità e barriere all'entrata, che abbiamo illustrato in precedenza, e la circostanza che campagne pubblicitarie di successo possono generare un incremento nelle dimensioni dell'impresa agente e una riduzione delle dimensioni delle altre per effetto delle variazioni nelle quote di mercato. In tal caso, saremmo dunque in presenza di un aumento della concentrazione causato dall'alta intensità di pubblicità. Per quanto riguarda la seconda ipotesi, si può formulare l'osservazione fondamentale che gli effetti della pubblicità possono far aumentare sia la domanda totale di un bene, sia la domanda di una particolare marca.In condizioni di concorrenza, solo una piccola parte dei benefici scaturenti dall'azione pubblicitaria della singola impresa ricadono sull'impresa agente, andando, invece, ad avvantaggiare anche le altre; in tali condizioni la pubblicità è una forma di esternalità. L'ammontare ottimo di pubblicità dipende allora dal bilancio tra benefici interni ed esterni, che è determinato a sua volta dalla natura del prodotto e dal livello di differenziazione.In condizioni di monopolio, invece, il beneficio della pubblicità va totalmente all'impresa monopolista, la quale, tuttavia, non avendo concorrenti sul mercato, non si trova nella situazione di dover aumentare la propria quota di mercato.

Gli oligopolisti, d'altra parte, hanno i maggiori incentivi in entrambe le direzioni: hanno meno rivali ai quali contendere le vendite, e hanno una quota considerevole dell'eventuale espansione della domanda totale. Ceteris paribus, dunque, nell'oligopolio differenziato ci dovrebbe essere un maggiore incentivo alla pubblicità rispetto alle condizioni di monopolio e di concorrenza. In condizioni di oligopolio, data l'interdipendenza dei comportamenti, le decisioni delle imprese sono spesso strettamente collegate alla previsione delle reazioni delle altre imprese. Per un'impresa operante in condizioni di oligopolio, quanto maggiore è il ritardo previsto tra la mossa intrapresa e la risposta dei concorrenti, tanto maggiore è l'incentivo a investire in differenziazione. Come accennato in precedenza, mentre gli aggiustamenti dei prezzi possono essere quasi simultanei, la risposta a un'azione pubblicitaria, invece, non è né semplice né immediata, sia perché la realizzazione di una campagna pubblicitaria richiede più tempo, sia perché il suo effetto dipende dalla qualità della campagna stessa. È inoltre diffusa la consapevolezza che in condizioni di oligopolio, la concorrenza sui prezzi è poco conveniente, per cui c'è l'incentivo a competere su altri fronti, quali quello della pubblicità. In sintesi, il legame tra pubblicità e barriere all'entrata è molto controverso: da un lato, ad esempio, alcuni autori sostengono che la pubblicità determini spostamenti nella quota di mercato, piuttosto che aumenti della concentrazione, dall'altro indagini empiriche mettono in luce legami spesso deboli e variabili nel corso del tempo.

Il rapporto tra pubblicità e concentrazione è il risultato netto di un certo numero di relazioni e di fenomeni (barriere all'entrata, tasso di innovatività di un settore, ecc.). L'esistenza di relazioni simultanee tra la concentrazione e i diversi fattori che influenzano gli effetti della pubblicità non può essere valutata a priori: la forma e la forza di tali relazioni determinano il risultato netto del rapporto pubblicità-concentrazione osservato empiricamente. Se una o più delle relazioni sottostanti è non lineare, anche quest'ultimo legame sarà non lineare. Alla luce delle numerose possibili forme e permutazioni delle relazioni sottostanti rilevanti, non è sorprendente che le variazioni del livello di concentrazione rimangano per lo più non spiegate dalle differenze in termini di rapporto A/S, e che le analisi statistiche sulla forma di tale rapporto abbiano prodotto risultati contraddittori. Tutto ciò fa sì che il nesso causale tra concentrazione dell'industria e rapporto A/S sia solo debolmente deterministico.

Il rapporto tra la pubblicità e il livello dei profitti delle imprese

Secondo alcuni autori, una delle variabili più importanti ed esplicative delle differenze interindustriali di profittabilità è il rapporto A/S. Maggiore è tale rapporto, maggiori tendono a essere i profitti. Secondo tali analisi, i maggiori profitti raggiunti sono un effetto della creazione di barriere all'entrata attraverso la pubblicità. Si pone dunque la questione se i maggiori profitti rispecchino un vantaggio di posizione raggiunto.

Il nesso con un vantaggio di posizione implica l'esistenza di una o di entrambe le seguenti condizioni, descritte precedentemente: 1) che si sviluppi una fedeltà alla marca, e quindi si creino, grazie alla pubblicità, posizioni di mercato isolate dalla concorrenza; 2) che vi siano altre posizioni di vantaggio associate alla pubblicità di imprese consolidate con alta propensione alla pubblicità, che fungono da barriere all'entrata per i nuovi concorrenti e da limiti all'espansione per i rivali minori, derivanti, ad esempio, da fenomeni di economie di scala.

L'ipotesi della fedeltà alla marca spiega il premium price soprattutto nel breve termine. Ciò che invece è significativo è la persistenza di profitti sopranormali dove l'azione pubblicitaria è intensa. In taluni casi, sono state riscontrate delle correlazioni negative, anche se deboli, tra una misura di fedeltà alla marca e l'intensità di pubblicità, per cui il nesso con il vantaggio di posizione attiene anche agli effetti di tutte le altre barriere all'entrata discusse in precedenza.Spiegazioni diverse presentano vari legami causa-effetto. Alcuni autori avanzano l'ipotesi che margini di profitto più elevati possano essere associati a una maggiore intensità di pubblicità, perché profitti unitari più elevati forniscono un maggiore incentivo a ricercare vendite aggiuntive attraverso la pubblicità. Altre analisi mostrano invece un insieme di interrelazioni tra vantaggi di immagine e pubblicità. Un vantaggio di immagine può essere stabilito per effetto di cause diverse dalla pubblicità (innovazione, alta qualità), ma una volta che i consumatori sono stati indotti a pagare prezzi superiori per tale immagine, la pubblicità serve a rinforzarla. I concorrenti, allora, riconoscendo l'importanza di una buona immagine, investirebbero anch'essi in una forma di non price competition (ad esempio la pubblicità) per ridurre il distacco: quindi, un'alta intensità di pubblicità non è la causa, ma l'effetto di una forte differenziazione di immagine.

In questa visione più complessa delle relazioni tra pubblicità e profitti, va tenuto conto della possibilità che un'intensa azione pubblicitaria non sia di per sé una determinante del vantaggio di posizione, ma interagisca, anche per retroazione, con i vantaggi di immagine, in modo da riflettere e sostenere le posizioni di mercato conferite da un'immagine rinomata.

L'ipotesi che l'associazione tra margini di profitto e spese pubblicitarie sia una condizione di lungo periodo, come mostrano alcuni studi, è comunque compatibile con l'osservazione che in certi settori le quote di mercato sono meno stabili quando nel settore stesso aumenta la spesa pubblicitaria, il che dimostra che la pubblicità è uno strumento di competizione. La competizione tra imprese in un settore attraverso la pubblicità, quindi, è compatibile con performances deboli del settore in termini di prezzo.

