ASTOLFO, re dei Longobardi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 4 (1962)

ASTOLFO, re dei Longobardi

Ottorino Bertolini

Figlio del duca del Friuli Pemmone, fin da giovinetto dimostrò l'impetuosità della sua indole, che lo faceva così diverso dal fratello Rachi. Intorno al 731, a Pavia, dove Liutprando aveva chiamato suo padre a rispondere davanti al tribunale regio di violenze usate al patriarca di Aquileia, Callisto, A., non appena il re ordinò che fossero immediatamente tratti in arresto quanti avevano dato mano al duca, sguaffiò la spada, e si sarebbe avventato sul sovrano se Rachi non l'avesse trattenuto in tempo. Circa undici anni dopo, insieme con Rachi, successo al padre nel ducato, A. comandò il contingente friulano nell'esercito, che Liutprando conduceva contro i duchi ribelli di Spoleto, Trasmondo II, e di Benevento, Godescalco. Si distinsero entrambi nei combattimenti di retroguardia sostenuti contro soldati imperiali e guerrieri spoletini nei boschi tra Fano e Fossombrone. Anche allora si palesò la diversità di indole dei due fratelli. Rachi, abbattuto da cavallo uno spoletino, lasciò che scampasse rifugiandosi nel bosco. A., assalito al valico di un ponte da due spoletini, uno ferì, l'altro uccise, e di entrambi gettò i corpi giù dal ponte. Nel settembre 744, quando Rachi s'impadronì del trono, A. prese il suo posto nel governo del ducato del Friuli. Divenne subito il capo deciso ed autorevole dei Longobardi più legati alle aspirazioni di estendere la conquista a quanto ancora nella penisola italiana rimaneva sotto il dominio dell'Impero. Fu quindi l'animatore dell'opposizione interna alla politica filo-romana del fratello, e nel luglio 749 la guidò alla rivolta aperta.

Il 3 di quel mese A. fu acclamato re a Milano, nella basilica di S. Ambrogio. Evidentemente non aveva ancora potuto togliere Pavia al fratello, e dovette continuare per qualche tempo la lotta prima di ridurre Rachi a rinunciare al trono e a prendere l'abito monastico insieme con la moglie e i figli. Il 1° marzo 750 A. fu in grado di tenere a Pavia, nel palazzo reale, un'assemblea alla quale parteciparono, come è detto nel prologo delle leggi allora promulgate, tutti gli iudices - cioè gli alti funzionari ed ufficiali - ed i Longobardi "universarum provinciarum nostrarum".

Il primo dei nove capitoli allora emanati prova il protrarsi della resistenza di Rachi, perché dichiarava nulle le donazioni concesse da lui e dalla consorte Tassia "postquam Ahistulf factus est rex", se il nuovo sovrano non le avesse rinnovate. Sei, dei rimanenti otto capitoli, sono rivelatori per i propositi di A. Il secondo ed il terzo miravano ad assicurare la capacità bellica dell'apparato militare, eliminando le deficienze tecniche dell'arinamento dell'esercito in campo. Legavano direttamente alla diversa entità e natura delle fortune economiche individuali i criteri che regolavano i vari tipi di armi ed armature obbligatori per i guerrieri mobilitati. Quanti erano sprovvisti di mezzi, dovevano avere almeno scudo e faretra; quanti disponevano di mezzi limitati, faretra con frecce ed arco; i proprietari di almeno 40iugeri di terra, ma non di masserie, cavauo, scudo e lancia; i proprietari di almeno sette masserie, cavaflo, armi ed armature individuali al completo; i proprietari di più di sette masserie, un numero di cavalli, armi ed armature complete da calcolare in proporzione di quello delle masserie possedute. L'ordine di rispondere agli ordini di mobilitazione era esteso anche a quanti professavano attività commerciale, erano negotiantes. Di essi i più facoltosi, maiores et potentes, dovevano provvedersi di corazza, cavallo e lancia; quelli con proventi medi, di cavallo, scudo e lancia; tutti gli altri, i minores, di faretra con frecce ed arco. L'apprezzamento dei beni immobiliari e mobiliari, adottato come criterio distributivo degli obblighi militari, era il frutto di un'esatta visione di una realtà concreta: l'articolarsi della società longobarda in ceti caratterizzati da un differenziarsi di fortune economiche che non esisteva al momento dell'invasione condotta da Alboino. Fu criterio radicalmente innovatore rispetto alle antiche tradizioni militari delle genti gertnaniche, e rimase poi alla base degli ordinamenti militari medioevali. Né alcuno dei predecessori di A. aveva mai stabilito ope legis l'ingresso nell'exercitus anche dei ceti dei negotiantes. Le innovazioni ebbero una portata anche più vasta e profonda se, come sembra logico, dal sancirsi di, un nesso diretto, non subordinato ad espliciti requisiti di carattere etnico, fra le possibilità economiche individuali e l'obbligo di servire nell'esercito mobilitato, conseguì l'estensione dell'obbligo stesso anche agli elementi di stirpe italico-romana che si fossero trovati nelle condizioni previste. Queste misure erano un'evidente premessa di un'imminente ripresa della guerra di conquista. Premessa non meno evidente di una lotta da condurre sul terreno economico furono le sanzioni comminate a chi trattava, senza licenza del re, affari con sudditi dell'Impero ed apparteneva alla categoria degli iudices (era cioè investito di pubbliche funzioni), od al ceto mifitare degli arimanni. Nel primo caso, la pena era della destituzione dalla carica, oltre ad un'ammenda pecuniaria commisurata alla posizione sociale del colpevole. Nel secondo caso, la pena era quella infamante della decalvatio, cioé della rasatura dei capelli, con l'obbligo, per il colpevole, di andare in giro così conciato gridando: "questo è ciò che tocca a chi contro la volontà del re tratti affari con un suddito dell'Impero, quando con questo siamo in lite". Non meno rivelatore appare il fatto, senza precedenti nella tradizione dei re longobardi, che A. aperse la sua attività legislatrice con l'esplicita menzione, nel prologo di queste leggi del 750, del populus Romanorum, indicato come a lui consegnato da Dio, "traditum nobis a Domino", a fianco della gens Langobardorum della quale egli s'intitolava "in nomine domini nostri Iesu Christi rex". A. intendeva dunque affermare i suoi poteri di sovrano anche nei riguardi delle popolazioni di stirpe italico-romana in forza di quella stessa grazia di Dio, che gl"nnperatori ponevano alla base dei loro potere sovrano sui propri sudditi, quali erano gli abitanti dei territori rimasti all'Impero in Italia.

Ed infatti subito dopo l'assemblea del marzo 750 A. sferrò l'offensiva che portò all'occupazione dei territori ad est di Imola fino al mare Adriatico, e dal basso Adige sino all'Esino. La vittoriosa campagna fu coronata con la presa di Ravenna, dove ad A. si arrese l'ultimo degli esarchi bizantini d'Italia, Eutichio. Così questi chiudeva come prigioniero dei Longobardi il suo lungo governo delle parti della penisola sotto il dominio dell'Impero, governo che ai suoi inizi aveva visto, nel 729, un effimero accordo tra lui e Liutprando di collaborazione militare contro Roma e il papa Gregorio II, anima della resistenza all'imperatore iconoclasta, Leone III Isaurico.

