AUTARI, re dei Longobardi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 4 (1962)

AUTARI, re dei Longobardi

Ottorino Bertolini

La proclamazione di A. a re, nell'autunno del 584, pose termine a quel periodo della storia dei Longobardi in Italia che si suole denominare "interregno ducale", perché i Longobardi, non avendo dato a Clefi, vittima di un assassinio nel 574, un successore, erano da allora rimasti senza un re che ne fosse il capo supremo, e sotto il governo di altrettanti capi particolari quanti erano i loro duchi.

"Per annos decem regem non habentes, sub ducibus fuerunt" scrive Paolo Diacono. Era stato un decennio nel quale le fortune della conquista avevano corso più volte gravi rischi, per l'errore commesso di complicare la situazione politica e bellica attaccando il limitrofo regno di Burgundia, così da farsi nemici anche i Franchi e da renderli potenziali alleati dei Bizantini. Già intorno al 575 ciò aveva portato alla perdita delle valli di Susa sin quasi a Ivrea, e di Aosta sin quasi ad Avigliana, cedute a Gontrano re di Burgundia. Un attivissimo lavorio diplomatico aveva svolto l'imperatore Tiberio Il (576-582) per guadagnarsi gli aiuti delle armi franche, parallelamente ai maneggi condotti per spezzare il fronte dei duchi longobardi provocando defezioni tra di essi con la forza dell'oro. Né questi maneggi erano rimasti infruttuosi, perché diversi duchi, tra i quali Grasulfo I del Friuli, avevano accettato di passare al servizio dell'Impero. Nel 582 un esercito franco era disceso nella valle dell'Adige. Il duca di Trento, Evino, lo aveva annientato. Ma nel 583 il successore di Tiberio II (morto il 14 ag. 582), Maurizio, era riuscito a stipulare con il re d'Austrasia Childeberto II un trattato, che lo impegnava a muover guerra in persona ai Longobardi. Nell'estate del 584 il re d'Austrasia, al quale l'imperatore aveva versato un'ingente sovvenzione di ben 50.000 solidi d'oro, aveva varcato le Alpi alla testa di un grosso esercito. I duchi longobardi direttamente esposti alla minaccia, come quelli di Torino, Bergamo, Brescia, Verona e Trento, erano riusciti a superare il duro frangente, prima cooperando in una resistenza che disanimò Childeberto II e lo indusse a ritirarsi; poi manovrando sul terreno diplomatico. Un accordo pattuito con Childeberto II, presumibilmente sulla base della cessione della valle di Lanzo e con l'obbligo di un tributo annuo di 12.000 solidi, aveva reso inoperante, se non altro per allora, l'alleanza militare franco-bizantina. A un prezzo ben caro; e l'allarme era stato troppo grave e troppo evidente rimaneva il pericolo di un suo prossimo ripetersi, perché i duchi longobardi maggiormente interessati a fronteggiarlo non sentissero l'urgenza di un ritorno, con la restaurazione dell'istituto monarchico, al comando supremo affidato ad un re.

Con la scelta di A. si volle in un certo modo riannodare il filo della tradizione monarchica longobarda al punto in cui era stato troncato dieci anni prima. A. era infatti figlio di Clefi, il re al quale si doveva se l'indipendenza dei Longobardi in Italia da Bisanzio aveva, potuto superare la gravissima crisi seguita all'assassinio di Alboino. Promotore della sua elezione fu senza dubbio il duca di Trento Evino.

