Meridionale, questione

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Meridionale, questione

GGuido Pescosolido

di Guido Pescosolido

Meridionale, questione

sommario: 1. Un problema antico, controverso e irrisolto. 2. Nord e Sud all'inizio del XX secolo. 3. Le strategie meridionalistiche nel XX secolo. 4. Da guerra a guerra. 5. Le strategie meridionalistiche del secondo dopoguerra. 6. L'intervento straordinario. 7. Dopo l'intervento. □ Bibliografia.

1. Un problema antico, controverso e irrisolto

Con l'espressione 'questione meridionale', o 'questione del Mezzogiorno', si è indicato, a partire dall'Unità d'Italia, un insieme di problemi posti dall'esistenza, nello Stato unitario, di una macroarea costituita dalle regioni dell'ex Regno delle Due Sicilie, la quale, in un contesto geomorfologico e climatico marcatamente diverso da quello del Centro-Nord della penisola, presentava un più basso livello di sviluppo economico, un più arretrato sistema di relazioni sociali, una più lenta e contrastata evoluzione di importanti aspetti della vita civile. Già alla fine del XIX secolo l'entità e la natura di queste differenze erano tali da far parlare di 'due Italie', le quali, per di più, avevano preso da tempo a guardarsi con forte antipatia e a giudicarsi con crescente disistima e sospetto. In settori non marginali dell'opinione pubblica e della cultura settentrionali e meridionali, quando non si giungeva a teorizzare razzisticamente l'origine delle differenze, esisteva comunque un clima di diffidenza e ostilità, che ha poi continuato a costituire sino ai nostri giorni una componente non secondaria della questione meridionale, in aggiunta a quelle economico-sociali, e un fattore di debolezza del grado di coesione della comunità nazionale.

Fattori politici, economici, sociali, antropologici, culturali e persino psicologici si sono dunque intrecciati, fin dall'Unità, nel complesso groviglio meridionalistico, con incidenza diversa e mutevole nel tempo, ma senza che mai si sia riusciti a realizzare una condizione di vita nelle regioni meridionali per cui si potesse parlare di un annullamento completo del divario socio-economico e civile tra Nord e Sud, e quindi di una soluzione definitiva di quella che è rimasta, nell'arco di 140 anni di vita unitaria, la maggiore questione irrisolta della storia nazionale italiana. Ciò non significa che le condizioni di vita nel Mezzogiorno, in assoluto, non siano migliorate in modo radicale. Quello che non è cambiato, se non in misura assai contenuta, è il dislivello economico e sociale tra le due macroaree, misurato in termini di reddito e di altri fondamentali parametri della vita economica e civile.

La riflessione su entità, natura, cause e possibili rimedi della povertà e dell'arretratezza delle regioni meridionali era stata avviata in modo sistematico sin dagli anni settanta dell'Ottocento e, all'inizio del secolo XX, era giunta a una svolta analitica e operativa che conteneva ormai tutti, o quasi, i fondamenti concettuali e dialettici che sarebbero stati poi approfonditi e discussi sino ai nostri giorni. Ruolo dello Stato unitario, influenze del liberismo e del protezionismo, funzionalità allo sviluppo capitalistico del Nord industriale di un Mezzogiorno pervicacemente e marcatamente agricolo-commerciale, proposte operative volte ad alleviare la condizione di arretratezza della vita meridionale, erano le questioni stabilmente al centro di un dibattito ricco e serrato, con il quale la storiografia e la riflessione meridionalistica del XX secolo hanno continuato costantemente a confrontarsi.

Il Mezzogiorno ha costituito, nella storia unitaria, un impedimento per un Nord lanciato con le sue sole forze sulla strada della modernizzazione, oppure ha giocato un ruolo funzionale, seppure non decisivo, per la modernizzazione e la rincorsa ai paesi più progrediti d'Europa, che il Nord da solo non era stato in grado di avviare prima dell'Unità d'Italia e della creazione di un mercato su scala nazionale? Non solo il meridionalismo dei primi anni del secolo, ma l'intera storiografia del Novecento si è divisa e scontrata su questo interrogativo. Una parte di essa ha attribuito scarso peso all'apporto del Mezzogiorno allo sviluppo del capitalismo settentrionale (Luciano Cafagna, Vera Zamagni); un'altra parte, invece, recependo lasciti sia del meridionalismo liberista (Antonio De Viti De Marco, Giustino Fortunato, Luigi Einaudi) sia di quello di matrice radicale e socialista (Francesco Saverio Nitti in gioventù, Ettore Ciccotti, Gaetano Salvemini, Guido Dorso), ha indicato nello sfruttamento coloniale del Mezzogiorno un effetto perverso delle scelte politiche protezionistiche dello Stato liberale, a favore dell'industrializzazione del solo Nord e con effetti distorsivi sull'intero sviluppo capitalistico italiano (Antonio Gramsci, Emilio Sereni, gran parte della storiografia italiana di area comunista del dopoguerra); altri studiosi, infine, raccogliendo ed elaborando la riflessione del Nitti maturo e recependo alcuni concetti della teoria economica anglosassone dello sviluppo dei paesi second comer (Ragnar Nurkse, Alexander Gerschenkron, Arthur W. Lewis, Joan Robinson), hanno visto un nesso organico, almeno nel periodo 1861-1915, tra lo sviluppo agricolo e ritardato del Mezzogiorno, la politica protezionista successiva al 1887 e l'avvio dello sviluppo industriale e capitalistico italiano concentrato nel Nord (Rosario Romeo, Francesco Compagna, Giuseppe Galasso, Guido Pescosolido). Tuttavia, a differenza di quella di area comunista e anche di quella più dottrinariamente liberista, questa storiografia ha ritenuto ineludibili le scelte politiche del regime liberale e il sacrificio del Mezzogiorno, ai fini dei superiori interessi nazionali legati all'irrinunciabilità di una rapida industrializzazione, grazie alla quale soltanto, in una seconda fase, si sarebbe potuto coinvolgere in uno sviluppo risolutivo lo stesso Mezzogiorno attraverso una politica di intervento straordinario. Tale politica non si è rivelata in grado di annullare il divario, ma resta a tutt'oggi quella che ha consentito al Mezzogiorno i progressi più vistosi dell'intera sua storia contemporanea, in termini sia assoluti che relativi rispetto al livello di sviluppo del Nord e delle aree più progredite d'Europa.