L'unica fonte che ci conserva la notizia dell'offensiva e della cattura di Eutichio, un tardo testo della fine del sec. X, il Chronicon Salernitanum, precisa che A., oltre a Ravenna, occupò combattendo Comacchio, Ferrara e l'Istria. In realtà l'Istria risulta in seguito ancora dominio dell'Impero; se dunque vi fu qui conquista, non poté essere mantenuta. Probabilmente venne allora occupata per intero anche la Corsica. Tra gli studiosi è diffusa l'opinione che ciò fosse avvenuto già al tempo di Liutprando. Sta di fatto che l'esistenza di proprietà longobarde in Corsica è attestata solo dopo l'avvento di A. al trono. t dunque presumibile che l'isola sia stata presa soltanto durante il suo regno. A., con Ravenna, aveva finalmente raggiunto la meta tanto agognata da Liutprando. Poteva con orgoglio datare un suo privilegio del 4 luglio 751, in favore del monastero di S. Maria di Farfa, dal palatium, sede per centosessantasette anni degli esarchi d'Italia, in quella Ravenna capitale dei domini conservati dall'Impero tra le Alpi e lo stretto di Messina, che nel sec. V e fin quasi alla metà del VI era stata residenza, successivamente, degli ultimi imperatori nella parte occidentale dell'Impero, del primo re germanico in Italia, Odoacre, dei re ostrogoti. A., una volta padrone del palatium ravennate, poteva, secondo la mentalità del tempo, proclamarsi in possesso di ciò che costituiva il simbolo del titolo necessario per rivendicare a sé il diritto di estendere il suo governo anche al resto di quell'ambito territoriale, che era stato giurisdizione degli esarchi d'Italia, e che comprendeva anche Roma. I fatti non tardarono a dimostrare che tale era effettivamente la meta ulteriore cui A. mirava. Ma il re non aveva certo dimenticato con quale energia Gregorio III, intorno al 732-735, e con quale abilità Zaccaria, nel 742-743, avevano saputo impedire a Liutprando d'insediarsi in Ravenna. Né certo A. ignorava che nel 739, assediata Roma da Liutprando, Gregorio III non aveva esitato ad unirsi con i maggiorenti del laicato romano nell'invocare l'aiuto di Carlo Martello. I rapporti fra Zaccaria e i figli e successori nelle fortune di Carlo Martello, Pipino e Carlomanno, erano divenuti sempre più cordiali, tramite il grande Borufacio. A. era senza dubbio al corrente della crisi interna del regno franco connessa con le ambizioni di Pipino. La coincidenza cronologica dell'offensiva da lui sferrata contro Ravenna col precipitare della crisi franca verso la sostituzione sul trono di Pipino all'ultimo Merovingio, non fu fortuita, ma legata al fatto che il re longobardo calcolava sul verificarsi di avvenimenti nel regno finitimo tali, da escludere ogni possibilità di un tempestivo intervento franco in Italia. L'avvento di Pipino, nel novembre 751, si ebbe quattro mesi dopo che A. aveva datato dal palatium di Ravenna il suo privilegio per il monastero farfense. Il re longobardo doveva tenere nel debito conto il peso decisivo avuto nella crisi franca dal giudizio in favore di Pipino, che i suoi fautori avevano sollecitato ed ottenuto da Zaccaria. Senza dubbio questo motivo soprattutto lo indusse a rispettare con grande correttezza l'esercizio, da parte di Zaccaria, dei suoi poteri di metropolita nei riguardi dei vescovi della Tuscia longobarda suffraganei della Chiesa di Roma. Nel 751 il vescovo di Arezzo, riaccesasi una controversia secolare della sua sede con quella di Siena, in materia di confini delle rispettive diocesi, si appellò a Zaccaria, che, riconosciute fondate le sue ragioni, colpì d'interdetto il suo avversario. Il vescovo di Siena fece allora ricorso ad A., perché interponesse l'autorità regia contro la sentenza papale. Ma A. respinse il ricorso, dichiarando che egli non voleva sottrarre il vescovo di Siena al giudizio della Sede Apostolica. Il re longobardo non solo lasciò che l'esatne della questione fosse affidato dal papa ad un collegio giudicante composto di tre altri vescovi della Tuscia longobarda - quelli di Volterra, Città di Castello e Chiusi -; ma permise che il collegìo stesso inviasse la propria sentenza - di nuovo in favore del vescovo di Arezzo - al papa, perché la ratificasse. Zaccaria nel frattempo era morto (22 marzo 752), e la ratifica fu data dal suo successore Stefano II, il 19 maggio 752, con un atto di grande importanza anche perché, oltre all'ultimo giudicato episcopale, ratificava apostolica auctoritate un precedente giudicato regio emesso da Liutprando il 6 marzo 715.

Ma già al momento in cui Stefano II datava quel suo praeceptum apostolicwn, A. dava inizio all'azione, che, secondo i suoi piani, doveva far subire a Roma la stessa sorte di Ravenna. In questa prima fase il re non attaccò apertamente la città alla testa dei suo esercito; la sottopose ad una crescente pressione, che il biografo di Stefano II indica genericamente come "magna persecutio", "vehemens saevitia ". Si può presumere che A., da un lato, applicasse le norme di legge in materia di scambi commerciali conl'estero, emanate due anni prima, in modo da creare un vero blocco economico intorno al territorio romano; dall'altro, lasciasse che razzie devastatrici ne desolassero le zone di confine. Il re, quando nel 751 si era rifiutato di sottrarre la controversia tra i vescovi di Arezzo e di Siena alla giurisdizione del papa loro metropolita, aveva inteso evitare un conflitto con la Chiesa di Roma in circostanze a lui sfavorevoli. Un conflitto impostato sul terreno della gerarchia ecclesiastica avrebbe offerto a Zaccaria un valido argomento di natura spirituale per appellarsi all'amicizia di Pipino, ed inoltre avrebbe potuto suscitare un pericoloso senso di malessere tra i vescovi della Tuscia longobarda i quali, come suffraganei del papa, avevano pre,stato, il giorno della loro consacrazione a Roma, giuramento di fedeltà a S. Pietro ed ai suoi successori.

A. doveva anche consolidare l'occupazione di Ravenna e degli altri territori di recente conquista. Né bisogna dimenticare che altri problemi di ordine interno lo preoccupavano allora: l'esercizìo diretto dell'autorità regia sul ducato di Spoleto, dopo che vi era scomparso, nella primavera inoltrata-estate del 751, il duca Lupo; il rafforzamento della sua azione personale sul ducato di Benevento, profittando della reggenza qui tenuta da una donna, Scauniperga, vedova del duca Gisulfo II, defunto nel corso del 751 o sul principio del 752, per il figlio minore Liutprando. Il terreno scelto dal re per impostare la sua azione contro Roma nella primavera inoltrata del 752 fu quello economico-politico. A. giudicava favorevole il momento: calcolava senza dubbio così sulle incertezze che egli supponeva legate a Roma col passaggio della cattedra papale da Zaccaria a Stefano II, come sul fatto che anche nel limitrofo regno dei Franchi non erano ancora del tutto superate le incertezze conseguenti al trapasso del trono dai Merovingi a Pipino. Nell'Austrasia molti si mostravano avversi al nuovo re, e si conservavano fedeli a Carlomanno suo fratello, il loro antico maggiordomo, pur dopo il suo ritiro, nella seconda metà del 747, a vita monastica. E Carlomanno si trovava allora a Montecassino, che era in territorio longobardo. A. poteva considerare non difficile puntare, nel caso, anche sulla carta di un dissidio interno tra i Franchi - ed infatti, come vedremo, l'avrebbe giocata -, ed intanto, logorando il territorio romano con l'assedio economico, e tormentandolo con le razzie, contava certo di saggiare le capacità delle resistenze locali, nella speranza che l'intimidazione fosse sufficiente a fargli raggiungere l'obbiettivo senza bisogno di ricorrere alla guerra aperta.

A. trovò in Stefano II un antagonista di grandi doti politiche, che abilmente contromanovrò, opponendo alla pressione longobarda un'accorta tattica di trattative in sede diplomatica, intese a guadagnare il tempo necessario perché a Roma fossero assicurati validi aiuti militari per il momento in cui, come era facilmente prevedibile, si fosse venuti alla guerra aperta. Nella prima fase delle trattative, tra la fine del maggio e la fine del giugno 752, il papa ottenne che una missione da lui inviata a Pavia con a capo il fratello Paolo - era un diacono - ed il primicerio dei notai della Chiesa di Roma Ambrogio, stipulasse un accordo che il re longobardo s'impegnava a rispettare sotto vincolo di giuramento. Ne ignoriamo il vero contenuto. Evidentemente, se i legati papali vi aderirono, doveva essere tale da evitare un attacco longobardo immediato a Roma.

Secondo ogni probabilità l'accordo, che il biografo di Stefano II chiama "pacti foedus", "foedera pacis", e dice stabilito "in quadraginta annorum spatia"' inipegnava A. ad astenersi da ogni violenza contro Roma finché la pace tra Longobardi ed Impero stipulata verso il 680 con Costantino i IVi, pace che dal 701 in., poi ~Gisulfo I e Romualdo II: duchi di Benevento, Faroaldo II duca di Spoleto, Liutprando, Rachi ed A. avevano rotto riaprendo ripetutamente le ostilità' fosse sostituita da una nuova pace. In questa, Costantino V, allora sul trono di Bisanzio, avrebbe dovuto riconoscere, vincolando l'Impero a rispettarla per la durata di quaranta anni, le modificazioni che all'assetto politico-territoriale della penisola italiana sancito circa settantadue anni prima, aveva portato ed intendeva portare la ripresa della conquista longobarda. Se così fu veramente, l'accordo giurato da A. ai due inviati papali si manteneva sulla linea di quello stipulato nel 743 a Pavia da Zaccaria con Liutprando, però, a quanto si può supporre, con una differenza essenziale. Liutprando si era. riservato d'inviare egli stesso una propria ambasceria a trattare con l'imperatore a Costantipopoli; A. volle invece impegnare alla sua volta Stefano II a farsi personalmente tramite della trasmissione alla capitale dell'Impero delle condizioni, alle quali il re longobardo era disposto a conchiudere la nuova pace.