Nelle vicende degli ultimi anni in rapporto con i Franchi Evino aveva avuto una parte preminente. Si era assicurata, sposando una figlia di Garibaldo duca dei Bavari, l'amicizia di una gente limitrofa al suo ducato che, tributaria dei Franchi, ma decisa a difendersi da un assoggettamento diretto, aveva interessi comuni con i Longobardi. A queste nozze di Evino derivava inoltre un singolare rilievo dal fatto che la moglie di Garibaldo, Valderada, era una principessa longobarda di sangue reale, perché nata dall'ottavo re dell'antica dinastia nazionale longobarda dei Lethingi, Vacone (507 circa-540). Garibaldo era il terzo marito; i precedenti erano i merovingi Teodebaldo e Clotario I.Nell'elezione di A. furono solidali i duchi che con Evino avevano collaborato in quegli anni. Le rimasero invece estranei, pur se per motivi diversi, i duchi del Friuli, di Spoleto e di Benevento. Il duca dei Friuli, Grasulfo I, si manteneva al servizio dell'Impero. I duchi di Spoleto, Faroaldo I, e di Benevento, Zottone, erano impegnati nell'estendere per proprio conto la conquista nell'Italia centromeridionale. I duchi che avevano concorso all'elezione la integrarono con le misure amministrative indispensabili per fornire dei necessari mezzi finanziari il nuovo re, la sua corte e gli uffici del suo governo. A tale scopo ciascuno di essi cedette ad A. la metà delle proprie sostanze.

L'urgenza delle necessità belliche, che ai Longobardi aveva imposta la restaurazione dell'istituto monarchico, agì contemporaneamente sull'imperatore perché, dopo lo scacco subìto dalla sua politica di alleanza militare con i Franchi, s'inducesse al ripristino del comando unico supremo delle forze imperiali impegnate in Italia nella guerra contro i Longobardi. Nell'autunno del 584 arrivò infatti a Ravenna l'alto dignitario bizantino - si chiamava Smaragdo - che Maurizio aveva investito dei poteri di generalissimo, col titolo di exarchus Italiae, riprendendo così le tradizioni di Belisario e di Narsete, ma con una carica ed una denominazione nuove, preludio di una radicale riforma negli ordinamenti bizantini.

L'esarca d'Italia aveva la stessa competenza territoriale del praefectus praetorio Italiae, limitata quindi alla penisola. Per il momento, il prefetto del pretorio rimaneva a Ravenna, come capo dell'amministrazione civile, a fianco dell'esarca, ma a lui era già di fatto subordinato, per le ferree esigenze di una situazione, che metteva i bisogni dell'esercito al di sopra di ogni altro interesse. Si preparava così quella militarizzazione dell'Italia bizantina, modellataquasi sull'esempio della Italia longobarda, che nel corso del secolo successivo si sarebbe andata concretando nella rifusione dei resti delle antiche province civili della penisola in circoscrizioni militari, agli ordini ciascuna di un duca, sotto il comando supremo dell'esarca residente nella città di Ravenna.

Alla fine del 584 si trovavano quindi di fronte il nuovo re dei Longobardi e il primo degli esarchi imperiali d'Italia. Assai difficile era la situazione di Autari. All'interno si trattava di ridare prestigio e forza all'istituto monarchico, eliminando il fenomeno delle rivolte e delle defezioni dei duchi e dei capi passati all'Impero, richiamando nell'orbita del potere regio i potenti duchi di Spoleto e di Benevento, riabituando alla sua esistenza e alla sua azione gli stessi duchi che avevano eletto il re. All'esterno, il problema politico-militare si era aggravato sotto un duplice aspetto. La guerra contro i Bizantini, con l'insediamento in Ravenna dell'esarca d'Italia, si sarebbe inasprita. Se i Franchi ritornavano all'alleanza con l'Impero, potevano decidere delle sue sorti. Ma neppure Smaragdo aveva un compito facile. L'imperatore non era stato in grado d'inviare, con lui anche rinforzi, perché tutte le risorse belliche dell'Impero dovevano rimanere concentrate nelle province asiatiche a combattere i Persiani. Le truppe disponibili nella penisola italiana erano scarse di numero, disperse nei vari centri di resistenza, mal collegate tra loro perché i Longobardi continuamente minacciavano, e spesso interrompevano, le vie di comunicazione.L'esarca doveva quindi attendere, prima di pensare a una controffensiva, che gli fosse assicurato l'unico aiuto militare allora prevedibile di efficace impiego: quello conseguente a un rinnovato interventodei Franchi. A. non poteva invece procrastinare l'azione, se voleva infondere rispetto e fiducia nei suoi. Ed infatti agì subito.