4. Rilevanza giuridica della pubblicità

La pubblicità assume rilievo giuridico in relazione alle varie e diverse categorie di interessi con cui è in rapporto e con cui può venire in conflitto, quali: interessi diffusi riferibili alla collettività dei consumatori, come la 'fede pubblica' o il diritto dei singoli all'autodeterminazione nelle proprie scelte economiche (problema della pubblicità ingannevole); interessi delle imprese concorrenti, nella misura in cui, non rispettando le regole, la pubblicità possa falsare il gioco della libera competizione commerciale (problema della pubblicità decettiva, confondente, imitativa, denigratoria e comparativa); interessi collettivi, riferiti a tutti i soggetti suscettibili d'essere toccati dalla comunicazione pubblicitaria: ordine pubblico e pubblica morale, convinzioni civili e religiose, tutela dei minori, salute e sicurezza della collettività, fruizione dei mass media, estetica dei luoghi pubblici, ecc. (v. Fusi e Testa, 1996). La regolamentazione giuridica della pubblicità tutela tali interessi, limitando quindi la libertà nell'impiego di questo tipo di comunicazione.

5. Fonti del diritto della pubblicità

La disciplina giuridica della pubblicità presenta i caratteri di un'estrema frammentarietà, derivante dall'eterogeneità degli interessi da tutelare oltre che dalla forma e dal momento storico in cui le varie normative sono state emanate.

Le fonti del diritto della pubblicità comprendono leggi dello Stato, autodisciplina e giurisprudenza. Le leggi dello Stato che attengono alla pubblicità sono sia di diritto privato che di diritto pubblico, a seconda che siano rivolte alla tutela di interessi privati o pubblici. Le disposizioni di diritto privato sono anzitutto quelle che vietano gli atti di concorrenza sleale nei rapporti fra imprese concorrenti, quelle che regolamentano l'uso dei segni distintivi come i marchi e le denominazioni commerciali, e infine le norme che tutelano il diritto d'autore, i diritti all'immagine e al nome delle persone e gli altri diritti soggettivi che possono essere lesi dalla pubblicità.

Fra le norme di diritto pubblico in tema di pubblicità si distinguono norme penali e norme amministrative. Sono penali le norme che reprimono le frodi nell'esercizio del commercio, la vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine, la vendita o la messa in commercio di prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi atti a indurre in inganno il compratore sulla loro origine, provenienza o qualità, la diffamazione a mezzo pubblicità, l'abuso della credulità popolare, la violenza contro gli incapaci di intendere e di volere, e infine le norme volte alla tutela della morale familiare, dell'ordine pubblico e del buon costume, le quali possono essere violate dal messaggio pubblicitario.

Le norme amministrative sono quelle che vietano sul piano generale la pubblicità ingannevole, le leggi che disciplinano l'uso di determinati mezzi pubblicitari gestiti dallo Stato o da enti pubblici e le numerosissime disposizioni settoriali che espressamente vietano per alcuni prodotti (soprattutto alimentari) la pubblicità ingannevole, proibiscono la pubblicità di prodotti dannosi come quelli da fumo o la pubblicità realizzata in violazione delle norme sulla circolazione stradale, e impongono, per la pubblicità di determinati beni o attività, una preventiva autorizzazione da parte dell'autorità amministrativa.

Oltre alle leggi dello Stato regolanti direttamente o indirettamente la comunicazione pubblicitaria, un ruolo importante nel quadro delle fonti del diritto della pubblicità è svolto dalle normative autodisciplinari, cioè quelle regole di comportamento a cui coloro che operano nella pubblicità si sono volontariamente assoggettati e la cui obbligatorietà è limitata agli operatori pubblicitari che vi aderiscono. Tra le varie iniziative di autodisciplina del settore la più nota e importante è quella facente capo all'Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Essa ha dato vita al Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (CAP), un corpo di regole che riguarda tutto il mondo della pubblicità e che contiene disposizioni più articolate e spesso più severe di quelle contenute nelle leggi dello Stato. Nella pratica il numero delle associazioni aderenti a tale forma di autodisciplina è talmente elevato che in concreto le regole si rivelano essere quasi sempre applicabili, in tal modo integrando e completando le disposizioni delle leggi dello Stato sulla pubblicità.

Per quanto riguarda, infine, la giurisprudenza nel campo pubblicitario, caratterizzato da situazioni multiformi, sfumate e spesso decisamente insolite, le decisioni emesse da tribunali, Autorità Garante e Giurì (che è l'organo di autodisciplina pubblicitaria dotato del potere giurisdizionale) costituiscono un importante ausilio per interpretare, comprendere e risolvere le varie fattispecie.

6. Autodisciplina pubblicitaria

Nel 1966, in considerazione della sostanziale assenza di norme di legge in tema di pubblicità, le strutture associative del settore hanno emanato un corpo di regole comportamentali, costituito dal Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, con lo scopo di "assicurare che la pubblicità, nello svolgimento del suo ruolo particolarmente utile nel processo economico, venga realizzata come servizio per il pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore" (Norme preliminari e generali del CAP). Successivamente esso è stato sottoposto a revisioni, per adeguare le norme alla realtà pubblicitaria in costante evoluzione. "Il Codice definisce le attività in contrasto con le finalità suddette, ancorché conformi alle vigenti disposizioni legislative; l'insieme delle sue regole, esprimendo il costume cui deve uniformarsi l'attività pubblicitaria, costituisce la base normativa per l'autodisciplina pubblicitaria" (Norme preliminari).

Le norme del Codice sono vincolanti per utenti, agenzie, consulenti pubblicitari, gestori di veicoli pubblicitari di qualsiasi tipo e per tutti coloro che lo abbiano accettato direttamente o tramite la propria associazione, ovvero mediante la sottoscrizione di un contratto di pubblicità. Il Codice è in effetti accettato o sottoscritto da tutte le associazioni ed enti che costituiscono lo IAP e pertanto dalle principali associazioni di utenti, professionisti e mezzi pubblicitari. Inoltre, in forza della 'clausola di accettazione' del Codice, inserita nei contratti standard di pubblicità, anche la pubblicità dell'utente, dell'agenzia o del professionista che non fanno parte di associazioni appartenenti all'Istituto è soggetta al Codice. Praticamente, pertanto, pur trattandosi di una disciplina volontaria, la larga generalità della pubblicità italiana le è soggetta. Le norme del CAP sono inoltre accolte come 'usi e consuetudini commerciali' dalla Camera di commercio di Milano (e in questo senso sono da considerarsi tra le fonti del diritto). Gli organi dell'autodisciplina sono il Comitato di controllo e il Giurì, istituiti con il compito di esaminare la pubblicità che viene loro sottoposta, di invitare in via preventiva a modificare la pubblicità che appare non conforme alle norme del Codice, ed eventualmente di emettere ingiunzione di desistenza dalla medesima. Quello della legittimazione ad agire è un aspetto qualificante del Codice, il quale non pone limitazioni all'assunzione dell'iniziativa. Stabilisce infatti l'art. 36 del CAP che "chiunque ritenga di subire pregiudizio da attività pubblicitarie contrarie al Codice di Autodisciplina può richiedere l'intervento del Giurì nei confronti di chi, avendo accettato il Codice stesso in una qualsiasi delle forme indicate in premessa, abbia commesso le attività ritenute pregiudizievoli".

7. La pubblicità ingannevole

Dal 1992 l'Italia è stata dotata di una normativa intesa a reprimere la pubblicità ingannevole su di un piano generale, compito assolto fino a quel momento dall'autodisciplina pubblicitaria. Il d.l. del 25 gennaio 1992, n. 74, è stato emanato in attuazione della direttiva comunitaria n. 84/450, relativa al ravvicinamento delle disposizioni civili, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità: la direttiva costituisce pertanto un importante punto di riferimento per l'interpretazione della norma nazionale. In particolare, specificando che la pubblicità ingannevole va vietata non solo per la capacità di indurre in errore il consumatore ma anche per le distorsioni della concorrenza che è in grado di produrre, la direttiva riconosce formalmente il ruolo di strumento della concorrenza svolto dalla pubblicità. Sulla base di tali considerazioni il legislatore nazionale ha assegnato all'Autorità garante della concorrenza e del mercato (istituita con la legge n. 287 del 1990, nota come legge antitrust) le competenze in materia di controllo della pubblicità ingannevole, ritenendola l'organo più idoneo a tutelare gli interessi economici e sociali protetti dalla direttiva comunitaria.