Se A. contava sull'impegno papale come su di una contropartita al suo giuramento di astenersi, finché duravano le trattative, dal premere ulteriormente su Roma, commetteva un grave errore. Stefano II non poteva essere benevolo mediatore di una pace che lasciasse comunque Roma alla mercé del re longobardo che la proponeva. Il papa si rendeva esatto conto che solo un colpo mortale, inferto con le armi alla potenza di A., avrebbe salvato la città dal destino che questi le riserbava; e si regolò di conseguenza. Sappiamo infatti dal suo biografo che scrisse ripetutamente a Costantino V incitandolo a condurre in persona un esercito per liberare "de iniquitatis filii morsibus" non solo Roma, ma tutta l'Italia. Di ciò ebbe certo sentore A., e la sua reazione fu immediata, e tale da rivelare le sue vere intenzioni. Nell'ottobre 752, in termini insultanti e di estrema violenza, intimò agli abitanti di Roma che gli pagassero un tributo annuo nella misura di un solido d'oro a testa, e si riconoscessero soggetti al suo dominio al pari degli abitanti dei centri fortificati, castra, del territorio romano. Stefano II rispose con una nuova mossa sul terreno diplomatico, valendosi degli abati di due dei più venerati monasteri benedettini del l'Italia longobarda meridionale, S. Vincenzo al Voltumo e Montecassino, che si recarono a Pavia per chiedere in suo nome al re di rispettare. l'accordo. A. trattò male qgesti suoi sudditi venuti da lui, in veste di inviati papali, e li congedò , con l'ordìne di tornarsene direttamente ai loro, monasteri, senza ripassare per Roma e ripresentarsi al papa. Sul terreno diplomatico si tenne anche l'imperatore, che si limitò ad inviare in Italia un dignitario della sua corte, il silentiarius Giovanni. Questi era latore di due rescritti del sovrano, indirizzati a Stefano II, uno, del quale ignoriamo il contenuto, e l'altro ad A., con l'ingiunzione di restituire all'Impero i territori da lui conquistati. L'inviato imperiale, dopo aver parlato. coi papa a Roma, ne ripartì accompagnato dal fratello di Stefano II, il diacono Paolo, per recarsi dal re longobardo. Ai due personaggi A. diede udienza non a Pavia, ma a Ravenna. Con la scelta del luogo che infliggeva all'inviato imperiale una cocente umiliazione, il re longobardo manifestava la sua indole orgogliosa ed il fermo proposito di non recedere dall'atteggiamento preso. Ma evidentemente un'immediata rottura. non era né prevista dalle istruzioni del silentiarius, né negli intendimenti del re. Non poteva sfuggire ad A. la singolarità di un'ingiunzione non appoggiata da movimenti di truppe e dalla nomina di un esarca d'Italia, che prendesse il posto del prigioniero Eutichio. Il fatto in sé, e, possiamo supporre, quanto disse il silentiarius, lasciavano intravvedere che l'imperatore, almeno per il momento, pensava di lasciar aperta la via ad ulteriori negoziati. E certo A. ne trasse motivo di sperare in una pace conforme alle sue aspirazioni. Infatti il silentiarius accettò che a lui si unisse, nel viaggio di ritorno a Roma, insieme col diacono Paolo, prima, ed alla capitale dell'Impero, poi, un inviato del re longobardo. A. sviluppava dunque il piano già previsto nell'accordo in precedenza stipulato con il fratello di Stefano II e con il primìcerio Ambrogio, ma in modo da sostituire l'opera di un suo diretto rappresentante a quella mediatrice del papa.

Stefano Il cercò di parare il colpo. Affiancò il silentiarius imperiale e l'inviato regio con una sua missione, che doveva consegnare all'imperatore una rinnovata richiesta che venisse in persona alla testa di un esercito a liberare Roma e l'Italia dai Longobardi.

Il 752 si chiudeva così in una situazione in cui tutto appariva incerto, salvo una cosa: la riluttanza di Costantino V ad impegnarsi nella penisola italiana in una guerra a fondo, che l'apparato militare dell'Impero non era in grado d'affrontare, perché totalmente assorbito in Oriente dalle esigenze della guerra contro gli Arabi. Stefano II, e con lui i maggiorenti del laicato romano, cominciavano a disperare di avere aiuti da Bisanzio, ed a sospettare che A., nella nuova fase delle trattative, mirasse ad ottenere dall'ìmperatore il riconoscimento delle conquiste, e Roma col suo territorio, in ina figura giuridica, che oggi non possiamo nabilire. Di sovrano foederatus dell'Impero, cioé con la finzione formale di un foedus, cuigià in antico tante volte gli imperatori si erano appigliati per mascherare la perdita effettiva di territori occupati da genti barbariche? Di un luogotenente dell'imperatore sul tipo dell'ostrogoto re Teoderico? È difficile rispondere. D'altra parte la presenza a Costantinopoli di una missione papale mentre il suo inviato vi stava trattando, poté 'indurre A. a ritenere che gli conveniva forzare la mano all'imperatore mettendolo di fronte al fatto compiuto dell'accettazione, da parte dei Romani, del suo dominio.

Quando ancora il suo inviato si trovava nella capitale dell'Impero, il re longobardo prese a tempestare di minacce i Romani, a dichiarare che li avrebbe passati tutti a fil di spada, se non gli si fossero assoggettati, "fremens ut leo", scrive il biografo del papa. Le reiterate preghiere ed offerte di compensi in danaro, con cui Stefano II replicò alle reiterate minacce di A., furono espresse in modo da dimostrare che il papa, per nulla intimidito, faceva sua la causa non solo delle popolazioni di Roma, del suo territorio e del resto dei domini imperiali della penisola esposti al pericolo longobardo, ma anche di quelle dei territori conquistati da Liutprando e da A., territori che cominciano ora ad essere designati con la denominazione complessiva di exarchatus Ravennae.Un altro fatto concorse ad inasprire la tensione. Non erano certo rimasti ignoti ad A. i passi che ripetutamente, cominciando da uno fatto segretamente nella primavera del 753, Stefano II andava compiendo presso Pipino per ottenere che intervenisse in Italia. E non furono certo notizie gradite per il re longobardo quelle dell'arrivo a Roma, nell'estate, di due missioni inviate una dopo l'altra al papa dal re franco. Ci si spiega così perché nell'estate del 753, alla fine di luglio o nei primi giorni di agosto, senza dubbio per ordine di A., i Longobardi del ducato di Benevento, varcato il confine meridionale del ducato romano, occuparono con un colpo di mano il castellum di Ceccano, aprendo una breccia nel sistema delle difese avanzate di Roma disposte a sbarramento della via Latina nella valle dei Sacco. Non si trattava più di una semplice razzia; era un atto di forza calcolato in vista di un duplice obbiettivo. Voleva colpire il prestigio ed insieme gl'interessi economici della Chiesa di Roma, perché Ceccano era una delle sue proprietà del patrimonium S. Petri. Assumeva la portata di un'inequivocabile azione di guerra e di conquista, che fosse intesa da Stefano II e dai Romani come il preludio di un'offensiva generale di tutto l'esercito del regno longobardo, compresi i contingenti dei ducati di Spoleto e di Benevento, diretta a raggiungere il vero scopo cui mirava A. da quando si era insediato in Ravenna. La presa di Ceccano era inoltre una patente violazione del pactum stipulato l'anno prima da A. col diacono Paolo e col primicerio Ambrogio. Stefano Il raccolse la sfida. Il solenne rito religioso che veniva celebrato a Roma la notte sul 15 agosto, festa dell'Assunta, durante il quale si trasportava processionalmente dalla Basilica Lateranense a quella di S. Maria ad Praesepe (S. Maria Maggiore) la veneratissima immagine di Cristo, dipinta su legno, secondo la pia tradizione, non da mano umana, e perciò detta l'Acheropìta ("non fatta da mano [d'uomo]"), offerse al papa l'occasione per denunciare pubblicamente a Dio stesso il re spergiuro: Stefano II fece appendere alla croce che lo precedeva nella processione il documento che conteneva il testo del pactum.

Tra la fine dell'agosto e la prima metà dell'ottobre si susseguirono alcuni fatti di natura tale, da suggerire ad A. l'opportunità di non dare subito corso al suo piano ambizioso. Giunsero a Roma, reduci da Costantinopoli, l'inviato longobardo che vi aveva trattato con l'imperatore per incarico del re, la missione papale che Stefano II gli aveva messo alle costole, ed il silentiarius imperiale Giovanni- Quest'ultimo portava a Stefano II l'ordine di Costantino V di andare da A. per negoziare ufficialmente in suo nome la restituzione di Ravenna, e delle città che ne dipendevano; era inoltre latore di una lettera indirizzata dal sovrano di Bisanzio al re di Pavia. Il ritorno dell'inviato, che Stefano II mandò per sollecitare da A. il rilascio di un salvacondotto per sé e per coloro i quali lo avrebbero accompagnato nel viaggio, precedette di poco l'arrivo a Roma di una nuova missione franca, con a capo il vescovo di Metz, Chrodegang e il duca Autchar, che Pipino inviava al papa perché gli consegnassero la lettera con l'invito ufficiale a recarsi da lui in Francia.

Il 14 ott. 753 Stefano II partiva da Roma, con un seguito di vescovi, di alti prelati della Chiesa di Roma e di alti funzionari dell'amnúnistrazione centrale pontificia. Partivano con lui una rappresentanza dell'aristocrazia militare romana, il silentiarius imperiale e i due inviati franchi. Si delineava per A. una situazione che il convergere di tante forze, nell'intento di ritogliergli se non altro il frutto delle ultime conquiste, rendeva assai difficile. E non fu certo piacevole quanto gli toccò di sentire, prima ancora dell'arrivo della comitiva papale, da uno dei due inviati franchi, il duca Autchar che, appena varcato il confine del regno longobardo, si era staccato dai compagni per precederli a Pavia. A. era tuttavia ben deciso a non cedere. Quando seppe che Stefano II si trovava ormai vicino, si affrettò ad inviargli messi incaricati d'insistere perché il papa non s'attentasse a dire anche soltanto una parola in materia di restituzioni. Non meno decisa fu la replica di Stefano II: nessun tentativo d'incutergli terrore sarebbe valso a farlo tacere. Si poteva quindi ritenere scontato in partenza l'esito negativo che ebbero i colloqui svoltisi a Pavia, negli ultimi giorni di ottobre e nella prima metà di novembre, fra A. da una parte, e Stefano II, il silentiarius imperiale, i rappresentanti dell'aristocrazia militare romana e gl'inviati franchi dall'altra. A. non si limitò a respingere ogni idea di restituzione. Si provò ad impedire che Stefano II proseguisse per la Francia, non rifuggendo da violenti manifestazioni d'ira, onde il biografo del papa poté scrivere che il re "ut leo dentibus fremebat". Le energiche pressioni degli inviati franchi non gli permisero d'irrigidirsi anche su questo punto.

