ROMANA, QUESTIONE

Enciclopedia Italiana (1936)

ROMANA, QUESTIONE

Walter Maturi

La questione romana, considerata come problema dell'esistenza dello Stato Pontificio, secondo autorevoli storici fu posta nel campo delle idee dal sec. XVIII, che affermò l'incompatibilità del governo ecclesiastico con le nuove tendenze della societa, e nel campo dei fatti dalla rivoluzione francese e dall'impero napoleonico, che per ben due volte abolirono il dominio temporale dei papi. Ma, nel Settecento, tanto i giansenisti quanto gl'illuministi non combattevano il potere temporale della S. Sede nell'interesse dei suoi sudditi o in vista della creazione d'uno stato nazionale in Italia, bensì per quelli che a essi parevano gl'interessi superiori della religione e della civiltà. La lotta tra la rivoluzione francese e Napoleone da un lato e il papato dall'altro, poi, ebbe spiriti, forme e proporzioni assai diverse dalla questione romana propriamente detta, la quale, invece, è da porsi essenzialmente nel problema della coesistenza a Roma d'uno stato ecclesiastico e d'uno stato nazionale italiano, che per rispettive tradizioni secolari non possono avere altro centro sicuro di vita che Roma. Intesa la questione romana nel suo vero aspetto italo-vaticano, gli storici italiani del Risorgimento e quelli che al pensiero storiografico del Risorgimento s'ispiravano (B. Malfatti, A. Crivellucci) risalivano nello studio di essa all'epoca dei Longobardi, e nelle lotte tra Longobardi, papi e Franchi sembrava loro vedere in nuce le lotte del Risorgimento tra Italiani, papi e Francesi per l'unificazione d'Italia e la difesa del dominio temporale dei papi. Ma nei loro scritti la storia della questione romana teoricamente veniva sciolta nella storia dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Italia e praticamente, nella maggior parte dei casi, non veniva neppure trattata. Tra gli storici e i pubblicisti italiani recenti, perciò, si va facendo strada il concetto che per intendere la questione romana, il meglio è entrare subito in medias res, e partire dal 1859, quando nettamente si pose il problema della cessazione assoluta del dominio temporale, o dal 1860-61, allorché Cavour in faccia all'Europa proclamò solennemente la necessità storica e politica di Roma come capitale d'Italia. Ma una maggior esattezza e giustizia storica consiglia di risalire ai moti degli stati romani del 1831 e alla fondazione della Giovine Italia per opera del Mazzini, perché questi avvenimenti rivelarono quell'insieme di esigenze spirituali, politiche, diplomatiche, ecclesiastiche, che costituirono i fondamenti della questione romana.

Se la rivoluzione francese non segna l'inizio della questione romana così come noi l'intendiamo, ne costituisce nondimeno un prologo che è indispensabile tenere presente. Nel Settecento lo stato della Chiesa appariva fondato sul più perfetto accordo tra una società che poco domandava, e un governo che poco esigeva e molto tollerava.. La rivoluzione francese ruppe l'incanto. Pio VI ebbe il torto di voler opporre la forza alla forza, si lasciò battere facilmente da Bonaparte, e, col trattato di Tolentino, intaccò il principio dell'inalienabilità e dell'indivisibilità dello Stato Pontificio: fatto d'un'importanza storica fondamentale. La fine completa, poi, del dominio temporale dei papi sotto Napoleone e l'assorbimento dei suoi territorî da parte del regno d'Italia e dell'impero francese produssero la formazione d'una borghesia produttrice, intraprendente, vaga di progredire, e d'un ceto dirigente laico notevole per intelligenza e capacità tecnica di governo (Marescalchi, Aldini). Tale ceto cercò sfuggire alla restaurazione pontificia nel 1814-15, lottando in segreto presso le diplomazie europee, ma il cardinale Consalvi riuscì a ricostituire lo stato papale così come era prima della rivoluzione francese, salvo il possesso di Avignone in Francia. In seguito, lo Stato Pontificio seppe non solo passare incolume attraverso la bufera rivoluzionaria del 1820-21, ma essere anche l'unico stato italiano che serbasse una certa indipendenza di fronte all'Austria. Ma la politica di Leone XII e di Pio VIII esasperò le forze anti-ecclesiastiche, che covavano nello stato, e provocò i moti del 1831.

