SORBI, Raffaello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)

SORBI, Raffaello

Chiara Ulivi

– Nacque a Firenze il 24 febbraio 1844 da Andrea e da Erminia Aglietti.

Dal talento precoce, fu iniziato al disegno dal padre, valente copista (Baboni, 1994). Nel 1858 s’iscrisse all’Accademia di belle arti seguendo i corsi di disegno di Antonio Ciseri, del quale fu uno degli allievi prediletti.

Nel 1861 si presentò all’Esposizione nazionale di Firenze con La morte di Corso Donati (Firenze, Galleria dell’Accademia), vincendo il concorso triennale. Alla stessa esposizione, che celebrava i saperi e le arti d’Italia, figuravano i punti di riferimento del giovanissimo Sorbi, eccetto Ciseri: da Domenico Morelli a Stefano Ussi, fino a Vincenzo Cabianca e ai macchiaioli. La pittura di ambientazione storica si candidava a divenire il linguaggio della nazione nascente: tra i dipinti più acclamati, Gli iconoclasti di Morelli (1855, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) e La cacciata del duca d’Atene di Ussi (1860, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti) rievocavano fatti storici precisi con riferimenti al presente politico e con una rappresentazione efficace di passioni e ambientazione (Viaggio attraverso l’Esposizione italiana del 1861, Firenze 1861, pp. 114 s., 117); da una prospettiva diversa, la sintesi pittorica macchiaiola di Cabianca combinava in I novellieri toscani del XIV secolo la ricostruzione storica con una restituzione veritiera di luce, colori, forme e sentimenti. Ciseri, all’epoca al lavoro sul Martirio dei Maccabei per S. Felicita a Firenze (1852-63), armonizzava anch’egli rigore filologico e ricerca di verità nelle passioni rappresentate. Sorbi ne riprese l’impostazione solenne soprattutto nelle opere precoci, a partire proprio da La morte di Corso Donati, in cui la teatralità del taglio compositivo era vivificata da un convincente effetto di luce e da una fattura bozzettistica che accennava le forme senza dettagliarle, come faceva Cabianca; la fierezza di alcuni personaggi derivava invece dai tipi di Morelli e Ussi.

Nel 1863, con Fra’ Girolamo Savonarola nel cortile del convento di S. Marco spiega la Bibbia ad alcuni suoi amici, Sorbi vinse il pensionato romano, ma vi rinunciò «per disimpegnare a certe commissioni ricevute», come scriveva Telemaco Signorini, che stimava le potenzialità del giovane, non risparmiandogli critiche per la rinuncia (Signorini, 1867, 1968, p. 58). Ma Sorbi non lasciò mai la sua città. Tra il 1866 e il 1869 lavorò per Vittorio Emanuele II a Corso Donati che rapisce la sorella Piccarda dal convento di S. Chiara (Firenze, Appartamenti reali di Palazzo Pitti), che Signorini stigmatizzò per la composizione «platealmente enfatica e miseramente scenografica» (ibid.), ma in cui la drammaticità teatrale convive con un riuscito effetto di luce naturale. «Si sente lo scolaro del Ciseri: la composizione riempie troppo la tela; il disegno è tondeggiante e grave; il colore aspro; nella invenzione non v’ha né spirito di storia, né sapore di novità: e nondimeno splendono in quella opera le prime fiamme del genio giovanile, le quali scaldano la freddezza ampollosa dello stile, e l’abilità, meravigliosa per uno scolaro, ma superficiale, dell’esecuzione. In fatti la luce violenta, l’eccesso del chiaroscuro, sebbene malamente studiati dal vero, svelano gli sforzi di un ingegno, il quale si dibatte nella gabbia accademica, cercando un pertugio per uscire ne’ cieli aperti» (Boito, 1873, 1877, p. 194).