Si ha l'impressione che egli sia riuscito a ottenere sin dal principio la collaborazione dei duchi di Spoleto e di Benevento. Già nei primi giorni dell'ottobre 584 papa Pelagio II segnalava angosciosamente all'imperatore che Roma era in pericolo e che l'esarca, alle sue pressanti richieste di soccorsi, rispondeva di non poter distogliere neppure un soldato dalle truppe, con le quali egli stesso a stento difendeva i territori vicini a Ravenna. In quel momento solo Faroaldo I e Zottone erano in grado di mettere alle strette Roma; e probabilmente di allora sono la presa e il saccheggio del porto stesso di Ravenna, Classe, da parte del duca di Spoleto, di cui abbiamo notizia da Paolo Diacono. Se e quali rapporti vi fossero tra questa fase della guerra in Italia e la contemporanea crisi del regno visigoto nella penisola iberica, provocata dalla ribellione di Ermenegildo, sostenuta dai Bizantini, al padre Leovigildo e dalla ripresa antivisigota degli Svevi, è oggi difficile stabilire. I passi compiuti da Childeberto II presso la corte di Costantinopoli per la questione della sorella Ingunda, la sposa di Ermenegildo, che insieme con il figlio Atanagildo era stata imbarcata su di una nave diretta in oriente dalle autorità bizantine della parte della Baetica in possesso dell'Impero, dove i due profughi si erano rifugiati, dominarono per un certo tempo i rapporti diplomatici tra il re austrasico e l'imperatore. Nel 585 un'incursione dei Franchi in Italia, pur se finì con la rotta degli invasori, parve indicare che il tragico epilogo nel regno visigoto della ribellione di Ermenegildo stava per avere i suoi ultimi riflessi all'estero in una rinnovata alleanza militare franco-bizantina controi Longobardi. Nel contempo passava al servizio dell'Impero uno dei più prodi condottieri dei Longobardi, lo svevo Droctulfo, il quale non soloriprese per i Bizantini e difese vittoriosamente l'importante testa di ponte di Brescello, che sulla riva sud del Po, a poca distanza da Parma e da Reggio Emilia, sbarrava le vie dall'Emilia a Mantova, ma contribuì validamente alle operazioni navali con cui gli imperiali riconquistarono Classe. Ma Smaragdo non era ancora in grado di sfruttare la vittoria, perché non sierano fatte concrete le possibilità di un piano di guerra stabilito in comune con i Franchi. A., dal canto suo, non aveva ancora potuto riorganizzare in modo sodisfacente le sue forze. Entrambe le parti belligeranti furono perciò indotte a considerare opportuna una tregua, che il re propose e l'esarca accettò, per la durata di tre anni.

È da presumere che di questa sosta delle armi profittò A. per portare avanti, almeno nei territori occupati più accessibili all'esercizio dell'autorità regia, l'opera di riordinamento interno cui accenna, con estrema concisione, un passo famoso della Historia di Paolo Diacono (III, 16): "populi... adgravati per Langobardos hospites partiuntur".

Non è qui il luogo di addentrarci nella vexata quaestio dell'interpretazione di questo, e dell'altro passo paolino famoso (II, 32), relativo al decennio 574-584 dell'interregno ducale: "His diebus multi nobilium Romanorum ob cupiditatem interfecti sunt. Reliqui vero per hospites divisi, ut terciam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur". Dobbiamo limitarci a trarre da recenti ricerche del Cessi e del Bognetti una ipotesi, che sembra possa offrire un maggior margine di probabilità di avvicinarsi al vero.