Da Sisto V in poi il potere temporale dei papi si era trasformato in un potere d'indole esclusivamente etico-religiosa, che si reggeva sul pieno consenso delle moltitudini, con scarse forze materiali. Il giorno in cui con la rivolta della parte più intelligente e attiva dei suoi sudditi, tale consenso venne a mancare, il regime fu colpito al cuore. Vero è che a puntellare il dominio temporale dei papi vennero gli stati europei, ma, per essere questi divisi profondamente fra loro da interessi politici e contrasti ideologici, questo intervento presentò una serie di nuovi inconvenienti, che finirono con l'esasperare le ragioni profonde della crisi. All'occupazione austriaca delle Legazioni, la Francia di Luigi Filippo contrappose l'occupazione d'Ancona, perché non fosse turbato in Italia l'equilibrio europeo. Con la conferenza diplomatica di Roma (aprile-maggio 1831) le potenze giunsero persino a formulare proposte, poi fatte naufragare dal Metternich, in merito all'organizzazione dello Stato Pontifcio (Memorandum di Cristiano Bunsen). Lo stato pontificio, tra la ribellione dei suoi popoli e i consigli contraddittorî e le cupidigie delle potenze, si trovava in una posizione debolissima; i sudditi pontifici, d'altro canto, mentre nel Memorandum dei diplomatici trovarono giustificate le loro aspirazioni politiche, non potevano darsi pace di veder sospeso per loro quel principio del non intervento, che aveva permesso al Belgio di staccarsi dall'Olanda e costituirsi in stato. Tutto ciò creava le condizioni per la persistenza d'uno stato d'animo profondamente rivoluzionario, che un uomo, il Mazzini, saldò col sentimento politico nazionale italiano.

Il pensiero politico di Mazzini si fonda appunto sull'esperienza viva dei moti del 1831. La solidarietà degli stati europei con lo stato della Chiesa sembrò mostrargli realizzata nei fatti quella solidarietà dei troni e dell'altare, che il De Maistre aveva caldeggiata. A essa occorreva opporre un'altra grande solidarietà, quella del popolo italiano, nel quale i sudditi pontifici si dovevano fondere, e quella dei popoli europei. Per colpire al cuore il nemico, che aveva la sua roccaforte morale nel diritto dei re predicato da Roma papale, occorreva contrapporgli il diritto dei popoli bandito da Roma risorta, moderna e repubblicana. Il mito del Risorgimento si congiunge indissolubilmente in Mazzini col mito di Roma e della sua eterna provvidenziale missione.

