Pusillanimi

Enciclopedia Dantesca (1970)

pusillanimi (o vili, o ignavi)

Fiorenzo Forti

Gli antichi commentatori definiscono generalmente p. o vili l'anime triste di coloro / che visser sanza 'nfamia e sanza lodo, il primo gruppo di spiriti che D. incontra appena varcata la soglia dell'Inferno, mischiati al cattivo coro / de li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio (If III 35-39).

Già Iacopo spiegava che tra i buoni e i rei c'è una terza ‛ qualità ' di uomini, né buona, né rea: " quest'ultima, sì come nemica delle virtù e de' vizi, dentro alla detta porta e fuori dalle nove parti cioè gradi dell'Inferno sortiti, si pone con numero e quantità infinita, per dimostrare che l'altre due nel mondo di numero vinca, e ch'ella da mosconi e da vespe… sia trafitta, a dimostrare i suoi vilissimi e piccioli intendimenti ". Graziolo e il Lana, attratti dalla questione degli angeli neutrali, non danno chiosa specifica, ma la spiegazione di Iacopo passa nell'Ottimo, per il quale quella specie di anime " dentro alla detta porta e fuori delli primi luoghi d'Inferno sortita, si pone trafitta da vili animali... a mostrar lor viltade ". Ancor più definita la chiosa di Pietro: " occurrit illa gens quae non potest fingi inter bonos nec inter reos cum ab omnibus istis sint dissociati ratione suae pusillanimitatis ", il quale nella terza redazione del suo commento (F. Mazzoni) aggiunge: " auctor eos ita separatos ponit extra Infernum puniri et cruciari stimulis et aculeis vespium et muscarum, in quibus auctor allegorice demonstrare vult solum miserrimos motus et operaciones eorum pusilanimes ".

Da siffatta spiegazione si allontana in parte il Boccaccio, che tende a motivare fisicamente l'inerzia di tali spiriti: " questa mi pare quella maniera d'uomini che noi chiamiamo ‛ mentecatti ' o vero ‛ dementi ' li quali ancora che abbiano alcun senso umano, per molta umidità di cerebro hanno sì il vigore del cuore spento che cosa alcuna non ardiscono d'operare degna di laude, anzi si stanno freddi e rimessi e il più del tempo oziosi ". Forse il Boccaccio mira a distinguere questi spiriti dagli accidiosi (v.); ma proprio per questa via il Buti torna alla viltà d'animo: " non si può dire che li dovesse porre con li accidiosi; imperò che l'accidia dice solamente essere negligenzia intorno al bene, ma non dà ad intendere negligentia intorno al male. Li accidiosi fanno ancora di grandissimi mali; ma costoro non fanno né bene né male, se non che mangiano e beono e dormono secondo ch'è bisogno alla natura, e stannosi senza altro operare... questi così fatti sono li vili d'animo e dubitosi, che discorrono di pensiero in pensiero, e mai non deliberano di fare alcuna cosa e se pure incominciano, incontinente la lasciano stare ". Con l'Anonimo, infine, appare per la prima volta la distinzione degli spiriti del vestibolo in due schiere: la prima degli angeli neutrali e di coloro che vissero al mondo " senza veruna fama o esercizio " la seconda di " gente che alcuna volta è venuto loro nell'animo di volere fare alcuna operazione di nulla, poi lasciate stare imperfette e non compiute... ritratti addietro da viltà, da tristizia d'animo, da negligenzia ".