Di recente, muovendo da una suggestione di Giuseppe Giarrizzo (v., 1992), alcuni studiosi gravitanti intorno all'IMES (Istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali) hanno negato l'unità indifferenziata dell'arretratezza meridionale, fino a vederla non come una condizione storica reale, ma come una costruzione del meridionalismo, strumentale sin dall'Ottocento agli interessi politici della destra storica e poi a quelli della sinistra, e, nel dopoguerra, a quelli del sottobosco clientelare che si alimentava delle risorse dell'intervento straordinario. È tuttavia una posizione che trova troppe smentite nell'apparato statistico e nella letteratura sul sottosviluppo meridionale, accumulata in oltre un secolo di riflessione sui problemi del Mezzogiorno.

2. Nord e Sud all'inizio del XX secolo

All'inizio del Novecento - superate ormai da tempo le difficoltà di ordine esclusivamente politico sorte all'indomani dell'Unità dalla necessità di amalgamare nel nuovo quadro unitario le istituzioni di un Regno, come quello delle Due Sicilie, antico di secoli, represso il brigantaggio e tolta qualunque illusione alle velleità di ritorno borbonico - il problema del Mezzogiorno si configurava in modo ormai esclusivo nei termini di una crescente arretratezza economica e sociale nel quadro di un processo di sviluppo capitalistico che aveva assunto su scala nazionale caratteri e ritmi rivoluzionari.

Se è vero che la misura del reddito pro capite offre la determinazione più attendibile e rappresentativa dell'entità del divario economico e sociale, poiché la maggior parte dei beni necessari alla vita della popolazione passa attraverso il mercato e ha un prezzo, allora, agli inizi del Novecento, l'arretratezza del Mezzogiorno rispetto al Nord aveva assunto dimensioni mai toccate prima, nonostante i notevoli progressi in termini assoluti, e a volte anche relativi, realizzati su molteplici fronti.

I miglioramenti più significativi erano stati conseguiti nella costruzione di infrastrutture ferroviarie. Nel 1912 l'estensione della rete meridionale era riuscita a ridurre il pesantissimo divario accusato, rispetto al Nord, nel 1861, quando esistevano 100 km di ferrovie nel Sud contro circa 2.000 km nel Nord. La rete ferroviaria del Nord, che nel 1886 era estesa il doppio rispetto a quella del Mezzogiorno, nel 1912 la superava solo del 40°. Il chilometraggio in rapporto alla popolazione, che nel 1886 era nel Nord pari a 1,3 volte quello del Mezzogiorno, nel 1912 era addirittura inferiore a quello del Mezzogiorno, con 47,8 km ogni 100.000 abitanti contro 53,4.

Macroscopiche però restavano le distanze in altri aspetti della vita civile, primo fra tutti quello dell'alfabetizzazione. Certo, il tasso di analfabetismo dell'86° accusato dal Mezzogiorno nel 1861 era ormai lontano; e tuttavia nel 1911 la percentuale degli analfabeti sulla popolazione in età scolare era nel Sud ancora pari al 59° del totale, mentre nel Nord era del 31° e in Inghilterra l'analfabetismo era di fatto scomparso, così come in Austria, Francia e Belgio.

Il dato più indicativo sull'entità del divario era tuttavia quello del reddito e della struttura produttiva. Il reddito pro capite meridionale, pur accresciuto in valore assoluto rispetto al 1861, nel 1911 corrispondeva a poco più del 60° di quello del Nord, mentre intorno al 1861 si aggirava intorno all'80°. L'allargamento del divario era avvenuto quasi per intero dopo la metà degli anni ottanta dell'Ottocento ed era stato prodotto dalla sensibile differenziazione della struttura produttiva delle due macroaree. Nel 1861 le due economie, meridionale e settentrionale, erano entrambe prevalentemente agricole e, nonostante la differenza nella distribuzione della proprietà fondiaria e nel sistema dei rapporti produttivi e sociali, i livelli di produttività erano abbastanza vicini. Nel 1913, invece, la produttività dell'agricoltura settentrionale era divenuta nettamente superiore a quella meridionale. La cerealicoltura capitalistica del Nord, a fronte dei pur non trascurabili miglioramenti del latifondo meridionale, aveva utilizzato in modo ottimale le plusvalenze assicurate dal dazio sul grano introdotto nel 1887, realizzando riqualificazioni fondiarie e incrementi di produttività che la collocavano in posizioni di primato non solo in Italia, ma anche in Europa. Le colture specializzate meridionali, per quanto ancora forti sui mercati esteri, avevano subito, specie quelle vitivinicole, i contraccolpi della guerra commerciale con la Francia e della forte concorrenza da parte di prodotti agricoli di altri paesi mediterranei. Ma, soprattutto, nel Nord era nato un sistema industriale moderno pressoché inesistente nel 1861, e nell'area del triangolo Milano-Torino-Genova era sorta una società industriale radicalmente diversa da quella persistentemente agricola del Mezzogiorno. Tra il 1903 e il 1911, la percentuale degli esercizi industriali del Centro-Nord passò dal 58° al 68° del totale nazionale. La qualità e la dimensione degli impianti aggravavano ulteriormente la differenza meramente statistica del numero degli esercizi.

Una corrente migratoria verso l'estero, avviatasi in misura consistente sin dalla seconda metà degli anni ottanta dell'Ottocento, portò nel primo quindicennio del XX secolo oltre quattro milioni di meridionali a emigrare permanentemente all'estero, per lo più oltreoceano. Il Mezzogiorno era ormai divenuto il mercato dei prodotti industriali settentrionali, per il cui acquisto reperiva i mezzi di pagamento - in Italia e all'estero - vendendo i prodotti delle sue colture pregiate (vino, agrumi, mandorle, olio) e ricevendo valuta estera attraverso le rimesse degli emigrati. Era un ruolo attivo, tutt'altro che parassitario, di primaria importanza per lo sviluppo dell'industria settentrionale, alla quale non si può certo disconoscere la capacità di aver saputo sfruttare al meglio i vantaggi naturali di cui disponeva, ma che pure - finché non aveva avuto la riserva protetta del mercato nazionale, di cui quello meridionale era parte integrante e importante - non era stata in grado di avviare un recupero significativo in materia di industrializzazione rispetto ai paesi più avanzati. Era però un ruolo, quello del Mezzogiorno, che, nonostante il dinamismo della sua agricoltura e quello dei commerci a essa collegati, non lasciava intravedere troppe possibilità di evitare che, senza interventi correttivi, il divario di reddito e di ricchezza rispetto al Nord non solo non si riducesse, ma si allargasse ulteriormente.