Con Mazzini il problema del dominio temporale dei papi è congiunto con quello del risorgimento politico nazionale; con i neo-guelfi il problema è allacciato alle idee di riforma interna, di rinnovamento della Chiesa, che il cattolicismo liberale aveva diffuso in Europa. Alessandro Manzoni taceva, ma la franca adesione, che diede più tardi alla politica del Cavour, dimostra che egli non ritenesse dannosa alla Santa Sede la cessazione del dominio temporale; R. Lambruschini era per una soluzione radicale; ma il grosso dei neoguelfi credeva necessario il dominio temporale all'autonomia della Chiesa e al libero esercizio della sua missione spirituale. Se lo stato papale voleva sopravvivere nel sec. XIX, pensavano, doveva secolarizzarsi e ritornare ai principî, all'epoca in cui la sovranità pontificia era una sovranità meramente nominale e i municipî godevano delle loro libertà. E il migliore dei pubblicisti cattolici liberali che trattarono l'argomento, Leopoldo Galeotti, fondeva le dottrine politiche e amministrative della scuola toscana del Settecento con le dottrine liberali dell'Ottocento (Tocqueville, Sismondi), che non riconoscevano fondamento più sicuro della libertà che le libertà locali. Errore fondamentale del Galeotti fu quello d'avere sognato che si sarebbe potuto abbassare un papa temporale alle funzioni d'un principe vescovo tedesco del Settecento, di uno di quei principi vescovi che giungevano perfino ad avere come ministri dei protestanti; ma nei principi ecclesiastici tedeschi la qualità di principe era più alta di quella di vescovo, mentre nel papa il potere spirituale predominava su quello temporale. Fino dal 1832, perciò, un grande storico napoletano, Luigi Blanch, riteneva impossibile la secolarizzazione dello stato della Chiesa e l'esperimento del 1847-48 gli diede perfettamente ragione. La creazione della Consulta di stato (14 ottobre 1847) racchiudeva, come ben vide subito Metternich, il germe di un governo rappresentativo, she non si adattava né all'autorità sovrana del capo della cattolicità, né alle costituzioni della Chiesa. Con essa l'elemento laico salì al potere nello stato pontificio. Per non ledere la tradizione cattolica del sacerdozio sovrano si decise lasciare ai cardinali il potere nominale di diritto e ai laici il potere effettivo di fatto. In due mesi di ministero, Pellegrino Rossi (16 settembre-15 novembre 1848) fece miracoli, ma il pugnale d'un sicario dei partiti radicali troncò l'esperimento. Parallelamente il papato temporale urtava contro lo scoglio delle lotte nazionali. Finché si trattava di chiedere pacificamente all'Austria che lasciasse all'Italia i suoi naturali confini, il papa poteva esercitare la sua vecchia funzione naturale di arbitro, ma i tempi di Giulio II o di Paolo IV erano finiti; il papato dal Seicento in poi si era trasformato in una potenza essenzialmente morale, e, quando si venne alle armi, dovette ritirarsi dalla lotta per non provocare uno scisma (enciclica 29 aprile 1848). Restava, però, al papata in Italia un'altra funzione: quella di fare un ultimo esperimento per tentare di serbare nella nuova Italia liberale e nazionale la vecchia Italia. una e multanime dei comuni e delle regioni, in modo che essa uscisse trasformata nello spirito e non nelle forme ed eludesse la soluzione tendenzialmente unitaria di Mazzini e della monarchia sabauda. Per soddisfare questa esigenza, gli elementi moderati e cattolici regionali italiani facevano leva sullo stato pontificio. Ma l'assassinio di Pellegrino Rossi troncò anche ogni speranza d'una soluzione federale del Risorgimento e non restarono in Italia che due forze: Mazzini e la monarchia sabauda.

E in mano di Mazzini cadde Roma, dopo l'assassinio di Rossi e la fuga di Pio IX a Gaeta. Mentre si proclamava la decadenza del potere temporale dei papi (9 febbraio), promettendo al pontefice tutte le garanzie necessarie per l'indipendenza dell'esercizio della sua missione spirituale, Pio IX invocava il soccorso militare delle potenze cattoliche e quello morale delle altre per essere rimesso nel possesso dei suoi stati. Toccò allora alla monarchia sabauda il compito di difendere sul campo diplomatico i diritti d'Italia. Principe italiano, il papa non doveva fare altro che ricorrere ai principi italiani. La Francia, per evitare complicazioni internazionalì, non sembrava aliena dalla soluzione italiana della questione del dominio temporale dei papi, ma l'offerta d'intervento sabaudo incontrò le più tenaci diffidenze da parte di Pio IX, e, dopo la conferenza diplomatica di Gaeta, Francesi, Spagnoli, Austriaci, Napoletani, ricostruirono lo stato pontificio e Roma stessa cadde in potere dei Francesi (3 luglio 1849).

Ritiratisi i Napoletani e gli Spagnoli, lo stato pontificio rimase in una ben singolare condizione: Roma occupata dai Francesi, le Romagne e le Legazioni dagli Austriaci, perché l'equilibrio europeo non fosse turbato; all'interno la Francia caldeggiava un'amnistia generale, la secolarizzazione dell'amministrazione, l'introduzione del codice napoleonico, ma Pio IX, dopo l'esperimento del 1848, non osava ricominciare. Al congresso di Parigi la diplomazia sabauda, rappresentata dal Cavour, trovò modo di porre in discussione l'8 aprile 1856 la situazione politica anormale dello stato pontificio. Il rappresentante inglese Clarendon - per l'Inghilterra la lotta contro il dominio temporale dei papi fu uno degli aspetti più simpatici del Risorgimento - appoggiò calorosamente Cavour. Ma solo la cessione alla Francia di Nizza e Savoia, fece perdere in parte a Pio IX l'ausilio di Napoleone III. L'11-12 marzo 1860 le Romagne e le Legazioni; che erano state sgombrate dagli Austriaci, si proclamarono annesse al regno d'Italia. Pochi mesi dopo, la spedizione dei Mille condusse la monarchia sabauda a invadere l'Umbria e le Marche e ad accettarne i plebisciti (4-5 novembre) in favore dell'unione al regno d'Italia. Restava Roma, e la questione romana nel senso stretto della parola si pose allora.

