MOTTA, Raffaele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 77 (2012)

MOTTA, Raffaele

Stefano De Mieri

MOTTA, Raffaele (Raffaellino da Reggio). – Nacque nel 1550 a Codemondo (Reggio Emilia) da Pietro, muratore, come documenta il profilo biografico tracciatone sin dal 1616 da Bonifacio Fantini, fonte dalla quale derivano preziose informazioni sull’artista. Altre notizie su di lui tramandano Karel van Mander (1618) e Giovanni Baglione (1642), mentre pochissime sono le attestazioni archivistiche finora rinvenute.

Ai suoi tempi godette di elevata considerazione: a breve distanza dalla morte, Giovan Paolo Lomazzo nel suo Trattato dell’arte della pittura (1585) lo includeva tra i pittori più famosi del tempo e rilevanti apprezzamenti emergono anche negli scritti di Francesco Scannelli (1657) e di padre Sebastiano Resta (1707), quest’ultimo entrato in possesso di alcuni suoi disegni (Bigi Iotti - Zavatta, 2008, pp. 85-104). La sua riscoperta, però, è piuttosto recente e si inquadra nella fioritura degli studi sul tardo manierismo a Roma, a cominciare da un saggio di Italo Faldi del 1951. In precedenza Herman Voss (1920) e Luisa Collobi (1937-38), pur pervenendo a risultati apprezzabili, avevano espresso un giudizio di valore in gran parte negativo. Negli ultimi decenni la critica, concentrata anche sulla produzione grafica, custodita per lo più agli Uffizi e al British Museum, ha concordato nel riconoscere a Raffaellino un ruolo centrale nel contesto romano dopo la scomparsa di Taddeo Zuccari, evidenziandone l’influsso su numerosi artisti, italiani e stranieri, in particolare su Bartolomeo Spranger e altri esponenti del manierismo internazionale. Nonostante i considerevoli progressi della ricerca, rimangono ancora insoluti diversi problemi, principalmente in relazione alla cronologia e all’attribuzione di alcune opere.

Fantini riferisce di un periodo trascorso da Raffaellino presso il medaglista Alfonso Ruspagiari e di un successivo alunnato nella bottega di Lelio Orsi a Novellara. Sono perdute le imprese iniziali ricordate nel testo seicentesco, le facciate dipinte a Guastalla, dove fu chiamato da Cesare Gonzaga, e a Reggio. A Guastalla conobbe l’architetto Francesco Capriani, che ne apprezzò le doti di decoratore nei palazzi da lui stesso realizzati sulla via Cesarea. Fu Capriani a condurlo con sé a Roma, come ricorda Fantini, verosimilmente tra il 1569 e il 1570, ed è in un cantiere romano, al servizio del cardinale Ippolito d’Este, che Raffaellino risulta documentato per la prima volta, tra il dicembre 1570 e il febbraio 1571, quando venne pagato per i perduti affreschi della «cappella delle stantie nove di Monte Cavallo con il cielo con un coro d’angeli» (Tosini, 2005, p. 48). Nello stesso periodo dovette lavorare anche alle distrutte decorazioni dell’altro palazzo appartenuto al porporato, quello di Montegiordano, e non in una fase più antica (1561, 1566-67) come è stato sostenuto(Hess - Röttgen in Baglione, ed. 1995, II, p. 245) sulla base di un riferimento generico ai lavori condotti in quel complesso da Girolamo Muziano e altri pittori, tra i quali Motta, in un testo di Vincenzo Pacifici (Il cardinale Ippolito II d’Este…, Tivoli 1920, p. 389). L’anticipazione del trasferimento a Roma comporterebbe un sensibile arretramento della data di nascita, in contrasto col racconto di Fantini, autore ben informato sui suoi esordi, secondo quanto emerge dagli studi più recenti (Bigi Iotti - Zavatta, 2008).