Dopo la scomparsa di Clefi vi era stato un infierire di stragi indiscriminate, che avevano mietuto molte vittime tra i proprietari italico-romani dei ceti più elevati. Ma i duchi avevano anche intrapreso un primo riassetto amministrativo, che assicurasse ai conquistatori un adeguato afflusso di mezzi di sussistenza, secondo norme uniformi, capaci di metter fine alle distruzioni e dispersioni di beni provocate da indisciplinati atti d'ingordigia e di rapina per opera di singoli gruppi. Le leggi dell'Impero addossavano ai proprietari fondiari l'onere di procurare ai soldati acquartierati, hospites, nella zona, i rifornimenti, mediante la consegna, considerata alla stregua di un'imposizione tributaria, di un terzo dei prodotti della terra. Il sistema era applicato anche ai guerrieri di genti barbare stanziate, con le loro famiglie, in regioni dell'Impero nella qualità di foederati. I Longobardi avevano avuto modo di conoscerlo sin da quando avevano preso sede, come foederati,nella Pannonia; lo avevano visto in uso per i contingenti ausiliari tra loro assoldati da Bisanzio; lo avevano trovato in atto per i presidi imperiali in Italia. Era quindi naturale che i loro duchi giudicassero la sua adozione come rispondente allo scopo cui miravano. Tra i nuclei, farae, in cui i Longobardi si erano venuti dividendo con l'estendersi della conquista, furono ripartiti gli abitanti di stirpe italico-romana agli effetti dell'assolvimento, a beneficio dei nuovi occupanti, dell'obbligo tributario del terzo dei prodotti delle loro terre, cui prima erano tenuti a beneficio degli hospites delle forze al servizio dell'Impero. La restaurazione della monarchia nel 584, con un re, cui erano stati trasferiti in proprietà beni già dei duchi, ubicati in zone diverse, e che doveva provvedere al mantenimento della corte, dei suoi servizi, di un numero sempre crescente di dignitari, di funzionari, ufficiali ed impiegati regi, aveva creato nuove esigenze amministrative, e reso quindi necessario che si procedesse ad un generale riassetto, questa volta certo regolato dal re, della ripartizione precedentemente adottata agli effetti delle corresponsioni dovute dagli abitanti di stirpe italico-romana ai Longobardi. Ed anche un tale riassetto fu condotto in base al criterio, che equiparava di fatto, sotto questo aspetto, i Longobardi ai soldati acquartierati, hospites, dell'Impero. Le corresponsioni, come del resto già accadeva sotto il dominio imperiale, praticamente gravavano per intero sulla massa dei coltivatori diretti, "popoli adgravati". Nel settembre 587 A. ruppe la tregua prima che ne fosse scaduto il termine. L'isola Comacina (nel lago di Como), l'ultimo caposaldo tenuto ancora dai Bizantini nella regione subalpina centro-occidentale, fu espugnata dopo sei mesi di assedio, e A. ebbe così modo di consolidare le difese degli sbocchi delle valli montane donde potevano discendere i Franchi. Il re concesse al generale che da vent'anni aveva il comando del presidio imperiale dell'isola, e che era un veterano di Narsete, Francione, di raggiungere, con la moglie e con i suoi beni, Ravenna. Contemporaneamente il duca di Trento, Evino, attaccava, per ordine di A., l'Istria, ne depredava la zona limitrofa al Friuli e, stipulata una tregua della durata di un anno, portava al re il pingue bottino raccolto. Il duca ribelle del Friuli, Grasulfo I, intimorito, s'affrettò a sottomettersi. Probabilmente ottenne che il governo della zona istriana invasa fosse affidato a suo figlio Gisulfo II. Con i Franchi A. agì sul terreno diplomatico: chiese a Childeberto II la mano della sorella Clodosvinta. Qui gli toccò uno scacco, perché il re austrasico gli preferì, come fidanzato, il re visigoto successore di Leovigildo, Reccaredo, che si era convertito al cattolicesimo. A. prese allora una decisione che molto avrebbe pesato sulle successive vicende della monarchia longobarda: si fidanzò con una figlia del duca dei Bavari, Teodelinda. La principessa era nipote, dal lato della madre Valderada, del ricordato re longobardo Vacone. A., evidentemente, pensando a Teodelinda si proponeva un duplice scopo.