Cavour comprese il valore mitico che Roma aveva per gl'Italiani e l'errore mortale che avrebbe commesso la monarchia sabauda se l'avesse abbandonata ai sogni dei partiti rivoluzionarî. Roma italiana rappresentava d'altro canto per lui il compimento del suo ideale etico-religioso: il papato, privo della sua soma terrena, sarebbe salito a più alte vette spirituali; dal punto di vista politico infine, Roma avrebbe neutralizzato tutte le gelosie municipali italiane, che già risorgevano con le dispute ulla capitale. I mezzi, che dovevano condurre gl'Italiani a Roma, dovevano essere solo di natura morale: accordi diretti con la S. Sede e con la Francia. Come corrispettivo dello stato temporale Cavour offriva aha Chiesa la libertà entro i limiti della sovranità dello Stato. Senza averne, forse, piena consapevolezza, Cavour pretendeva dalla Chiesa una riforma profonda. La rinuncia al dominio temporale e il capitolato, col quale la S. Sede avrebbe fissato la sua separazione dallo stato italiano, rivoluzionava tutti i rapporti della Chiesa con gli stati e con i fedeli: non più il papa-sovrano, non più concordati, ma un'autorità superiore religiosa esclusivamente morale. Le trattative iniziate a Roma dal Cavour erano dunque destinate a fallire; e se un esito più felice sembravano avere quelle intraprese a Parigi, la morte del Cavour troncò le negoziazioni; i suoi successori dovettero ricominciare daccapo. Mentre Ricasoli e Rattazzi, invano, cercavano accordarsi con la Francia e nel 1864 ciò fu possibile solo a patto di trasportare la capitale a Firenze (v. settembre, convenzione di), il partito d'azione garibaldino cercò con ogni mezzo di tenere desta per un intero decennio la volontà d'Italia di sentitsi profondamente unita soltanto in Roma. Ma la Francia si oppose a ogni tentativo diplomatico o rivoluzionario. La questione romana faceva di Napoleone l'arbitro d'Italia: finché essa durò, lo stato italiano fu considerato in Europa uno stato pupillo della Francia. Ai motivi politici la Francia accoppiava motivi ecclesiastici. Fino dal 1849 Odilon Barrot aveva proclamato al parlamento francese: "Il faut que les deux pouvoirs soient confondus dans l'Ètat romain pour qu'ils soient séparés dans le reste du monde", perché, fino a tanto che lo Stato si riservava delle armi contro la libertà della Chiesa, era necessario che la Chiesa potesse trattare coi governi da potenza a potenza, e perché nessun cattolico avrebbe obbedito al papa suddito d'uno stato qualsiasi. Questa difficile situazione fu affrontata dal governo italiano con la legge delle guarentigie, legata principalmente al nome di Ruggero Bonghi. Dopo la disfatta francese di Sedan, occupata Roma (20 settembre 1870), la legge delle guarentigie non mai accettata dai papi, regolò, il 13 maggio 1871, la posizione singolare del papa di fronte all'Italia. Il concetto di guarentigie da dare alla S. Sede, spogliata d'ogni dominio terreno, per il libero esercizio della sua missione spirituale, non era un concetto nuovo: neanche Napoleone e Mazzini avevano potuto negarlo. Nuova fu e dovette essere invece la soluzione. Napoleone, col concordato di Fontainebleau del 25 gennaio 1813, concedeva al papa una dotazione, l'immunità nei luoghi ove risiedeva, e il diritto di avere presso di lui ambasciatori esteri e d'inviarne dei proprî presso le corti europee; la legge delle guarentigie, oltre questi punti, concedeva al papa l'attributo, essenziale alla sovranità, dell'inviolabilità, e quindi dell'irresponsabilità delle sue azioni. La soluzione napoleonica lasciava la persona del ponteficie alla mercé dello stato; la soluzione italiana la rendeva intoccabile. La soluzione italiana è stata tacciata di scarsa logicità e scientificità, perché, mentre riconosceva nel papa il più sacro attributo della sovranità, gli negava la sovranità territoriale, senza della quale una vera e propria sovranità non può sussistere. Ma gl'Italiani nel 1870 badarono a risolvere una situazione storico-politica singolare più che alle teorie di diritto internazionale. Il papa teneva allora fermo al principio dell'integrità e dell'indivisibilità dello stato pontificio, e crearlo suo malgrado sovrano territoriale d'uno stato in miniatura, per volontà unilaterale del regno d'Italia, sarebbe stato ben più assurdo che riconoscergli l'attributo dell'inviolabilità. Così pure è stato assai criticato il nesso che la legge delle guarentigie poneva tra soluzione della questione romana e politica ecclesiastica dello stato italiano, ma quel nesso era necessario, perché soltanto su quella base di rapporti Stato-Chiesa le guarentigie date in quella forma potevano sicuramente poggiare: un sistema rigorosamente giurisdizionalista laico avrebbe potuto allarmare la coscienza religiosa italiana ed europea sull'effettiva libertà del papa. Le incoerenze logico-giuridiche della legge sulle guarentige, moralmente, politicamente e storicamente giustificabili, furono poste in piena luce dalla polemica italo-tedesca sulla questione romana durante il Kulturkampf (v.). Il principe di Bismarck in lotta con la S. Sede, desideroso d'infliggerle sanzioni temporali, irritato per lo stato giuridico che l'Italia aveva assicurato al papa, scagliò contro il governo italiano i suoi giuristi, mediante i quali in Germania era pervenuto a cospicua forma scientifica il diritto ecclesiastico dello stato (Staatskirchenrecht). Alla lezione di diritto ecclesiastico dei giuristi di Bismarck, i governanti italiani, i fedeli discepoli di Cavour, i diplomatici Isacco Artom ed Emilio Visconti Venosta, risposero pacatamente con una lezione di politica contingente e di storia contemporanea.

