RAFFAELLO Sanzio

Enciclopedia Italiana (1935)

RAFFAELLO Sanzio

Adolfo Venturi

Nacque in Urbino il 6 aprile 1483 da Giovanni Santi e da Magia di Battista Ciarla; rimase orfano di madre il 7 ottobre 1491. Tre anni dopo, il 1° agosto 1494, Giovanni Santi, che nel 1492 aveva sposato in seconde nozze Bernardina di Pero, moriva, dopo avere istituito eredi universali il fratello Bartolomeo e il figlio R., in un testamento del 29 luglio, steso alla presenza dello scultore milanese Ambrogio Barocci e del proprio scolaro Evangelista di Piandimeleto. Dodicenne, nel 1495, R. dipinse un piccolo ex voto, ora nel museo di Liverpool, con timidezza di esordiente, ma anche con una grazia d'atteggiamenti, una delicatezza d'aspetti, una misura spaziale così giusta e sicura da rivelarci a chiare note la primizia della sua vita pittorica. Il 14 maggio del 1500, in atto del notaio Matteo degli Oddi, suo zio Bartolomeo prende accordi in nome di R., probabilmente già in quel mese a Perugia nella bottega di Pier della Pieve, del quale maestro sono influssi evidenti nei disegni preparatorî al quadro di San Nicola da Tolentino per Città di Castello, iniziato verso la fine di quell'anno. Gli affreschi del Cambio, condotti da Pier della Pieve con l'aiuto dei suoi scolari, rivelano infatti l'intervento del Sanzio diciassettenne, nella fanciullesca immagine della Fortezza poggiata allo scudo, con uno squadro di volto chiaramente timoteesco. Quando R. giunse alla bottega del Perugino, l'arte del maestro umbro, già esausta, s'infiacchiva in ripetizioni, smarrendo la primitiva eleganza, il nitore delle immagini aggraziate, la delicatezza delle mistiche espressioni, fattesi convenzionali, sonnolente, leziose. L'aiuto meschino d'Andrea d'Assisi, detto l'Ingegno, traduttore dei disegni del maestro, rendeva più evidente lo sfacelo dell'arte peruginesca. Dipinta nel Cambio, accanto all'opera del Perugino e di Andrea d'Assisi, la mite immagine della Fortezza, e sospesi i lavori a fresco per il sopraggiungere dell'inverno, R. s'impegna con Evangelista di Piandimeleto, il 10 dicembre del 1500, ad eseguire, "ad usum boni pictoris et magistri", la pala d'altare per la cappella di patronato di Andrea Baronci in S. Agostino di Città di Castello, e, nel contratto, il nome del giovinetto maestro precede quello di Evangelista, fideiussore del minorenne. I frammenti della tavola di Città di Castello, sfasciata dal terremoto, furono raccolti da Pio VI e dispersi poi durante l'invasione francese: una copia, eseguita da Ermenegildo Costantini, rimane nella pinacoteca civica di quella città; dei frammenti, due, non interamente di mano di R., sono nel Museo Nazionale di Napoli, un terzo, fiore soavissimo della sua arte primitiva, nell'Ateneo di Brescia. Contemporaneo alla pala di San Nicola da Tolentino è lo stendardo della pinacoteca di Città di Castello, dove i ritmi di Timoteo della Vite trovano nello spazio risonanze profonde e gli aspetti ideale delicatezza. Schiva dagli accenti di forza, di drammaticità e di grandezza è la personalità dell'artista, la cui arte ha la sua tenera età, il fresco incanto dell'adolescenza. Gemme dell'arte giovanile di R. sono tre minuscole tavolette: il Sogno del Cavaliere, nella National Gallery di Londra, la Madonna del Libro, nell'Ermitage di Leningrado, le Tre Grazie di Chantilly, tutte purezza di colore, incanto d'ingenui aspetti, dolcezza di ritmi. Allo stesso tempo appartiene il piccolo San Michele del Louvre, diminuito dal tentativo di riflettere il grottesco dei demoni fiamminghi. Nel 1502 il Perugino, che si era impegnato a dipingere per San Francesco al Monte una pala d'altare con la Crocefissione e l'Incoronazione, sovraccarico di lavoro, affidò la prima ad Andrea d'Assisi, la seconda a R. Tanto in quest'opera, ora nella Pinacoteca Vaticana, quanto nella Crocefissione Mond, ora nella National Gallery di Londra, compiuta probabilmente nello studio di Pier della Pieve a Perugia, il Sanzio s'attenne agli esemplari del maestro umbro, così da far dire al Vasari, "se non vi fosse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di R., ma sì bene di Pietro Perugino". L'influsso del celebrato maestro umbro, predominante nella Madonna tra i Santi Girolamo e Francesco del Kaiser-Friedrich-Museum a Berlino, come nel delicato San Sebastiano di