Il momento in cui Stefano II, il 15 nov. 753, lasciando Pavia per prendere la via del valico del Gran S. Bernardo, accompagnato soltanto dal suo seguito di vescovi, alti prelati della Chiesa di Roma ed alti funzionari pontifici, si congedò da A., dal silentiarius imperiale e dai rappresentanti dell'aristocrazia militare romana, segnò la svolta decisiva negli sviluppi del problema che in Italia aveva creato la ripresa della politica di conquista da parte di Liutprando, di Rachi e di Astolfo.

Il dignitario bizantino si trovava certo in uno stato d'animo ben diverso da quello degli ufficiali romani con cui si metteva sulla via del ritorno. Per il silentiarius era l'incertezza se Stefano II, una volta in Francia, si sarebbe mantenuto sulla linea degli ordini di Costantino V. Per i rappresentanti dell'aristocrazia militare romana si trattava di attesa illuminata dalla speranza che l'azione del loro vescovo valesse ad ottenere, grazie all'intervento di Pipino, il modo non solo di salvare Roma dalla conquista longobarda, ma anche di fame rifiorire la potenza, pur rimanendo nel nesso statale dell'Impero, con l'acquisto di una sua particolare autonomia, capace di attrarre nel suo ambito amministrativo anche i territori rimasti, o recuperati, all'Impero nell'Italia centrale e nel Ravennate. Ed infatti Stefano II, ora che il suo incontro con Pipino stava per divenire una realtà concreta senza la presenza del silentiarius imperiale, poteva proporsi un programma ben più impegnativo nel senso "romano " di quella cui l'aveva vincolato a Pavia l'incarico ricevuto dall'imperatore. Anche per A. si trattava di attesa, ma tutt'altro che lieta. Si profilava la possibilità, ben incresciosa per lui, che la secolare amicizia fra Longobardi e Franchi, consolidata quindici anni prima dall'alleanza personale che Carlo Martello e Pipino avevano contratto con Liutprando, finisse, e s'iniziasse un periodo di contrasti suscettibili di portare ad una guerra fra Pipino ed Astolfò.

Il re longobardo non rimase inattivo. Si provò, ma invano, a frapporre ostacoli al papa anche durante il suo viaggio sino al confine franco. Giocò la carta che gli offriva la situazione interna del regno transalpino: la riluttanza dei grandi di Austrasia, che conservavano tenaci simpatie per Carlomanno, ad accettare il dominio diretto di suo fratello. A. non esitò a far uscire Carlomanno dal monastero di Montecassino, e gli affidò il compito di recarsi in Francia per adoperarsi a provocare il fallimento delle trattative in corso tra suo fratello ed il papa. Carlomanno fece evidentemente tutto quanto stava nelle sue possibilità. Il biografo di Stefano II dice di lui che "nitebatur omnino et veliementius decertabat". P, da supporre che l'attività del fratello di Pipino trovasse consensi anche fuori dell'Austrasia: non poteva essere popolare tra i grandi franchi l'idea di una guerra in Italia contro un popolo amico; né poteva essersi già dileguato il ricordo che Liutprando si era mostrato leale alleato di Carlo Martello accorrendogli in aiuto, con i suoi Longobardi, contro gli Arabi invasori della Gallia sud-orientale. Indubbiamente alle molte difficoltà interne incontrate per mantenere gl'impegni assunti con Stefano II si dovette se Pipino durò a lungo sulla via dei negoziati con A. per ottenerne senza guerra lo sgombro dei territori in questione. E ciò concorre a spiegare perché A. ritenne di poter persistere in nette ripulse sino a rendere inevitabile la guerra.

D'altra parte già nell'estate del 754 A "prevedeva questa inevitabilità. A provare che già nel giugno di quell'anno aveva ordinato la mobilitazione generale, ci è rimasto il testamento, che nei primi giorni di luglio dettò il vescovo di Lucca Gualprando, "quia ex iussione domni nostri Aistulfi regis directus sum in exercitu ambulandum cum ipso". Più di lui tardò Pipino ad accettare l'inevitabile. Solo all'avvicinarsi della primavera del 755 indisse alla sua volta la mobilitazione generale. Ed anche mentre guidava il suo esercito a prendere posizione sul confine alpino, nella valle della Dora Riparia, alle Chiuse di S. Michele, poco a monte di Avigliana, tentò ancora una volta, ed invano, di ottenere da A., offrendogli l'ingente compenso di ben 12.000 solidi, la consegna a Stefano II, senza effusione di sangue, dei territori occupati in quegli anni, compresa Ceccano, ed inoltre di Narni, che era stata annessa al ducato di Spoleto fin dai primi anni del regno di Liutprando. Agli inviati, latori anche di una lettera del papa, A. oppose una nuova ripulsa, recisa e formulata in termini tali di sdegno, e di minacce per Stefano II, per Pipino e per tutti i Franchi, da non lasciare posto che all'extrema ratio delle armi. Si ha l'impressione che egli contasse ancora sul perdurare tra i Franchi di una corrente contraria alla guerra, che aveva i suoi fautori nella stessa cerchia dei consiglieri del re. Ed è probabile che a ciò avesse concorso il perdurare di Carlomanno nella sua propaganda in favore di Astolfò. Ma Pipino aveva energicamente reagito, rinchiudendo il fratello, non appena giunto a Vienne, in un monastero, così da metterlo in condizione di non poter più nuocere. E Carlomanno si spense poco dopo.

L'esercito franco, al suo arrivo nella zona delle operazioni, era ormai concorde agli ordini del re, perché tutti erano ormai convinti del loro dovere di combattere in difesa del vicario di S. Pietro, e quindi per una causa santa. Lo stesso non si poteva dire dell'esercito che A. aveva concentrato alle Chiuse di S. Michele. Nelle sue schiere molti erano indubbiamente turbati da un intimo contrasto tra l'obbligo di fedeltà al proprio sovrano, ed il tormentoso pensiero che A. li conduceva a combattere contro il vicario di S. Pietro. Se poi le riforme militari del 750 avevano portato - possibilità che già abbiamo prospettata - all'immissione nell'esercito anche di elementi di stirpe italico-romana, ne era derivato un altro motivo di disagio e inferiorità morale nelle forze agli ordini di Astolfo. Non bastavano i pochi anni decorsi dalla riforma a dare valida efficacia ai propositi, che sembravano palesarsi nel re per il fatto senza precedenti già notato, che egli aveva aperto la propria attività legislatrice con la esplicita menzione, a fianco della "gens Langobardorum", anche del "populus Romanorum". Propositi che sembravano aver avuta un'immediata conferma nel fatto che A., non appena insediatosi in Ravenna, aveva deposto la sua clamide trapunta d'oro, come devoto omaggio, sull'altare di quella cattedrale, ed aveva ordinato che si mettesse mano alla ricostruzione, nella vicina Classe, della basilica dei SS. Pietro e Paolo, completamente demolita da un terremoto. Vi erano inoltre nel suo esercito motivi di malcontento per il disagio economico provocato dal continuo succedersi di mobilitazioni generali. Ne è indizio una delle norme emanate da A. nell'assemblea del regno tenuta a Pavia il 1° marzo 754, nell'imminenza quindi della mobilitazione indetta in quell'anno. In forza di questa norma i beni di chi riceveva l'ordine di raggiungere l'esercito non potevano essere oggetto di pignoramento per un periodo da 10 a 20 giorni, secondo le distanze, così prima della sua partenza, come dopo il suo ritorno. Né si può trascurare la minore capacità bellica connessa con motivi di natura puramente tecnica: l'impreparazione militare dei ceti dei negotiantes e degli Italico-Romani imm ess i nell'esercito; l'impossibilità materiale per i più poveri di procurarsi un armamento adeguato anche nei limiti ad essi assegnati. Erano deficienze gravi, che i pochi anni decorsi dalla riforma non avevano certo consentito di sanare. Come non avevano certo consentito di ottenere la formazione di un sufficiente spirito di cameratismo tra gli elementi mobilitati di stirpe longobarda e quelli di stirpe italico-romana.

Non è da escludere che A. si rendesse conto di queste debolezze. Probabilmente perché sperava d'innalzare il morale dei suoi guerrieri con un buon successo iniziale, secondo le sue previsioni non difficile a riportare, decise di prendere egli per il primo l'offensiva, assalendo di sorpresa, sull'albeggiare, le difese franche alle Chiuse di S. Michele quando le guarnivano solo gli elementi avanzati dell'esercito di Pipino, ed il grosso non vi si era ancora attestato. Bastò quel primo urto per palesare quanto fosse fragile lo strumento bellico di cui A. poteva disporre. I Longobardi, dopo una rude lotta, nonostante la loro superiorità numerica, non solo vennero ricacciati, ma si dispersero in fuga disordinata, lasciando sul terreno gran numero di morti. Lo stesso A. si salvò a stento gettandosi di rupe in rupe, e senz'armi e con pochi dei suoi poté raggiungere Pavia ed asserragliarvisi. I Franchi dilagarono nella pianura padana, che corsero devastando, appiccando incendi e predando. La guerra si ridusse ad una serie di azioni condotte contro i centri fortificati nei quali si tentava di opporre resistenze, che furono facilmente superate. Pipino, col grosso dell'esercito, cinse d'assedio Pavia. Anche qui non occorse molto tempo perché A. s'inducesse a trattare.