Purtroppo, lo squisito senso diplomatico, la calma sicurezza della scuola cavouriana vennero meno in Italia col cadere della destra, poco prima che Leone XIII iniziasse la tenace lotta diplomatica in Europa contro il governo italiano. Per la sinistra radicale italiana, Roma capitale non era solo un fine ma un mezzo per il trionfo integrale della "ragione" e l'annientamento della Chiesa, ma le esigenze della politica internazionale obbligarono i nuovi governanti ad allearsi con gl'imperi centrali, a sostenere la monarchia e a temperare il loro radicalismo anticlericale.

Che, proseguendo la lotta nel modo come la conducevano, la S. Sede e il governo d'Italia facessero il gioco delle diplomazie straniêre; che, dominando in Italia partiti radicali, senza il coraggio dell'ideale e senza quello della forza, s'indeboliva lo stato e la monarchia, vedevano chiaramente i cosiddetti conciliatoristi: cattolici nazionali e moderati. L'ideale della conciliazione, così come fu inteso nella nuova Italia, ha i suoi padri da un lato nei cattolici nazionali, padre Tosti e monsignor Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, dall'altro in elementi moderati quali lo Iacini e il Bonghi. Le forze su cui esso poggiava erano strati sempre più larghi del clero nazionale e della media e piccola borghesia, che volevano conciliare nelle loro anime l'amor di patria e il lealismo cattolico. Ciò che distingueva queste tendenze da quelle cattolico-liberali del Risorgimento era che esse avevano abbandonata ogni idea di riforma interna della Chiesa e la questione romana da problema etico religioso universale diveniva una questione particolare politica italiana. Per opera di padre Tosti, Montecassino divenne il primo cenacolo di conciliatorismo. Seguì un gruppo di cattolici liberali, serrati intorno alla Rassegna Nazionale, che volevano conciliare il papato infallibile, così come era uscito dal Concilio Vaticano, con la nazione italiana. E nella Rassegna Nazionale, il 1° marzo 1889, monsignor Geremia Bonomelli pubblicò l'articolo Roma, l'Italia e la realtà delle cose, nel quale sostenne che ormai d'una ricostituzione del vecchio Stato Pontificio non era più da parlarne, ma, per salvare la massima, si poteva e si doveva tendere alla creazione d'uno stato pontificio in miniatura. Nel campo moderato, i Bonghi e i Iacini ritenevano che soltanto la conciliazione poteva dare all'estero all'Italia una maggiore elasticità di movimenti e all'interno permettere la formazione d'un formidabile partito conservatore nazionale. I loro sforzi fallirono.