Bergamo e nell'eburneo Redentore della Galleria di Brescia, e ancora nello Sposalizio di Brera, del 1504, non riesce mai, neppure nelle opere, come questa e la Crocefissione Mond, più assoggettate all'arte peruginesca, ad offuscare la delicata personalità di R., già pienamente determinata nei suoi albori. Alla fine del 1504 egli era a Firenze per una breve dimora, come apprendiamo da una lettera di Giovanna Felicia Feltre, duchessa di Sora, a Pier Soderini, gonfaloniere della repubblica di Firenze. In Firenze egli vide Leonardo e Michelangelo, e assisté alla gara dei due eroi fiorentini per i cartoni della decorazione di Palazzo Vecchio: anche Fra Bartolomeo impressionò il pittore uscito dalla cerchia umbro-marchigiana, per la sua grandiosità di forme, la sua costruttiva saldezza. Attratto da quel mondo artistico tutto fervore di forze creatrici, R. vi tornò probabilmente nel 1505, e cominciò a intendere allora le nuove possibilità dello sfumato leonardesco, piuttosto che direttamente, attraverso l'opera di Fra Bartolomeo della Porta, che trasformava lo sfumato intensivo di Leonardo in sfumato estensivo, e portava l'interesse fuori della figura nella composizione, vedendo nella figura lo strumento a raggiungere un dignitoso ordinamento di masse. Come aveva profittato della grazia del Perugino, l'Urbinate profittò dello sfumato pittorico di Leonardo, della larghezza costruttiva di Fra Bartolomeo, e infine della libertà lineare di Michelangelo, assimilando soltanto i mezzi tecnici, sorvolando su tutte le correnti pittoriche del suo tempo per rimanere sempre uguale a sé stesso. Sino a ventidue anni si era accorto principalmente di Leonardo e di Fra Bartolomeo; a ventitré anni sentì di dover cercare la propria integrazione nella plastica di Michelangelo, come è evidente dalla Deposizione della Galleria Borghese, dipinta nel 1507. A questo gruppo di opere ne segue un altro, con forme di transizione tra l'arte umbra e l'arte toscana: vi appartengono la pala di Pierpont Morgan a New York, eseguita per le monache di S. Antonio a Perugia, la pala Ansidei nella National Gallery di Londra, originariamente in San Fiorenzo a Perugia, con le rispettive predelle tendenti alle forme di Fra Bartolomeo, la Madonna Northbrook, il San Giorgio dell'Ermitage a Leningrado e l'altro del Louvre, d'ispirazione leonardesca. L'influsso di Leonardo si fa più evidente in una serie di ritratti del primo periodo fiorentino, e specialmente in un disegrio a penna di giovane donna entro un loggiato, al Louvre, e nel mirabile ritratto di dama passato dagli Uffizî al Palazzo ducale di Urbino. Tra i primi esempî di composizione piramidale fondata sui modelli di Fra Bartolomeo son la Madonna del duca di Terranova nel Museo di Berlino, e la piccola Madonna Cowper, traduzione più intima e popolaresca delle aristocratiche forme proprie alla Madonna del Granduca; tra i più svolti, la Madonna del Belvedere, la Madonna del Cardellino, la Bella giardiniera, la Sacra Famiglia della Pinacoteca di Monaco. Contemporaneamente, i ritratti dei coniugi Doni e della Donna Gravida, la Madonna degli Orléans, nel museo di Chantilly, la Sacra Famiglia del Prado, la Sacra Famiglia di casa Bridgewater, la Sacra Famiglia dell'Ermitage in delicate penombre, la Madonna di Casa Tempi (Pinacoteca di Monaco), traducono nell'incantevole serenità del linguaggio raffaellesco i vibranti effetti pittorici di Leonardo e l'enfasi compositiva di Fra Bartolomeo. L'attrazione di Michelangelo su R., non senza accenni nelle opere ora indicate, meglio si definisce in alcuni particolari della Deposizione Borghese, dipinta nel 1507, per commissione di Atalanta Baglioni, madre di Grifonetto ucciso per vendetta in Perugia. Accanto all'influsso michelangiolesco, vi si scorge il ricordo di classici rilievi, quali, ad esempio, il Trasporto del corpo di Meleagro nel Museo Capitolino. La data del 1507 si legge nell'iscrizione sotto l'affresco di San Severo a Perugia, ispirato alle forme di Fra Bartolomeo come l'incompiuta Madonna del Baldacchino (Firenze, Pitti), l'altra di Casa Tempi, la Santa Caterina della National Gallery di Londra, e la Madonna Esterházy nel Museo di Budapest, la Madonna Canigiani nella Pinacoteca di Monaco, l'affresco della Trinità in San Severo a Perugia, la seconda Madonna di casa Bridgewater.