Ottenne la pace a condizioni quali, nella situazione disperata in cui si trovava, non poteva augurarsi più favorevoli. Il vincitore, non soltanto gli "concesse la vita ed il regno" - per usare le parole di chi scrisse in Francia il racconto di queste vicende secondo le notizie fornitegli dal conte Nibelung, cugino in primo grado di Pipino -; ma, in sostanza, nulla più di un giuramento impose al re ed ai maggiorenti dei vinti. Era il giuramento di effettuare la retrocessione da una serie di città, a cominciare da Ravenna, di rispettare i territori della Venezia e dell'Istria sfuggiti alla conquista, di non portare più le armi contro la Chiesa di Roma e l'Impero. Si trattava, è vero, come scrive il biografo di Stefano II, di un "terribile et fortissimum sacramentum"; ed A. dovette consegnare, a garanzia degli impegni giurati, 40 ostaggi di nobili famiglie longobarde, e versare a Pipino ed ai suoi grandi un ingente contributo di guerra. Il giuramento era stato inoltre inserito nel trattato di pace, a sua convalida e come sua parte integrante. E il trattato era redatto per scritto, nelle forme di un pactum generale tra Romani (su quest'espressione torneremo poi), Franchi e Longobardi.

A trattenere A. dall'inosservanza del giuramento, non bastavano certo da soli né il timore d'incorrere nelle sanzioni che esso comminava per lo spergiuro; né il pensiero della sorte che sarebbe toccata agli ostaggi lasciati nelle mani del vincitore. Ben altro valore concreto avrebbe avuto la permanenza in Italia, sino al totale adempimento da parte di A. delle condizioni di pace, di Pipino e del suo esercito, o almeno di suoi rappresentanti con forze adeguate. Ma non fu così.

Tra la rotta longobarda alle Chiuse di S. Michele e la pace di Pavia era trascorso un brevissimo spazio di tempo, probabilmente non più dei due mesi di maggio e giugno 755. Già nel luglio l'esercito franco non era più in territorio longobardo; Pipino datava con l'i i di quel mese un suo capitolare emanato da lui nella Francia nord-orientale; e già nell'agosto A. tornava a mobilitare in vista di una ripresa della guerra contro i Franchi. In quel mese un longobardo del territorio lucchese, un certo Gaiprand, faceva testamento perché, come precisava nell'atto, giunto sino a noi, "in exercito ad Francia iteratus sum ambulandum". Stefano II, che era stato a fianco di Pipino per tutta la durata della spedizione, dovette amaramente constatare, dopo il suo ritorno a Roma, che il re longobardo non intendeva rinunciare ad un solo palmo di terra.

Evidentemente l'abate di S. Dionigi, e cappellano di Pipino, Fulrado, ed il fratello naturale del re franco, Geronirno, che avevano accompagnato il papa, e che questi territori avrebbero dovuto prendere in consegna, non avevano con loro un numero sufficiente di guerrieri, ed A. giudicava che la partita non era ancora perduta. Secondo ogni probabilità' calcolava di poter piegare a suo profitto i nuovi sviluppi che la situazione andava prendendo in Oriente ed in Italia. Costantino V, rotta la tregua religiosa nel conflitto iconoclasta, praticamente osservata per circa un ventennio, si era rimesso sulle orme del padre. Aveva ottenuto che il divieto del culto delle immagini decretato da Leone III nel 726 fosse solennemente sancito da una condanna anche in sede conciliare. L'avevano pronunciata i 338 vescovi delle province orientali dell'Impero, dietro suo ordine riunitisi il 10 febbr. 754 sulle rive asiatiche del Bosforo, nel palazzo imperiale detto di "Hieria", di fronte a Costantinopoli, e poi trasferitisi nella chiesa di S. Maria ad Blachernas della capitale, dove avevano chiuso le loro sedute l'8 agosto. Stefano II era andato a Pavia nella veste ufficiale d'inviato dell'imperatore, e perché al suo governo fossero restituiti i territori di recente conquista longobarda. In Francia aveva invece patrocinato, indubbiamente in immediata connessione con la ripresa iconoclasta, la causa non tanto dell'imperatore, quanto di S. Pietro, della sua Chiesa, di Roma. Ai diritti di un sovrano recidivo nella colpa religiosa aveva sovrapposti il diritto e il dovere di ordine superiore, perché fondati su basi spirituali, che incombevano ai vescovi di Roma di assumere essi stessi il diretto governo temporale, in nome di S. Pietro, delle popolazioni che con i suoi vicari e con la sua Chiesa erano state solidali nel combattere, a prezzo della vita, esarchi d'Italia e duchi imperiali, quando la lotta in difesa delle immagini aveva attraversato le sue fasi più acute ai tempi di Gregorio II e di Gregorio III. Stefano II intendeva così strappare quelle popolazioni all'asservimento politico, conseguenza della conquista longobarda, senza esporle al rinnovarsi dei pericolo di un loro asservimento religioso all'iconoclastia imposta dall'imperatore col concorso delle Chiese orientali. Stefano II aveva persuaso Pipino della santità della causa; aveva ottenuto che il re franco s'impegnasse, vinto A., non a riconsegnare all'esercizio diretto del potere da parte delle autorità imperiali i territori abitati da quelle popolazioni, ma a concederne in perpetuo il possesso alla potestas di S. Pietro rappresentata in terra dai suoi vicari e dalla sua Chiesa. Possesso, non sovranità. Questa sarebbe rimasta all'imperatore, ma con intermediario lo schermo dell'auctoritas S. Petri sostenuta dalla potenza politica e militare del re franco che aveva accettato di esserne il defensor. Pipino aveva innegabilmente cercato di dare al suo intervento in Italia un carattere, che potesse apparire in qualche modo conciliabile con i diritti dell'Impero. Nel racconto di queste vicende ispirato dal conte Nibelung, a proposito delle condizioni di pace, si precisa che l'impegno dei re longobardo di astenersi da ulteriori ostilità era valido nei confronti non solo della Sede Apostolica romana, ma anche della res publica, e cioé dell'Impero.

A spingere Pipino a una relativa moderazione verso il vinto, aveva certo concorso anche un calcolo prudenziale: limitare l'azione bellica dei Franchi allo strettamente indispensabile, evitando di farne obbiettivo una conquista suscettibile di metterlo in conflitto con l'imperatore. Ma erano cautele non certo sufficienti ad impedire che Costantino V concepisse le più vive preoccupazioni per l'operato del papa in Francia, e per ciò che di conseguenza stava succedendo in Italia. Senza sua autorizzazione (così penso si debba ritenere; il problema è però molto discusso) Stefano II aveva conferito nel 754 a Pipino ed ai figli Carlo e Carlomanno la dignità di patricii Romanorum nella cerimonia religiosa con cui, nella basilica di S. Dionigl" li aveva unti re dei Franchi. E l'honor patriciatus era dignità eminente sempre conferita, nella tradizione dell'Impero, con decreto dell'imperatore. Senza il preventivo benestare di Costantino V era stata stipulata a Pavia una pace, che intendeva regolare le sorti di una parte considerevole dei domini dell'Impero nella penìsola italiana, compresa la stessa residenza dell'esarca imperiale d'Italia; una pace, nella quale il termine Romani, usato per indicare la parte contraente direttamente interessata a riavere i territori in questione, assumeva, date le circostanze, un significato per lo meno equivoco. Era infatti innegabilmente riferibile non a plenipotenziari del legittimo sovrano, ma al papa ed ai personaggi del suo seguito nella veste di patrocinatori delle aspirazioni particolari di Roma e del ducato romano, operante questo in quanto organismo che si presumeva capace di una propria autonomia di iniziative polìtiche anche nei rapporti con potenze straniere all'Impero. Sulla inevitabilità che tutto ciò destasse le preoccupazioni di Costantino V, e sulle difficoltà che ne sarebbero venute a Pipino ed a Stefano II, contava senza dubbio Astolfo. Dal contegno di Pipino il re longobardo aveva inoltre assai probabilmente tratto argomento per confermarsi nella sua idea, che la guerra in Italia non era vista volentieri dalla generalità dei maggiorenti franchi. Il conte Nibelung attribuiva alla clemenza di Pipino, ed al senso di commiserazione che egli ebbe per il vinto, se gli risparmiò la vita ed il regno. Ma ricorda anche, e sono particolari significativi, che intercessori della pace si fecero, a richiesta di A., gli stessi sacerdoti e grandi laici franchi, e che anche a questi ultimi andò il contributo di guerra versato dal vinto. Un altro dei fattori connessi con la nuova situazione A. poté credere di aver modo di volgere a proprio vantaggio: l'irriducibile orgoglio dei Ravennati, che li avrebbe resi insofferenti di un governo diretto di Roma. Stefano II aveva lasciato fl campo sotto Pavia, per il viaggio di ritorno a Roma, col proposito di passare da Ravenna, ma dal proposito lo avevano distolto le notizie sullo stato degli animi in quella città, e le voci che i maggiorenti del clero e del laicato vi tramassero contro la sua vita. I Ravennati non si sarebbero mostrati subito e così palesemente ostili al mutamento di regime, se non avessero ricevuto incoraggiamenti da Astolfo.