«Dodici anni addietro, quand’era ancora quasi fanciullo, parve ai fiorentini un portento: i vecchi professori volevano spezzare i loro pennelli; il pubblico se n’era di botto innamorato» (p. 193): Sorbi esordì dunque in mezzo a fermenti e giudizi di segno diverso, attaccato e osannato da pubblico e critica, senza schierarsi nettamente né tra i novatori né tra gli accademici, e sperimentando e mescolando vari linguaggi. Questo ha reso complessa la valutazione della sua figura, tanto che nel 1988 Antonio Parronchi scriveva che Sorbi doveva ancora uscire dal «dignitoso provincialismo» in cui era stato inserito dalla critica novecentesca perché era valutato solo attraverso la prospettiva della rivoluzione macchiaiola, imputandogli una «magniloquenza scenografica» che lo confinava nell’alveo dell’accademia (Parronchi, 1988, p. 10). D’altro canto, per Sandra Pinto nel 1974 la produzione interessante di Sorbi sta tra il 1861 e il 1866, divenendo poi «reclusione volontaria nel mestiere stigmatizzata dai contemporanei» (Romanticismo storico, 1974). I contemporanei erano Signorini e Camillo Boito, che espressero in realtà un articolato giudizio sull’attività di Sorbi.

Una fattura sintetica analoga a quella di La morte di Corso Donati, ma con una resa più accurata, si trova in Scena storica (1864, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), in cui il tema, non identificato con certezza, è affrontato con il gusto per l’attualizzazione dell’antico, sotto i colpi di una luce naturale e nel rispetto della verità di costumi e ambienti (Matucci, 2013, pp. 60 s.), sull’esempio della pittura storica alla Paul Delaroche, vista dagli artisti dell’epoca nella collezione dei principi Demidoff di San Donato (E. Spalletti, Gli anni del Caffè Michelangelo, Roma 1985, pp. 54, 96).

Il tema trecentesco rappresentava sovente la figura di Dante, che Sorbi ritrasse in molte occasioni. Una nuova iconografia dantesca di declinazione patriottica andava nascendo, ma nelle opere di Sorbi non ci sono risvolti politici, bensì indagini di un vero immaginato e applicato a un’altra epoca: la ricerca della vita quotidiana in altri spazi e con altre figure, con uno spirito evocativo, estetizzante e letterario, che portava a rappresentare l’Incontro di Dante e Beatrice o Dante sulla riva dell’Arno piuttosto che, ad esempio, Dante in esilio (Matucci, 2013, pp. 60 s.).

Sui temi antichi si esercitavano anche i pennelli rivoluzionari dei macchiaioli, che Sorbi frequentò nel consesso del Caffè Michelangelo tra il 1866 e il 1869 (p. 50). Signorini scriveva di lui: «Se dobbiamo ammettere il famoso poetae nascuntur di Orazio, converremo che [...] il Sorbi è nato pittore [...]. Il suo primo lavoro, il concorso triennale, fece credere alla vecchia Firenze che i miracoli dell’arte del Quattrocento si rinnovassero [...]. Così la sana critica tacque e il giovane pittore divenne la vittima del fanatismo estremo e delle estreme esagerazioni dei molto autorevoli dell’arte [...]. La madre dei Gracchi fu il suo secondo quadro e dette disgraziatamente ragione alle nostre previsioni [...] l’eccessivo studio dell’abilità del pennello lo preoccupò tanto da condurlo a una soverchiamente felpata e pretensionosa fattura» (Signorini, 1867, 1968, pp. 57 s.). Come in risposta a Signorini, e stimolato dai dibattiti sul vero e sulla pittura di brani di natura, Sorbi iniziò intorno al 1865 a dipingere quei «quadretti microscopici» che Anna Franchi (1902) definiva di «sentimento squisito» per finezza di disegno e sobrietà di tono: contenuti nelle dimensioni, tanto da richiedere l’uso di una lente d’ingrandimento per dipingerli, ma esatti nella costruzione di volumi e spazi, restituiscono in maniera efficace la fragranza dell’immagine colta dal vero, senza rinunciare a quel bilanciamento compositivo che rimandava agli studi dei maestri del Quattrocento, in linea con i macchiaioli. Esemplare a questo proposito è Casa colonica (1869-75 circa, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), di appena 6×8,5 cm, in cui il rigore geometrico delle architetture è modulato solo dalla luce che le bagna: il riferimento erano opere come Tetti al sole di Raffaello Sernesi (1860 circa, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna).

Sorbi fu anche un ottimo ritrattista, come Ciseri: nei ritratti degli scultori Emilio Zocchi e Oronzo Lelli (1868, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti) la restituzione accurata del dato fisionomico si associa a un’intensa caratterizzazione dei personaggi, rappresentati su fondo neutro e da un punto di vista ravvicinato a far risaltare il vigore espressivo. Nel 1869 Sorbi ricevette la visita di Giovanni Dupré, che lo incaricò di dipingere Fidia che scolpisce la statua di Minerva, eseguito con piena soddisfazione del committente (Comanducci, 1934; Boito, 1873, 1877, p. 200).

Tra gli anni Sessanta e i Settanta, nella pittura in costume Sorbi iniziò a sostituire i temi letterari con soggetti di genere: l’indagine del vero veniva applicata a scene di vita quotidiana in ambientazione antica. Fu questo filone a procurargli nel 1872 un contratto con il mercante francese Adolphe Goupil, che in cambio dell’esclusiva gli garantiva un fisso mensile di 1000 franchi al mese (Cinelli, 1998; La Maison Goupil, 2013), analogamente a quanto accadde dal 1873 a Giovanni Boldini, entrambi sulla scia di Ernest Meissonier e Mariano Fortuny. Soggetti romani, pompeiani, medievali, rinascimentali e settecenteschi illuminati da una luce tersa entravano in spazi ben calibrati e restituiti con una pennellata più sintetica rispetto a quella preziosa di Boldini. Nacque una vasta produzione in cui comparivano personaggi e soggetti ricorrenti: madri e bambini, gli innamorati, la locandiera, i giocatori, l’osteria, soldati, cacciatori, suonatori... Tutto veniva registrato su piccole tavolette con un piglio rapido e spontaneo, una fattura macchiata e brillanti effetti di luce (Gentiluomo in parrucca in atto di bere, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), oppure su dimensioni di maggior respiro e con un fare più compiuto, come in Idillio romano (1903; Parronchi, 1988, p. 86) che rimanda ai modi di Lawrence Alma Tadema, o Mangime ai piccioni (p. 60) o Une rue de Pompei (p. 129). Dello stesso passo sono anche soggetti di vita contemporanea come Una via di Firenze (p. 179), scena alla Boldini in chiave non più parigina ma fiorentina, di gran finezza d’osservazione, misura e grazia (Boito, 1873, 1877, p. 199).

Sorbi ebbe rapporti anche con altri commercianti d’arte, Galerie Heinemann a Monaco, Arthur Tooth & Sons a Londra, Galerie Eduard Schulte a Berlino: la disinvoltura con il mondo del mercato era probabilmente sostenuta da una consuetudine familiare, data l’attività di copista del padre (Cinelli, 1998). Dopo aver rammentato che Sorbi era il vanto di collezioni americane, russe o inglesi mentre in Italia era quasi sconosciuto, Boito racconta: «Gli è che il Sorbi [...] non ha tempo di lavorare per sé, non ha tempo di pensare a sé. Gli spazzano la stanza di ogni cosa ch’esca dalla sua mano, appena egli ci ha messo sotto la cifra; ed egli fa presto, presto e bene, e quando ha cominciato un quadro, non si svaga, non divaga, ma lo finisce [...] nell’amore che questo singolare e semplicissimo giovine ha, ne’ suoi lavori, per l’arte, v’è un’ombra di scetticismo. Abbraccia con fervore ogni cosa, l’accarezza, l’ama più coi sensi che col fondo del cuore, ne gode fino all’ultimo, se ne sazia e la abbandona senza rammarico, senza rimembranza» (Boito, 1873, 1877, pp. 196 s.).

La grazia intima e domestica di una scena medievale come Una terrazza sull’Arno (1874; Parronchi, 1988, p. 45), ambientata verosimilmente nella zona di Piagentina, appena fuori Firenze, dichiara ancora la prossimità di Sorbi alle ricerche macchiaiole: Piagentina aveva infatti ospitato i macchiaioli nel corso del settimo decennio proprio alla ricerca del vero su temi di familiare quotidianità nelle residenze borghesi di campagna. Fatta eccezione per la lieve e divertita malizia delle ragazze distratte dagli stornellatori, il dipinto rimanda a un’opera dalla meditata costruzione come Primizie (1868) di Odoardo Borrani. La stessa prospettiva sulla città e sul fiume si scorge in un’opera che sembra compiacere il gusto anglofilo preraffaellita, Girotondo (1878; Cinelli, 1998). Tra il 1875 e il 1885 Sorbi si dedicò ancora allo studio del vero su tavolette come Paesaggio, Veduta di un bosco, Veduta di un bosco con uomo che cavalca e Portico di casa colonica (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti): in quest’ultimo lo spazio nasce su una «meditata intelaiatura di linee oblique e parallele» (Matucci, 2013, p. 56) evidenziate da potenti effetti di luce, e animate dall’interesse per il dato quotidiano del lavoro campestre, come accadeva nella pittura di Sernesi (Ladruncoli di fichi, 1861, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti).

Nel 1892 Sorbi venne nominato professore aggiunto all’Accademia di belle arti di Firenze, con il compiacimento di Giovanni Fattori. In quegli anni si presentava alle esposizioni con i suoi minuscoli studi dal vero, nonostante alcune perplessità dei critici (De Fonseca, 1897). Era presente nella collezione di Renato Fucini, sorta dalle amicizie con i macchiaioli, con i quali lo scrittore condivideva l’amore per la terra di Toscana e la capacità di renderne l’essenza in rapidi bozzetti (I macchiaioli..., 1985).

Sorbi partecipò con regolarità alle esposizioni fiorentine, come membro dell’Associazione degli artisti italiani a Firenze. Nel 1921 alla Fiorentina primaverile espose La festa di Bacco e Dal liquorista, e nel 1927 si presentò con Sulla Moscia, L’aratore e Il cacciatore all’ottantesima Esposizione nazionale. Si spense a Firenze il 19 dicembre 1931.

Il figlio Giulio divenne pittore, riproponendo lo stile del padre nei soggetti campestri, e si fece garante dell’autenticità delle opere paterne (Matucci, 2013, p. 48).

Fonti e Bibl.: T. Signorini, Come l’assenza della critica isterilisca gl’ingegni, in Gazzettino delle arti del disegno, I (1867), 8, consultato nell’edizione a cura di A.M. Fortuna, Firenze 1968, pp. 57-61; C. Boito, La pittura nuova (1873), in Pittura e scultura d’oggi, Torino 1877, pp. 193-201; E. De Fonseca, Conversazione d’arte, Firenze 1897, p. 18; A. Franchi, Arte e artisti toscani dal 1850 ad oggi, Firenze 1902, p. 151; A.M. Comanducci, I pittori italiani dell’Ottocento. Dizionario critico e documentario, Milano 1934, p. 697; Romanticismo storico (catal.), a cura di S. Pinto, Firenze 1974, p. 335; S., R., in U. Thieme - F. Becker, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, XXXI, Leipzig 1980, p. 289; I macchiaioli di Renato Fucini (catal.), a cura di E. Matucci, Firenze 1985, p. 138; A. Parronchi, R. S. (catal.), Firenze 1988; A. Baboni, La pittura toscana dopo la macchia. 1865-1920: l’evoluzione della pittura dal vero. Intrecci con la macchia e inizi del naturalismo. Il vero tra pittura di genere, di storia e d’accademia, Novara 1994, pp. 179 s.; B. Cinelli, Girotondo, in Aria di Parigi nella pittura italiana del secondo Ottocento (catal., Livorno), a cura di G. Matteucci, Torino 1998, pp. 183 s., n. 77; B. Matucci, Dipinti d’accademia nella raccolta Ambron, in La collezione Ambron alla Galleria d’arte moderna di Firenze, I, Pittori di accademia, macchiaioli e postmacchiaioli, a cura di D. Liscia Lemporad - G. Lambroni, Firenze 2013, pp. 25-71; La Maison Goupil. Il successo italiano a Parigi negli anni dell’impressionismo (catal., Rovigo-Bordeaux), a cura di P. Serafini, Milano 2013, pp. 204-209, nn. 83-88.

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