Prevedendo all'art. 1 il divieto della pubblicità ingannevole a tutela dei soggetti che esercitano un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, dei consumatori e, in generale, degli interessi del pubblico, il decreto apporta importanti elementi di innovazione, di grande rilievo sociale, rispetto alla precedente disciplina civilistica (art. 2598 in tema di concorrenza sleale) che si limitava a proteggere gli interessi del singolo concorrente danneggiato. Il secondo comma dello stesso art. 1 individua le caratteristiche fondamentali della pubblicità affermando che la stessa deve essere "palese, veritiera e corretta".

L'art. 2/b del decreto definisce pubblicità ingannevole "qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge, e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico, ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente". È sufficiente, quindi, la potenzialità del pregiudizio, senza che sia necessario un danno effettivo che sia conseguenza diretta della pubblicità ingannevole.

Non è considerata ingannevole né dal d.l. 74/92 né dal CAP la pubblicità iperbolica, la quale, nonostante i messaggi oggettivamente non veritieri, non può tuttavia indurre in errore nemmeno il consumatore più sprovveduto, perché frutto di palese esagerazione, da tutti riconoscibile come tale.Oltre al divieto generale della pubblicità ingannevole sia il d.l. 74/92 che il CAP esaminano alcune fattispecie particolari, sul presupposto che rispetto a esse si prospetta un maggior pericolo di induzione in errore. Sono presi in considerazione in particolare: l'uso nella pubblicità dei termini 'garanzia', 'garantito' e simili, che possono essere utilizzati solo a determinate condizioni e con particolari accorgimenti, perché si ritiene che destino nel consumatore particolari aspettative e rassicurazioni (art. 4, comma 2, d.l. 74/92; art. 5 CAP); l'uso di terminologia, citazioni o menzioni di prove tecniche o scientifiche in modo non appropriato, disponendo che questi tipi di prove, ove abbiano limitata validità, non siano presentati in modo da apparire invece come illimitatamente validi (art. 3 CAP); il coinvolgimento di persone che in qualche modo attestano o confermano le qualità o dimostrano le proprietà o le modalità d'uso del prodotto o servizio pubblicizzato, prevedendo che "le testimonianze devono essere autentiche, responsabili e controllabili" (art. 4 CAP); la riconoscibilità della pubblicità come tale, che risponde a una esigenza di trasparenza suggerita dalla maggiore insidiosità che il messaggio mascherato da informazione neutrale può presentare per i suoi destinatari in quanto, avendo l'apparenza di una informazione disinteressata, si presenta come maggiormente attendibile e aggira le naturali difese che ogni individuo pone, magari inconsciamente, in essere quando sia fatto oggetto di una pressione scopertamente pubblicitaria (art. 4, comma 1, d.l. 74/92; art. 7 CAP; il divieto di una pubblicità non trasparente è previsto anche dalla legge n. 223 del 1990 in relazione alla comunicazione radiotelevisiva); la trasmissione di messaggi di carattere subliminale, di cui è fatto divieto (art. 4, d.l. 74/92) in quanto si tratta di un tipo di comunicazione che dovrebbe stimolare un bisogno all'insaputa del soggetto, inducendolo a compiere l'atto economico per riflesso condizionato (v. Fusi e Testa, 1996).

All'Autorità garante, competente a giudicare sulle infrazioni, è attribuito, in particolare, il potere di inibire la continuazione degli atti di pubblicità ingannevole, nonché di rimuoverne l'adozione mediante gli opportuni provvedimenti, quali la pubblicazione della decisione o di un'apposita dichiarazione rettificativa. Nei casi di particolare urgenza essa può adottare provvedimenti cautelari di sospensione provvisoria della pubblicità ingannevole. All'Autorità è inoltre consentito di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria al proprietario del mezzo di diffusione del messaggio pubblicitario che ometta di fornire le informazioni necessarie a identificare l'operatore pubblicitario.

Soggetti legittimati a proporre il ricorso sono: i concorrenti, i consumatori e le loro associazioni, il Ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico. Nel caso in cui il messaggio pubblicitario risulti diffuso o da diffondere attraverso la stampa periodica o quotidiana, ovvero per via radiofonica o televisiva, l'Autorità, prima di decidere sull'ingannevolezza, deve richiedere il parere del Garante per la radiodiffusione e l'editoria.Di particolare interesse è il rapporto tra la nuova disciplina legislativa e il sistema di autodisciplina pubblicitaria. Fino a oggi l'assenza di una disciplina legislativa specifica del fenomeno pubblicitario ha fatto sì che si producesse una vera e propria supplenza del Giurì di autodisciplina, che ha operato con margini di autonomia e una incisività difficilmente riscontrabili in altre esperienze. L'art. 8 del d.l. 74/92 regola i rapporti fra le due normative prevedendo che le parti possano rivolgersi, per l'inibitoria degli atti di pubblicità ingannevole, a "organismi volontari e autonomi di autodisciplina" e che, una volta intrapresa la procedura di fronte all'organismo autodisciplinare, le parti stesse possano convenire di astenersi dall'adire l'Autorità garante fino alla pronuncia definitiva. Nell'ipotesi, invece, in cui il ricorso all'Autorità garante sia già stato proposto, è data a ogni interessato la possibilità di richiedere all'Autorità la sospensione del procedimento in attesa della pronuncia dell'organismo di autodisciplina.

8. Disciplina delle radio- e telediffusioni in tema di pubblicità

La legge del 6 agosto 1990, n. 223, disciplina la materia delle radio- e telediffusioni prevedendo innanzitutto due distinte aree di emittenza: quella affidata su scala nazionale alla concessionaria del servizio pubblico (la RAI) e quella attribuita a concessionari privati, distinti in emittenti in ambito nazionale ed emittenti in ambito locale. Sia le emittenti pubbliche che quelle private sono soggette alle stesse regole fondamentali a cui i contenuti della comunicazione pubblicitaria radiotelevisiva devono uniformarsi, ma per la presenza di ulteriori forme di regolamentazione e controllo (da parte di un'apposita Commissione parlamentare di vigilanza sulla RAI e della SACIS) la concessionaria pubblica applica le regole in maniera più severa rispetto alle emittenti private. La legge presenta invece disparità di trattamento a proposito dei tempi di trasmissione che possono essere destinati alla pubblicità, minori per l'emittenza pubblica e maggiori per l'emittenza privata, disparità che si spiega considerando che per il settore privato il gettito pubblicitario è l'unica fonte di reddito (v. Fusi e Testa, 1996).

L'art. 8 della stessa legge 223/90 regola la veicolazione di informazioni mediante la pubblicità, disponendo che la pubblicità radiofonica e televisiva non deve offendere la dignità della persona, evocare discriminazioni di razza, sesso e nazionalità, offendere convinzioni religiose e ideali, indurre a comportamenti pregiudizievoli per la salute, la sicurezza e l'ambiente, arrecare pregiudizio morale o fisico ai minorenni, avere a oggetto medicinali e cure disponibili unicamente con ricetta medica. A differenza delle altre normative che regolano la comunicazione pubblicitaria, i cui principali destinatari sono le imprese utenti, le disposizioni riguardanti la comunicazione radiotelevisiva sono invece indirizzate alle emittenti, nei confronti delle quali, in caso di infrazione, si applicheranno le relative sanzioni previste dalla legge 223/90; ciò non significa però che gli utenti e quanti collaborano alla realizzazione dei messaggi radiofonici e televisivi possano disinteressarsene, poiché le emittenti esercitano un rigoroso controllo per evitare di subire sanzioni per fatti attribuibili a terzi. Competente in materia è il Garante per la radiodiffusione e l'editoria.