In questo quadro di generali incertezze trova la sua più plausibile spiegazione la condotta tenuta dal re longobardo nella seconda metà del 755. Fu inizialmente volta ad eludere le clausole territoriali della pace: di consegne agli inviati di Pipino si ha notizia solo per Narni. Poi, sopraggiunta la stagione invernale, A. ritentò la fortuna delle armi. I contingenti raccolti con la mobilitazione dell'agosto in tutto il regno, dalla regione padana al ducato di Benevento, vennero concentrati nello sforzo di ridurre all'impotenza per primo l'avversario che la santità del ministero ed il prestigio della persona rendevano il più temibile sul terreno spirituale e politico, ma che sul terreno militare appariva il più debole: Stefano II. E sotto l'aspetto militare il momento era ben scelto. I passi alpini sarebbero rimasti sino alla primavera inoltrata del 756 intransitabili da un esercito franco. A. poteva sperare di averla presto finita con Roma, così da ricondurre in tempo il grosso dei suoi, imbaldanziti, nel nord ad affrontare Pipino. D'altra parte si riteneva sicuro alle spalle ed ai fianchi nell'Italia nord-orientale. Allora, o già al momento della conquista di Ravenna, aveva stipulato accordi per i confini con le autorità locali della Venezia bizantina, ed era in buoni rapporti con i Ravennati di sentimenti anti-romani. Il capodanno del 756 trovò Roma assediata. Dei re longobardi che avessero posto il campo sotto di essa, A. era il primo a disporre di guerrieri e di macchine ossidionali in numero sufficiente per rendere totale il blocco lungo l'intera cinta delle sue mura secolari, e batterla in breccia. La lettera di disperata invocazione di soccorso, che Stefano II scrisse a Pipino quando l'assedio durava ormai da quarantacinque giorni, accusa delle peggiori nefandezze i guerrieri di A.: campagne messe a ferro, a fuoco, a sacco, senza risparmiare chiese e monasteri; rurali fatti prigionieri o trucidati senza riguardo al sesso; nessuna pietà per monaci e monache; anche monache tra le donne violentate ed uccise; atti empiamente sacrileghi, come il cibarsi delle specie eucaristiche dopo essersi satollati di carne. A un quadro volutamente caricato di tinte assai più fosche del vero, per meglio scuotere l'animo di Pipino? Così pensano alcuni studiosi. Ma è piuttosto da ritenere quadro aderente alla realtà di eccessi allora perpetrati in un selvaggio divampare di rancori accumulati nei Longobardi più inaspriti contro Roma ed il suo vescovo. D'altra parte, finito l'assedio, risultarono evidenti le manomissioni commesse nei cimiteri suburbani: tombe profanate per asportame ossa di martiri - ed in ciò si può anche ravvisare l'effetto del desiderio di procurarsi sacre reliquie -; ed in taluni, cumuli puzzolenti di strame e di letame, perché erano stati ridotti a stalle del bestiame raccolto. Se A., come pare, poco o nulla fece per porre un freno ai più inferociti dei suoi guerrieri, fu certo perché riteneva il terrore mezzo efficace per piegare i difensori. Ma più valida delle sue previsioni si rivelò alla prova la capacità morale e materiale di Roma a resistere sin quando le notizie sui preparativi di Pipino per una nuova campagna in Italia, ed il mutamento stagionale, che andava restituendo alla transitabilità di forze anche ingenti i valichi alpini, costrinsero il re ad abbandonare l'assedio. Erano trascorsi tre mesi dal suo inizio. Ai primi dell'aprile 756 A. era di ritorno a Pavia, dove datava, il 5 di quel mese, un suo diploma in favore dell'abbazia di Farfa. Non risulta che egli abbia poi assunto personalmente, come l'anno prima, il comando dello schieramento alle Chiuse di S. Michele. E i Longobardi non si provarono a prevenire, come l'anno precedente, attaccando le avanguardie, l'azione della massa dell'esercito franco. La subirono sul posto, e ne furono ancora una volta sbaragliati in una rotta totale, che lasciò di nuovo libera a Pipino la via di portarsi rapidamente sotto le mura di Pavia.

A distanza di un anno preciso dalla prima, la seconda campagna di Pipino in Italia si chiudeva così, in un impressionante ripetersi di analoghe vicende, con una seconda pace stipulata pure a Pavia sul finire del giugno 756, a richiesta del vinto, tramite i sacerdoti ed i grandi laici che militavano nelle schiere del vincitore.

Nella forma, la pace si presentava come una confirmatio del precedente pactum intervenuto l'anno prima inter partes, e cioè fra Romani, Franchi e Longobardi. In realtà conteneva clausole che rendevano le condizioni assai più dure, a titolo di sanzione punitiva delle offese al re franco ed al papa recate con la mancata osservanza del giuramento prestato l'anno precedente, e con l'attacco a Roma. Per quanto riguardava le retrocessioni territoriali, alle città elencate nella prima pace fu aggiunta Comacchio, che nella vita economica dell'Italia settentrionale, così bizantina come longobarda, aveva allora una importanza essenziale. Era centro d'esportazione del sale, e scalo di partenza e d'arrivo delle navi da carico sulla rete fluviale costituita dal Po e dai suoi affluenti nel tratto dal litorale adriatico a Pavia. Il contributo di guerra venne fissato in un valore assai più alto di quello corrisposto l'anno prima; e vi si aggiunse la consegna di un terzo del tesoro regio di Pavia. Per quanto riguardava gli ulteriori rapporti tra Longobardi e Franchi, Pipino, se anche questa volta risparmiò al re vinto la vita ed il regno, ne fece però un suo tributario. A preciso titolo di tributo A. doveva infatti versargli ogni anno, mediante appositi inviati, 5000 solidi. L'obbligo relativo fu motivato con quello analogo, che alla fine del sec. VI i Longobardi avevano contratto con i Merovingi: ed era sancito nel nuovo giuramento che, a garanzia dell'integrale adempimento delle condizioni di pace, A. prestò, ed accompagnò con la consegna di altri ostaggi. Nel nuovo giuramento il re Iongobardo s'impegnava esplicitamente a non essere più "rebellis et contumax" a Pipino ed ai grandi Franchi; a conservarsi invece un loro "fidelis".

Come l'anno prima, Pipino era già di ritorno in Francia nel luglio: il 26 assisteva a Parigi alla solenne traslazione del corpo di s. Germano, già vescovo di quella sede (morto 576), nella basilica consacrata al suo nome (Saint-Germain-des-Prés) Ma questa volta non aveva lasciato l'Italia senza prendere le misure concrete necessarie per costringere A. all'effettivo adempimento delle retrocessioni territoriali. Nei riguardi dei beneficiari, le aveva sancite, per il lembo litoraneo dell'Emilia e della Pentapoli da Comacchio e da Ravenna a Sinigallia, e per l'adiacente striscia interna da Forlì e da Forlimpopoli a Gubbio, con un atto formale di donazione, che concedeva i centri abitati in essa elencati, e le rispettive dipendenze rurali, in possesso e godimento perpetui a S. Pietro, alla sua Chiesa di Roma, ai suoi vicari, Stefano II e successori nella Sede Apostolica. Nei riguardi del retrocedente, Pipino si era assicurato affidando il compito dell'esecuzione anche coattiva, se necessario, all'abate Fulrado, in veste di suo delegato, munito di un'adeguata scorta di guerrieri. E A. dovette acconciarsi che le relative consegne fossero materialmente effettuate a Fulrado, località per località ' da propri delegati, osservando ogni volta le formalità simboliche allora di rito per le immissioni in possesso di beni immobiliari. E FuIrado, perfezionò l'ulteriore consegna ai beneficiati: portò con sé a Roma ostaggi e rappresentanti dei maggiorenti locali, che presentò a Stefano Il; le chiavi e il documento della donazione di Pipino, che depose sulla confessione di S. Pietro, a simboleggiare l'avvenuto trapasso in proprietà del principe degli Apostoli.

A. si vedeva così privato della maggior parte delle sue conquiste, e perdette anche Narni, la cui occupazione risaliva ai tempi di Liutprando. A Ravenna, nel 750 ancora residenza dell'esarca imperiale d'Italia, e dove appena tre anni primaA. si era presa l'orgogliosa soddisfazione di dare udienza da conquistatore ad un rappresentante dell'imperatore, il silentiarius Giovanni, e ad un rappresentante e fratello del papa, il diacono Paolo, s'insediavano in nome di Stefano II, ed in funzioni di rappresentanti della potestas di S. Pietro, un alto prelato della Chiesa di Roma, il presbitero Filippo, ed il comandante delle forze armate dipendenti da Roma, il duca Eustacchio. Ma il re longobardo non si sentiva affatto domo. Si teneva anzi pronto a cogliere qualunque appiglio per una riscossa gli potessero offrire le ripercussioni a Costantinopoli eda Ravenna dello stato di cose uscito dalla seconda campagna di Pipino in Italia e dalla sua donazione a S. Pietro.