I moderni commentatori parlano spesso di " ignavi " (Steiner, Grabher, Momigliano, Sapegno, Chimenz, Mattalia, ecc.); questo termine, però, non ricorre nel lessico latino e volgare di D. (solo negligentiae sontes aut ignaviae, in Ep I 2); del p., invece, il poeta discorre meditatamente nel Convivio, sulla falsariga dell'Etica Nicomachea e del relativo commento tomistico: Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che 'l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella misura che l'uomo misura se medesimo, misura le sue cose, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l'altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai (Cv I XI 18-20; cfr. Tomm. Comm. Eth. IV lect. VIII n. 740). Equiparata esplicitamente a viltà d'animo (§ 18) e a viltade (§ 21; cfr. anche § 2), la pusillanimità è qui delineata a conforto della virtù di cui rappresenta il difetto, la magnanimità, secondo il rapporto aristotelico μιϰροψυχία - μεγαλοψυχία; parallelamente, parlando di ciò che impedisce all'uomo di giungere alla verità, D. mette quale secondo impedimento la naturale pusillanimitade, e ne compie il disegno a confronto del vizio morale opposto, la praesumptio, che si diparte dalla magnanimità per eccesso: sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono credere che né per loro né per altrui si possano le cose sapere; e questi cotali mai per loro non cercano né ragionano, mai quello che altri dice non curano. E contra costoro Aristotile parla nel primo dell'Etica, dicendo quelli essere insufficienti uditori de la morale filosofia (Cv IV XV 14). Se si accosta questo luogo agli altri dello stesso trattato, per cui il vivere proprio dell'uomo è ragione usare, e chi dall'uso di ragione si diparte è morto [uomo] e rimaso bestia (VII 11-14), cioè non vive uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: " Asino vive " (II VII 4), s'intende bene come il poeta possa dire i p. sciaurati, che mai non fur vivi (If III 64). Tale viltà d'animo e il corrispondente aggettivo ‛ vile ', fece osservare B. Nardi, si oppongono diametralmente al concetto dantesco di nobiltà, ampiamente svolto nel trattato IV del Convivio; qui il vocabolo nobilis è fatto derivare d'accordo con Isidoro da " non vilis " (Etym. X 184), contro l'etimologia proposta da Uguccione da nosco per sincope dell'aggettivo verbale no〈ta>bilis (Cv IV XVI 6). Privi di ogni nobiltà, i ‛ pusilli ', chiusi nei loro vilissimi e piccioli intendimenti, non militarono in vita sotto alcuna insegna, non lasciarono traccia di sé: la loro pena, in cui si manifesta per la prima volta il contrapasso, è quella di essere costretti a correre senza posa dietro un'insegna a essi imposta, stimolati da implacabili insetti, rigati il volto, dove " si discerne quello che l'uom vuole " (Boccaccio), di lacrime e sangue, di che si nutrono gli schifosi vermi su cui poggiano il piede. A Dio spiacenti e a' nemici sui (If III 63), li sdegna tanto la misericordia quanto la giustizia divina (Busnelli), sì che a essi è interdetto perfino il passaggio dell'Acheronte. E sono lunga tratta / di gente (v. 55) perché grandissima parte de li uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione (Cv III XIII 4), cioè come bruti (I IV 3).

Le pagine del Nardi si pongono alla conclusione di una linea esegetica che passa attraverso gli studi particolari di N. Zingarelli (" Giorn. d. " I [1889] 252 ss.) e di A. Hell (" Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXIII [1955] 94 ss.) e quelli generali di F. Flamini, di W.H.V. Reade, M. Baldini, A. Santi. In questo stesso ambito, però, alcuni studiosi, come C. De Biase, che parlò di ‛ pusilli ' d'appetito e d'intelletto, ripresero l'idea della distinzione dei p. in due schiere; tra essi, con particolare impegno, G. Del Noce e N. Scarano che volle divise le anime sanza 'nfamia e sanza lodo (If III 36), sdegnate dalla giustizia divina, dagli sciaurati, che non vissero senza infamia e sarebbero non " sdegnati " ma " puniti " da Dio. L'ipotesi incontrò l'opposizione di F. D'Ovidio, di A. Chiappelli, di E. Sannia, ma fu riproposta dal Flamini, che riesaminò, alla luce di Aristotele e di s. Tommaso, l'enumerazione delle virtù morali in Cv IV XVII 5: quivi, accanto alla magnanimità, virtù moderatrice e acquistatrice de' grandi onori e fama, compare un'altra virtù che ordina noi a li onori di questo mondo. Secondo Aristotele tale virtù sta alla magnanimità come la liberalità alla magnificenza (Eth. Nic. II 7), e Tommaso spiega " ad magnanimitatem, quae est circa magnum honorem, se habet quaedam virtus quae est circa honorem parvum " (Comm. Eth. lect. IX n. 346), e afferma che tale virtù, media fra l'eccesso della ‛ filotimia ' e il difetto della ‛ afilotimia ', s'indica sovente con questi stessi nomi presi in bonam partem: così appunto D., che la chiama Amativa d'onore, come già Egidio Colonna (De Reg. Princ. I II 3). Perciò, secondo il Flamini, nella buia campagna starebbero, accomunati dalla cieca vita senza speranza di morte e dall'invidia d'ogni altra sorte, afilotimi e p., questi ultimi, come più spregevoli, sottoposti al tormento della corsa affannosa. Ma tale partizione, pur in seguito accolta da H. Gmelin nel suo Kommentar (I 65), non trova sicuri appigli nel testo e par nata per suggestione del gran rifiuto dell'anima innominata (If III 60); fu quindi combattuta dallo Zingarelli e non trovò accoglienza nell'esegesi comune.