3. Le strategie meridionalistiche nel XX secolo

I rimedi proposti dai primi meridionalisti dell'Ottocento - che non facevano grande affidamento su un'eventuale azione politica dal basso (riforma dei contratti agrari, facilitazioni creditizie, alleggerimento del carico fiscale) - miravano, quali misure di buongoverno, a promuovere la trasformazione e il progresso dell'agricoltura e della società rurale del Mezzogiorno. Con tali rimedi il rapporto con il Nord era stato investito solo in misura marginale. All'inizio del XX secolo, invece, la critica al protezionismo doganale e ai blocchi sociali di cui esso era espressione (industriali e operai del Nord, latifondisti e piccola borghesia del Sud) ricevette grande attenzione nelle opere dei meridionalisti di quasi ogni tendenza ideale e politica. Da Einaudi a Fortunato, da De Viti De Marco a Salvemini, e successivamente da Gramsci a Dorso e a Luigi Sturzo, tutti videro nella politica protezionista non solo una strategia inidonea a promuovere uno sviluppo industriale fisiologico e armonico con le naturali predisposizioni dell'economia italiana, ma anche lo strumento principale di una politica economica che favoriva un'industrializzazione artificiosa e 'innaturale' del Nord a spese e a danno del Mezzogiorno, saccheggiato dalla politica fiscale del governo e ridotto a mercato coloniale del capitalismo settentrionale.

La svolta più radicale nella storia dell'analisi meridionalista e delle strategie di attacco della questione meridionale si ebbe tuttavia con Francesco Saverio Nitti, il quale sostenne che la scelta protezionistica, pur svantaggiando il Mezzogiorno e favorendo il Nord, era stata tuttavia una scelta obbligata nel superiore interesse della collettività nazionale e, alla lunga, dello stesso Mezzogiorno. Nitti, dopo una prima fase liberista e un importante tentativo di misurare l'entità del drenaggio di risorse dal Sud verso il Nord realizzato attraverso la leva fiscale e la spesa pubblica nei primi quarant'anni di vita unitaria, approvò la scelta del protezionismo e il modello di sviluppo industriale da esso garantito, accettando anche i prezzi pagati per entrambi dal Mezzogiorno. Egli riteneva comunque che fosse ormai tempo di occuparsi dell'arretratezza meridionale con l'attuazione di un programma di più capillare infrastrutturazione, controllo delle acque, elettrificazione e industrializzazione. Per la prima volta veniva asserito che la soluzione decisiva del problema meridionale non dipendeva tanto dalla trasformazione sociale delle campagne, quanto dall'industrializzazione anche del Mezzogiorno. E per la prima volta veniva individuata una strategia diversa da quella degli sgravi fiscali o di cambiamento del quadro legislativo nazionale, chiedendo e ottenendo il ricorso in modo abbastanza sistematico allo strumento della legislazione speciale, appositamente mirata a promuovere lo sviluppo industriale anche delle regioni meridionali e a correggere gli effetti distorsivi e squilibranti prodotti dalla legislazione ordinaria e dallo sviluppo capitalistico nazionale.

La legge speciale per l'incremento industriale di Napoli del 1904, che portò alla creazione dello stabilimento siderurgico di Bagnoli, fu quella che nel modo più compiuto realizzò questa rivoluzione strategica, mentre le altre leggi speciali (per la Basilicata nel 1904, per le province meridionali nel 1906, per la sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani nel 1911) puntarono alla creazione anzitutto di infrastrutture, servizi e miglioramenti in campo agricolo. Risultato di grande rilievo di queste iniziative fu la costruzione dell'acquedotto pugliese e della direttissima Roma-Napoli.

Liberisti come De Viti De Marco e Fortunato, Salvemini e Arturo Labriola criticarono piuttosto duramente la nuova strategia. Essa tendeva a rimediare a posteriori e solo parzialmente agli effetti perversi di uno sviluppo squilibrato e penalizzante per l'area meridionale, mentre venivano lasciati intatti la cornice politico-istituzionale e i meccanismi economici che quegli effetti generavano. La restituzione al Mezzogiorno di una parte minima di quanto il sistema fiscale, il protezionismo e la spesa pubblica continuavano a sottrargli sembrava fatta non al fine dichiarato di correggere uno squilibrio, ma allo scopo, taciuto ma chiaro, di acquisire consenso e controllo sociale attraverso l'elargizione clientelare di concessioni e favori.

Una denuncia, questa, e una critica che sarebbero state riproposte, nel secondo dopoguerra, in termini pressoché identici a proposito dell'intervento straordinario. Se si considera tuttavia che l'alternativa liberista praticata dal governo italiano fino agli anni ottanta aveva promosso un equilibrato sviluppo agricolo sia del Nord che del Sud, ma nessun recupero da parte di entrambe le macroaree sul fronte dell'industrializzazione europea, si fa forte il timore che uno smantellamento dell'impalcatura protezionistica e un impegno meno accentuato sul piano della spesa pubblica avrebbero comportato una riduzione del divario, non tanto in virtù di un superiore dinamismo del Sud, quanto per effetto di un più lento sviluppo del Nord. I limitati esiti della legislazione speciale dei primi anni del secolo, peraltro di recente energicamente rivalutati, possono essere attribuiti non tanto o non solo alla natura stessa della strategia, quanto alla modestia delle risorse impegnate, alla limitata efficacia dei singoli provvedimenti e alle scarse capacità di applicazione di essi da parte della classe dirigente nazionale e locale.