Il 21 aprile del 1508 R. scriveva da Firenze allo zio Simone Ciarla; il 4 ottobre del 1509, a Roma, veniva nominato scrittore dei Brevi Apostolici, con un "motu proprio" di Giulio II; nel 1511 dipingeva la Galatea nella delizia di Agostino Chigi, e nel biennio 1511-12 compiva gli affreschi della Stanza della Segnatura, raffiguranti la Disputa del Sacramento, il Parnaso, la Scuola d'Atene, Tre Virtù, e, nel soffitto, figure allegoriche allusive a queste composizioni. La chiarezza logica, l'unità costruttiva che distinguono tutte le composizioni di R., si manifestano su più largo campo in Roma, nella serrata unità degli affreschi sulle pareti e nella vòlta della Stanza della segnatura. Alla Disputa del Sacramento fa riscontro sulla parete opposta la Scuola d'Atene: l'apoteosi della scienza divina a quella dell'umana sapienza; la Poesia lega i due campi con la rappresentazione del Parnaso, popolato dagli antichi poeti, sulla parete in cui s'apre la finestra, mentre tre delle Virtù cardinali, frutti dell'umana saggezza, sono figurate nella parete di fronte in altra grande lunetta, e due monocromi rappresentanti la Consegna delle Pandette e la Consegna dei Decretali, in finte edicole, al disotto della lunetta stessa, sostituiscono la figura allegorica della Giustizia. Anche la decorazione del soffitto rispecchia i concetti figurati nei grandi affreschi delle pareti: nei tondi, la Giustizia sopra le figurazioni delle Virtù cardinali, la Teologia sopra la Disputa del Sacramento; sopra la Scuola d'Aiene, la Filosofia; sopra il Parnaso, la Poesia. Nei rettangoli affibbiati ai tondi per aurei rosoni, sono rappresentazioni bibliche, mitologiche, allegoriche, illustrative delle figure in quei tondi, e quasi commento figurato ad esse: il Giudizio di Salomone per la Giustizia, il Peccato originale per la Teologia; la Disputa fra Apollo e Marsia per la Poesia; la Contemplazione dell'universo per la Filosofia. Questa impalcatura ideologica, perfettamente consona alla limpida visione di Raffaello, se anche non da lui pensata, trova spontanea attuazione nei ritmi sereni dell'arte raffaellesca. In Roma, l'Urbinate s'aggirò, studioso dell'antico, con Giovanni da Udine, nelle Terme di Tito ove fu scoperto il Laocoonte; trasse esempio da una miniatura del codice di Virgilio in Vaticano per una rievocazione del famoso gruppo, incisa poi da Marco Dente di Ravenna; fu scelto ad arbitro nella gara indetta da Bramante per la riproduzione scultoria dell'antico marmo, gara vinta da Iacopo Sansovino. Anche alle architetture bramantesche guardò R. per comporre lo sfondo della Scuola d'Atene, e, più tardi, i pochi eletti esempî di edifici da lui disegnati in Roma. Morto il suo grande conterraneo, gli succedette nell'ufficio della fabbrica di San Pietro. Intanto, nell'agosto del 1511, mentre R. lavorava nella Stanza della segnatura, Michelangelo scopriva la vòlta della Cappella Sistina, ed egli traeva da quel mondo eroico ispirazione a ritmi più ampli e complessi, ed evidenza scultoria di masse. Presto, in Roma, mentre attendeva alla decorazione della prima stanza, si acquistò il favore di Agostino Chigi, "gran mercante della Cristianità", onnipotente per la sua favolosa ricchezza, mecenate delle arti magnifico. Intorno al 1510 il palazzo della Farnesina era costruito: e l'Urbinate, che ebbe l'incarico di dipingervi il mito di Galatea, s'incontrò nella reggia di Agostino Chigi con Baldassare Peruzzi, il Sodoma e Sebastiano del Piombo, da cui trasse l'intensità d'effetti cromatici propria alle sue pitture della seconda fase romana. Come Agostino Chigi, tutti i personaggi della corte di Giulio II lo ebbero caro: tra essi Tommaso Inghirami, soprannominato Fedra Inghirami, bibliotecario papale, poi segretario dei brevi: soggetto del famoso ritratto a Pitti, mirabile tanto per la pienezza della visione plastica, quanto per lo spontaneo realismo dei tratti e della placida posa; Sigismondo Conti di Foligno, storiografo e cameriere segreto del pontefice, committente della grande pala votiva nella Pinacoteca Vaticana, la Madonna di Foligno; Baldassarre Turini di Pescia, preside della cancelleria, che, durante la dimora di R. in Firenze, gli aveva affidato la pittura della Madonna del Baldacchino. Tra i capolavori dell'Urbinate è il ritratto d'Anonimo cardinale al Prado, oggi identificato per il cardinale Alidosi. L'effetto cromatico, stupendo nella sua quiete, pone questo ritratto all'inizio della stanza d'Eliodoro, quando già s'infiltrava nell'arte di Raffaello l'influenza dei Veneziani, mentre la Madonna di Casa d'Alba, nell'Ermitage a Leningrado, è certo prossima di tempo alle tre Virtù della Stanza della segnatura.