L'identificazione degli spiriti del vestibolo coi p. appare, sotto l'aspetto generale, saldamente fondata, anche se la vicinanza tra certe categorie etiche come pusillanimità, viltà, ignavia, pigrizia, negligenza, accidia (ora anche " timore ", V. Russo) porta i commentatori ad alternare o ad accumulare (cfr. Scartazzini) le designazioni: tale varietà è rilevante soltanto quando effettivamente importi un diverso ordinamento morale dell'Inferno. È il caso di quanti stentano a credere che nell'Inferno dantesco non abbiano sede specifica tutti i peccati capitali: quando non riconoscono come accidiosi i tristi sommersi nello Stige, questi studiosi considerano come tali gli sciaurati del vestibolo. Già il Daniello, opponendosi a coloro che, " per dire il poeta accidioso fummo, credono fermamente che egli abbia voluto il peccato dell'accidia essere nella medesima palude punito ove l'ira si punisse ", pensò che, se D. volle mostrarci " nel suo Inferno gli Accidiosi, gli pose dove sono gli sciaurati che mai non fur vivi ". Non diversamente il Gelli, il quale però finisce con l'identificare l'accidia cori la pigrizia, smarrendo così la distinzione del peccato cristiano di accidia, amore difettivo del bene divino opposto alla carità (indicato da D. come tale in Pg XVII 130-131), dal vizio della pusillanimità, opposto a quella specie della fortezza che è la magnanimità: si erano ormai allontanate le nozioni comuni alla cultura dell'età di D. (cfr. B. Latini, Li livres dou Tresor, ediz. Chabaille, pp. 287 ss., e Tesoretto 2683-2742).

I moderni che si accostarono all'opinione del Daniello (Venturi, Lombardi, Biagioli, Todeschini) cercarono, invece, come G. Faucher, di distinguere, sulla scorta della Summa tomistica (II II 20 2) due forme di accidia: una generica, riguardante ogni bene spirituale, che non è peccato speciale, considerata nel vestibolo; e un'altra specifica, riguardante il bene divino, rappresentata nella quarta balza del Purgatorio. Ma con ciò per le anime dell'Antinferno si torna, con giro vizioso, alla pusillanimità. Infatti G. Trenta, facendo il punto sulla questione, si oppose all'identificazione degli sciaurati con gli accidiosi e ribadì la configurazione degli spiriti del vestibolo come p., specialmente riguardo alla cosa pubblica; la coloritura politica, già variamente accennata dal Cesari, dal Rossetti, dal Poletto, fu poi riproposta dal Chiappelli, dal Pietrobono e, infine, dal Montanari, il quale pensa che D. abbia inteso " colpire i fiacchi compagni di parte bianca e tutti gli uomini di tal genere, con l'animo con cui li colpisce Dino Compagni nella sua Cronica ".