Conscio della debolezza che proveniva al prestigio della propria famiglia dal fatto di non avere dato, prima di Clefi, altri re ai Longobardi, mirava a consolidarsi nel possesso del trono legittimandolo, in certo modo, grazie ai legami di sangue che avrebbe contratto con l'antica dinastia nazionale dei Lethingi per le nozze con una sua discendente in linea femminile. D'altra parte il fidanzamento con Teodelinda significava guadagnare alla propria persona l'appoggio dei Bavari, ed insieme rafforzare la fedeltà di Evino, il duca che era stato il promotore della sua elezione, e che sarebbe divenuto suo cognato. E senza dubbio anche a questa decisione di A. molto aveva contribuito il potente duca di Trento. Il colorito da canto di gesta, che la tradizione longobarda, rispecchiata da Paolo Diacono, diede, abbellendolo di particolari poetici, al ricordo di questo fidanzamento con una principessa, nelle cui vene il sangue di un duca bavaro si mescolava al sangue dei re Lethingi, dimostra l'impressione e il favore con cui la notizia fu accolta dalle genti di Autari.

Childeberto II, intanto, proseguiva le sue trattative con Bisanzio. Gli sorrideva l'idea di riconquistare i territori dell'Italia settentrionale dai quali, venticinque anni prima, Narsete aveva cacciato i Franchi che vi si erano stanziati profittando della guerra greco-gotica. A ciò lo incoraggiava la madre Brunechilde, mentre lo zio Gontrano si mostrava alieno dal guastarsi con i Longobardi. Il re di Burgundia desiderava avere le mani libere per liquidare con i Visigoti la questione della Septimania; non aderì quindi all'invito del nipote di concorrere alla spedizione dell'esercito, che il re austrasico inviò in Italia nell'autunno del 588, mentre ancora le trattative con l'imperatore non avevano portato ad accordi positivi. Maurizio, sempre impegnato contro i Persiani, riluttava a pagare l'alleanza franca con un prezzo così elevato, quale l'abbandono di tanta parte d'Italia. L'esercito austrasico, per farsi strada tra i Bavari, dovette duramente combattere. Teodelinda fuggì allora, insieme col fratello Gundoaldo, nel regno del promesso sposo. La coraggiosa resistenza dei Bavari permise ad A. di prepararsi e d'infliggere una rotta totale ai Franchi non appena ebbero posto piede in Italia. Childeberto II aveva già mobilitato un altro esercito quando, nella primavera del 589, Maurizio si decise finalmente ad avviare le intese per concordare con lui un piano di guerra comune. Ma A. ne prevenne l'immediata attuazione offrendo pace, tributi ed alleanza militare al re austrasico. Childeberto II, anche per consiglio dello zio Gontrano, accettò di trattare e revocò gli ordini già impartiti in vista della nuova campagna contro i Longobardi.

Il 15 maggio 589 A. sposava Teodelinda presso Verona. La cerimonia nuziale fu celebrata con una solennità che mirava a dare grande rilievo ad un evento che restituiva il trono longobardo ad una discendente dei Lethingi e faceva del suo consorte regale un loro continuatore. Si ebbe contemporaneamente il ritorno di Childeberto II alla politica delle intese con Bisanzio. Il re austrasico si era convinto che A. molto aveva promesso al solo scopo di guadagnar tempo. Parve questa volta che il merovingio e Maurizio fossero veramente decisi ad agire in pieno accordo e a fondo. L'imperatore disponeva ora di maggiori forze, perché tra i Persiani erano scoppiate discordie che ne indebolivano le possibilità belliche. Non si limitò a sostituire a Smaragdo, nella carica d'esarca d'Italia, un valente condottiero, Romano, già provato nelle campagne d'Oriente; ma inviò a Ravenna truppe regolari, al comando di un generale, Ossone, e contingenti ausiliari di Longobardi che, al tempo dell'assassinio di Alboino, ed anche in anni recenti, erano passati al soldo dell'Impero, e sotto le sue insegne avevano combattuto in Egitto ed in Siria. Avevano tra loro capi saliti in fama, come un omonimo del re, Autari, e un Nordulfo, che si fregiava dell'eminente dignità imperiale di patrizio. Nel 590, mentre Romano prendeva l'offensiva, due grossi eserciti franchi valicavano le Alpi e, pur soffrendo notevoli perdite ed anche scacchi parziali durante la marcia, riuscivano a raggiungere le vicinanze di Milano, uno, di Verona, l'altro. L'esarca intanto rioccupava Altino, Mantova e Modena. Di nuovo parve che il fronte longobardo fosse per frantumarsi in conseguenza delle defezioni di duchi. Ai Franchi passarono il duca dell'isola di S. Giuliano (nel lago d'Orta), Mimulfo, che avrebbe dovuto difendere le provenienze dal Sempione, e il duca di Bergamo, Gaidulfo, che abbandonava così al nemico un'altra zona di grande importanza strategica per lo sbarramento degli sbocchi montani. All'esarca si sottomisero, ponendosi al servizio dell'Impero, i duchi di Piacenza, Parma e Reggio Emilia. A. si rinchiuse tra le mura della forte Pavia, e nelle rispettive città e capisaldi fortificati si rinserrarono i duchi che gli rimanevano fedeli.