La lotta diplomatica tra lo Stato italiano e la Chiesa intanto continuava. Le visite dei sovrani cattolici ai sovrani d'Italia a Roma erano dalla S. Sede rigorosamente vietate; d'altro canto il governo italiano adottò per massima d'impedire alla S. Sede d'intervenire alle conferenze e ai congressi internazionali. La diplomazia europea considerava la questione romana una questione aperta e l'avrebbe considerata tale - dichiarava nel 1883 l'ambasciatore austriaco conte di Ludolf a P. S. Mancini - sino a che il papa non avesse accettato la legge delle guarentigie o altro componimento; tuttavia, in definitiva, essa sacrificava sempre la S. Sede all'interesse politico di tenersi buono il regno d'Italia. L'esperienza diplomatica di Leone XIII dimostrò chiaramente alla curia che poco o nulla di serio vi era da sperare dall'Europa e che anche se essa, pensavano alcuni rappresentanti del clero nazionale italiano, avesse strappato al regn0 d'Italia una sovranità territoriale per il papa, tale sovranità sarebbe stata precaria, perché avrebbe ferito l'amor proprio e le suscettibilità degli Italiani. La via da prendere non era più quella d'Europa, ma quella della viva partecipazione alla vita interna dello stato italiano, mediante la quale la S. Sede avrebbe ripreso in Italia la sua influenza. Era un completo mutamento di rotta rispetto alla politica interna italiana di Pio I e di Leone XIII.

Col non expedit (1874), col divieto cioè ai cattolici italiani di partecipare alle lotte politiche - formula: né eletti, né elettori -, la S. Sede consìderava lo stato italiano come un governo illegittimo, usurpatore, e, organizzando le sue forze nelle formazioni sociali bianche e allenandole nelle lotte amministrative, intendeva serbarle per il giorno in cui la monarchia e gli elementi moderati, sgominati dalle ondate sovversive, sarebbero ripiegati in disordine sulla soda compagine conservatrice della Chiesa e le avrebbero offerto migliori condizioni di vita.

Pio X decise di permettere ai cattolici di partecipare, in determinate eventualità, alla lotta politica, senza abrogare esplicitamente il non expedit (11 giugno 1905). Alla formula: né eletti, né elettori, si sostituì quella, cattolici deputati, non deputati cattolici. Le basi dello stato italiano così si assodavano e si slargavano, ma la S. Sede ripugnava alla formazione d'un partito cattolico in Italia per non vedere restringersi in partito quel cattolicesimo, che mirava a che fosse tutta la nazione.

La guerra mondiale pose a dura prova le relazioni tra la S. Sede e l'Italia, ma l'esperienza umbertina e il mutato clima spirituale fecero sì che la prova fosse superata da una parte e dall'altra col più squisito tatto diplomatico: il gioco straniero di sfruttare a proprio vantaggio lo spauracchio della questione romana non diede più i frutti dell'epoca di Bismarck. Lo stato italiano non mancò con l'articolo 15 del patto di Londra di assicurarsi l'esclusione del papa dalle conferenze per la pace, ma non volle sospendere l'art. 11 della legge sulle guarentigie sull'immunità dei diplomatici, residenti presso la S. Sede, e osservò con perfetta lealtà quella legge. D'altro canto il cardinale segretario di stato Pietro Gasparri, il 28 giugno 1915, dichiarò che la S. Sede, per rispetto alla neutralità, non intendeva creare imbarazzi al governo italiano, ma attendeva "la sistemazione conveniente della sua situazione non dalle armi straniere, ma dal trionfo di quei sentimenti di giustizia che augura si diffondano sempre più nel popolo italiano, in conformità del verace suo interesse". Terminata la guerra, la S. Sede nel 1919 abrogò il non expedit e lasciò che si formasse il partito popolare, fondato sulle formazioni politico-sociali cattoliche; nel 1920, inoltre, Benedetto XV tolse anche il divieto ai capi di stato cattolici di visitare i reali d'Italia. In compenso, lo stato italiano nel 1918 abbandonò il principio di non sussidiare alcun culto e, stabilendo il concorso dello stato nel pagamento dei supplementi di congrua ai parroci, venne incontro ai bisogni del più umile clero nazionale.