A Roma Raffaellino fu apprezzato per la decorazione delle facciate di diversi edifici, andate in rovina. Molto ammirata per esempio fu la facciata della casa appartenuta all’amico Capriani, dove aveva dipinto «la Virtù che tien per mano Hercole e ’l Genio e vanno verso il tempio dell’Eternità» (Baglione, 1642, p. 26), le cui caratteristiche si conoscono in parte attraverso varie prove grafiche. Uno dei suoi primi impegni romani potrebbe essere stata l’esecuzione degli affreschi dell’oratorio di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati. Le fonti riconducono al maestro soltanto le scene laterali col Martirio dei ss. Quattro. Le differenze col resto della decorazione, in particolare la volta (assegnatagli da Faldi) – dove sono state colte tangenze con Lelio Orsi e Girolamo Siciolante, artista quest’ultimo col quale Raffaellino avrebbe collaborato a Sermoneta a «molte cose» (Fantini, 1616, p. 25) – appaiono giustificabili se si prende in considerazione uno scarto cronologico fra le parti del ciclo o, più ragionevolmente, la presenza di un’altra mano, come hanno sostenuto Herwarth Röttgen (in Baglione, ed. 1995, II, p. 248) e Maria Grazia Bernardini(2002, p. 87).

Nei due episodi di martirio, in particolare quello sulla parete di sinistra (unanimemente riconosciutogli), è ravvisabile una cultura segnata dall’incontro con la maniera dei fratelli Zuccari, soprattutto quella di Taddeo, le cui opere gli permisero di risalire agli esiti estrosi di Perin del Vaga. La vicinanza di Raffaellino al marchigiano è tale da aver fatto sì che molti suoi disegni in passato fossero ritenuti del più anziano maestro (Gere, 1966). Il suo stile, così come venne configurandosi nei primi anni Settanta, appare un felice connubio di componenti romane ed emiliane, in specie parmigianinesche.

Giannattasio (2001) ha proposto di riconoscere a Raffaellino alcuni affreschi di villa d’Este a Tivoli, contesto nel quale risulta attivo Francesco Capriani nel 1570. Da escludere è l’attribuzione di certi brani pittorici della sala della Fontana e molto cautamente va accolta pure la proposta di una sua partecipazione ai lavori della cappella (1572 circa), affiancato a Federico Zuccari. Il coinvolgimento nel complesso tiburtino si è voluto estendere anche alla volta della sala della Nobiltà (ove è di Zuccari lo scomparto centrale), come induce a credere un disegno restituito a Raffaellino, ma a una data che, essendo anteriore al 1568, rende problematico il suo intervento in quest’ambiente (Prosperi Valenti Rodinò, 2004).

I biografi ricordano la sua permanenza, di un anno all’incirca, presso la bottega di Federico Zuccari, artista il quale, allontanatosi da Roma nel 1574, gli avrebbe lasciato una serie di imprese. Con Zuccari, tra il 1571 e il 1572, Raffaellino aveva preso parte agli affreschi del presbiterio di S. Caterina dei Funari, realizzando i Ss. Sisinio, Saturnino, Agostino e Romano e figure di putti, sotto le scene dedicate alla santa titolare della chiesa. Probabilmente il rapporto con l’autorevole maestro favorì l’intervento nell’oratorio del Gonfalone, dove accanto alla Flagellazione di Zuccari (1573) si osserva il Cristo dinanzi a Pilato (Caifa per alcuni) di Raffaellino. Si tratta di un murale eseguito entro il 1575, quando Paris Nogari, pittore a lui molto vicino, traeva spunto da questa scena nell’impostare il riquadro di analogo soggetto in Trinità dei Monti (Röttgen, 1968, p. 141). Al Gonfalone la cultura mottiana appare contraddistinta, oltre che dai legami con gli Zuccari (specialmente per la composizione) e dai ricordi emiliani, da stimoli nordici, come denunciano le contiguità con Bartolomeo Spranger avvistate da Frederick Antal (1975).