La decorazione della seconda Stanza, cominciata nel settembre del 1511, ebbe compimento alla fine del giugno 1514. Nei due primi affreschi: la Cacciata d'Eliodoro e la Messa di Bolsena, è ritratto il pontefice Giulio II; nell'ultimo, raffigurante l'incontro di Leone Magno con Attila, Leone X. In essi, come nelle pitture contemporanee, il colore di R. s'avviva, s'accende per influsso della tavolozza veneziana di Sebastiano del Piombo, e le masse si animano al giuoco delle ombre e delle luci, senza venire meno all'innata euritmia delle composizioni. Intanto, per Giovanni Goritz di Lussemburgo ("Corycius senex"), protonotario apostolico, R. dipingeva a fresco l'Isaia della chiesa di S. Agostino, ispirandosi ai profeti di Michelangelo nella vòlta Sistina, come più tardi, nel 1514, per l'affresco delle quattro Sibille nella chiesa della Pace, commessogli da Agostino Chigi.

A questo periodo di attrazione verso il colore dei Veneti appartengono, oltre la tenera Madonna della Seggiola e la Visione d'Ezechiele, che richiama nel frastaglio dei contorni la vòlta della stanza d'Eliodoro, una serie di ritratti, che sono tra le massime glorie dell'Urbinate: il Giulio II degli Uffizî, la Donna velata di Palazzo Pitti, il Baldassar Castiglione del Louvre. Ammiratore entusiasta dell'Urbinate, il Castiglione compose un'elegia in lode del ritratto, ove egli appare in tutta la signorilità di perfetto cortigiano, e gli suggerì, per le sue pitture, invenzioni ricordate da R. stesso nella lettera pubblicata dal Dolce, probabilmente relative agli affreschi della Stanza con l'Incendio di Borgo.