Se gli eserciti franchi si fossero congiunti con quello di Romano, che aveva stabilito il suo quartier generale a Mantova, e insieme avessero sferrato un attacco a fondo contro Pavia, sarebbe stata per A., secondo ogni probabilità, la fine. Ma proprio allora il nembo procelloso si dissolse con la stessa rapidità con cui si era addensato ed aveva cominciato ad infuriare. L'esarca venne in urto con i comandanti dei due eserciti franchi, che sgombrarono la pianura padana e risalirono le valli alpine tre mesi dopo averle discese. Riconducevano in patria truppe cariche di bottino, ma decimate dai combattimenti e dalle malattie. Romano dovette a sua volta rientrare a Ravenna per marciare contro il figlio di Grasulfo i duca del Friuli, Gisulfo II. Non ebbe bisogno di combattere, perché il giovane duca gli fece atto di sottomissione. Ma ormai l'alleanza militare franco-bizantina era fallita. A. poteva nuovamente adoperarsi a dissociare Childeberto II da Maurizio, chiedendo a Gontrano di agire come mediatore di pace presso il nipote. I negoziati non avevano superato la fase iniziale quando, il 5 sett. 590, A. moriva, nel fiore degli anni. Si disse, di veleno. Non è da escludere che, come era avvenuto per Alboino, e forse anche per Clefi, l'assassinio fosse stato il mezzo col quale da parte bizantina si era voluto eliminare un re longobardo dimostratosi temibile nemico nelle armi e nelle arti politiche.

A., nel suo breve regno di circa sei anni, aveva compiuto un'opera di grande rilievo non soltanto come condottiero. All'esterno, i suoi ripetuti tentativi d'intesa con i Franchi avevano preparato il terreno ai suoi successori perché potessero continuare la guerra combattendo unicamente contro l'Impero, e non più su due fronti; e le nozze con Teodelinda avevano cementato i rapporti di buona amicizia tra Longobardi e Bavari. All'interno lo sfruttamento delle risorse agricole per i bisogni dei dominatori, almeno nelle parti dell'Italia longobarda su cui A. aveva potuto far sentire la sua azione di re, era stato adeguato alle nuove esigenze amministrative. Lo istituto monarchico, appena riemerso dall'eclisse decennale provocato dallo strapotere dei duchi, per merito di A. aveva riacquistato in saldezza quanto bastava per prepararsi a durare altri due secoli. Durò sino ai due ultimi re longobardi, Desiderio e Adelchi, anche l'uso del gentilizio romano Flavius preposto al nome personale, che A. fu il primo ad attribuirsi, e col quale, come afferma Paolo Diacono, i Longobardi lo chiamarono "ob dignitatem". A., probabilmente, se lo attribuì col proposito di crescere in dignità rifacendosi non tanto ad antiche tradizioni imperiali, quanto alle più recenti dei primi due re di stirpe germanica in Italia, lo sciro Odoacre e l'ostrogoto Teoderico. Al consolidamente della risorta monarchia molto aveva giovato il matrimonio con Teodelinda. Nella storia dei Longobardi in Italia entrava una regina intelligente ed energica quanto bella, che l'avrebbe dominata per oltre un trentennio, ed avrebbe dato origine a quella dinastia che, per gli attacchi in linea femminile con lei, si suol designare come "bavarese". Teodelinda era inoltre fervidamente cattolica, pur se propensa a simpatizzare con gli scismatici dei Tre Capitoli, e del cattolicesimo facendosi patrocinatrice nel seno stesso della corte reale avrebbe posto le premesse essenziali perché anche la monarchia longobarda divenisse col tempo, da ariana, cattolica. A. rimase accanto alla consorte soltanto poco più di un anno. Troppo breve spazio, perché potesse sentirne l'influenza spirituale come certo la sentì il suo secondo marito e successore di A., Agilulfo. Teodelinda non fu in grado di trattenere A. da un atto, che senza dubbio l'addolorò profondamente: il divieto tassativo, emanato per la Pasqua del 590 (in quell'anno cadeva il 26 marzo), che i Longobardi facessero battezzare i loro figli secondo il rito cattolico. Ma fu misura dettata non da intolleranza religiosa, bensì da una preoccupazione di natura politica: il timore che il passaggio alla confessione cattolica potesse incrinare nei Longobardi la fedeltà dovuta ai propri re, che professavano la confessione ariana.