Tra il 1574 e il 1575 fu coinvolto nella decorazione del palazzo di Caprarola, coadiuvando Giovanni de’ Vecchi.

Gli studiosi, pur con posizioni distinte sulle spettanze, negli ultimi tempi hanno riconosciuto un ruolo marginale al reggiano nell’esecuzione degli affreschi farnesiani, individuando il suo apporto unicamente nella sala del Mappamondo e in quella degli Angeli. Nel primo ambiente, oltre alle coppie di satiri negli angoli del soffitto (menzionate da Baglione), al pittore spettano una porzione del fregio e diverse scenette mitologiche; nella sala degli Angeli invece la critica appare divisa nell’attribuire a Raffaellino o a de’ Vecchi le storie sacre e le figure di angeli e arcangeli sulle pareti, come lo splendido Tobiolo e l’angelo (la diatriba attributiva è sintetizzata da Faldi, 1981, pp. 37-39 n. 79 e Tosini, 1994, p. 337 n. 34). Baglione ricorda i dissidi insorti tra i due pittori, al punto che il più giovane dovette abbandonare Caprarola facendo ritorno a Roma.

Subito dopo potrebbe aver lavorato per il cardinale Giovan Francesco Gambara a Bagnaia, nella celebre palazzina (villa Lante). Diversi studiosi gli riconoscono l’invenzione e la direzione di alcuni cicli ad affresco che ornano la residenza; in particolare il suo intervento è stato individuato nella loggia, nella stanza della Poesia e in quella di S. Pietro. Ma per queste pitture, la cui ascrizione a Motta è tra le più dibattute, per lo scarto qualitativo con le opere certe, è preferibile la posizione di quanti ne attribuiscono la paternità ad artefici a lui prossimi, come Paris Nogari e Giovan Battista Lombardelli (Sricchia Santoro, 1980, p. 233).

Sicuro è invece l’intervento nei palazzi Vaticani, dove collaborò col bolognese Lorenzo Sabatini (pittore di papa Gregorio XIII Boncompagni), già dalla prima metà degli anni Settanta. Tra gli affreschi nominati dalle fonti vanno ricordati l’Angelo col triregno nella sala Regia; l’Ercolee Caco e una parte delle grottesche e del fregio nella sala Ducale (1576 ca); l’Ordinazione dei leviti e l’Ordinazione dei diaconi nella sala del Concistoro segreto (entro 1577); L’entrata di Cristo in Gerusalemme, Cristo e la Maddalena, La lavanda dei piedi nella loggia di Gregorio XIII (1575-77). Altri suoi interventi vengono segnalati nella cappella Comune e nella sala della Bologna. Inoltre, Raffaellino dipinse due perduti episodi evangelici sulle porte della basilica di S. Pietro (1574-75), descritti da van Mander, ai quali sono stati collegati alcuni fogli del Louvre e del Museo di Budapest (Gere - Pouncey, 1983; Czére, 1998).

Fra le altre opere citate dalle fonti nelle chiese romane rimane, parzialmente, solo la decorazione della cappella Ghislieri in S. Silvestro al Quirinale (1576 circa). A Raffaellino si devono senz’altro lo spiritoso girotondo dei putti nella volta e l’Apparizione dell’angelo a s. Giuseppe, in cui la tavolozza schiarita e le elastiche anatomie rammentano gli affreschi vaticani. I riquadri laterali del sacello furono eseguiti da Jacopo Zucchi, verosimilmente in seguito alla morte del collega. Col toscano, forse, Raffaellino aveva lavorato pure nel palazzo Firenze (Sricchia Santoro, 1992).