4. Da guerra a guerra

Con la grande guerra il dislivello Nord-Sud aumentò ulteriormente. Le esigenze belliche stimolarono un'espansione abnorme dell'industria degli armamenti, che era localizzata prevalentemente nel Nord. Il Sud, dopo aver contribuito a finanziare quell'espansione, nel dopoguerra si trovò, di fatto, a farsi carico anche degli oneri derivanti al pubblico erario dal dissesto delle industrie belliche e della Banca di Sconto, che più di tutte si era esposta nel loro finanziamento. Dopo la crisi del 1929, la ristrutturazione industriale realizzata attraverso la creazione dell'IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e dell'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), ebbe per il Mezzogiorno costi analoghi a quelli del salvataggio della Banca di Sconto. Nel frattempo, l'inflazione postbellica aveva volatilizzato gran parte dei depositi postali dei risparmiatori meridionali, depositi cospicuamente alimentati dalle rimesse degli emigrati, e il blocco dell'immigrazione deciso dagli Stati Uniti negli anni venti aveva privato il Mezzogiorno di quello che nei trent'anni precedenti era stato un fattore fondamentale di riequilibrio nel rapporto tra popolazione e risorse, nonché di miglioramento del livello di vita della popolazione.

Dagli anni venti in poi, chiusa l'emigrazione e avviata la politica demografica del regime, la crescita della popolazione nel Sud fu maggiore che nel Nord. Il censimento del 1951 rilevava una popolazione del Sud pari al 37° del totale, contro il 35,4° del 1936 e il 35,3° del 1921. In valori assoluti la popolazione del Mezzogiorno era passata tra il 1931 e il 1951 da 14,7 a 17,7 milioni di abitanti, con un incremento triplo rispetto al ventennio 1911-1931 assolutamente non bilanciato da un pari incremento del reddito (v. SVIMEZ, 1961).

Lo squilibrio territoriale non fu quindi minimamente attenuato e tanto meno eliminato dal fascismo, anche se non mancarono successi considerevoli nel miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie delle regioni meridionali. All'inizio degli anni cinquanta la diffusione della malaria risultava nettamente inferiore rispetto all'inizio del secolo, quando nel Mezzogiorno i morti ogni 100.000 abitanti erano 47,3, contro i 3,7 del Nord; nel 1951-1955 furono 0,19 nel Mezzogiorno contro 0,08 nel Nord (v. Vaccaro, 1995). Quello della lotta alla malaria fu però uno dei pochi indicatori di segno nettamente positivo del periodo fascista. In realtà, tutto il periodo compreso tra le due guerre fece registrare in termini assoluti modesti progressi economici e sociali e un'ulteriore e generalizzata crescita del divario Nord-Sud. La mortalità nel primo anno di vita - che nel 1900-1902 era stata nel Mezzogiorno di 178‰ (sui nati vivi) contro 166 nel Nord - nel 1947-1949 era ancora del 90‰, e la distanza dal Nord in questo caso era cresciuta: il tasso del Nord era sceso, infatti, al 65‰, portando il distacco da 12 a 25 punti (v. SVIMEZ, 1954). Nel 1951 l'analfabetismo meridionale era sceso al 24,4°: il divario si era ridotto rispetto a mezzo secolo prima, ma non di molto, poiché nel Centro-Nord nel frattempo era diminuito al 6,4° (v. SVIMEZ, 1961). Lo scarto Nord-Sud aveva ancora dimensioni non troppo diverse da quelle del 1861 e, soprattutto, a metà del XX secolo una società con un quarto della popolazione in età scolare ancora analfabeta andava considerata, in assoluto, in una condizione di grave arretratezza civile.

In materia di viabilità ordinaria, tra il 1910 e il 1950 il divario Nord-Sud tornò a crescere in rapporto sia alla superficie che alla popolazione (ibid.). I veicoli assoggettati a tassa di circolazione nel 1951 erano nel Nord 5,3 volte quelli del Mezzogiorno e il corrispondente rapporto nei tassi di diffusione per abitante era di 3,1 contro 1. Inoltre, il ritardo del Mezzogiorno si riproponeva anche in una materia come quella delle strade ferrate, nella quale, assai più di quanto era avvenuto nella viabilità ordinaria, prima della grande guerra erano stati realizzati progressi decisivi per il recupero completo del ritardo esistente nel 1861. Durante il periodo fascista l'inferiorità meridionale, eliminata nella rete a binario unico, riapparve nelle linee a doppio binario e in quelle elettrificate. Nel 1948 le linee a doppio binario misuravano nel Mezzogiorno 411 km, pari al 10,3° del totale nazionale, e la rete ferroviaria accusava, in percentuale, un ritardo rispetto al Nord solo di poco inferiore a quello che si era proposto nel 1861 nella rete a binario unico. Né inferiore risultava la differenza nel livello di elettrificazione della rete ferroviaria: contro il 44,8° della rete centro-settentrionale stava il 16,5° di quella meridionale (ibid.).

L'uso di energia elettrica, che era e resta uno degli indici più significativi del grado di modernizzazione dell'apparato produttivo e dello sviluppo civile nel suo insieme, presentava squilibri impressionanti. Nel 1948-1949 i consumi di energia elettrica per abitante nel Mezzogiorno erano di 128,7 kWh, contro i 400,6 della media nazionale e i 563,9 del Nord. Il consumo pro capite nel Mezzogiorno era quindi pari al 22,8° di quello del Nord. In termini assoluti il consumo era cresciuto rispetto ai 112,7 kWh del 1937-1938, ma in termini relativi la situazione era peggiorata, perché nell'anteguerra il consumo nel Mezzogiorno era pari al 24,9° di quello del Nord. Per di più il consumo di energia elettrica delle officine avveniva per l'80° nel Nord e solo per il 20° nel Mezzogiorno, il che costituiva un ulteriore e significativo segnale della natura e dell'entità dello squilibrio esistente nella struttura produttiva e in quella sociale dell'Italia del dopoguerra.