Le prove che A. fosse tollerante in fatto di religione non mancano. Non ebbe difficoltà a nominare duca di Asti il fratello di Teodelinda, Gundoaldo, che era cattolico. Nel gennaio 591 Gregorio Magno indirizzò a tutti i vescovi d'Italia, compresi dunque quelli delle zone occupate, una lettera nella quale deplorava il divieto del battesimo cattolico; dichiarava che Dio aveva per questo punito il re longobardo impedendogli di sopravvivere sino alla Pasqua successiva (il 15 aprile, nel 591); incitava a persuadere i Longobardi a lasciare che i figli fossero battezzati secondo il rito cattolico e a convertirsi essi stessi. Nessun cenno a molestie che i vescovi delle zone occupate avessero subìto da parte di Autari. E lo stesso Gregorio Magno, in un'altra sua lettera, del giugno 597, rievoca un episodio, risalente al tempo del suo predecessore, Pelagio II (morto nel febbraio 590), che attesta il rispetto usato da A. per i sentimenti religiosi dei cattolici. In una città dell'Italia traspadana - Gregorio Magno non ne precisa il nome - un Longobardo aveva trovato un reliquiario foggiato a chiave di S. Pietro. Per lui l'oggetto non era di nessun conto, in quanto a significato religioso, ma di grande valore materiale, perché in oro. Il Longobardo lo volle quindi adattare ad altro uso. Trasse il coltello, col proposito d'inciderlo, ma l'arma, al primo colpo, gli sfuggì di mano e lo trafisse alla gola. Il Longobardo cadde morto all'istante. Erano presenti A. e molti uomini del suo seguito. Allibirono, non osarono toccare il reliquiario caduto accanto al cadavere; chiamarono un Longobardo, noto come devoto cattolico, e a lui fecero raccogliere il sacro oggetto da terra. Il re si diede premura che fosse foggiata in oro un'altra chiave simile; la inviò in omaggio, insieme con il reliquiario, a Pelagio II e accompagnò l'invio con un racconto del fatto, affermando che anche da lui e dai suoi era stato giudicato un miracolo. Il fatto è anche prova che Longobardi convertiti vi erano già prima dell'avvento di Gregorio Magno al pontificato, come il divieto del battesimo cattolico è prova che già al tempo di A. le conversioni non erano più casi isolati, ma si andavano diffondendo tra i conquistatori.

A. non aveva reso madre Teodelinda. L'esistenza di due sue sorelle risulta da Paolo Diacono, il quale di Agilulfo, nella circostanza della sua assunzione alla dignità regia nel novembre 589, dopo le nozze con Teodelinda, dice che era stato "cognatus regis Autharit"; e di un altro cognato dà il nome, Ansul. Della esaltazione da canti di gesta che i Longobardi fecero delle sue imprese di guerra è traccia nella tradizione leggendaria accolta da Paolo Diacono cautelandosi con un "refertur", un "fama est". Ancora al suo tempo si parlava di una colonna emergente dal mare a Reggio Calabria, chiamata "la colonna di Autari". E si raccontava che il re avesse esteso la conquista oltre Spoleto e Benevento, sino a quella "extrema Italiae civitas vicina Siciliae", e qui avesse spinto il suo cavallo nel mare sino a toccare la colonna con la punta della sua lancia (presso i Longobardi l'insegna per eccellenza del potere regio), dicendo: "Usque hic erunt Langobardorum fines".