Speciali disposizioni di legge in tema di pubblicità radiotelevisiva sono contenute nella legge 223/90 e in provvedimenti legislativi che traggono origine da questa legge. Tali disposizioni riguardano i contenuti della pubblicità, il rapporto fra orari di trasmissione e pubblicità (affollamento), le interruzioni pubblicitarie dei singoli programmi e le forme atipiche di pubblicità quali sponsorizzazioni, telepromozioni e televendite.

9. Diritto internazionale della pubblicità

La disciplina giuridica della pubblicità si è fino a oggi sviluppata su basi eminentemente nazionali ed è ispirata a criteri di stretta territorialità, nel senso che non esiste un corpo di regole aventi efficacia a livello internazionale, per cui le norme che disciplinano il fenomeno in un paese non possono essere applicate in un altro paese, e spesso i comportamenti pubblicitari oggetto di disposizioni legislative in una nazione non sono regolamentati nelle altre. A tale regime fa riscontro una notevole diversità fra le legislazioni nazionali.

A livello internazionale tale situazione comporta problemi di estrema rilevanza, poiché per effetto dell'ampliamento dei mercati e dell'abbattimento delle barriere alla libera circolazione di beni e servizi, e in conseguenza dell'enorme evoluzione delle tecnologie della comunicazione, la pubblicità realizzata in un certo paese può essere ricevuta in altri paesi, dove pure sono offerti al pubblico gli stessi prodotti e servizi. Per tali motivi è sempre più sentita l'esigenza di armonizzare le varie discipline a livello internazionale (v. Fusi e Testa, 1996).

Le iniziative nel campo della regolamentazione internazionale possono essere esaminate su due piani: da una parte sul piano delle direttive comunitarie, dall'altra su quello dei sistemi di autodisciplina. L'Unione Europea ha emanato numerose direttive in tema di pubblicità, dando luogo, anche se solo per i paesi appartenenti all'Unione, a una notevole uniformità per ciò che riguarda le normative sulla materia. Tra le varie direttive emanate in tema di pubblicità quelle più rilevanti ai fini dell'armonizzazione degli ordinamenti europei sono la direttiva n. 84/450 (recepita dall'Italia con il d.l. 74/92) in materia di pubblicità ingannevole e la direttiva n. 89/552 (recepita con la legge 223/90) sull'esercizio delle attività televisive. In relazione ai sistemi autodisciplinari, invece, la prima forma di autoregolamentazione a livello internazionale risale al Code de pratiques loyales en matière de publicité emanato dalla Camera di commercio internazionale nel 1936 e successivamente aggiornato. Attorno a tale Codice nel secondo dopoguerra sono sorti nei vari paesi numerosi regolamenti di autodisciplina nazionale. Attraverso i sistemi autodisciplinari i problemi di coordinamento tra le normative nazionali possono essere superati o con normative interne o attraverso accordi fra le autodiscipline dei vari paesi.

Un esempio di accordo inteso ad assicurare l'applicazione delle regole autodisciplinari in ambito internazionale è l'EASA (European Advertising Standards Alliance), organismo sovranazionale che ha iniziato a operare nel 1989, cui aderiscono le organizzazioni autodisciplinari della maggior parte dei paesi europei. La formula attraverso cui agisce è il Cross borders complaint system, che consente a chiunque si ritenga leso da una pubblicità di un'altra nazione di ricorrere, attraverso il proprio organismo nazionale, a quello operante nel paese in cui la pubblicità ha origine, il quale esaminerà il caso in base alle regole autodisciplinari ivi vigenti. (V. anche Commercio; Consumi; Domanda; Marketing).

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Sociologia e psicologia

di Beniamino Stumpo

1. Introduzione

Nell'ambito degli studi sulle comunicazioni di massa, la pubblicità si è configurata per molto tempo come una presenza per certi versi problematica e 'ingombrante'. Il suo essere un discorso dichiaratamente persuasorio, teso a convincere, influenzare, sollecitare determinati comportamenti, piuttosto che ad informare, ha alimentato stereotipi semplificatori, pregiudizi negativi, reazioni fortemente critiche. Essa è stata quindi assai spesso percepita come sinonimo di manipolazione, intrusività, adesione acritica a modelli di comportamento e valori. Un consistente mutamento d'orizzonte si è tuttavia verificato negli ultimi venti anni: la pubblicità si è legittimata come oggetto di studio autonomo, interessante e significativo non solo in se stesso, ma anche quale osservatorio utile per comprendere meglio la nostra società. In particolare le scienze sociali hanno dato un notevole contributo a questo cambiamento e costituiscono uno strumento molto efficace per spiegare quali interrelazioni esistano tra la pubblicità, da un lato, e i fenomeni socioculturali e la psicologia individuale dall'altro.

2. La pubblicità: brevi cenni storici e una definizione generale

La pubblicità, intesa in senso ampio, esiste da sempre: essa nasce nel momento stesso in cui compare l'esigenza di vendere, commerciare, proporre al consumatore beni e servizi. Ad esempio, nel mondo antico araldi e banditori furono i primi strumenti della pubblicità. Una prima innovazione significativa fu l'invenzione della stampa, che consentì di produrre manifesti scritti in numerose copie e di raggiungere un pubblico più vasto. La prima agenzia pubblicitaria viene fondata a Londra nel 1812, sull'onda della seconda grande svolta, segnata dalla rivoluzione industriale. Quando, a partire dalla fine del XIX secolo, nascono e si sviluppano le comunicazioni di massa, alla stampa si affiancano via via cinema, radio, televisione. Nel XX secolo nasce infine il marketing, definito da P. Kotler come "la funzione d'impresa volta a individuare i bisogni e i desideri insoddisfatti, agendo come raccordo tra le esigenze della società e il sistema produttivo di cui essa è dotata" (v. Kotler, 1991, p. 42). La pubblicità trova quindi la sua naturale collocazione nell'ambito del marketing.

3. Pubblicità e scienze sociali

La definizione generale della pubblicità come strumento del marketing può risultare ingannevole nella sua apparente semplicità. Di fatto, nel suo agire al servizio del marketing, la pubblicità si rivela un fenomeno notevolmente complesso e sfaccettato, le cui manifestazioni toccano i territori di molte scienze e discipline, quali ad esempio l'economia, la giurisprudenza, la semiotica, ecc. In particolare essa, per poter essere studiata e compresa appieno, richiede l'apporto delle scienze sociali e segnatamente di psicologia e sociologia. La pubblicità, infatti, al di là dei suoi aspetti puramente commerciali, è un fenomeno sociale che attiene considerevolmente alla psicologia individuale: essa è definibile come una forma di comunicazione di massa, a carattere persuasorio, specificamente rivolta a creare nel consumatore un orientamento favorevole nei confronti della marca e del prodotto. Se dunque ci si accosta alla pubblicità nella prospettiva delle scienze sociali, si possono individuare fondamentalmente due approcci possibili. In primo luogo quello più propriamente psicologico, maggiormente specifico e centrato essenzialmente sulla pubblicità in se stessa: gli effetti prodotti dal messaggio sull'individuo, i processi e le modalità secondo cui questi elabora la comunicazione, le reazioni a quest'ultima sul piano intrapsichico e su quello comportamentale. Questo approccio è anche il più classico e remoto in senso storico, poiché lo studio scientifico della pubblicità è iniziato con esso. In secondo luogo esiste un altro approccio, più recente, di tipo integrato e multidisciplinare, in cui confluiscono psicologia e sociologia, ma anche semiotica, antropologia, ecc. Esso studia la pubblicità in stretta correlazione con i fenomeni di consumo e con la figura chiave del consumatore, considerandola uno dei fattori cruciali nel determinare il comportamento di quest'ultimo e mirando ad analizzare il suo ruolo in questo ambito.