A. non ignorava certamente che, quando Pipino non aveva ancora raggiunto le Chiuse di S. Michele, era arrivata a Roma un'ambasceria inviata da Costantino V al re franco, con a capo il primo segretario dell'imperatore Giorgio, ed il silentiarius Giovanni, alla sua terza missione in Occidente; che i due dignitari bizantini, informati dal papa della marcia ormai iniziata da Pipino, avevano preso immediatamente il mare, accompagnati da un messo di Stefano II, ed erano sbarcati a Marsiglia. Troppo tardi: Pipino aveva ormai varcato il confine. Secondo ogni probabilità A. sapeva anche che i due molto si erano rammaricati della nuova spedizione di Pìpino, e del suo fermo proposito di tener fede agli impegni assunti con Stefano II; e che uno di essi, il primo segretario, aveva fatto ritorno a Roma ancor più amareggiato per il modo con cui Pipino, col quale, ormai vicino a Pavia, era riuscito ad ottenere un colloquio, aveva nettamente respinto le sue sollecitazioni, confortate dalla promessa di lauti compensi, perché rimettesse direttamente al dominio imperiale le città recuperate. In queste, e nei rispettivi territori, si era creata una situazione per la quale venivano attribuiti a Stefano II, nella sua veste di vicario di S. Pietro, i diritti di dominio e di gestione amministrativa di un proprietario nell'àmbito dei suoi beni patriinoniali, e non di un sovrano nell'àmbito dei suo Stato. Sovrano ne rimaneva l'irnperatore, e l'àmbito statale continuava ad essere quello dello Impero. In condizioni, tuttavia, così diverse dalle antiche, che non si poteva davvero parlare di un ripristino dello status quo ante. A Ravenna non era tornato un esarca imperiale; al suo governo si era sostituito quello del vescovo di Roma, col concorso dell'aristocrazia militare romana. Direttamente dal vescovo di Roma, e non da un restaurato esarca imperiale, venivano nominati i funzionari locali di Ravenna e dei territori adiacenti. Una così profonda innovazione nell'assetto amministrativo di una parte così considerevole dell'Italia bizantina era stata operata in virtù dell'intervento delle armi e di un atto di volontà di un re straniero e barbaro, ed alla sua protezione rimaneva affidata; non era conseguenza di una riforma ,interna voluta e regolata dal legittimo sovrano, cioè dall'iinperatore, e di una concessione da lui elargita. Si trattava dunque di un mutamento di natura tale da far logicamente presumere ad A., che fosse da Costantino V giudicato uno stato di fatto, che egli non poteva riconoscere di diritto, che doveva anzi provarsi a modificare a proprio vantaggio, specie per quanto riguardava le ingerenze di Pipino. Da ciò poteva nascere un incentivo allo stabilirsi di una comunità d'interessi politici fra l'únperatore ed il re longobardo.

A. doveva limitarsi all'attesa per quanto riguardava l'atteggiamento di Costantino V. Poté invece tentare un'azione immediata, anche se svolta in segreto, per quanto riguardava Ravenna. Ne ricaviamo la certezza da una tradizione locale, che nel racconto, scritto all'incirca un secolo dopo da Agnello, ci è giunta deformata nei riferimenti alle persone dei papi, che confondono continuamente fra loro Zaccaria, Stefano II e Paolo I, e nelle ricche frange aggiunte alla realtà dalla leggenda. È la tradizione da cui si ricava anche la notizia delle trame ordite a Ravenna che l'anno precedente avevano costretto Stefano II ad abbandonare il proposito di passare da quella città nel viaggio di ritomo a Roma. Il fatto che il papa, per affermare in Ravenna la potestas S. Petri,vi avesse inviato, a fianco di un suo presbitero, lo stesso duca di Roma, va certo connesso con le sue previsioni che potesse presentarsi la necessità di ricorrere a mezzi energici per piegare l'opposizione locale al nuovo regime. Il papa aveva cominciato l'opera col tentativo di eliminarne i capi nel laicato senza troppo rumore. Gli era riuscito di attirare a Roma, sotto pretesto di venire ad una conciliazione, parecchi dei compromessi nelle trame ordite contro di lui, e li aveva fatti incarcerare. Tra di essi si trovava il bisavo di Agnello. Toccò poi allo stesso arcivescovo di Ravenna, Sergio, di essere tradotto ed incarcerato a Roma. Il motivo della drastica misura si appalesa da un particolare conservato nel racconto di Agnello: Sergio aveva avuto fiducia negli aiuti di A.; alla sua fiducia il re era venuto meno. Animatore dell'opposìzione ravennate era dunque rimasto l'arcivescovo; con lui A. trattava segretamente perché si ribellasse al papa, assicurandolo che lo avrebbe sostenuto; Stefano II, riducendo all'impotenza Sergio, aveva sventato anche la nuova trama, prima che maturassero i piani concertati col re longobardo; A., di fronte alla pronta energia dell'azione del papa, non aveva potuto, o non aveva ritenuto, opportuno, mantenere le promesse fatte ai Ravennati anti-romani.

Forse a impedire che A. traesse il profitto sperato dalle difficoltà con cui il papa si urtava a Ravenna fu il banale incidente che tolse improvvisamente la vita al re longobardo. Nel dicembre 756 A., mentre cacciava in una selva, fu gettato a terra dal suo cavallo.

Morì tre giorni dopo per le lesioni che aveva riportato sbattendo contro un albero.

Il modo come la notizia fu commentata in Francia conferma che A., anche dopo la seconda pace di Pavia, pensava alla riscossa; che si preparava allo scopo con maneggi segreti; che ciò non era rimasto ignoto. Si disse infatti che la mortale caduta lo avesse stroncato proprio mentre stava meditando come mutare con la frode la situazione nata dalle clausole di pace sino allora adempiute, anche a costo d'infrangere i giuramenti e d'abbandonare alla loro sorte gli ostaggi. Lo si qualificò di "nefandus rex"; si ravvisò nella sua fine repentina il giudizio, la vendetta di Dio. Erano apprezzamenti che echeggiavano i termini ancor più violenti contro A. ripetutamente scagliati da Stefano II nelle sue lettere a Pipino, e dal suo anonimo biografo nel racconto della lotta fra il papa ed il re longobardo: "tiranno", "protervo"' "atrocissimo", "crudelissimo", "pestifero", "maligno", "iniquo, iniquissimo", "figlio dell'iniquità", "perfido", "mendace", "spergiuro", "empio", "diabolico ingegno". Ed altri anche più terribili vedremo tra poco usati dal papa. Anche Stefano II ed il suo biografo scrissero che A. era stato colpito "divino ictu", "divino mucrone". Certo nel pensiero che il giudizio di Dio era di condanna eterna, e quindi con un senso di commiserazione per l'anima dei re longobardo, considerato morto in costanza di colpe contro la Chiesa di Roma, il biografo chiamò allora "sciagurato", "infelix", Astolfo; il termine, cosi inteso, non è in contrasto con le fosche tinte sempre usate nel tratteggiare la figura del re longobardo; ne costituisce anzi l'ultimo tocco.

Assai duro fu Stefano II nello scrivere a Pipino della morte di Astolfa. Metteva in netto risalto il fatto che la fine della sua "empia" vita aveva coinciso coi compiersi esatto di un anno da quando A. aveva preso le mosse per devastare "hanc Romanam urbein", mettendo a repentaglio la propria fede, "fidern suam temptans", e per perpetrare sacrileghe scelleratezze, "diversa piaculi scelera". Una tale coincidenza prospettava Stefano II a Pipino come prova che quella morte era stata effetto di un giudizio di Dio, e che il giudizio era stato di condanna all'inferno: "tirannus ille, sequax diaboli, Haistulfus, devorator sanguinum christianorum, ecelesiarum Dei destructor, divino ictu percussus est et in inferni voraginein demersus".

Terribili parole. Esprimevano, raccolte in una sintesi di violenza impressionante, tutti i sentimenti di terrore, d'incubo, d'avversione, che, per anni interi, A. aveva fatto pesare su Roma, ed il senso d'esaltata liberazione che a Roma aveva suscitato il diffondersi della notizia della sua improvvisa scomparsa nell'anniversario del tragico assedio, e mentre si paventava un rinnovarsi di angosce. Allo storico, il giudizio di Stefano II prospetta il dramma, che per i re longobardi in Italia aveva avuto inizio da quando il problema dei rapporti costituzionali di Roma con gli imperatori si era venuto a mano a mano identificando col problema dei rapporti religiosi dei vescovi di Roma con i sovrani di Costantinopoli. L'Isaurico, come un secolo prima Costante II per il monotelismo, aveva posto sullo stesso piano dei reato di ribellione alla sua autorità sovrana il rifiuto d'obbedienza ai decreti iconoclasti; perciò aveva considerato punibili con la condanna capitale, come Martino I, i papi che ne erano stati i promotori e gli animatori in Italia, Gregorio II e Gregorio III. Il problema dei rapporti di Roma con i re longobardi era a sua volta divenuto anche un problema religioso da quando Liutprando aveva tentato d'inserire nel conflitto iconoclasta la ripresa della conquista, presentandosi in veste di re cattolico difensore della fede contro l'imperatore scismatico. Problema religioso, è bene chiarire, nell'ambito non delle dottrine di fede, come avveniva rispetto agli imperatori, ma delle condizioni in cui i successori di S. Pietro si sarebbero trovati il giorno in cui al dominio imperiale si fosse sostituito dovunque in Italia, e nella stessa Roma, sia pure in stretta connessione con la controversia iconoclasta, il dominio dei re longobardi. Liutprando non aveva saputo rendersi conto che i vescovi di Roma non potevano lasciarsi rinchiudere nel particolarismo su cui si fondava la concezione che i re longobardi avevano del potere sovrano anche nei riguardi dei loro vescovi, così estraneo all'universalismo del pensiero religioso della Chiesa di Roma, che nell'universalismo delle concezioni imperiali aveva visto il manifestarsi di un ordine provvidenzialmente predisposto da Dio. Liutprando non aveva perciò potuto comprendere che avrebbe trovato avversari irriducibili i papi dal momento stesso in cui il suo proposito d'occupare Ravenna fosse apparso concepito nell'intento di procurarsi il mezzo per poter legittimare altresì l'occupazione della città natale dell'Impero. A. aveva provocato il risorgere della stessa situazione, ma con aspetti ancora più gravi. Aveva occupato Ravenna senza essere in grado di atteggiarsi a difensore degli anticonoclasti, perché nella questione del culto delle immagini durava ancora, al momento della sua presa, una tacita tregua tra papi e imperatori. Troppo presto aveva scopertamente affermato di volere assoggettare anche Roma; troppo ostinato, duro, minaccioso, intransigente, a differenza di Liutprando nei suoi rapporti con Gregorio II, Gregorio III e Zaccaria, si era mostrato nelle trattative avviate da Stefano II per giungere ad un'intesa. L'incalzare iroso delle sue pressioni, mentre Costantino V si rivelava prima impotente a soccorrere Roma, poi deciso a riprendere, col suffragio conciliare delle Chiese orientali, la lotta contro le immagini, aveva avuto come logica conseguenza, da parte di Stefano II, il ricorso a Pipino, e l'impostazione del problema della retrocessione dei territori di recente conquista longobarda sulla base della loro consegna al reggimento temporale dei vicari di S. Pietro, anziché ai rappresentanti dell'imperatore. A. si era così trovato al centro di un vortice, che egli stesso aveva concorso a formare; che lo travolse nel breve giro di un anno; che avrebbe travolto le fortune del suo successore ed ultimo re longobardo, Desiderio; che minava dalle fondamenta le fortune dell'Impero nella penisola italiana.