Fonti e Bibl.: Menandri Protectoris Historiarum fragmenta, a cura di L. Dindorf, in Historici Graeci minores, II, Lipsiae 1871, pp. 120 s.; Origo gentis Langobardorum, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, c. 6, p. 5; Historia Langobardorum Codicis Gothani, ibid., c. 6, p. 10; Pauli Diaconi Historia Langobardorum, a cura di L. Bethmann-G. Waitz, ibid.,I, 21, II, 32, III,10, 16-19, 21-23, 26-35, pp. 60, 90 s., 97, 100-113; Chronicarum quae dicuntur Fredegarii Scholastici, a cura di B. Krusch, ibid., Scriptores rerum Merovingicarum, II, Hannoverae 1888, IV, 45, p. 143; Gregorii I Registrum Epistularum, a cura di P. Ewald-L. M. Hartmann, ibid., Epistularum, I, 1, Berolini 1887, I, 17, II, 45, pp. 23, 144; 2, ibid. 1891, V, 36, VII, 23, pp. 317 s., 468; Pelagii II Epistola Gregorio diacono, ibid., II, 2, Berolini 1895, Appendix II, pp. 440 s.; Pelagii II Epistola Heliae Aquileiensi episcopo aliisque episcopis Histriae, ibid., Appendix III, 1, pp. 442-445; lettere di Childeberto II e di Brunechilde riguardanti i rapporti con Costantinopoli: Mon. Germ. Hist., Epistolarum III, Berolini 1892, Epistolae Austrasicae, a cura di W. Gundlach, nn. 25-39, 42-48, pp. 138-145, 148-153; Mauricii imperatoris Epistola Childeberto II regi Francorum, ibid., n. 42, pp. 148 s.; [Romani] exarchi [Italiae] Epistolae, ibid., nn. 40-41, pp. 145-148; Auctarii Havniensis extrema, in Mon. Germ. Hist., Auctores Antiquissimi, IX, Chronica Minora saec. IV-VII, I, Berolini 1892, a cura di T. Mommsen, nn. 7-9, p. 338; (= Prosperi Continuatio Havniensis a cura di R. Cessi, in Archivio Muratoriano, XXII[1922], p. 639); Iohannis abbatis Biclarensis Chronica, ibid. XI, ibid. II, 1892, a cura di T. Mommsen, pp. 216, 217, 218; Gregorii Magni Dialogi, III,19, 29, a cura di U. Moricca, Roma 1924, in Fonti per la storia d'Italia, LVII, pp. 185 s., 200 s.; Gregorii Turonensis Historiarum libri X, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Merovingicarum, a cura di B. Krusch-W. Levison, I, 1, Hannoverae 1951, VI, 42, VIII, 18, IX, 20, 25, 29, X, 2-4, pp. 314, 384, 440, 444, 447 s., 482-487.

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Per i due passi della Historia Langobardorum (II, 32; III, 16) di Paolo Diacono: F. Schneider, Die Reichsverwaltung in Toscana, Roma 1914, pp. 154-165; R. Cessi, Pauli Diaconi Hist. Lang. II, 32; III, 16, in Studi di storia e diritto inonore di E. Besta, II, Milano 1937-39, pp. 207-212; G. P. Bognetti, S. Maria foris Portas di Castelseprio... cit., pp. 63-79; E. Besta, Storia del diritto italiano. Diritto pubblico, I, Milano 1950, pp. 258-261; G. P. Bognetti, Storia, archeologia e diritto nel problema dei Longobardi, in Atti del 1 Congresso Internazionale di studi longobardi, Spoleto 1952, pp. 95-99.

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