4. La psicologia della pubblicità

Il primo dei due approcci summenzionati è orientato fondamentalmente alla comprensione di ciò che accade quando il messaggio raggiunge il destinatario. In questa prospettiva, è possibile identificare tre filoni principali lungo cui si diramano i contributi della psicologia allo studio scientifico della pubblicità: il comportamentismo, il cognitivismo, le ricerche e le teorie sulla comunicazione persuasoria.

Il contributo del comportamentismo

Il comportamentismo nasce ufficialmente in America nel 1913, anno in cui J.B. Watson pubblica il suo celebre articolo programmatico intitolato Psychology as the behaviorist views it. Esso costituisce un ribaltamento drastico nella definizione dell'oggetto di studio della psicologia, asserendo che quest'ultima deve occuparsi fondamentalmente del comportamento osservabile e giungendo talora a negare che sia possibile studiare la coscienza e i suoi contenuti (emozione, apprendimento, personalità, ecc.). Tra i suoi numerosissimi rappresentanti possiamo citare C.L. Hull, B.F. Skinner, E.C. Tolman, D.O. Hebb. Alcuni concetti hanno un ruolo centrale nel corpus delle teorie comportamentiste: stimolo, cioè l'impatto che l'ambiente ha sull'individuo; risposta, ossia la reazione all'ambiente; rinforzo, vale a dire gli effetti dell'azione individuale in grado di modificare le successive reazioni all'ambiente. Il comportamento, soprattutto nella prospettiva del comportamentismo 'radicale' (la prima fase, all'incirca sino alla fine degli anni trenta), sarebbe determinato dal contesto, dagli stimoli che esso invia all'individuo, secondo leggi psicologiche analoghe a quelle che regolano il mondo fisico (concezione meccanicistica dell'uomo). Questa assunzione di base trova espressione nella famosa formula S→R. Dal momento che il comportamentismo ha origine in America, dove più o meno contemporaneamente si sviluppa la pubblicità moderna, è facile comprendere come ben presto quest'ultima si sia rivolta ad esso nel tentativo sia di delineare una prima spiegazione delle modalità di azione dei messaggi, sia soprattutto di incrementarne 'scientificamente' l'efficacia. A questo proposito, a titolo aneddotico, va ricordato che Watson, dopo aver sviluppato i postulati di base del comportamentismo, andò a lavorare per la "J.W. Thompson", un'agenzia pubblicitaria. La pubblicità rappresenta lo stimolo, volto a creare un forte legame tra prodotto e gratificazione di un bisogno del consumatore; l'acquisto del prodotto è la risposta comportamentale e il rinforzo è costituito dalla soddisfazione provata usando il prodotto stesso. Negli anni venti-trenta nasce dunque la psicologia della pubblicità, sia pure in una forma riduttiva e meccanicistica: come emerge chiaramente in quello che viene considerato il primo testo di psicologia della pubblicità, The new psychology of selling and advertising, scritto da T. Link nel 1927 e corredato di un'introduzione di Watson, l'obiettivo non è tanto quello di spiegare il comportamento del consumatore e quel che accade nella sua mente, quanto soprattutto di valutare l'efficacia della pubblicità nel contribuire alle vendite. Coerentemente con i postulati del comportamentismo, infatti, l'assunto di base è che le vendite siano funzione della pubblicità. Come osserva F.M. Nicosia (v., 1983), la nascente psicologia della pubblicità concentra pragmaticamente la sua attenzione sulla stimolazione delle vendite attraverso messaggi 'psicologicamente efficaci' e fa propri, con i dovuti adattamenti, alcuni assiomi del comportamentismo: il consumatore entra nel mercato come una tabula rasa, in cui il pubblicitario imprime i suoi stimoli: è necessario far leva su bisogni elementari e tendenze innate; ciò che conta non è tanto la qualità o il contenuto della comunicazione, quanto una incalzante e continua ripetizione di stimoli pubblicitari brevi, incisivi, pressanti. È negli anni trenta in particolare che nasce e si consolida, su queste premesse concettuali, la tendenza tuttora presente di molti pubblicitari a considerare basilari per la riuscita delle campagne pressoché unicamente la ripetizione del messaggio e il suo impatto sul pubblico (la sua capacità di attirare l'attenzione).

Il contributo del cognitivismo

La psicologia cognitivista, o cognitivismo, rappresenta al tempo stesso una filiazione diretta del comportamentismo e una radicale rottura epistemologica rispetto ad esso. Filiazione in quanto il cognitivismo nasce dalle successive trasformazioni del comportamentismo 'radicale' originario, negli anni quaranta-sessanta, in neo-comportamentismo e ceno-comportamentismo, entrambi caratterizzati da un crescente interesse per i processi che si svolgono all'interno dell'individuo (ad esempio, la formula S→R diventa S→I→R, dove 'I' rappresenta le variabili mentali che intervengono nel processo). Ma anche svolta radicale, poiché, portando alle estreme conseguenze questa evoluzione, la psicologia cognitivista si caratterizza per essere decisamente mentalistica, ossia centrata sullo studio delle funzioni della mente, esattamente all'opposto di quanto avviene nel comportamentismo. La denominazione 'psicologia cognitivista' compare per la prima volta nel libro di U. Neisser Cognitive Psychology, nel 1967, ma le origini storiche del cognitivismo sono assai più remote. Esse risalgono agli studi di K.J.W. Craik negli anni della seconda guerra mondiale, e trovano poi sviluppo e consolidamento nelle ricerche di G.A. Miller, G. Sperling, E. Galanter, K. Pribram, U. Neisser, ecc. L'assunto fondamentale del cognitivismo è che la mente può essere equiparata ad una struttura operante in termini di elaborazione di informazioni: essa raccoglie informazioni sulle possibili decisioni e sul contesto, le elabora attraverso operazioni funzionali lineari o non lineari, giunge a una soluzione che l'individuo ritiene adeguata. A partire dalla seconda metà degli anni sessanta, ad opera di studiosi quali J.A. Howard, J.N. Sheth, W. McGuire, K. Bettman, V. Harris, ecc., la modellistica concettuale e le acquisizioni conoscitive del cognitivismo iniziano ad essere impiegate negli studi sulla persuasione e sulla pubblicità, che alla fine degli anni settanta vengono analizzate principalmente in termini di processo di elaborazione dell'informazione, nell'ambito del cosiddetto 'approccio della risposta cognitiva'. Da quest'ultimo si sono sviluppati due indirizzi della psicologia della pubblicità. Da un lato, quello che si potrebbe definire 'micro', volto ad approfondire gli specifici processi cognitivi (decodifica, elaborazione, memoria, ecc.) attivati dalla ricezione del messaggio da parte del destinatario. Nella loro rassegna degli studi in questo ambito, L. Percy e A.G. Woodside (v., 1983) pongono ad esempio in evidenza come la continuità di stile e contenuto di una campagna nel tempo rafforzi l'immagine di una marca assai più di un approccio basato sulla varietà e sul cambiamento frequente ('l'effetto accumulazione'); come il ricordo di un annuncio non sia direttamente influenzato dal livello di coinvolgimento del consumatore; come le argomentazioni più efficaci siano quelle in sintonia con le catene mezzi-fini del consumatore; come l'elaborazione delle informazioni contenute in un messaggio avvenga spesso effettuando una 'media sintetica' piuttosto che sommandole. Dall'altro lato, l'approccio cognitivista allo studio della pubblicità (e della comunicazione persuasoria in generale) si è sviluppato in senso 'macro', generando diversi modelli del processo globale di elaborazione dell'informazione. Tra essi, il più noto ed efficace quanto a capacità esplicative è l''Elaboration Likelihood Model' (ELM) di R.E. Petty e J.T. Cacioppo (v., 1986). Secondo l'ELM, una comunicazione persuasoria può alterare le opinioni preesistenti in due modi, secondo due processi differenti. Il primo di essi, denominato 'percorso centrale', pone l'accento sull'elaborazione cognitiva che il destinatario compie del messaggio valutandone le argomentazioni, confrontandole con le proprie, ordinandole secondo uno schema coerente e comparando quest'ultimo con i propri atteggiamenti. È per l'appunto l'esito di questo lavoro cognitivo a determinare l'accettazione o il rifiuto dell'opinione proposta dalla comunicazione. Il secondo processo, ossia il 'percorso periferico', possiede invece caratteristiche affatto opposte: esso trascura i contenuti sostanziali del messaggio, che sono oggetto di scarsa elaborazione cognitiva, e si concentra invece sugli elementi periferici o secondari della comunicazione, quali l'attrazione esercitata dalla fonte, la sua credibilità, l'associazione dell'opinione proposta a valori positivi e immagini piacevoli, e così via. In questo caso, dunque, la persuasione avviene perché il messaggio 'seduce'. Secondo Petty e Cacioppo, il percorso periferico si attiva più facilmente quando il destinatario non è in grado di, o non è motivato a, elaborare approfonditamente la comunicazione persuasoria, oppure quando gli stimoli periferici hanno di per se stessi forza sufficiente a causare un cambiamento di atteggiamento. Se si considera che il percorso centrale è più difficile e impegnativo, e che le due condizioni summenzionate ricorrono spesso in pubblicità, il percorso periferico può indubbiamente costituire un utile punto di riferimento per quest'ultima. Con un'avvertenza, tuttavia: siccome i mutamenti d'atteggiamento indotti dai processi periferici sono più labili e meno durevoli, sarà necessario ricordare continuamente al consumatore lo stimolo su cui egli ha basato la sua decisione (è il caso, ad esempio, delle strategie comunicazionali basate su un testimonial).