Durante il pontificato di Leone X, come durante quello di Giulio II, il Sanzio s'ebbe il favore dei dotti e dei potenti: gli furono amici il Bembo, il Bibbiena, il Beazzano e Antonio Tebaldeo; Giuliano de' Medici, nominato duca di Nemours nel 1515, eleggeva tra i suoi familiari l'Urbinate. Morto l'11 marzo 1514 Bramante, Leone affidò la continuazione della fabbrica di San Pietro a R., il quale, consigliato da Fra Giocondo, partecipe ai lavori sin dal 1513, sostituì al progetto di Bramante, a croce greca, a sistema centrale, un progetto di basilica a croce latina, d'effetto più calmo più consono alla serenità del suo spirito. Non pago d'avergli commesso la decorazione della Stanza e la direzione della fabbrica di San Pietro, Leone X, con un breve scritto dal Bembo il 27 agosto 1515, elesse R. a prefetto delle antichità. Le commissioni non lasciano tregua al pittore prediletto dalla corte pontificia: nella prima metà del 1515 gli viene affidato il ritratto di Giuliano de' Medici nel biennio 1515-16 il cardinale Bibbiena lo incarica del proprio ritratto, della decorazione alla "stufetta" e di una Madonna, legata poi a Baldassar Castiglione. Dal 1514 al giugno del 1517 l'Urbinate attese, tra gli altri innumerevoli lavori, alla decorazione della Stanza dell'Incendio di Borgo, ove il dominio schiacciante di Michelangelo e il largo intervento d'aiuti segnano l'inizio dell'accademia raffaellesca: l'Incendio di Borgo, finito nel 1515, la Battaglia d'Ostia, di quello stesso anno, l'Incoronazione di Carlo Magno, il Giuramento di Leone III, sono altrettanti pretesti ad esaltare l'immagine di Leone X presente in tutte le composizioni. Al 1515 risale il primo pagamento per i cartoni dei dieci arazzi di Fiandra destinati a coprire le vela dipinte da Antoniazzo Romano nella Cappella Sistina; l'ultimo al 21 dicembre 1516, nel quale anno fu collocata sopra un altare di San Giovanni in Monte a Bologna la pala di Santa Cecilia, allogata a R. dal cardinale Lorenzo Pucci per la beata Elena Duglioli Dall'Olio, esemplare preferito dai maestri emiliani nel primo trentennio del Cinquecento. Ancora nello stesso anno 1516 fu compiuto il musaico della cappella Chigi in S. Maria del Popolo, raffigurante i pianeti. R. stesso aveva architettato l'elegantissima cappella ed elevata la piramide sulla tomba d'Agostino Chigi. Egli disegnò la statua di Giona, scolpita nel marmo dal Lorenzetto, capolavoro d'euritmica grazia. Nel 1520, anno di morte di R. e d'Agostino Chigi, la decorazione della cappella era ancora lontana dall'essere finita. Intanto, fra il cumulo dei lavori che lo costringe ad estendere sempre più l'opera degli aiuti, R. si dedica con passione allo studio dell'antichità classica, a cercare le rovine, a misurarle, a leggere gli autori latini "per trovar le belle forme degli edifici antichi". Nel 1519 fu scritta dal Castiglione, secondo le idee del pittore, la famosa lettera a Leone X sulla pianta di Roma antica e a questa lettera alluse il poeta in un epigramma sulla morte del Sanzio: "Mentre tu con mirabile ingegno ricomponevi Roma tutta dilaniata, e restituivi a vita e all'antico decoro il cadavere dell'Urbe lacero per ferro, per fuoco e per il tempo, destasti l'invidia degli Dei, e la morte si sdegnò che tu sapessi rendere l'anima agli estinti e rinnovare, sprezzando le leggi del destino, quanto era stato a poco a poco distrutto da morte".

Interprete dell'antico, studioso dei monumenti di Roma, amico dei cultori dell'antichità, ricostruttore dell'eleganza delle antiche terme, R. era divenuto una specie di sovrintendente per la difesa delle vestigia dell'Urbe. La sua pittura stessa risente dello studio della statuaria antica: diviene, per sua disgrazia, scultura colorata: l'archeologo paralizza l'artista.

Compiuta la Stanza dell'Incendio, R. dipinse la favola di Psiche in una sala della Farnesina, aperta al pubblico nel dicembre del 1517. La decadenza della sua arte sempre più si manifesta: Leonardo Sellaio scrive a Michelangelo: "è scoperta la volta d'Agostino Chigi: chosa vituperosa a un gran maestro, pegio che l'ultima stanza di palazo, assai". E Sebastiano del Piombo, del San Michele e della Sacra Famiglia, compiute nel 1518 e inviate in Francia a Francesco I, parla con dispregio nella nota lettera a Michelangelo. Le commissioni piovevano da ogni parte d'Italia: tra le più insistenti richieste erano quelle di Alfonso I d'Este, bramoso di porre, accanto all'opera di Giambellino e di Tiziano, un esempio di R. Non più padrone del suo tempo, l'Urbinate era costretto a ricorrere ad aiuti: i ritratti erano iniziati da lui, finiti da altri, i disegni stessi, suggeriti da lui, erano condotti a termine da scolari. Marcantonio Raimondi serbò nelle stampe ricordo di tre composizioni raffaellesche non tradotte in pittura: la Predicazione di Gesù sulla soglia del Tempio, il Cenacolo, la Strage degli Innocenti. Nel 1517, con i suoi scolari, iniziò la decorazione delle Logge, compiuta nel '19, e in quello stesso anno lavorò intensamente al disegno della pianta di Roma antica. Forse nel 118 aveva dipinto l'opera migliore dell'ultimo periodo, il ritratto di Leone X tra Ludovico de' Rossi e Giulio de' Medici, solenne architettura d'ambiente e di figure. Per il cardinale Giulio de' Medici, il Sanzio attese alla costruzione di Villa Madama, vantata da Baldassar Castiglione in una lettera del 16 giugno 1519 a Isabella d'Este, e per lo stesso cardinale dipinse l'ultima sua opera, troncata da morte, la Trasfigurazione, commessagli sino dal 1517 per la chiesa di Narbona, in gara con la Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo. Della Trasfigurazione, che gli scolari appesero sopra il suo letto di morte, scrisse il Vasari: "Pare che [R.] tanto si restringesse insieme con la virtù sua per mostrare lo sforzo ed il valor dell'arte nel volto di Cristo, che finitolo, come ultima cosa che a fare avesse, non toccò più pennelli sopraggiungendogli la morte".

A 37 anni, al colmo della gloria, ammirato, adulato, esaltato, il 6 aprile 1520, R. morì. Per tutta Roma la sua morte fu sventura: tutti sentirono il vuoto lasciato dal grande che aveva nelle sue opere incarnato l'ideale sereno del Rinascimento. Lontano dai tormenti di Michelangelo, che con lui fu l'uomo più rappresentativo del suo tempo, trascorse la vita fra due corti, di Urbino e di Roma, festeggiato, adorato. Impersonò nella sua arte serena l'ideale urbinate di perfezione umana, già espresso da Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano.

Come per Leon Battista, per l'Urbinate bellezza è euritmia. Tradotto dall'antico nel ritmo piano e soave di R., è il gruppo delle Tre Grazie nel quadretto minuscolo di Chantilly, tra i capolavori della giovinezza. Le forme delle tre fanciulle rotondeggiano; lo spazio si amplia intorno al gruppo, incantevole d'infantile grazia: le masse dei colli ondeggiano seguendo l'arco del fiume: sempre più s'allentano le curve come eco che si ripeta, affievolendo, di piano in piano. Tanta giustezza d'orecchio musicale pronto a cogliere le onde armoniche attraverso lo spazio sorprende nell'adolescenza di R., nelle Tre Grazie come nel gruppo della Madonna del Libro a Leningrado, ove ogni contorno, ogni gesto ha dolcezza ineffabile, e tutto ha una purezza estrema: il gruppo che pare esca con la sua conca leggiera dalla trasparente conca del cielo, il paese terso, tra acque limpide e nevi. Sempre, il ritmo è l'anima dell'arte di R., sia che elevi, sull'esempio di Leonardo e di Fra Bartolomeo, gruppi piramidali, sia che fonda sopra un sistema di rette e curve contrapposte la grande scena della Disputa, o a lenti ritmi di danza muova le figure delle Virtù nelle lunette della Stanza della Segnatura. Il gruppo della Madonna del Louvre, celebre sotto il nome di Bella giardiniera, s'innalza nel vasto paese come in un circolare tempio, sotto la cupola che tutto l'abbracci; nella Deposizione della Galleria Borghese e nella Carità della predella ora al Vaticano, ove s'infiltra l'influsso di Michelangelo, gli atteggiamenti a contrapposto si fondono in unità perfetta, le linee pianamente s'intrecciano; nell'incompiuta Madonna Esierházy il gruppo, all'unisono con le ondulazioni del terreno, si snoda a lenta spira; non un particolare si sottrae alla sinfonia dei contorni e delle masse; una linea genera l'altra, da forma nasce forma. Fra Bartolomeo era presente a R., quando egli componeva la Madonna di Casa Tempi, ora nella Pinacoteca di Monaco, ma l'impeto del domenicano si trasforma in delicato idillio: si confondono i respiri delle bocche accostate, guancia si stampa su guancia, l'ombra smorza il fuoco dei grandi occhi appannati di Gesù, che abbracciano in lento giro l'immensità dello spazio. Calma d'atteggiamenti, purità d'aspetti, dolcezza di sguardi sognanti, sinfonia di linee, tutto ciò che forma l'incanto dell'arte giovanile di R., pare trovi rispondenza nella sua stessa immagine, quale ci fu tramandata dagli autoritratti, regolare e soave di linee, composta a serena bellezza. In Roma, sin dagli affreschi della prima Stanza vaticana, la composizione di R. s'ingrandisce; s'approfonda lo spazio della Disputa per l'arco di nuvole contrapposto nel cielo all'arco dei teologi sulla terra: s'innalzano maestose le vòlte del tempio bramantesco sul capo degli eroi del sapere, nella Scuola d'Atene, prolungandosi verso il lontano cielo; e nella lunetta delle Tre Virtù, non un particolare sfugge alla cadenza melodica di una linea riposata, lenta, scandita a festoni. I ritmi di danza delle Virtù riecheggiano in un capolavoro del primo periodo romano; il tondo di Casa d'Alba, già a Leningrado, ove largo e maestoso si svolge il giro delle linee entro il cerchio, e il paese declina verso il centro perché dietro la testa della Vergine, michelangiolesca di forme, solo rida il cielo. Altro capolavoro di questo periodo è il ritratto del cardinale Alidosi al Prado, tra le più elette creazioni di R., che nell'aristocratica immagine semhra avere impersonato il suo ideale di umana perfezione.

Verso il 1514 l'esempio di Sebastiano del Piombo conduce l'Urbinate a sentirne il colore con una vivacità che sembra prodigio nella sua arte; ed ecco negli affreschi della seconda Stanza, masse d'ombra e masse di luce contrapporsi, coordinarsi, bilanciarsi per comporre nuovi ritmi spaziali. Dramma di luce e d'ombra, di fantastica intensità, è la Liberazione di S. Pietro dal carcere. Anche nei ritratti contemporanei alla seconda Stanza abbiamo la rivelazione di un R. colorista.

Tipo ideale di bellezza raffaellesca, serena, olimpica, fidiaca nella maestà delle forme, la Donna velata è messa in risalto dallo splendore della seta grigia foderata d'oro vecchio orlata di aurei cordoni, magnifica come manto sacerdotale; e nel ritratto di Baldassarre Castiglione, cromatica sinfonia di grigi aurati e caldi, altissimo è il valore pittorico della luce che filtra nello spessore delle maniche e le pennelleggia di sontuose strie argentine. La posa placida, la fisionomia dolce e benigna del grande umanista, prendono calore di vita dalla contenuta sensualità del colore. Alla fine del suo periodo aureo, R. compose la Madonna di Sisto IV - la Madonna Sistina, ora nella Galleria di Dresda -, aprendo, dietro due verdi cortine, la divina visione sul fondo biancheggiante di cielo. Maria, figlia della campagna romana, tiene il suo aquilotto tra le braccia: ha tutta la freschezza degli anni, la forza della sua terra. Il bambino, sicuro di sé, gagliardo e bello, volge imperioso lo sguardo in cui brucia la vampa del sole di Roma; il vecchio Sisto ha la grandezza di un patriarca; Santa Caterina guarda dall'alto alla terra; due angioletti, appoggiati alla mensa d'altare, sul fondo di nuvole, girano verso la divina visione grandi occhi di sogno. Forse nessun'altra opera, neppure le più alte, rese popolare il nome di R. come la Madonna Sistina, nessuna gli attrasse di più i cuori.

Nell'ultimo periodo, con la sola eccezione del cartone per l'arazzo della Pesca miracolosa, sfugge a R. la sognante dolcezza dei suoi ritmi. Le masse delle figure s'addensano; gli atteggiamenti diventano statuarî; l'Urbinate stesso, che nella potente unità plastica del ritratto di Leone X con Ludovico de' Rossi e Giulio de' Medici aveva ancora un'espressione di grandezza, fonda, prima dei suoi scolari, l'Accademia di Roma.

Versatile, come tutti i grandi artisti del suo tempo, l'Urbinate si applicò anche all'architettura. Morto Bramante, ne proseguì l'opera. Consigliato dapprima, per la fabbrica di San Pietro, da Fra Giocondo, pensò, come si è accennato, di opporre un progetto di basilica a croce latina al progetto di Bramante a croce greca. Aveva Bramante cominciato a ordinare le logge, nel Palazzo Vaticano, sul cortile di S. Damaso, e R. condusse interamente a fine la parte occidentale e il primo ordine della settentrionale, rivestiti dai discepoli, secondo le sue istruzioni che trasformarono l'iconografia cristiana. Non restano più gli edifici disegnati da R., e solo nella Villa Madama, che Giovanni da Udine e Giulio Romano rivestirono di pitture e di stucchi, si può ancora intravvedere, tra i mutamenti, la sua invenzione magnifica. Così nella cappella Chigi a Santa Maria del Popolo si trova ancora, sotto le superfetazioni berniniane, lo spirito che sempre animò R. architetto, il ritmo regolare che sempre risuona, nei suoi edifici, come nelle sue pitture. Ogni idea funebre è lontana dalla cappella Chigi, ove echeggia il suo ritmo sereno: l'ampio arco d'entrata si ripercuote nella parete di faccia e da questa sulle altre pareti; i pilastri ripiegati a libro smussano gli angoli della pianta quadrata, permettendo alla trabeazione circolare d'impostarsi alla tangenza degli archi; le otto finestre del tamburo rispondono alla divisione in otto parti del cerchio e agli otto lacunari della cupola; il prisma dell'altare si ripete nelle basi sottoposte alle piramidi: bilancio di vuoti e di pieni, simmetria di linee che si rispecchiano da parete a parete, con morbidezza estrema. Si piegano i pilastri, si frangono le cornici, s'aprono come ali, per lo slancio delle acute punte, i curvilinei trapezî dei pennacchi; sale di grado in grado il diapason delle voci dal basso, dove le interruzioni delle linee sono lente e soffocate, verso la cupola bramantesca, sonora per gli squilli dell'oro; il frastaglio delle masse negli angoli attenua il geometrico rigore caro ai Quattrocentisti esprimendo un ritmo più libero e molle. Questo ammorbidirsi delle linee, questo fluttuare di linee e di penombre negli angoli, riposa sopra un principio pittorico, come la vicenda di bianche cornici e marmi colorati, portasanta rossiccio e giallo antico: vicenda diffusa poi, con grande pompa policromica, nei monumenti del tardo Cinquecento. Come da un pertugio, noi vediamo così l'opera di R. architetto, che, negli ultimi anni, fu assorto nell'eroico sogno di ricostruire l'antica Roma.

Squisito disegnatore fu R. sin dal suo primo apparire nel mondo dell'arte. A diciassette anni, nel foglio del museo Wicai di Lille, con lo studio per la testa del santo e per il panneggio di un angelo del quadro di San Nicola da Tolentino, il segno a punta d'argento, esile, velato, leggiero, riflette una sensibilità più delicata che quella del Perugino maestro, una dolcezza tutta penombre e tenui sfumature. Nei disegni, più ancora che nelle pitture, si rispecchiano le sue fresche impressioni dal mondo artistico attorniante: ora egli si vale del segno reticolato, a tratti incrociati, del Perugino, ora delle spiralette di Leonardo, ora dei lievi contorni di Fra Bartolomeo; e sempre pieghevole è il segno a rendere l'espressione: sia che in pochi tratti, tipici di Raffaello, dardeggi sul foglio l'immagine della Madonna del Cardellino (Oxford, Ashmolean Museum); sia che dissolva in morbidezze atmosferiche la consistenza della forma nel disegno di Santa Caterina (British Museum), tessuta di veli su veli. Giunge, valendosi della penna, alla rapidità leonardesca del gruppo di Madonna leggente e Bambino (Albertina di Vienna), prossimo di tempo alla Deposizione, per costringersi, subito dopo, alla fissità della serrata costruzione plastica nello studio di testa giovanile per la Trinità di San Severo (Oxford, Ashmolean Museum), e improvvisa con furia di segno leonardesca le teste magnifiche del cavallo e di un angelo per l'affresco dell'Eliodoro, su fogli di Oxford e di Parigi (Louvre). Nei disegni dell'ultimo periodo, come nelle tarde pitture, deviato dallo studio di Michelangelo e della statuaria antica, volse l'Urbinate all'accademia, ma sempre in questi disegni la fredda forma statuaria si anima per la dolcezza pittorica di un chiaroscuro lucente, serico, quasi argentino, mostrando come rimanga fino all'ultimo viva la sensibilità di R. disegnatore.

L'assenza di passionalità, la serena visione della vita, permisero all'Urbinate di volgere tutta la sua attenzione alla grazia delle immagini e alla nobiltà della posa. Armonia di proporzioni, regolarità di lineamenti, traducono l'ideale che della bellezza umana si era formato, sulle teorie del Cortegiano, R., per giungere dalla gentilezza sognatrice della Madonna del Granduca, rosea, bionda, colorita di tinte trasparenti e leggiere, allo splendore di carni dorate, di neri occhi romani, della Vergine di Dresda. Questo ideale di florida bellezza, lontana dai tumulti della vita, paga di una dolce contemplativa calma, fece di R. l'artista classico dei tempi moderni, il più adorato dei pittori italiani, dai suoi tempi ai nostri. (V. tavv. CXXXIII-CLVIII e tav. a colori).

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