Ridotte le rivendicazioni pontificie al desiderio di salvare la massima della sovranità territoriale, sia pure con un territorio minuscolo, e mutate le condizioni spirituali e politico-ecclesiastiche d'Italia, un gran passo sulla via della conciliazione era ormai fatto; ma restavano profonde difficoltà: diffidenze reciproche tradizionali; convincimenti politico-giuridici, conflitti di tendenze etico-politiche. Su tutto seppero passar sopra con grande energia Pio XI e Mussolini, e, dopo laboriose trattative, iniziate ufficiosamente nei primi anni del regime fascista, l'11 febbraio 1929 si venne alla firma dei patti lateranensi (v. laterano), coi quali la S. Sede riconobbe Roma capitale del regno d'Italia sotto la monarchia di Savoia e il regno d'Italia riconobbe lo stato della Città del Vaticano (v. Vaticano). Con tali patti la questione romana era dichiarata irrevocabilmente finita. Mussolini coronava con un concordato la sua nuova politica ecclesiastica, con l'inizio della quale aveva scompigliato le file del partito popolare e assorbito nel fascismo il cattolicesimo nazionale; d'altra parte, nella politica estera egli tolse all'Italia una passività diplomatica. Da parte della Chiesa il riconoscimento dello stato nazionale italiano s'inquadra nel riconoscimento di molti stati nazionali europei avvenuta coi concordati postbellici.