A., con le efferatezze perpetrate dai suoi guerrieri sotto Roma durante l'assedio dell'invemo 755-756, aveva dato motivo a Stefano II di pronunciare l'aspra condanna anche morale e religiosa di cui si è riportato il testo. La condanna aveva trovato consenso nei circoli di corte del regno franco, che non potevano perdonare ad A. le ripetute violazioni dei giuramenti solennemente prestati a Pipino. I giudizi negativi romani e franchi confluirono ad ispirare la tradizione storiografica di un monastero posto in territorio romano, il quale era pur legato alle memorie di quel Carlomanno che, nel precipitare degli eventi alla guerra, aveva parteggiato per A. contro Stefano II. Era il monastero di S. Andrea sul Soratte. Qui, alla fine del sec. X, un monaco di stirpe romana, Benedetto, nel suo Chronicon così ricco di passioni, di colori, di leggende, scrisse di A. come di re che "arse di tanta nequizia quanta mai si era riscontrata nei suoi predecessori", e dal cuore che "si esaltò non in Dio, non nell'onore delle chiese, ma nelle guerre, nella rapina, nel fuoco, nella spada".

Ma lo storico non può circoscrivere la sua valutazione solo a questi giudizi. Con espressioni ispirate a sensi di calda religiosità si apriva il proemio delle leggi emanate a Pavia, l'anno in cui il papa trattava in Francia con Pipino contro di lui, il 1° marzo 754. A., citando versetti dei libri dei Salmi e della Sapienza, si era proclamato obbediente, come legislatore, ai precetti della Sacra Scrittura, ed aveva affermato di voler essere gradito in tutto all'onnipotente Iddio, con l'aiuto del quale regnava, seguendo l'esempio dei suoi predecessori che, nell'imporre alla "gens "loro commessa le leggi di un retto govemo, avevano desiderato "pleno pectore" di piacere "redemptori omnium saeculorum". In queste leggi A. con l'esempio del Redentore, che si era degnato di farsi servo per donare agli uomini la libertà, e con l'"auctoritas" di S. Paolo, aveva motivato l'obbligo di dar corso alle manomissioni di servi decise da un padrone defunto senza aver avuto modo di perfezionarne la procedura. In queste leggi A. aveva disposto diverse misure a tutela degli interessi economici di vescovi, abati, rettori di chiese e di ospizi, di monache. Nelle leggi emanate il primo anno di regno, il 1° marzo 750, troviamo ribadito il valore di legge già da Liutprando conferito alle norme canoniche sul divieto delle unioni illecite, ed aggiunte sanzioni pecuniarie a carico dei funzionari che non ne avessero curato l'adempimento, sanzioni motivate con l'opinione unanime, dal re condivisa, che i conniventi a tali unioni agivano contro Dio e la propria anima, donde l'estendersi di una siffatta malvagità. Scarsissime reliquie e notizie ci sono rimaste dei documenti usciti dalla cancelleria regia al suo tempo. Bastano tuttavia per attestare che anche A. fu largo di favori a vescovi, chiese, monasteri, ospizi. Risultano da lui beneficiate abbazie insigni come Farfa, Montecassino, S. Vincenzo al Volturno. Donna devota era la sua consorte, Giseltrude, sorella di quell'Ansehno che, successore di A. nel ducato del Friuli, si ritirò subito a vita monastica. A. nel primo anno di regno (749-750) donò, insieme con la moglie, la terra di Faniano (Fanano, nell'Appennino modenese) ad Anselmo, che vi eresse un monastero, con l'ospizio annesso, consacrato al Salvatore. Nel terzo anno di regno (751-752) il re donò al cognato, divenuto abate, Nonantola, dove Anselmo fondò un monastero che fu tra i più illustri del Medio Evo. E già ricordammo l'omaggio da lui reso alla cattedrale di Ravenna, ed il suo ordine di ricostruire in Classe la basilica dei SS. Pietro e Paolo. Sono atti di sovrano pio e sinceramente desideroso d'informare la sua opera legisiatrice a principl di etica cristiana ed a norme di canoni ecclesiastici. Non si possono né ignorare né sottovalutare. Da essi si può anzi trarre luce per meglio comprendere la profondità del dranuna di questi re longobardi cattolici, che certo si domandavano, stupiù ed irritati, perché mai con la ripresa della conquista si inimicassero la Chiesa di Roma, e non erano capaci di darsi una risposta soddisfacente, e giovevole a preferire una più cauta condotta politica, perché erano incapaci di penetrare nell'intimo delle ragioni da cui i successori di S. Pietro erano mossi ad agire come loro irriducibili nemici.

A. nel suo brevissimo regno - sette anni e circa cinque mesi - era stato, al pari dei suoi grandi avversari Stefano II e Pipino, protagonista di eventi tra i più memorandi dei Medio Evo. Questi eventi diedero l'avvio decisivo al processo storico che, con il sorgere del potere temporale dei papi, col passaggio del regnum Langobardorum dai re della gente che l'aveva fondato ai re franchi della dinastia carolingia, con gli stretti rapporti tra i Carolingi ed i papi, preparò il distacco definitivo dell'Italia dall'Oriente bizantino ed il terreno propizio a quei ripetuti tentativi di riordinare stabilmente l'Occidente europeo in un nuovo Impero cristiano ispirato all'universalismo della Chiesa di Roma, che furono tra i caratteri più salienti del Medio Evo dal sec. IX al principio del sec. XIV. Anche nell'ambito interno dell'Italia longobarda il brevissimo regno di A. fu di un innegabile rilievo. Ansprando, nel 712, sopraffacendo Ariperto II, aveva posto fine alla dinastia di cui era stata stipite femminile Teodelinda, e cheper il tramite di lei si ricollegava all'antica dinastia nazionale dei Lethingi. Si era allora avuto il primo caso di conquista del trono da parte non di un appartenente a famiglie ducali, ma di un dignitario di corte. L'avvento di Rachi nel 744 e di A. nel 749 aveva segnato un momento di riscossa della potenza ducale. Rachi era stato in sostanza un debole. A., invece, ancor pìù di Liutprando, aveva saputo affermare saldamente l'esercizio diretto dell'autorità regia sul ducato di Spoleto e mantenersi ligio il ducato di Benevento. Aveva così potuto disporre a suo piacimento delle forze di quelle vaste aree dell'Italia longobarda centro-meridionale che erano per secolare tradizione le più gelose della propria autonomia di fronte ai sovrani di Pavia. A. era stato il capo dell'opposizione alla politica filo-romana di Rachi; ma, riconoscendo legalinente, non appena tolto il trono al fratello, la esistenza di un populus Romanorum affidatogli in virtù di quella grazia divina in nome della quale s'intitolava rex gentis. Langobardorum, aveva dimostrato di essere consapevole che non era più il tempo di pensare ad un rigido esclusivismo di stirpe. A. fu l'ultimo re longobardo che fosse uscito da una famiglia ducale e che avesse conquistato il trono con l'appoggio armato solo dei suoi partigiani all'intemo. Desiderio non aveva un padre duca; ricopriva un'alta dignità di corte - quella di comes stabuli -, quando A. lo fece duca; dovette soprattutto agh aiuti di forze esterne - del papa Stefano II e del franco Fulrado, rappresentante in Italia di Pipino - se poté prevalere sul tentativo compiuto da Rachi per recuperare il trono. A., con le leggi emanate nel 750 (9 capitoli) e nel 754 (13 capitoli), chiuse inoltre la serie dei re longobardi legislatori, aperta da Rotari nel 643, e continuata da Grimoaldo, da Liutprando e da Rachi.

Nulla sappiamo della sorte toccata, dopo la scomparsa di A., alla sua sposa Giseltrude. Non risulta che dalle loro nozze siano nati figli. Di un altro fratello di A. conosciamo solo il nome, Ratchcait, e sappiamo solo che nella circostanza del giudizio regio sulle violenze usate nel ducato del Friuli al patriarca di Aquileia fu chiamato da Liutprando a Pavia insieme con Rachi, con A. e col padre Pemmone.

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