Il contributo delle teorie sulla comunicazione persuasoria

Come si è detto in precedenza, la pubblicità rientra nel novero più ampio delle comunicazioni persuasorie, miranti a influenzare atteggiamenti e comportamenti individuali. In questo senso, un terzo importante contributo alla comprensione della sua azione e dei suoi effetti è dato dagli studi sulla persuasione. Quest'ultima, in riferimento a una sfera molto estesa di fenomeni (relazioni interpersonali, orientamenti politici e di voto, ecc.), inizia ad essere oggetto di ricerca scientifica e sistematica negli anni quaranta ad opera della celebre Scuola di Yale, tra i cui rappresentanti possiamo citare C. Hovland, che ne fu il fondatore, J. Janis, H. Kelley, A. Lumsdaine, W. McGuire, ecc. Le ricerche della Scuola di Yale, e di coloro che successivamente si ispirarono al quadro teorico da essa delineato, si sono sviluppate principalmente in due direzioni: l'elaborazione di modelli generali della persuasione, da un lato, e l'identificazione delle variabili che possono intervenire a facilitare o ostacolare l'opera del persuasore, dall'altro. Dal primo punto di vista, il modello più noto è quello denominato per l'appunto comunemente 'di Yale' e attribuito a un allievo di Hovland, W. McGuire (v., 1969). Esso, conosciuto anche come 'modello multi-mediazioni', concepisce la persuasione come un processo articolato in una sequenza di fasi, ognuna delle quali è una tappa cruciale da cui dipendono le successive.

Le sei fasi del modello di Yale sono: a) esposizione al messaggio; b) attenzione a quest'ultimo; c) comprensione; d) accettazione o rifiuto dell'opinione presentata nella comunicazione; e) persistenza del cambiamento di atteggiamento eventualmente verificatosi nella fase precedente; f) conversione in azione. Le prime tre fasi corrispondono sostanzialmente ad un processo di ricezione percettiva ed elaborazione semantica di un messaggio, le tre successive si riferiscono ad un processo generale di accettazione e agli effetti pragmatici della comunicazione. Il valore di questo modello sta principalmente nel delineare non semplicemente un elenco di punti di passaggio, bensì una organizzazione funzionale delle variabili che agiscono nella dinamica di persuasione. Questa viene dunque studiata dall'interno, cercando di descrivere le operazioni attuate dall'individuo sull'informazione, e costituisce perciò un riferimento utile nell'analisi del processo di elaborazione della pubblicità da parte del destinatario. Altri modelli di persuasione, successivamente sviluppati, sono: quello di R. Tucker del 1971, che ha proposto di applicare al processo persuasorio l'approccio dei sistemi generali, considerandolo cioè come un tutto unitario; quello cosiddetto 'della prova' di T. Florence del 1975, mirante a spiegare come il destinatario del messaggio giunga a credere ad esso (o ad una parte di esso), sulla base sia della credibilità della fonte che degli elementi di prova contenuti nel messaggio stesso; quello di D. Cegala del 1980, più specificamente centrato sulla persuasione interpersonale; quello del 'costrutto sovraordinato' di K. Reardon del 1981, anch'esso mirato sulle situazioni persuasorie interpersonali. La seconda direttrice lungo cui si sono sviluppati gli studi della Scuola di Yale (e più in generale, le ricerche sulla persuasione) è quella dell'individuazione delle variabili che intervengono nel processo persuasorio, facilitandolo o ostacolandolo. In questo ambito, esplorato da numerosissimi ricercatori (ad esempio D. Berlo, J. Semert, J. McCroskey, H. Leventhal, E. Katz, P. Lazarsfeld, ecc.), è possibile identificare quattro gruppi di fattori: 1) le variabili relative alla fonte del messaggio, quali credibilità, competenza, attrattività, autorevolezza, ecc.; 2) le variabili concernenti i contenuti e la struttura della comunicazione, come la presenza o l'assenza di conclusioni esplicite, l'illustrazione o meno del punto di vista della parte avversa, l'ordine di presentazione degli argomenti, il ricorso a temi ad alto contenuto emotivo, ecc.; 3) i fattori riguardanti il contesto comunicativo e il mezzo utilizzato (l'uno può essere diadico, di gruppo, ecc., l'altro può consistere nella televisione, nella stampa, ecc.); 4) le variabili attinenti alle caratteristiche del ricevente, ossia atteggiamenti preesistenti, grado di coinvolgimento, tratti di personalità, caratteristiche socio-demografiche, ecc.