Bibl.: Sebbene s'ispiri a una tesi combattuta nel presente articolo, il migliore manuale storico della questione romana è G. Mollat, La question romaine de Pie VI à Pie XI, Parigi 1932. La migliore raccolta di testi, benché non sempre criticamente vagliati, è quella di H. Bastgen, Die römische Frage, Friburgo in B. 1917-1918, voll. 3. Immenso è l'opuscolame dedicato alla questione, né vi sono completi tentativi di bibliografie; esistono invece eccellenti rassegne di opuscoli fatte per periodi determinati con sani criterî-storico-metodologici: F. Quintavalle, La conciliazione fra l'Italia e il Papato nelle lettere del P. Luigi Tosti e del sen. Gabrio Casati. Con un saggio su la questione romana negli opuscoli liberali fra il 1859 e il 1870, Milano 1907; A. Panella, La questione romana dal convegno di Plombières alla guerra contro l'Austria, Aquila 1926; F. Ruffini, Il potere temporale negli scopi di guerra degli ex imperi centrali, in Nuova Antologia, 16 aprile 1921, pp. 289-301; id., Progetti e propositi germanici per risolvere la questione romana, ibid., 1 maggio 1921, pp. 24-40; id., Sovranità temporale, Congressi della pace e Società delle Nazioni, ibid., 16 maggio 1921; id., La questione romana e l'ora presente, ibid., 1 giugno 1921, pp. 193-206; G. Salvemini, Il partito popolare e la questione romana, Roma 1922. Sulla storia diplomatica della questione romana manca un lavoro d'insieme; cfr. intanto: R. Del Piano, Roma e la rivoluzione del 1831, Imola 1931; C. Bianchi, Storia diplomatica della questione romana, I, Dal 1848 al 1861, in Nuova Antologia, XV (1870), pp. 363-438; N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia, Torino 1865-72, voll. 8; A. Luzio, Aspromonte e Mentana, Firenze 1935; F. Salata, Per la storia diplomatica della questione romana, Milano 1929. Per la storia giuridica, un primo colpo d'occhio d'insieme: A. Piola, La questione romana nella storia e nel diritto. Da Cavour al trattato del Laterano, Padova 1931, e in particolare: F. Scaduto, Guarentigie pontificie e relazioni fra Stato e Chiesa, Torino 1884; F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano: La libertà religiosa come diritto pubblico subbiettivo, ivi 1924. Per i movimenti di idee etico-religiose connessi alla questione romana: per i giansenisti, N. Rodolico, Gli amici e i tempi di Scipione dei Ricci, Firenze 1920, pp. 221, 228, 234; per il Manzoni, F. Ruffini, La vita religiosa di A. Manzoni, Bari 1931, II, pp. 416-440; per il Lambruschini, A. Gambaro, Riforma religiosa nel carteggio inedito di R. Lambruschini, Torino 1926, I, pp. cdxviii-cdxxvii; per il Mazzini e il Gioberti: E. Solmi, Mazzini e Gioberti, Milano-Roma-Napoli 1913; G. Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, Firenze 1923; per il Mazzini, G. Salvemini, Mazzini, Catania 1915, pp. 83-89 e 126; per il Gioberti, A. Anzilotti, Gioberti, Firenze 1922; per il Cavour, F. Ruffini, Le origini elvetiche della formula del conte di Cavour: Libera Chiesa in libero Stato, in Beiträge zum Kirchenrecht, Festschrift Emil Friedberg zum 70. Geburtstage, Lipsia 1908, pp. 190-220; id., I gianesnisti piemontesi e la conversione della madre di Cavour, in Atti R. Accademia delle scienze di Torino, LXIII-LXIV (1928-29); id., Metodisti e Sociniani nella Ginevra della restaurazione, in Civiltà moderna, nn. 5-6, settembre-dicembre 1935, pp. 383-435; A. Omodeo, Il conte di Cavour e la questione romana, in La Nuova Italia, nn. 10-12, 20 ottobre-20 dicembre 1930; per il Ricasoli, A. Valle, Le idee di B. Ricasoli intorno alla questione romana, Roma 1914; G. Gentile, G. Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 1922, pp. 58-112, cfr. anche pp. 357-420, per il gruppo della Rassegna nazionale; per una veduta d'insieme, sia pure assai discutibile, della questione romana nel Risorgimento sotto l'aspetto etico-politico-religioso, M. Missiroli, La monarchia socialista, Bari 1914; per il Tosti, v. tosti; per il Bonghi, B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari 1915, III, pp. 259-84 (troppo severo); per lo sviluppo dell'ideale della conciliazione, manca un lavoro d'insieme. Per poggiare su solide fondamenta la storia della questione romana nel Risorgimento occorrerebbe un'indagine approfondita sul tramonto del principato temporale della Chiesa da un lato e uno studio su Roma nelle valutazioni e nell'immaginazione politico-religiosa di quell'età: dell'uno e dell'altro problema non si hanno per ora che scarsi sebbene suggestivi elementi nel vecchio libro di L. Galeotti, Della sovranità e del governo temporale dei papi, Italia 1846, su cui cfr. A. Anzilotti, Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Bari 1930, pp. 131-166, e G. Calamari, L. Galeotti e il moderatismo toscano, Modena 1935; in una preziosa Memoria sulla questione dello Stato Romano (1832), nel vol. II degli Scritti inediti di Luigi Blanch, conservati manoscritti nella Deputazione di Storia patria napoletana; nelle opere, sebbene polemico-politiche, di L. C. Farini, Lo Stato Romano dall'anno 1815 all'anno 1850, Firenze 1853, voll. 4 (moderato); F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, ivi 1850, voll. 4 (moderato); G. Gabussi, Memorie per servire alla storia della rivoluzione negli stati romani dall'elevazione di Pio IX al pontificato sino alla caduta della Repubblica, Genova 1851-52 (repubblicano); A. Saffi, Storia di Roma, in Ricordi e scritti, Firenze 1892-99 (repubblicano); G. Spada, Storia della Rivoluzione di Roma e della ristaurazione del governo pontificio dal I giugno 1846 al 15 luglio 1849, ivi 1862-69 (clericale); R. Giovagnoli, Ciceruacchio e Don Pirlone. Ricordi storici della Rivoluzione romana dal 1846 al 1849, Roma 1894 (romano di Roma), e per tutti v. il giudizio di E. Masi, La storia del Risorgimento nei libri, Bologna 1911, pp. 110-29. Cfr. poi L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 1935, ove si trovano felici spunti per un lavoro sull'idea di Roma nel Risorgimento.

Per la politica contemporanea della Chiesa, v'è del buono nel lavoro, sebbene alquanto frettoloso, di M. Pernot, Le Saint-Siège, l'Église catholique et la politique mondiale, Parigi 1924; per i concordati postbellici, assai utile: A. Giannini, I concordati post-bellici, Milano 1929.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata