Razza

Universo del Corpo (2000)

Razza

Brunetto A. Chiarelli

Il termine razza compare per la prima volta in Europa nel 14° secolo e viene usato inizialmente nell'ambito dell'allevamento degli animali (probabilmente originato dal francese antico haraz, "allevamento di cavalli", volgarizzato successivamente in race). Esteso all'uomo alla fine del Seicento, il vocabolo entra nell'uso corrente nel secolo successivo. In riferimento all'essere umano, il concetto di razza diventa fuorviante e privo di senso quando tende a non distinguere le caratteristiche fisiche da quelle della cultura, della religione o dell'economia, cioè quando le caratteristiche storiche e culturali dei gruppi etnici sono confuse con quelle biologiche delle diverse popolazioni umane.

l. Dal concetto di razza al razzismo 'scientifico'

Nelle civiltà che hanno forgiato la cultura europea il concetto di razza non esiste. Gli antichi greci definivano barbari i non appartenenti alla cultura greca, ma questi potevano accedere alla 'grecità' semplicemente assorbendola. La civiltà romana non faceva distinzioni di razze: gli uomini erano liberi o servi, secondo una terminologia meramente economica. I romani non esitavano ad appropriarsi di elementi di altre culture integrandoli nella propria (addirittura alcuni imperatori non furono etnicamente di origine romana). È nel Medioevo che l'affermazione della diversità culturale viene qualificata in termini teologici. Nella cristianità medievale le dottrine teocratiche amavano trasferire nel quadro della nuova società le antiche gerarchie del tribalismo giudaico: così Sem era il capostipite dei clerici, Jafet dei signori, Cam delle stirpi dei servi. Ovunque si estende il potere della cristianità la Chiesa integra le diversità nelle forme della cultura cristiana, la quale non conosce la sfida dell'altro se non in due casi: dentro i suoi confini la presenza degli ebrei e oltre i confini quella degli infedeli, cioè dei musulmani divenuti, a partire dal 7° secolo, una minaccia grave per la cristianità. La soluzione adottata in entrambi i casi è quella del rigetto: per gli ebrei, che erano una minoranza, la reclusione nei ghetti e la privazione del diritto di proprietà; per i musulmani le Crociate. Non si può parlare di razzismo vero e proprio perché non erano prese in considerazione le differenze biologiche; infatti gli ebrei erano colpevoli di deicidio e gli infedeli di opporsi al disegno di Dio, che la cristianità medievale riteneva di incarnare in modo definitivo e assoluto. L'appartenenza religiosa si rivela quindi un fattore tendente ad accentuare la coscienza della diversità e la contrapposizione noi/altri diviene una contrapposizione fedeli/infedeli con forti connotazioni morali (buoni/cattivi, bene/male). Di fatto il cristianesimo medievale introduce nella percezione dell'alterità un fattore di incomunicabilità che esclude qualsiasi relazione di reciprocità: la medesima concezione che definisce ateo chiunque non sia inquadrato in una religione tradizionale. Ciò assume una rilevanza ancora maggiore con la scoperta del Nuovo mondo, un evento che da questo punto di vista corrisponde alla 'scoperta dell'alterità assoluta' (Todorov 1982; Chiozzi 1990). Gli indigeni d'America sono 'gli altri' in assoluto anche perché è difficile inquadrarli fra i figli di Abramo. Quale figlio di Abramo sarebbe giunto così lontano? Anche se non si parla di razzismo biologico, negli ambienti teologici del tempo non mancano accenni all'inferiorità degli indigeni d'oltre Atlantico, dovuta a ragioni di natura o addirittura di sangue. La scoperta dell'America segna così l'inizio di un nuovo interesse per l'altro, sia dal punto di vista religioso sia da quello scientifico. Al di là del dibattito sulla natura, umana o meno, dell'altro, gli uomini di religione, i missionari, si comportavano come se gli indigeni fossero realmente da considerare uomini solo quando si convertivano ripudiando la loro divinità, la loro cultura, la loro identità (Balducci 1990). Dalla fine del 15° secolo questo evento determina la nascita del razzismo: la necessità cioè di trovare giustificazioni biologiche per il dominio dell'uomo sull'uomo. Nel Settecento, ossia nel secolo in cui si sviluppò l'ideologia del progresso, la distinzione fra popolazioni cominciò a basarsi su considerazioni di carattere scientifico. In un primo momento le differenze fra le popolazioni vennero attribuite al clima.

Secondo la cronologia biblica, l'umanità aveva avuto origine 6000 o 7000 anni prima di Cristo ed era opinione comune che Adamo ed Eva fossero pressappoco come i moderni europei e che le differenze tra le diverse popolazioni fossero da imputare a un adattamento dei progenitori e dei loro discendenti alle diversità climatiche. Si affermava cioè il concetto che le popolazioni 'altre' erano forme devianti, occasionali rispetto alle popolazioni europee che conservavano intatte le caratteristiche basilari. Alcuni pensatori per spiegare questa eterogeneità fisica ipotizzarono che solo la razza bianca fosse derivata dal progenitore Adamo e che le altre (i cinesi, gli indios e i neri) fossero derivate da coppie preadamitiche. Queste posizioni poligeniste favorirono, tra l'altro, l'acquietarsi dei dubbi morali di alcuni coloni che poterono così giustificare lo stato di schiavitù in cui avevano ridotto i neri. Più in generale, la diversità fu intesa come l'effetto di un cammino delle generazioni umane verso l'incivilimento che aveva toccato il suo punto più alto nella razza bianca dell'età dei Lumi, lasciando dietro di sé, quasi a documento delle varie tappe, popolazioni rimaste lontane dalla piena razionalità, come i neri, nei quali sarebbe sopravvissuta l'infanzia della specie, o gli indios, nei quali già si sarebbero rivelate qualità morali preludenti alla maturità dell'uomo europeo moderno. Il disprezzo filosofico per i 'popoli di natura', tuttavia, non è ancora razzismo; perché la diversità diventi razzismo è necessario il presunto e surrettizio sostegno scientifico delle prove biologiche. A fornire ingredienti a questo pseudogiudizio e a dare parvenza scientifica al razzismo è la forzata interpretazione del darwinismo sociale con il principio della selezione, cioè la sopravvivenza del più forte e l'eliminazione del più debole; un contributo nuovo e una falsa giustificazione naturalistica al dominio delle popolazioni bianche sulle altre.

Ma le idee razziste non si svilupparono solo per un mistificato biologismo: esse trovarono le loro basi nella volontà di potenza degli eserciti nazionali e delle organizzazioni industriali e commerciali centroeuropee dell'Ottocento. Teorico delle suddette concezioni fu il conte francese J.-A. de Gobineau, che nel suo Essai sur l'inégalité des races humaines (1853-55) dimostrò, facendo uso di grande erudizione, come la disuguaglianza delle razze umane sia il meccanismo che regola la storia, che nessuna civiltà è nata o è durata senza la razza bianca e che, a sua volta, questa ha avuto e ha come porzione eletta la famiglia ariana. Venuti dall'Asia centrale, gli ariani compirono imprese mirabili come la distruzione dell'Impero Romano, di cui ereditarono tutte le qualità positive, ma si pervertirono anche, mescolandosi ad altre razze e alle popolazioni locali come avvenne nell'Europa mediterranea. Tuttavia, nella zona che va dalla Senna alla Renania, gli ariani si sono conservati relativamente puri: per questo motivo, secondo Gobineau, il tedesco di razza ariana è un essere fondamentalmente dominatore. Queste idee furono riprese e sviluppate in seguito da un inglese naturalizzato tedesco, H.S. Chamberlain, che espresse compiutamente il suo pensiero in un volume pubblicato nel 1899, Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts. Per Chamberlain, la civiltà moderna nasce da tre elementi, cioè la cultura greca, il diritto romano e la personalità di Cristo, ereditati e diffusi da tre comunità etniche: gli ebrei, i tedeschi e i latini; questi ultimi, però, non sono che un 'caos etnico'. Successivamente le idee di Chamberlain si semplificarono: gli ebrei sono una razza 'negativa' e 'bastarda' e Cristo 'non era un ebreo'. Egli venne nel mondo per diventare il Dio dei 'giovani popoli indoeuropei esuberanti di vita' e soprattutto il Dio dei teutoni, perché nessun altro popolo era meglio dotato di quello teutonico per ascoltare la sua voce divina.

2. Sistematica naturale e biodiversità umana

Per affrontare in modo scientifico il problema della variabilità umana è necessaria innanzitutto una chiarificazione concettuale. La nostra specie, secondo la terminologia linneiana, è rappresentata da un solo genere Homo e da una sola specie sapiens. Anche se l'individuo è l'unità fondamentale su cui opera l'evoluzione, l'entità di base della sistematica biologica è la specie. La definizione di specie permette di caratterizzare le entità inferiori. Secondo il criterio biologico elaborato negli anni tra il 1950 e il 1960 da E. Mayr, le specie sono gruppi di popolazioni interfeconde, isolate riproduttivamente da altri gruppi simili. Tale definizione presuppone una coesione fra gli individui che formano la stessa specie, dovuta ad alcuni fattori fondamentali: la facoltà di discriminazione e di riconoscimento dei componenti di una specie come appartenenti a una singola comunità riproduttiva; la coesione genetica fra i componenti di una stessa specie, determinata dal continuo rimescolamento del materiale genico, per cui la specie (o più precisamente la realtà della specie) non è altro che un discontinuo complesso di geni della popolazione di cui è composta. Questo concetto presume che le specie siano composte di popolazioni e che le caratteristiche della specie non siano tipologiche ma statistiche. La specie pertanto è un sistema che assicura e protegge le combinazioni genetiche favorevoli. Infatti la possibilità di accoppiamento, e quindi lo scambio dei geni, assicura all'individuo e alla popolazione la variabilità necessaria per l'adattamento alle diverse condizioni, mentre l'impossibilità di accoppiamento esterno (la barriera extraspecifica) protegge il gruppo dall'intromissione di caratteri inadatti, che sconvolgerebbero o comunque disturberebbero l'equilibrio dinamico dei geni realizzatosi nelle popolazioni di individui che compongono la specie. Tale premessa sul concetto e sulla definizione di specie è importante per definire le unità a essa sottostanti.

3. Sottospecie, varietà e gruppi di popolazioni

La divisione tassonomica immediatamente inferiore alla specie è la sottospecie. Per sottospecie s'intende la popolazione regionale di una specie polimorfa che si distingue dalle popolazioni della medesima specie per occupare un territorio geografico distinto e per differenze morfologiche e fisiologiche qualitativamente o quantitativamente considerevoli. La sottospecie deve pertanto essere, per definizione, allopatrica: infatti, se più sottospecie vivessero in una medesima regione, esse si mescolerebbero geneticamente e, di conseguenza, le differenze fra loro si estinguerebbero. Le differenze dalle altre sottospecie devono essere il risultato di particolari processi di adattamento al clima e alle condizioni fisiche dell'ambiente in cui la sottospecie si trova. Nell'ambito delle popolazioni che costituiscono una sottospecie, a opera di meccanismi di varia natura (drift genetico, isolamento geografico, isolamento sociale ecc.) si possono instaurare complessi di frequenze di geni, per cui determinate popolazioni differiscono da altre della medesima sottospecie. Quando questa concentrazione di peculiari geni è fatta dall'uomo su specie vegetali (selezione artificiale delle piante coltivate) si parla di varietà, quando è effettuata su specie animali addomesticate si parla di razza. Da questa distinzione appare chiaro perché è errato usare il termine razza in riferimento alla specie umana, le cui popolazioni differiscono per concentrazioni di geni che vengono operate dalla selezione naturale per adattamento a peculiari ambienti geografici o climi. Il cattivo uso che questo termine ha avuto nel recente passato e la confusione che di esso si fa con il concetto di etnia, il cui substrato storico-culturale e religioso niente ha a che vedere con le caratteristiche biologiche, costituiscono ulteriori ragioni per evitarne l'applicazione alla nostra specie.

4. Unità specifica dell'umanità vivente e sottospecie umane

L'umanità vivente è distribuita praticamente su tutta la superficie terrestre: è cioè cosmopolita. All'osservazione morfologica esterna si presenta molto variabile. Appartengono a essa gruppi di individui biondi, dagli occhi azzurri, dalla pelle chiarissima e dalla statura elevata, come gli svedesi, e gruppi di individui dalla pelle bruna, dal capello nero, cortissimo e strettamente avvolto su sé stesso, e dalla statura bassissima, come i pigmei africani. Nonostante queste differenze morfologiche esteriori, i vari gruppi umani appartengono tutti alla medesima specie: Homo sapiens. Infatti, in seno all'umanità vivente, sono state praticamente controllate tutte le possibilità d'incrocio (criterio missiologico di determinazione di specie). Quasi sempre sono stati gli europei che, diffondendosi in tutto l'ecumene e venendo in contatto con altre popolazioni, hanno servito da test per dimostrare l'interfecondità, per es., fra europei e tasmaniani, europei e ottentotti, neri ed europei, europei e cinesi ecc. Non sono mai stati constatati casi di sterilità collettiva. Per la condizione di interfecondità implicita nella definizione di specie, tutte le popolazioni umane sono da raggrupparsi solo in categorie inferiori a tale entità tassonomica. Se ci rifacciamo quindi allo schema delle possibili condizioni tassonomiche prima proposte, si ha che gli individui appartenenti alle popolazioni umane cadono tutti nei gruppi dei riproduttivamente non isolati, anche se possono essere morfologicamente non identici o allopatrici: appartengono, come già detto, tutti alla medesima specie. Nell'ambito delle popolazioni costituenti la specie Homo sapiens, ve ne sono alcune che, pur essendo interfeconde con altre, si presentano ciò nonostante morfologicamente differenti e vivono in regioni diverse (sono cioè allopatriche). Seguendo i criteri di sistematica zoologica si possono eventualmente distinguere cinque sottospecie diverse: caucasica, con distribuzione geografica in tutta l'Europa, nell'Arabia, nel Medio Oriente, nell'India, nell'Africa settentrionale; mongolica, con distribuzione geografica in tutta l'Asia, in gran parte delle Filippine, nell'America Settentrionale, Centrale e Meridionale, nella parte orientale del Madagascar; australica, con distribuzione geografica in tutta l'Australia, nell'isola del Borneo, nella parte centrale dell'India e in alcune coste delle Filippine; congoide, con distribuzione geografica nell'Africa centrale e nella parte occidentale del Madagascar; capoide, con distribuzione geografica nell'Africa meridionale. All'interno di queste sottospecie possono essere distinte popolazioni diverse per la concentrazione di alcuni geni in seguito a fattori selettivi ambientali, che tuttavia presentano sempre e comunque gradienti genetici con popolazioni vicine. Le popolazioni che si usa distinguere nell'ambito di queste sottospecie sono le seguenti: caucasica, comprendente nordici, lapponi, baltici, alpini, adriatici, mediterranei, arabo-berberi, anatolici, uralici, iraniani, indiani, etiopici, ainu; mongolica, comprendente tungusi, sinici, sudmongolici, siberiani, esquimesi, alleganici, sonoriani, pueblo-andini, amazzonici, pampaneani, lagoani, fuegini; australoide, comprendente tasmaniani, australiani, melanesiani; congoide, comprendente sudanesi, nilotici, silvestri, bantu (cafri); capoide, comprendente boscimani e ottentotti. Questa distinzione, che doveva essere più evidente per l'umanità precedente i tempi dei grandi viaggi, cioè prima della scoperta dell'America, si è successivamente attenuata in seguito a fenomeni di migrazione, talvolta forzata, come per es. la schiavitù dei neri in America, in relazione a fenomeni di colonizzazione europea, per i grandi stermini causati anche da epidemie e da malattie esantematiche portate dagli europei e, infine, la recente fase di industrializzazione con i suoi squilibri economici fra il Nord e il Sud del mondo.

5. Autocoscienza delle differenze

Nessuno di noi riesce a riconoscere nel proprio prossimo differenze o similitudini nel tipo di gruppo sanguigno oppure differenze enzimatiche che solo raffinate analisi di laboratorio possono mettere in evidenza, ma ciascuno di noi apprezza o disprezza negli altri alcuni caratteri morfometrici come la statura o le dimensioni delle diverse porzioni del corpo. Nessuno di noi riesce a riconoscere nel potenziale partner il gruppo sanguigno Rh che è causa del morbo blu del neonato, mentre apprezziamo il colore o il tipo dei capelli, il colore degli occhi, il colore della pelle, caratteristiche che non hanno invece alcun effetto patologico sulla discendenza. Le nostre preferenze si basano su caratteri visivi, con particolare attenzione a quelli cosiddetti vessilliferi. Se fossimo cani, e quindi in possesso di un olfatto e un udito ben più sviluppati del nostro, apprezzeremmo molto di più gli odori e le inflessioni della voce dei nostri simili che invece consideriamo solo in maniera affatto superficiale. Tutte le volte che sono stati condotti studi a questo livello, essi hanno dimostrato che le varianti tipiche di popolazioni rispondono a esigenze di adattamento a condizioni climatiche e ambientali dei territori che queste popolazioni stesse hanno utilizzato per lungo tempo. Esistono poi casi in cui lo scambio genetico fra popolazioni diverse si è estrinsecato in fenomeni di lussureggiamento di questi incroci: ne costituiscono un tipico esempio le popolazioni creole la cui bellezza fisica è notoriamente apprezzata. Le differenze fisiche che è possibile rilevare tra gli esseri umani non costituiscono una barriera per l'intesa sociale e per lo stimolo riproduttivo. Nel riconoscimento dei cospecifici e di potenziali partner ci riferiamo sempre a segnali peculiari come, per es., il triangolo facciale, la postura eretta e gli attributi sessuali primari e secondari (quelli terziari, quali la lunghezza dei capelli oppure il modo di comportarsi, sono indotti dalla cultura, variano cioè con le culture). L'importante è che questi segnali di cospecificità o di sessualità esistano e siano recepibili come simili o come potenzialmente interattivi. D'altra parte, i bambini non riconoscono nel colore della pelle o in altre caratteristiche fisiche delle barriere nel rapporto ludico. Il colore della pelle o quello dei capelli come pure la forma degli occhi non costituiscono ostacoli nell'apprezzamento e nella scelta sessuale, anzi l'eteromorfia e non l'omomorfia per questi caratteri è di norma preferita nella ricerca del partner. Ciò che conta è che quest'ultimo sia fornito di adeguati segnali sessuali. Il razzismo pertanto è un fatto prettamente culturale che si basa su motivazioni economiche e ideologiche e che eventualmente, nella trasmissione culturale, si può fissare come odio di gruppo a livello subliminale nella lunga fase di apprendimento culturale caratteristico della nostra specie (imprinting) e quindi estrinsecarsi in occasionali episodi di violenza di gruppo.

Dal punto di vista sociobiologico è infatti importante distinguere l'aggressività dalla violenza di gruppo (Chiarelli 1984). Aggressività e violenza non sono sinonimi: mentre la prima ha un substrato nelle caratteristiche biologiche e nell'emotività dell'individuo, la seconda è un prodotto dell'educazione. È la componente aggressiva della natura umana che ha permesso all'uomo di modificare l'ambiente e di adattarlo alle proprie esigenze. La sopravvivenza stessa della nostra specie e il suo successo demografico sono dovuti alla sua innata aggressività; essa è implicita in ogni attività che intraprendiamo, anche quando si tratta di una creazione artistica o di una realizzazione scientifica. Altra cosa è invece la violenza. L'aggressività come sinonimo di violenza di gruppo è un fenomeno quasi certamente tutto umano, la cui origine va ricercata nella natura gregaria degli individui della nostra specie, nella costituzionale remissività alla dominanza e nella passiva obbedienza ai superiori. Un fattore educazionale e niente affatto ereditario sta quindi alla base della violenza organizzata che può sfociare nel razzismo. Perché tale tipo di violenza di gruppo si sviluppi nella cultura di una popolazione è pertanto necessaria la concomitante esistenza di due motivazioni, una economica e una ideologica. Le motivazioni economiche sono facili da evidenziare e da individuare, quelle ideologiche hanno componenti meno facilmente percettibili, quasi sempre però sono riconducibili a fatti mitici inculcati a livello subconscio nelle prime fasi di apprendimento degli individui. Tipico è l'odio che viene inculcato nei bambini dagli insegnamenti di alcune religioni verso altre religioni per stimolare poi antagonismi fra adulti. Anche la religione cristiana non è stata in passato scevra da questi episodi di intolleranza: ne è esempio l'odio contro gli ebrei accusati di deicidio. Le conseguenze di questo insegnamento sono a tutti note con l'originarsi del concetto che distingue la razza ariana da quella semitica e da quella ebraica, concetto assolutamente privo di basi biologiche. Gli ebrei della Germania e dei Paesi Bassi non hanno alcuna caratteristica biologica diversa dai cosiddetti ariani, come nessuna differenza fisica esiste fra cattolici e protestanti irlandesi e fra ebrei israeliani e arabi palestinesi o fra iraniani e iracheni. Sono la contemporanea coesistenza di differenze economiche (o di potere) e l'esistenza di una motivazione ideologico-religiosa a scatenare la violenza di gruppo di tipo razzista.

bibliografia

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