A una vera specie di accidia pensò invece il Pascoli, che nell'Antinferno vide punite le conseguenze del peccato originale, cioè l'infermità a fare il bene negl'ignavi (e l'insegna a essi imposta sarebbe la croce), e l'infermità a vedere il bene nei limbicoli (Minerva oscura, pp. 180-185) e dietro di lui il Pietrobono (Il poema sacro, Bologna 1915, I 250-252) e il Valli (La chiave della D.C., ibid. 1925, 17) con particolari adattamenti ai loro sistemi).

Anche il Busnelli scorse nel non fare (Pg VII 25) un nesso fra gli spiriti delle due sponde di Acheronte: fondandosi sulla definizione tomistica della negligentia (Sum. theol. II II 54) lo studioso affermò che la colpa degli sciaurati è teologicamente " la negligenza del bene; colpa lì sul principio dell'Inferno da Dante allogata come prima perché peccato d'omissione più che di commissione... I negligenti, che nell'esecuzione del bene sono pigri e lenti, vengono condannati per contrapasso a correr dietro un'insegna tanto ratta / che d'ogni posa... pareva indegna. I negligenti nel fare il bene e il loro dovere sono condannati all'Inferno... sia che la loro colpa abbia radice nella pusillanimità, sia nell'accidia, da cui nasce il torpore di fare il bene. Essi vengono posti avanti i cerchi infernali dei più rei come peccatori ondeggianti e neutrali tra il bene e il male, tra Dio e i suoi nemici ". A parte il riproporsi, sotto apparenza unitaria, della duplicità del vizio - pusillanimità, accidia -, se astrattamente è lecito supporre che il poeta abbia rappresentato nel vestibolo, dopo i pusilli mischiati agli angeli neutrali, gli accidiosi, facendoli correre affannosamente come sarà nel quarto girone del Purgatorio, non si capisce però come D. possa dire che questi ultimi, oltre che a Dio, siano spiacenti ai nemici di lui, dal momento che l'accidia offende la carità e produce " grandissimi mali ", come già osservò il Buti; tanto più se siconsidera che la sola connotazione della presunta schiera di accidiosi è offerta da D. con la parola ‛ viltà ': che fece per viltade il gran rifiuto. E non accidioso, ma " vile ", come ha mostrato M. Barbi (Problemi I 203), significano anche ‛ cattivo ' (If III 62) e ‛ sciaurato ' (v. 64).

Come spesso accade, un troppo rigido schema teologico si mostra incapace di corrispondere in tutto alla fantasia di D., " quia poetice et non teologice loquitur in hac parte ", notava Guido da Pisa proprio a proposito di questo canto. Il poeta poté facilmente accogliere nel quadro etico offertogli dall'aristotelismo cristiano - sarà prudente però riferirsi, anziché alla Summa di Tommaso, all'Etica aristotelica (III 7, 337) e al commento tomistico (III lect. XII 50) - altre suggestioni, che gli provenivano dalla tradizione letteraria. Questa volta non tanto da Virgilio, dal quale poté derivare solo la vaga immagine del vestibolo - interessanti, tuttavia, certi accenni dei commenti medievali all'Eneide (Padoan) - quanto dalla tradizione visionaria, come il tratto della Visio Pauli in cui l'Apostolo si trova in un vestibolo, dove in un fiume di fuoco, immersi più o meno, stanno coloro che " neque calidi neque frigidi sunt, quia neque in numero iustorum inventi sunt neque in numero impiorum " (Silverstein), che, a sua volta, porta l'eco di quel passo dell'Apocalisse (cfr., d'altronde, anche 9, 3-6 per il supplizio delle locuste) già segnalato da E. Moore (Studies in D., I 80-81): " scio opera tua quia neque frigidus es, neque calidus: utinam frigidus esses aut calidus ! Sed, quia tepidus es et nec frigidus nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo " (3, 15).

Negligenti sì, ma nel senso etimologico che i lessici medievali davano alla parola: cfr. Isidoro X 192 " Neglegens, nec eligens " (codici di Leyda e Toledo; in altri: " Neglegens, [quasi] nec legens ", lezione accolta nell'ediz. Lindsay, Oxford 1911), colui che non sceglie; e siccome la virtù, secondo l'etica che D. ha fatto sua, è abito eligente (è, secondo che l'Etica dice, / un abito eligente, in Cv IV Le dolci rime 85-86), chi non sceglie per ciò stesso moralmente non è uomo, non vive uomo, giacché abdica al massimo dono di Dio all'uomo, il libero arbitrio (Pg V 19, Mn I XII 6).