I modelli 'pubblicitari'

Al di là di quanto detto finora, una delle forme in cui si è manifestata l'applicazione della psicologia alla pubblicità è rappresentata dal tentativo di sviluppare modelli relativamente semplici e schematici, che spiegassero da un lato come agisce la pubblicità, dall'altro (e soprattutto) su che basi fondare una misurazione precisa della sua efficacia. Questo tentativo, attuato da ricercatori appartenenti più al mondo della pubblicità che a quello della psicologia scientifica, ha prodotto un gran numero di modelli. Un antesignano in questo ambito è D. Starch, il quale già nel 1923 postulava che per aver successo un annuncio deve essere visto, letto, ricordato, capace di indurre all'azione. Tra quelli che si sono poi succeduti nel tempo, e hanno avuto maggiore notorietà, possiamo citare l'AIDA (Attenzione, Interesse, Decisione, Acquisto); il DAGMAR (Defining Advertising Goals for Measured Advertising Results) di R.H. Colley; il modello di R.J. Lavidge e G.A. Steiner, che identifica sei fasi in successione gerarchica dell'azione della pubblicità; il modello di B. Lucas e G.M. Britt, volto specificamente a misurare l'efficacia della pubblicità. In una prospettiva più ampia, va posto in evidenza come questi tentativi di spiegazione semplificatoria di un processo assai complesso si siano rilevati fallimentari e fondamentalmente inadeguati. Carenti nella loro capacità di spiegare come e perché abbia luogo il passaggio da una fase all'altra, essi mostrano una grande approssimazione terminologica, utilizzano concetti psicologici elementari e di tipo per lo più intuitivo, sono fondamentalmente lineari e quindi riduttivi nella loro capacità di dar ragione di processi complessi come quelli mentali. I modelli 'pubblicitari', in ultima analisi, hanno oggi un valore essenzialmente storico: essi hanno avuto il merito di offrire una prima visione d'insieme dell'azione della pubblicità, di richiamare l'attenzione sugli ostacoli che questa deve affrontare, ma non hanno certo contribuito a spiegare il processo di comunicazione pubblicitaria.

5. Pubblicità, consumatore prodotti

Una prospettiva più ampia

Come si è detto in precedenza, accanto a quello più specificamente psicologico e centrato sulla pubblicità in se stessa, esiste un secondo approccio. Esso si caratterizza per l'offerta di una prospettiva più ampia, in un duplice senso: fa ricorso alle scienze sociali in senso esteso, e soprattutto conferisce un ruolo centrale al consumatore, cioè al vero protagonista. Oggi, infatti, non è possibile comprendere a fondo la pubblicità, in tutta la sua complessità di fenomeno comunicazionale, sociale, culturale, se non la si inscrive nell'ambito più generale delle scelte di consumo, di ciò che le determina, della gratificazione che esse offrono al consumatore. Oggetto di studio delle scienze sociali in questo settore, dunque, diviene la triade pubblicità-consumatore-prodotto.

La necessità di ricorrere alle scienze sociali

Ci si potrebbe chiedere perché sia necessario il ricorso alle scienze sociali, in particolare alla psicologia e alla sociologia, per spiegare un comportamento apparentemente così semplice, razionale e in larga parte abitudinario come le scelte di consumo. Effettivamente, nella prima metà del Novecento la concettualizzazione dominante del comportamento economico era la cosiddetta teoria neoclassica o neoparetiana, sinteticamente definibile come 'razionalista'. Essa postulava che le decisioni e le scelte del consumatore si fondassero unicamente su un calcolo logico: utilità, convenienza, attenta valutazione degli svantaggi e vantaggi delle varie alternative, ecc. Ci si è tuttavia progressivamente accorti che questo tipo di informazioni era insufficiente a spiegare le scelte dei consumatori, poichè nel modello razionalistico sopra illustrato intervengono prepotentemente, scombussolandolo, le variabili psicologiche e socioculturali: emozione, desiderio, piacere, espressività sociale, stili di vita e valori di riferimento, e così via. La scoperta fondamentale, in forza della quale è inevitabile il ricorso ai modelli esplicativi delle scienze sociali, è che gli oggetti hanno per il consumatore un valore 'extrafunzionale' (emotivo, simbolico, sociale, culturale) che va ben al di là ed è assai più importante della loro mera materialità e funzionalità. Inoltre, in questa prospettiva si modifica considerevolmente l'angolazione da cui studiare la pubblicità, poiché di fatto l'individuo acquista, insieme ai beni in sé, la comunicazione che parla di essi. La merce 'comunicata', in altre parole, diviene agli occhi dell'acquirente un oggetto o un servizio che include promesse attraenti per l'individuo e socialmente condivise (salute, prestigio, bellezza, ecc.). Si tratterà ora qui di illustrare come si configuri attualmente questo approccio e come si sia venuto storicamente determinando, tenendo conto del fatto che esso si declina secondo due filoni distinti di studio e ricerca: quello più propriamente psico-sociologico e quello riconducibile alla psicologia sociale.

L'approccio psicosociologico

La prima, fondamentale direttrice di sviluppo dell'approccio delle scienze sociali alla pubblicità e al consumatore è quella psicosociologica. Il radicale mutamento di prospettiva descritto nel paragrafo precedente inizia con gli studi di J.S. Duesenberry (v., 1949), un economista fra i primi a rendersi conto dell'irrealtà psicologica e sociologica della teoria neoparetiana razionalistica. Egli introduce il concetto di 'emulazione' (o 'effetto dimostrativo') per spiegare gli atti di scelta di beni che l'impostazione economico-utilitaristica non era in grado di prevedere, dimostrando che la pressione a consumare e i tipi di consumo sono mediati da fattori socioculturali o, per meglio dire, dalla categoria sociale e culturale cui l'individuo appartiene. Le scelte del consumatore, in altre parole, mirano tra l'altro anche ad esprimere la sua appartenenza ad una certa classe sociale, o a consentirgli di emulare una classe sociale superiore. Nasce così e si sviluppa negli anni successivi l'approccio psicosociologico alla pubblicità e al consumatore, grazie al contributo di molti autori, tra i quali possiamo ricordare M. Douglas, B. Isherwood, J. Baudrillard, D. Riesman, M. Livolsi, ecc. Secondo questa impostazione, nell'attuale società postindustriale o del benessere si è profondamente rivoluzionato il modo in cui gli individui si rapportano ai prodotti. Come osserva F. Dogana (v., 1993), "il senso di tale cambiamento può essere concettualizzato come una specie di 'smaterializzazione dell'oggetto"'. I prodotti si sono infatti trasformati da sede di funzioni tecnico-pratiche a sede di funzioni e di valori espressivi. Gli oggetti, anche i più banali, non sono più presi in considerazione solo per la loro materialità e funzionalità, bensì per la loro capacità di fornire gratificazioni a livello psicologico e sociale. In questo senso, risulta assai efficace la definizione di D. Secondulfo (v., 1990), che parla di "evaporazione dell'oggetto nel segno". Questa sostanziale trasformazione del rapporto tra consumatori e beni di consumo comporta conseguenze rilevanti anche in termini di struttura sociale dei consumi e di individuazione dei targets (segmenti specifici di individui cui il prodotto e la pubblicità si rivolgono). Secondo P. Weil (v., 1986), si è infatti verificato il passaggio da una società 'piramidale', in cui le stratificazioni sociali erano rigidamente strutturate ed era quindi più facile identificare targets specifici, ad una di tipo 'matriciale', più fluida e dinamica, nella quale le segmentazioni si attuano meno in relazione al censo e più sulla base della condivisione di valori e stili di vita, che divengono i fattori attorno a cui si aggregano gruppi più o meno vasti di individui.

Il contributo della psicologia sociale

Intorno agli anni trenta si verifica l'esodo dall'Europa verso gli Stati Uniti di molti psicologi (E. Fromm, G. Katona, P. Lazarsfeld, K. Lewin e altri), che porta gradualmente ad un grande sviluppo della psicologia sociale in quel paese. Ben presto, l'interesse e gli studi della psicologia sociale americana si orientarono anche verso la pubblicità e il comportamento del consumatore, generando una notevole ricchezza di ricerche e teorizzazioni. Più precisamente, un primo passo significativo nella direzione di un approccio che integri in un'unica prospettiva pubblicità, consumatore, prodotti, ha luogo tra gli anni quaranta e cinquanta, con il ritorno sulla scena del concetto di 'motivazione' (ciò che spinge l'individuo ad adottare un certo comportamento). Ci si comincia infatti a chiedere cosa motiva il consumatore ad accettare o rifiutare una determinata pubblicità, o ad acquistare un certo prodotto; nascono così negli anni cinquanta numerosi manuali sulle motivazioni del consumatore, tra i quali il più noto è probabilmente l'Handbook of consumer motivations: the psychology of the world of objects, scritto nel 1964 da E. Dichter. La cosiddetta 'teoria motivazionale' possiede oggi un valore puramente storico: il suo limite sostanziale consisteva nel tentativo, alquanto semplicistico e riduttivo, di individuare un valore simbolico e una motivazione dominante per ciascun atto di consumo (ad esempio, secondo Dichter i cosmetici soddisfano essenzialmente un'esigenza narcisistica di amore per se stessi). Più fecondo e attuale è invece un altro orientamento di studio e di ricerca della psicologia sociale americana, che conosce un grande sviluppo a partire dagli anni sessanta e giunge fino ai giorni nostri: quello centrato sul concetto di 'atteggiamento'.