Alla fase avanzata appartiene il Tobiolo e l’angelo della Galleria Borghese, presumibilmente in origine nella collezione della contessa di Santafiora a Sala Baganza, nel Parmigiano. La composizione fu incisa da Agostino Carracci nel 1581. Assieme a un Ecce Homo in collezione privata, la tavola romana è tra le rare pitture mobili dell’artista. Di altre, perdute o ancora non rintracciate, conosciamo la traduzione a stampa. È il caso della Vergine col Bambino e i ss. Bartolomeo e Chiara, una pala realizzata su commissione di un vescovo Ruffini (Alessandro?) per una località abruzzese imprecisata (Fantini, 1616, p. 24), nota attraverso un’incisione di Diana Scultori. Numerose stampe, a volte riproducenti suoi affreschi famosi, furono realizzate, oltre che dalla stessa Scultori, da Mattia Greuter, Andrea Andreani e da Aliprando Caprioli e provano ulteriormente la fortuna raggiunta dal pittore (Beretta,1984-85).

Sebbene avesse quasi sempre collaborato con maestri di fama, senza lasciare imprese monumentali autonome, Raffaellino riscosse un’ampia ammirazione, grazie al suo linguaggio garbato, fatto di eleganti deformazioni, una stesura corsiva e brillante, in cui i flessuosi ritmi del Parmigianino e la morbidezza degli impasti emiliani appaiono congiunti alla plastica fisicità e ai modi compositivi degli Zuccari. Dovettero molto impressionare lavori come l’affresco del Gonfalone, «la più bella opera che Raffaellino giammai facesse», o il perduto dipinto nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo «dove sono le figure de’ Santi Giovanni e Paolo con angioli e santi fatte a fresco sì esquisitamente che paiono hora dipinte, e tanto belle che molti giovani vanno ivi a ritrarle… et imparano da lui il modo di fare a fresco, che in quel genere non hebbe pari» (Baglione, 1642, p. 25). E ancora, si può aggiungere quanto riportato da van Mander – il quale fu colpito anche dalla sua «maniera… di ombreggiare molto i suoi dipinti, fino al nero, ciò che dava alle sue opere, a distanza, un gran rilievo» – che ricorda come «Nel complesso, le sue cose erano come una calamita, un richiamo agli occhi di tutti i giovani pittori, tanto erano modelli affascinanti ed attraenti» (1618, p. 343), mentre Baglione asserisce: «Et in quei tempi non si ragionava d’altri che di Raffaellino da Reggio, poiché tutti li giovani cercavano d’imitare la bella maniera di lui, tanta morbidezza et unione nel colorire, rilievo e forza nel disegno e vaghezza nella maniera havea» (1642, p. 26). Tale primato, da autentico caposcuola, gli è sempre più riconosciuto dagli studi moderni.

«Sopragiunto da febre maligna» (Baglione, 1642, p. 27), morì a Roma nel maggio 1578 e fu tumulato nella chiesa degli Orfanelli.

Fonti e Bibl.: B. Fantini, Breve trattato della vita di Raffaele Mota reggiano, pittore famosissimo (Reggio Emilia 1616), a cura di G. Adorni, Parma 1850; K. van Mander, Van verscheyden italiaensche schilders…, in Het Schilder-Boeck (II ed. Haarlem 1618), trad. it. M. Vaes, Appunti di Carel van Mander su vari pittori italiani suoi contemporanei, in Roma, IX (1931), 5, pp. 342-345; G. Baglione, Le vite de’ pittori … (Roma 1642), a cura di J. Hess - H. Röttgen, Città del Vaticano 1995, I, pp. 25-27; II, pp. 244-257; F. Scannelli, Il microcosmo della pittura, Cesena 1657, pp. 327 s.; S. Resta, Indice del libro intitolato Parnaso de’ pittori, Perugia 1707, p. 7; H. Voss, Die Malerei der Spätrenaissance in Rom und Florenz (Berlin 1920), trad. it. Roma 1994, pp. 346-348; F. Antal, Zum Problem des niederländischen Manierismus, in Kritische Berichte zur kunstgeschichtlichen Literatur, I-II, 1927-29, trad. it. in Id., Classicismo e Romanticismo, Torino 1975, pp. 75 s., 84; L. 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