Guerra e ricostruzione avevano ancor più rafforzato la preminenza industriale del Nord. Nel 1939 l'83,4° dei capitali investiti nell'industria si trovava al Nord, il 16,6° nel Mezzogiorno. Gli addetti all'industria erano, tra Nord e Sud, nel rapporto all'incirca di 3 a 1 (v. SVIMEZ, 1954). Nel 1951 il capitale nominale delle società per azioni industriali era per il 93° localizzato nel Nord e il censimento industriale di quell'anno vedeva salire la percentuale degli addetti alle attività industriali del Nord all'83° del totale nazionale, mentre quella del Mezzogiorno scendeva al 17° (ibid.). L'industria meridionale era dedita soprattutto alla trasformazione di prodotti agricoli e della pesca, mentre continuava ad accusare ritardi impressionanti nei settori classici sia della prima che della seconda industrializzazione. Nella produzione di acciaio, ad esempio, dove pure il Mezzogiorno vantava un complesso come quello di Bagnoli, nel 1948 il Nord forniva il 94° della produzione nazionale, il Sud il restante 6°; nella produzione di filati di cotone e misti le rispettive quote nel 1949 erano del 96,5° e del 3,5°; in quella di cellulosa e carta nel 1950 erano del 98° e del 2°; in quella del cemento nel 1948 erano del 78° e del 22°; nella produzione di energia elettrica erano dell'89° e dell'11° (ibid.). Inoltre, l'industria settentrionale fruì dell'84,3° degli aiuti attivati dai provvedimenti legislativi per la ricostruzione varati tra il 1944 e il 1950. Non stupisce, quindi, che nel 1946-1948 la disoccupazione nel Mezzogiorno crescesse paurosamente giungendo fino al 50° in alcune zone della Puglia e al 33-37° in Calabria e Lucania, e che versasse in condizioni di povertà oltre il 50° dei coltivatori diretti contro il 6° di quelli del Nord, e il 78° dei mezzadri e coloni contro il 7° di quelli settentrionali.

Per la prima volta dopo l'Unità, il reddito pro capite del Mezzogiorno non solo accusava un accresciuto divario da quello del Nord, ma risultava anche diminuito in termini assoluti. Nel 1951 il reddito pro capite del settore privato era nel Mezzogiorno pari all'88° di quello del 1928, mentre quello del Nord era superiore del 2° (v. SVIMEZ, 1961). Sempre nel 1951, il reddito netto globale per abitante nel Mezzogiorno era pari al 53° di quello del Nord e al 64° di quello medio nazionale, rispetto al quale quello del Nord era pari al 121°. Il divario, quindi, rispetto all'inizio del secolo, aveva continuato a crescere e all'indomani della seconda guerra mondiale toccava i suoi massimi storici (v. SVIMEZ, 1954).

Recenti riflessioni sulla condizione meridionale hanno proposto di considerare il Mezzogiorno non come un blocco unitario e compatto di arretratezza, ma come un insieme articolato e differenziato di realtà regionali e subregionali. Tuttavia, neppure disarticolando i dati in tal senso si riescono a trovare eccezioni significative al quadro di generale arretratezza delineato dai dati aggregati. All'indomani della seconda guerra mondiale nessuno degli indicatori più importanti dei livelli di sviluppo segnalava, per alcuna regione meridionale, una situazione migliore della più arretrata regione centro-settentrionale. Nel 1951 le regioni meridionali con il più basso tasso di analfabetismo erano la Campania e la Sardegna, rispettivamente con il 23° e il 22°. Entrambe, tuttavia, erano più arretrate dell'Umbria, che con il 14,2° era la regione con il più elevato tasso di analfabetismo dell'Italia centro-settentrionale (v. SVIMEZ, 1961). Sempre nel 1951, solo il reddito pro capite globale netto della Sardegna superava quello della regione a più basso reddito del Centro-Nord, ossia le Marche; mentre tutte le altre regioni centro-settentrionali vantavano un reddito per abitante più alto di quello di ciascuna delle regioni del Mezzogiorno. Anche il tasso di differenziazione interregionale era nel Sud meno accentuato che nel Nord: tra il reddito pro capite regionale più alto del Mezzogiorno, quello della Sardegna, e il reddito più basso, quello della Calabria, correva una differenza assai minore di quella esistente tra il reddito delle Marche e quello della Val d'Aosta, che erano le regioni a più basso e più alto reddito per abitante del Centro-Nord (ibid.).

5. Le strategie meridionalistiche del secondo dopoguerra

Questo stato di cose giustificava la ripresa del discorso meridionalistico, avvenuta nel Congresso di Bari del 1944, cui parteciparono tutte le forze rappresentate nei Comitati di Liberazione Nazionale (CCLN) e un alto numero di studiosi e politici indipendenti (v. Centro permanente ..., 1995). Apparvero allora fuori causa le strategie di matrice liberista che non ritenevano utile alcun intervento, fidando solo nello sviluppo spontaneo del capitalismo, settentrionale o meridionale che fosse, e che, in definitiva, persistevano nella convinzione che il destino economico del Mezzogiorno non potesse essere che agricolo, tutt'al più integrato con le prospettive di uno sviluppo turistico il quale, nella realtà dei fatti, si rivelò poi largamente inadeguato a evitare il gigantesco spostamento migratorio degli anni cinquanta e sessanta. Lo stesso Einaudi, più che insistere sulla negazione di principio della politica meridionalistica, si limitò a segnalare tutta la portata delle difficoltà che essa avrebbe dovuto affrontare, i pericoli di distorsioni e degenerazioni che avrebbe potuto causare e, quindi, la necessità della massima correttezza amministrativa.

A fronte delle posizioni di intervento minimale della destra, si riproponevano le differenti visioni strategiche di chi - fidando su un'azione politica promossa dal basso - continuava a porre al centro della questione meridionale il problema della terra e della riforma agraria, perdendo parzialmente di vista il vero fattore che relegava il Mezzogiorno nella sua condizione di arretratezza, cioè la sua mancata industrializzazione in un'Europa e in un mondo tesi allo sviluppo industriale. Non c'è dubbio che tali visioni strategiche toccavano una delle corde dolenti della condizione meridionale e un problema reale dell'economia del Mezzogiorno, visto che il Nord superava ormai nettamente il Mezzogiorno non solo nel valore della produzione industriale, ma anche di quella agricola. Tuttavia, la realizzazione della riforma agraria - che attraverso la 'legge Sila' e la 'legge stralcio' assestò un duro colpo alla proprietà terriera assenteista, espropriata di oltre 400.000 ettari di terre assegnate a circa 90.000 coloni - fu ben lungi dall'incidere in modo risolutivo sull'avvio di un processo di sviluppo autopropulsivo. In realtà essa rispose soprattutto a motivazioni di ordine politico e diede una risposta immediata alle aspettative secolari di accesso alla terra delle masse contadine meridionali; ma si vide abbastanza presto che la soluzione del problema economico e la rimozione del divario, nei termini in cui si poneva nel 1948, richiedevano interventi ben più complessi, soprattutto nel settore secondario e nel terziario.