Gli atteggiamenti hanno sempre suscitato un grande interesse da parte degli psicologi sociali. Già nel 1935, nel suo saggio Attitudes, G. Allport ne formulava la definizione più classica e nota: "una predisposizione mentale, organizzata sulla base delle esperienze precedenti, che esercita un'influenza direttiva o dinamica sulle risposte dell'individuo di fronte agli oggetti o alle situazioni cui si riferisce" (a questa hanno fatto seguito molte altre definizioni). A partire dagli anni sessanta, comunque, lo studio degli atteggiamenti conosce una nuova fase di sviluppo e di approfondimento, che sfocia successivamente nella messa a punto di diversi modelli e teorie miranti a dar ragione del legame tra atteggiamento e comportamento, rivelatisi poi molto ricchi di capacità esplicative in tema sia di pubblicità che di comportamento del consumatore. La concezione più illustre ed influente in questo ambito è senza dubbio la 'teoria dell'azione ragionata', elaborata da M. Fishbein e I. Ajzen (v., 1975 e 1980). Gli autori assumono che la determinante più diretta del comportamento sia l'intenzione che l'individuo ha di attuarlo o non attuarlo. L'intenzione comportamentale, a sua volta, si fonda sugli atteggiamenti verso il comportamento (valutazioni positive e negative circa quest'ultimo) e sulle norme soggettive (la percezione che l'individuo ha delle eventuali pressioni sociali esercitate su di lui perché agisca o meno un certo comportamento).

Successivamente ampliata da I. Ajzen e J.T. Madden (v., 1986) mediante l'inclusione di altri fattori, la teoria dell'azione ragionata è stata oggetto di numerose ricerche empiriche, dimostrandosi notevolmente efficace. Essa è stata applicata con successo anche agli studi sulla pubblicità e gli atti d'acquisto, tanto che J.B. Cohen e D. Chakravarti (v., 1990) nella loro rassegna affermano: "Malgrado le sfide operative e concettuali, il modello Fishbein-Ajzen mostra di avere forti capacità previsionali". Accanto a quello di Fishbein e Ajzen, altri modelli volti ad esplorare problematiche analoghe e ricchi di potenzialità esplicative-predittive relativamente al comportamento del consumatore sono quelli di P.R. Bagozzi (v., 1988) e di H.R. Fazio (v., 1989).

6. L'evoluzione e il ruolo attuale della pubblicità

Il quadro sopradescritto coinvolge direttamente anche la pubblicità, che ha conosciuto profondi cambiamenti, accentuatisi particolarmente nell'ultimo decennio. In un contesto caratterizzato da una fortissima competizione tra le marche per ogni settore merceologico, e nel quale le caratteristiche pragmatico-funzionali degli oggetti sono sostanzialmente equivalenti, sorge un quesito basilare: dove può l'azienda individuare e comunicare quella differenza tale da farla preferire rispetto alla concorrenza? La risposta è di fatto obbligata: è necessario presentare il prodotto primariamente come oggetto idoneo a gratificare sofisticati bisogni psicologici e sociali, a offrire supporti all'Io, all'identità personale, alla rappresentazione sociale del Sé. L'acquirente, infatti, non compra tanto un banale strumento di pulizia (ad esempio una saponetta), quanto un frammento di mito, una gamma di emozioni e suggestioni, l'illusione di partecipare ad un determinato mondo valoriale (ad esempio, nel caso della saponetta, l'esotismo, la sensualità, ecc.). In questo contesto, la pubblicità attuale è chiamata ad arricchire l'oggetto di un alone mitico, di un'aura emozionale, affinché il consumatore possa trovarvi una risonanza con le sue esigenze psicologiche. Ciò permette di dar ragione del fenomeno chiamato 'perdita di referenzialità', assai frequente negli attuali messaggi pubblicitari, vale a dire il fatto che essi non sono più 'discorsi sugli oggetti' (che negli annunci si vedono relativamente poco), ma piuttosto rappresentazioni dell''anima' del prodotto, giocate soprattutto attraverso l'associazione di questo a mondi mitologici, a simboli dell'immaginario collettivo, a costellazioni di valori. L''immagine', in altre parole, è divenuta l'essenza del prodotto e la pubblicità ha assunto in qualche modo il ruolo di 'supermarket dei sogni'.

7. Il contributo empirico delle scienze sociali alla pubblicità

Accanto a quello più teorico-conoscitivo descritto in precedenza, mirante a concettualizzare e spiegare il complesso fenomeno pubblicitario a livello sia 'micro' (singoli aspetti) che 'macro' (modelli generali e teorie di fondo), esiste un altro importante apporto che le scienze sociali, e in particolar modo la psicologia, possono dare alla pubblicità, su un piano più propriamente empirico-applicativo. Si tratta dell'analisi dei messaggi esistenti o in via di sviluppo, da un lato, e dei bisogni-aspettative del consumatore dall'altro. Compito empirico delle scienze sociali è infatti quello di identificare i miti centrali dell'immaginario collettivo cui può associarsi un bene di consumo, analizzare le 'immagini' di marca e di prodotto, mettere a fuoco le esigenze psicologiche la cui gratificazione consente ad una marca di costruirsi un'identità peculiare e differenziale, nonché utilizzare le loro competenze in materia di processi comunicazionali per accostarsi ai consumatori e verificarne le reazioni al messaggio. Questo compito viene realizzato principalmente attraverso le ricerche qualitative sul consumatore e la comunicazione, che costituiscono una branca applicata della psicologia sociale. In termini schematici, è possibile affermare che le ricerche qualitative debbono questa denominazione al loro focalizzarsi, come oggetto di indagine, sulle 'qualità mentali', ossia sui contenuti mentali di varia natura (cognitivi, emotivi, valoriali, ecc.) che formano le rappresentazioni che il consumatore si fa della marca, del prodotto, del contesto sociale in cui egli attua le sue scelte di consumo, ecc. Le ricerche qualitative, dunque, studiano ciò che marca, prodotto, pubblicità divengono nella mente del consumatore, e le 'regole' che governano la costruzione di queste rappresentazioni. In riferimento specificamente alla comunicazione, il tipo di ricerca qualitativa (e quantitativa) più frequentemente attuato è il copy-test. Esso può essere 'pre', effettuato cioè mentre il messaggio è ancora in fase di sviluppo, onde ottimizzarlo e consentire di raccordarlo più efficacemente con le esigenze dei destinatari e con gli obiettivi comunicazionali; oppure 'post', vale a dire realizzato dopo l'uscita del messaggio, al fine di verificare cosa esso abbia 'sedimentato' nella mente dei consumatori e quale contributo abbia dato all'immagine di marca e di prodotto. (V. anche Cognitivi, processi; Comportamentismo; Comunicazioni di massa; Consumatore, tutela del; Consumi; Marketing; Psicologia sociale).

Bibliografia

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