La fantasia del poeta ha fuso, in potente unità, i suggerimenti che gli porgevano la filosofia (la sua Etica) e la letteratura (le Visioni) del tempo con le riflessioni sulla storia (colui / che fece per viltade il gran rifiuto) e con l'amara esperienza della lotta politica (la compagnia che gli gravò le spalle); riuscendo a un'immaginazione suggestiva per la terribilità stessa della sua indeterminazione (Questi non hanno speranza di morte, If III 46) e per l'intensità della passione etica che si fa modo d'arte nei taglienti stilemi dello sdegno (misericordia e giustizia li sdegna / ... non ragioniam di lor, vv. 50-51).

Bibl. - Dei relegati dell'Antinferno toccano tutti gli studi sull'ordinamento dell'Inferno (sui quali si vedano le notizie del saggio di A. Santi, L'ordinamento morale e l'allegoria della D.C., I, Palermo 1923, particolarmente pp. 11-17; la nota annessa da S.A. Chimenz alla lettura del canto XI dell'Inferno di B. Nardi, Roma 1955, 20-24) e le letture dedicate al c. III dell'Inferno, fra le quali: L. Pietrobono, in " Rass. Nazionale " 1-16 nov. 1901; A. Zardo, Firenze 1901; G. Mazzoni, in Lect. Genovese (1904), poi in Almae luces malae cruces, Bologna 1941; A. Chiappelli, Il c. III dell'Inferno, Firenze 1914; V. Osimo, in " Rivista d'Italia " 15 maggio 1914; A. Vezin, in " Deutsches Dante Jahrbuch " XXIII (1941) 106 ss.; N. Sapegno, in Lett. Scaligera I 51-71; S. Vazzana, Torino 1965; G. Padoan, in Nuove lett. I 47-71. Tra gli studi particolari: F. Lanci, Degli ordinamenti ond'ebbe informata D. la prima cantica della D.C., Roma 1855; G. Faucher, Accidioso o invidioso fummo, Napoli 1892; N. Zingarelli, Gli sciagurati e i malvagi dell'Inferno dantesco, in " Giorn. d. " I (1894) 252 ss.; G. Trenta, Gli ignavi e gli accidiosi dell'Inferno dantesco, ibid. 513 ss.; G. Del Noce, Lo Stige dantesco e i peccatori dell'Antilimbo, Città di Castello 1895; R. Mondolfi, I vili, gli accidiosi e gli ignavi nei due regni della pena, in " Giorn. d. " VI (1898) 82 ss.; E. Sannia, Gli spiriti dell'antinferno, in " Rass. Critica Letter. Ital. " VI (1901); F. Biondolillo, D. nell'antinferno, in " Fanfulla della Domenica " 7 luglio 1912 (poi in Con D. e Leopardi, Palermo 1915); F. Flamini, Gli afilotimi e i magnanimi, ibid. 30 novembre 1913; F. Bartoli, A proposito dei vili e degli uomini gloriosi del II e IV canto dell'Inferno, ibid. 8 agosto 1915; L. Cucolo, D. e gli ignavi, Campagna 1921; G. Busnelli, recens. a R. De Mattei, " Misericordia e giustizia " nella Patristica e in D., in " Studi d. " XXIII (1938) 131 ss.; T. Silverstein, Did D. know the vision of St. Paul?, in " Harward Studies and Notes in Philology and Literature " XIX (1937) 231 ss.; A. Hell, D. und die Unentschiedenheit, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXIII (1960) 94 ss.; B. Nardi, Gli angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, in Lect. Siciliana, Trapani 1951 (poi in Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, 331-355); V. Russo, Sussidi di esegesi dantesca, Napoli 1966, 9-32; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 315-454 (con ampia bibl.).