Era stata questa l'intuizione di Nitti all'inizio del secolo, un'intuizione accantonata durante il fascismo, sostanzialmente estranea al grosso della sinistra comunista, non adeguatamente considerata da una parte importante del meridionalismo democratico laico e cattolico, addirittura vista come un pericolo dai difensori della civiltà contadina, come Carlo Levi e Rocco Scotellaro. Il PCI, che instaurò all'interno del meridionalismo di sinistra una larga egemonia, ripropose sostanzialmente immutata la linea gramsciana di alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud già teorizzata all'indomani del primo conflitto mondiale. Cercò anche di allargare il fronte rivoluzionario agli strati intermedi produttivi delle città e delle campagne, schiacciati rispettivamente dai gruppi monopolistici e dagli agrari 'assenteisti', ma l'operazione rimase al livello di enunciazione generica senza produrre modifiche concrete nella strategia meridionalistica del Partito, la quale continuò a tenersi saldamente e pressoché esclusivamente imperniata sulla parola d'ordine della 'terra ai contadini' e della riforma agraria quale strumento di rigenerazione dell'intera società meridionale e nazionale. Fu in nome di quella parola d'ordine e della prospettiva rivoluzionaria a essa legata che conseguentemente il Partito Comunista assunse una posizione di critica pressoché indiscriminata verso quasi tutti i provvedimenti varati a favore del Sud, inclusa l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, alla quale si opposero per l'appunto socialisti e comunisti guidati da Giorgio Amendola. Riprendendo argomentazioni che erano state usate all'inizio del secolo contro la legislazione speciale giolittiana, Amendola respinse con energia, in un noto discorso al Parlamento, un intervento che egli definì di natura meramente tecnica ed economicistica, quale quello prospettato con l'istituzione della Cassa, considerandolo del tutto inidoneo a risolvere una problematica che andava affrontata sul terreno di un generale cambiamento degli assetti sociali e politici del paese.

Il meridionalismo democratico facente capo a Manlio Rossi Doria svolse a sua volta un'importante opera di aggiornamento e sviluppo del riformismo liberale prefascista. Restando ancorato all'economia di mercato, esso auspicava un processo di radicale rinnovamento del ceto politico meridionale e poneva come proprio modello di riferimento le grandi democrazie anglosassoni e le esperienze in esse realizzate di sistemazione di aree agricole arretrate. Le soluzioni prospettate erano di grande modernità, ma tutte indirizzate al miglioramento del mondo agricolo e incentrate sul problema della riforma agraria, alla quale peraltro non si conferiva, realisticamente, un significato salvifico, ma che comunque era vista come la premessa fondamentale per incidere in modo radicale nell'ambito sociale delle campagne, che nell'immediato rappresentavano il grosso della società e dell'economia del Mezzogiorno. Oltre il suo 'grande disegno' di politica agraria, Rossi Doria indicava, come soluzione dei residui problemi del Mezzogiorno, l'emigrazione più che l'industrializzazione. D'altronde, anche esponenti importanti del mondo cattolico, riprendendo la vecchia linea di Sturzo, continuavano a vedere nella formazione di una piccola proprietà direttamente coltivatrice lo strumento non solo per creare una democrazia rurale nel Mezzogiorno e in Italia, ma anche la chiave per superare il blocco della modernizzazione e della democratizzazione della società rurale.

Attenzione al problema dell'industrializzazione e dello sviluppo delle città venne data invece dal gruppo dei dirigenti dell'IRI e, a partire dal 1946, dai fondatori della SVIMEZ (Rodolfo Morandi e Pasquale Saraceno), nonché dai meridionalisti gravitanti intorno alla rivista "Nord e Sud" fondata da Francesco Compagna, con Vittorio De Caprariis, Giuseppe Galasso e Rosario Romeo (v. Galasso, 1978; v. Zoppi, 1998) e contrapposta a "Cronache meridionali", diretta da Giorgio Amendola, Mario Alicata e Francesco De Martino. In quegli ambienti venne recuperato e sviluppato il meglio della lezione di Nitti; furono effettuate analisi diversificate e articolate della realtà meridionale e messe a punto strategie di intervento che sono entrate a far parte del patrimonio più alto della nostra cultura nazionale, economica, politica ed etico-civile.

6. L'intervento straordinario

Lo strumento fondamentale della nuova strategia, in aggiunta al varo delle prime leggi di riforma agraria, fu la Cassa per il Mezzogiorno, un ente creato nel 1950 appositamente per gestire, con un elevato grado di autonomia amministrativa e decisionale, le risorse straordinarie, cioè erogate in aggiunta a quelle ordinarie, per lo sviluppo delle regioni meridionali.

La portata e i risultati dei primi provvedimenti per il Mezzogiorno - tesi quasi esclusivamente alla realizzazione di un forte impegno in materia di bonifiche, irrigazioni, infrastrutture e opere pubbliche - non vanno sottovalutati, anche se non affrontarono immediatamente il problema dell'industrializzazione (v. Vaccaro, 1995; v. Cafiero, 1996): anzitutto per il principio ispiratore, che traeva origine da quello della legislazione speciale di inizio secolo e che ora si traduceva in intervento straordinario mediante non solo leggi, ma anche istituzioni apposite; in secondo luogo, per l'oggettiva rilevanza della modernizzazione delle strutture civili realizzata nei primi anni cinquanta, funzionale alla fase di profonda trasformazione economica e sociale che, a prescindere dai cambiamenti indotti dalla riforma agraria nelle aree interne, interessò anche l'agricoltura specializzata e produsse un forte sviluppo delle attività terziarie nelle aree costiere e cittadine.

D'altro canto, nel Mezzogiorno si ebbe negli anni cinquanta una nuova ondata migratoria (v. tab. I), attratta dal nuovo boom dell'industria settentrionale e dall'apertura dei mercati europei. Essa portò rapidamente alla dissoluzione della tradizionale società contadina meridionale e permise al rapporto tra popolazione e risorse di recedere dal punto drammaticamente critico nel quale si era venuto a trovare all'indomani della guerra.

Furono politiche che non portarono a una diminuzione del divario - data la rapidissima espansione economica sia delle tradizionali regioni del Nord-Ovest, sia di quelle del Nord-Est - ma che in termini assoluti invertirono la tendenza recessiva del periodo fascista, bellico e postbellico. Inoltre, esse crearono i prerequisiti per l'adozione, a partire dal 1957, di una linea strategica più specificamente industrialista.

Con la legge sulle aree e sui nuclei industriali del 1957 si aprì la seconda fase dell'intervento straordinario. Si introdussero allora finanziamenti e sgravi fiscali per le piccole e medie industrie, e si obbligarono le imprese a partecipazione statale a collocare nel Sud il 60° dei loro nuovi impianti. L'estensione degli stessi benefici alle grandi industrie, pubbliche e private, diede luogo alla creazione di grandi complessi siderurgici, meccanici, chimici (Taranto, Brindisi, Pomigliano, Milazzo). Con un'ulteriore modifica, introdotta negli anni sessanta per ovviare alla dispersione di capitale a favore di imprese che spesso fallivano ancor prima di iniziare l'attività, l'intervento divenne più selettivo, indirizzandosi a favore delle grandi imprese dell'industria privata e delle partecipazioni statali.

I risultati della politica della Cassa e dell'intervento straordinario cominciarono a essere criticati per diversi aspetti, ma soprattutto per i bassi tassi di assorbimento di manodopera e per la scarsa capacità di promuovere iniziative spontanee collaterali. 'Cattedrali nel deserto', 'modernizzazione senza sviluppo' furono le espressioni più frequentemente usate per attaccare duramente una politica che si sarebbe rivelata anch'essa insufficiente a colmare il ritardo rispetto al Nord e che, per il grande ruolo svolto dalle partecipazioni statali, finì in non pochi casi per entrare in collisione con gruppi privati messi in difficoltà da strategie gestionali alle quali la mano pubblica consentiva il lusso di deficit di bilancio che alle imprese private non erano permessi. Fu criticata, in particolare, la scelta di puntare sulla siderurgia invece che su iniziative a più elevato tasso di assorbimento di manodopera. La sintesi di queste critiche è contenuta in un libro di Carlo Trigilia (v., 1992), secondo il quale l'intervento straordinario ebbe l'effetto perverso di deprimere le potenzialità imprenditoriali meridionali, indirizzandole verso settori artificiosi e favorendo la parte di esse meno valida e più disponibile al rapporto clientelare. Tesi che racchiude certamente una parte notevole di verità, poiché è indubbio che nel corso degli anni ottanta la politica meridionalistica finì per essere spesso uno dei terreni più estesi per l'esercizio di quella gestione rovinosa delle partecipazioni statali e del bilancio pubblico su scala nazionale che ebbe non poca parte, all'inizio del decennio successivo, nella decisione di porre fine all'esperienza dell'intervento straordinario.

Ai fini di un giudizio su una stagione storica e su una strategia estremamente complesse e controverse che sia quanto più possibile scevro da pregiudizi e omissioni, va tuttavia detto che nel periodo compreso fra gli anni sessanta e il 1973 si ebbe per la prima volta un accorciamento significativo delle distanze tra Nord e Sud e che l'emigrazione, che nel ventennio 1950-1970 aveva comportato l'abbandono delle regioni meridionali da parte di circa 4 milioni di individui, all'inizio degli anni settanta si ridusse drasticamente nella direzione dal Sud al Nord d'Italia e cessò quasi del tutto verso l'estero. Nel 1986, a oltre 10 anni dall'esplosione della crisi petrolifera, il prodotto interno lordo pro capite del Mezzogiorno risultava più che triplicato rispetto agli anni cinquanta. L'agricoltura, che nel 1950 era il settore di attività cui era addetto oltre il 56° della forza lavoro occupata e che forniva oltre il 31° del prodotto interno lordo del Mezzogiorno, nel 1985 vedeva ridotto il suo peso a meno del 20° dell'occupazione e a meno del 10° del prodotto. Si era formato un significativo nucleo di moderna industrializzazione grazie alla crescita impressionante degli investimenti fissi che, dopo avere raggiunto nella prima metà degli anni settanta un valore pari a cinque volte quello medio degli anni cinquanta, nel 1985, dopo 10 anni di crisi, era ancora di importo quadruplo rispetto a quello degli anni cinquanta. Le condizioni di vita della popolazione erano molto migliorate, sotto il profilo sia dei consumi privati, sia di quelli pubblici essenziali. Era quadruplicato il consumo di acqua per abitante, la percentuale di abitazioni prive di servizi igienici e di elettricità era diminuita dal 30-40° al 3,4° del totale e, infine, il tasso di mortalità infantile era crollato (v. Cafiero, 2000).

Tra le cause della mancata eliminazione del divario, accanto alle disfunzioni e degenerazioni nella gestione di istituzioni e politiche dell'intervento straordinario, un posto non certo di minor rilievo occupano le crisi petrolifere degli anni settanta e segnatamente quella del 1973. A metà degli anni sessanta era finito, su scala nazionale, il miracolo economico (sviluppo rapido della produzione e del reddito nazionali in presenza di stabilità monetaria) e nel 1973 si chiuse anche la fase caratterizzata da sviluppo produttivo in presenza di inflazione, per lo più generata dalla lievitazione dei costi della forza lavoro. L'aumento dei prezzi del petrolio portò l'inflazione su valori a due cifre. La spirale inflazionistica, sommandosi agli effetti delle rigidità nell'utilizzazione dei fattori produttivi introdotte in seguito alle lotte sindacali della fine degli anni sessanta e dei primi anni settanta, fece entrare la produzione in una fase di pesante stagnazione. Di fronte alla perdita di competitività sui mercati, l'industria settentrionale si trovò nella necessità di effettuare massicci investimenti per la ristrutturazione degli stabilimenti del Nord. Per di più l'uniformità salariale tra Nord e Sud imposta dai sindacati si tradusse in un ulteriore disincentivo a investire nel Mezzogiorno, rivelandosi alla lunga un potente fattore di aumento della disoccupazione e del lavoro nero. In tale contesto i margini per continuare ad alimentare flussi di finanziamento adeguati a sostenere il recupero di produzione e reddito del Mezzogiorno rispetto al Nord si ridussero drasticamente. Fu messa in disarmo la politica meridionalistica delle partecipazioni statali sia per le degenerazioni che essa aveva prodotto, sia per l'oggettiva mancanza di risorse. Il tasso medio annuo di variazione degli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno cadde verticalmente. Dal 7,64° del 1952-1973 crollò al - 0,44° del 1974-1998. Nel contempo, il Centro-Nord registrò una flessione assai più contenuta, passando dal 6,40° del 1952-1973 all'1,31° del 1974-1998. Negli investimenti fissi per abitante, il rapporto Sud-Nord che nel 1971 era del 91,3°, nel 1980 scese al 71,6°, nel 1994 al 57,2° e nel 1996 al 57,8° (v. SVIMEZ, 2000 e 2002). Se poi si considerano separatamente alcuni dati relativi agli anni successivi al 1993, sembra difficile negare che, nel quadro della crisi generale di quegli anni, la fine dell'intervento straordinario abbia costituito un'aggravante che ancora oggi è ben lungi dall'essere rimossa dagli effetti della ripresa successiva al 1999. L'andamento dell'economia meridionale e il divario dal Centro-Nord registrati a partire dal 1993, cioè dopo la chiusura definitiva dell'intervento straordinario, sono stati, per almeno otto anni, quelli in assoluto più negativi di tutta la storia del secondo dopoguerra; al punto che a tutt'oggi, nonostante la leggera ripresa degli ultimi due anni, quella dell'intervento straordinario risulta l'unica strategia che sia stata capace di produrre, al saldo di tutti i suoi risvolti negativi e dispersivi, un sia pur parziale restringimento del divario e un cambiamento sostanziale di vita della popolazione meridionale.

Come già ricordato, dopo il 1973, quando il PIL pro capite nel Mezzogiorno raggiunse il 70° di quello nazionale contro il 116 del Centro-Nord, il divario è tornato ad allargarsi. Nel 1998 quello meridionale è sceso nuovamente al 65,6° di quello nazionale contro la risalita a 120 di quello del Centro-Nord, ma il grosso del rinnovato ritardo si è prodotto tra il 1991 e il 1998 in un contesto nel quale l'economia italiana si è sviluppata a un saggio medio annuo largamente inferiore a quello di qualunque precedente periodo del dopoguerra e inferiore di circa il 40° a quello della media europea. Gli investimenti fissi nel Mezzogiorno sono passati da un tasso dello 0,09° del 1974-1980, a uno dell'1,32% del 1981-1991 e a un pesante - 3,66° del 1992-1998; nel Nord, dall'1,72° del 1974-1980 allo 0,52° del 1992-1998. Tra il 1992 e il 1998 il PIL pro capite meridionale si è ridotto dal 69,1° al 65,6° di quello nazionale, perdendo 3,5 dei 4,5 punti percentuali persi rispetto al 1973. Rispetto al reddito pro capite del Centro-Nord, quello del Mezzogiorno è sceso dal 58,6° del 1991 al 54,9 del 1999, con un ritorno in pratica a un dislivello analogo a quello dei primi anni cinquanta. Con il 2001 si è avuto un modesto recupero al 57,3° (v. tab. II).

7. Dopo l'intervento

Oggi il Mezzogiorno - se si rapportano i suoi livelli di produzione, reddito e consumi a quelli dell'inizio degli anni cinquanta, o a quelli delle aree collocate al di sotto del livello di povertà - non può essere più definito un'area povera e tanto meno sottosviluppata. Nonostante il crollo, dopo il 1993, di molti importanti indicatori della vita economica, esso resta una delle aree del Mediterraneo che ha realizzato i più cospicui tassi di sviluppo degli ultimi cinquant'anni. Consumi e stili di vita della sua popolazione sono più vicini a quelli medi europei, in una misura del tutto impensabile all'indomani della seconda guerra mondiale. Il grado di acculturazione, le forme associative, i sistemi e il livello di accesso alle comunicazioni e agli scambi di beni materiali e immateriali sono simili a quelli del Nord. Da tempo quella meridionale non è più una società prevalentemente agricola e rurale, ma secondarizzata e terziarizzata. Se ci si attenesse ai confronti storici interni al Mezzogiorno, si potrebbe anche dire che, eliminati o quasi tutti gli indicatori di disagio materiale presenti all'inizio e nel corso del XX secolo (analfabetismo, precarietà igienico-sanitaria, latifondo, ecc.), la questione del Mezzogiorno sia stata risolta (v. tab. III). Se invece ci si attiene al divario rispetto al Nord, allora si deve dire che essa continua a esistere per molti fondamentali indicatori dell'odierna vita economica e civile, primi fra tutti quelli relativi alla struttura produttiva, al reddito, all'occupazione, ai consumi, ai sistemi di trasporto.

Né si può dire che i dati relativi al Mezzogiorno nel suo insieme siano complessivamente non rispondenti alla sua diversificata articolazione regionale. In realtà, pur sussistendo tra le regioni meridionali scarti superiori a quelli del 1951, nessuna di esse ha potuto vantare, nel 2001, un reddito pro capite più alto di quello della più debole regione centro-settentrionale, ossia l'Umbria (v. tab. IV). Segno, questo, che non è ancora pienamente attivo un meccanismo di sviluppo autopropulsivo, capace, in assenza di sostegni esterni, di reggere il ritmo di quello del Centro-Nord. Nel 1999 la disoccupazione ha raggiunto nel Mezzogiorno il 22° contro il 6,5° del Centro-Nord; nel 2002 è scesa al 18,8%, ma anche quella del Centro-Nord si è contratta al 4,8°. La disoccupazione giovanile è stata del 50,8° nel 2001, contro il 14,6° del Centro-Nord (v. tab. V). Gli stessi consumi delle famiglie meridionali, per quanto aumentati, restavano pur sempre, nel 1998, al 67,8° di quelli delle famiglie settentrionali. Se a ciò si aggiunge che la presenza di organizzazioni mafiose e malavitose in genere resta, nel Mezzogiorno, vistosamente più alta che nel resto del paese, e che ciò costituisce un forte disincentivo agli investimenti produttivi privati, allora si può dire che la questione meridionale oggi non si ripropone negli stessi termini di cinquanta e tanto meno di cento anni addietro, ma che non per questo la sua soluzione appare più semplice che in passato.

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