REALTA E FINZIONE NELL'ARTE CONTEMPORANEA

XXI Secolo (2010)

Realtà e finzione nell’arte contemporanea

Luca Panaro

Il crescente rapporto tra realtà e finzione nel mondo d’oggi, o meglio la straordinaria capacità della finzione di diventare realtà, emerge con forza dalla produzione artistica del nuovo secolo. Da una società in cui le finzioni sorgevano dal mutamento fantasioso del reale, si è passati a una società in cui è la realtà ad alimentarsi della finzione.

Un caso di ripercussione della finzione sulla realtà, frutto di un prelievo dal mondo dell’immaginazione, ci viene offerto da Olivo Barbieri (n. 1954) nella seconda parte dell’esposizione TWIY – The World Is Yours (Museo di Capodimonte, Napoli, 2008). Ispirandosi a un articolo letto sulle pagine di «The guardian» (T. Kington, ‘Scarface mansion’ to become clinic, 9 luglio 2007), l’artista ha rielaborato due immagini fotografiche della villa del camorrista Walter Schiavone, costruita a Casal di Principe presso Napoli sul modello della dimora di Tony Montana, protagonista del film Scarface di Brian De Palma (1983), e confiscata dalle autorità nel 1998. Schiavone (fratello di Francesco, temuto boss del clan dei Casalesi) era un fan del personaggio interpretato da Al Pacino, e aveva commissionato la villa a un architetto locale dandogli una videocassetta del celebre film per costruire nella realtà quello che si vedeva nella finzione cinematografica. Barbieri compone il suo lavoro con le due fotografie che riproducono la villa in tutta la sua ambiguità: architettura inesistente divenuta reale, ricondotta nuovamente in una dimensione di finzione mediante il trattamento pittorico dell’immagine. Appare come se fosse pittura anche un video che riproduce gli ultimi tre minuti del film, dov’è possibile vedere la doppia scalinata della villa di Miami da cui Montana compie il suo tuffo di morte; nella fontana sottostante, sostenuta da un gruppo statuario, la scritta the world is yours. Una frase che per Barbieri è una riflessione sulla capacità della finzione d’impadronirsi del mondo, nonché il titolo del suo lavoro.

«Le finzioni del giorno sono dunque più ambigue che ambivalenti: esse non sono né menzogne né creazioni. Proprio per questo temibili, non si distinguono radicalmente né dalla verità né dalla realtà, ma intendono sostituirvisi» (Augé 2000; trad. it. 2001, p. 11). Barbieri lavora su questo tema dal 1999, e in modo sistematico dal 2004 con la serie intitolata Site specif-ic_. Sono opere fotografiche e film ottenuti sorvolando con l’elicottero metropoli reali come Roma, Las Vegas, Los Angeles, Shanghai, New York, restituite dall’obiettivo come se fossero plastici sovradimensionati. Queste immagini suggeriscono una sorta di Disneyland al contrario: se nel parco divertimenti si visita ciò che non esiste ma sembra vero, nelle opere di Barbieri la realtà dei luoghi è trasformata in finzione. Questo lavoro nasce concettualmente proprio in seguito al clima d’inquietudine generatosi dopo l’11 settembre 2001: all’indomani del tragico attentato alle Twin Towers di New York la dimensione del volo si è infatti caricata di valenze inquietanti, e proprio questo attacco, vissuto in modo così ‘spettacolare’, ha dimostrato come la realtà possa addirittura superare la finzione cinematografica. L’artista sembra chiedersi continuamente quanta realtà si trovi nel nostro sistema di vita e quanto la nostra capacità di percezione sia in grado di comprendere ciò che ci circonda.

Immagini ingannevoli

Luigi Ghirri (1943-1992) può essere considerato uno dei primi artisti italiani ad assumere il rapporto realtà finzione come elemento centrale nella sua ricerca artistica. Con la complicità del mezzo fotografico è stato in grado di mostrare un paesaggio falso alla maniera di uno vero, come nella nota serie In scala (1977-78), realizzata presso il parco tematico Italia in miniatura di Rimini, un vero e proprio atlante tridimensionale. Lo stesso si può dire per il canadese Miles Coolidge (n. 1963), che ha restituito, sempre attraverso la riproduzione fotografica, come vera un’anonima cittadina costruita in scala ridotta in California negli anni Ottanta per educare i bambini alla sicurezza pedonale (Safetyville, 1994). L’anticipatore di una tendenza che avrà grande seguito nei primi anni del 21° sec. è invece lo statunitense James Casebere (n. 1953) che, dalla fine degli anni Settanta, ha costruito nel suo studio case, scuole, città, prigioni e corridoi di dimensioni da tavolo, fatti di materiali semplici e forme essenziali, in seguito portati a dimensioni reali mediante l’ausilio del mezzo fotografico. In modo analogo hanno operato in seguito il tedesco Oliver Boberg e il nederlandese Edwin Zwakman.

È Thomas Demand (n. 1964), tuttavia, a esprimere al meglio questa tendenza nel primo decennio del 21° secolo. L’artista tedesco concentra il lavoro sugli spazi interni: le sue sculture di carta sono in scala reale e fotografate simulando la ripresa dal vero. Nel 2006 ha realizzato una delle sue opere più importanti, Grotto, la fotografia di una sua grande scultura raffigurante una grotta sotterranea dell’isola di Majorca. L’anno seguente, a fianco della fotografia, l’artista ha esposto per la prima volta (Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore presso Venezia) la titanica ricostruzione, composta da novecentomila strati di cartone sagomato al computer e assemblata inizialmente nel suo studio di Berlino. L’installazione, presentata con il titolo di Processo grottesco, comprendeva inoltre cartoline, libri, guide turistiche, fotografie, illustrazioni tratte da cataloghi, che avevano consentito a Demand di raccogliere informazioni sull’immagine da realizzare. Per la prima volta l’artista non ha distrutto la sua scultura dopo lo scatto fotografico, perché in questa occasione era interessato a mostrare il processo che lo aveva condotto al lavoro finito.

Di fronte a opere di questo tipo, al confine fra scultura e fotografia, lo spettatore è direttamente coinvolto dall’artista, che utilizza il suo prodotto visivo come generatore di incertezze e interrogativi su cui è lecito riflettere. Sto guardando una reale riproduzione del mondo oppure una sua simulazione? Perché imitare fedelmente la realtà ricostruendola in studio, quando sarebbe molto più semplice riprenderla direttamente dal vero? «I sociologi hanno sempre affermato, quasi sempre a dispetto della realtà, che questo nostro mondo è fatto dall’uomo e che dunque può, in teoria, essere rifatto dall’uomo. In nessun altro momento della storia moderna tale proposizione appare vera quanto oggi» (Bauman 2002; trad. it. 2006, pp. XXXI-XXXII). Probabilmente Demand si serve del rifacimento della realtà per riflettere su questi argomenti ancora aperti, sui quali stanno lavorando i maggiori intellettuali attivi in questo primo decennio del secolo. Non si deve dimenticare, inoltre, che l’artista è nato e vive in Germania, dove si è consolidata da qualche tempo una particolare attenzione per la ricostruzione architettonica di edifici storici ad alta valenza simbolica. Potremmo affermare che alcuni quartieri di Berlino sono formati da falsi edifici eretti prendendo a modello reali costruzioni d’epoca.

Sempre nel 2007 Demand ha realizzato Yellowcake, opera in cui si può notare un elemento di novità rispetto alla produzione precedente. In quest’opera l’artista oggettivizza un’apparenza che assomiglia alla realtà, al fine di fornire mediante le fotografie degli ambienti ricostruiti in scala naturale un’ambientazione plausibile a una pagina di storia contemporanea dai tratti poco chiari e mai documentata con immagini. L’evento si riferisce al furto con scasso ai danni dell’ambasciata del Niger in Italia avvenuto nel 2001, finalizzato alla produzione di documenti falsi su Saddam Hussein riguardanti il suo presunto programma di costruzione di armi atomiche, che avrebbe visto coinvolte alcune miniere africane nella fornitura di materie prime.

Ambienti artificiali

Sofisticate ricostruzioni di luoghi quotidiani sono al centro delle finzioni di Hans Op de Beeck (n. 1969). Le sue installazioni scultoree si presentano spesso come ambienti di varie dimensioni dall’andamento ciclico, che ricordano il ripetersi regolare della vita. Nel 2004 l’artista belga ha realizzato Location (5), dal 2008 installato permanentemente nel nuovo Towada Art Center in Giappone; si tratta di una grande struttura di 12 m × 24 m × 4,20 m, all’interno della quale lo spettatore può entrare trovandosi improvvisamente in un finto ristorante ben arredato. Una veduta sulla doppia carreggiata dell’autostrada, illuminata da una fila di lampioni, rompe il buio restituendo una calda atmosfera notturna. Un paesaggio troppo perfetto e immobile per essere vero, che accompagna prospetticamente lo sguardo del visitatore fino a un orizzonte artificialmente costruito in poco spazio.

In The building (2007), invece, Op de Beeck guida l’osservatore attraverso le stanze di un ospedale fittizio; questa volta però l’escursione notturna non è vissuta in prima persona dal visitatore, bensì generata digitalmente da un film di animazione. L’edificio, dalle forme standardizzate, comunica una certa alienazione e neutralità funzionale. L’aspetto degli ambienti mostrati è infatti estremamente impersonale, lo stesso di un aeroporto, di un centro commerciale o di una palestra, e contrasta con l’importanza dei momenti privati e delicati che in genere vengono vissuti all’interno di un ospedale. Ancora una volta l’artista ci propone una falsità, ma dichiarandola dimostra di non volere ingannare il visitatore, bensì di farlo riflettere su come la finzione sia già presente nei luoghi che frequentiamo quotidianamente.

Nel 2008 Op de Beeck si scopre anche interessato alla costruzione d’illusioni naturalistiche, non solo architettoniche, come è possibile vedere in Location (6), un’installazione scultorea monumentale creata ispirandosi ai diorami europei dell’Ottocento, che combina un primo piano tridimensionale con uno sfondo dipinto a trompe-l’æil. L’opera si presenta come un ambiente circoscritto all’interno del quale l’osservatore, comodamente seduto, può ammirare un paesaggio innevato che si protende all’infinito, in un’atmosfera avvolgente di grande fascino naturalistico, realizzata però con alberi, neve, nebbia e luce rigorosamente artificiali.

Artista fra i più interessati a questo tipo di installazioni naturalistiche è il danese Olafur Eliasson (n. 1967): molte sue opere hanno come elemento centrale la luce, ma anche altri elementi naturali come acqua, lava, fuoco, ghiaccio e vento. Nel 1993 riuscì a creare un arcobaleno all’interno di una galleria, proiettando raggi luminosi attraverso un sottile vapore acqueo (Beauty). Dieci anni dopo, nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra, l’artista ha raggiunto una popolarità solitamente sconosciuta ai protagonisti dell’arte contemporanea con l’opera The weather proj-ect (2003). Si tratta di una grande installazione realizzata con la collaborazione di scienziati e architetti, consistente in una gigantesca sovrapposizione di vapore, specchi e duecento lampadine utilizzate per creare l’illusione di un sole risplendente. Per capire le ragioni del successo di quest’opera, dobbiamo riconsiderare il ruolo dello spettatore che diventa parte integrante dell’installazione di Eliasson, un elemento fisicamente attivo nel tempo e nello spazio dell’opera, grazie al suo coinvolgimento in un ambiente luminoso di cui è partecipe in termini sia visivi sia fisici.

Troviamo spesso nella ricerca artistica di Eliasson una riconsiderazione del rapporto tra arte e natura, dove quest’ultima non è mai presentata direttamente, ma sempre ricostruita sotto la supervisione del suo ideatore. Stiamo parlando evidentemente di un ambiente artificiale che ha il merito di coinvolgere un pubblico solitamente insensibile al fascino della natura, il quale, grazie a questo artificio, può scoprire un rinnovato interesse nei suoi confronti. Nel 2008 Eliasson ha realizzato The New York city waterfalls, quattro imponenti cascate, alte sino a 36 m, dislocate in quattro siti affacciati sull’East River, a Lower Manhattan, a Brooklyn e sulla costa nord della Governors Island. Presentato dal Public art fund in collaborazione con la città di New York, il progetto è fra i più ambiziosi realizzati fino a oggi in un luogo pubblico. Nel pieno rispetto dell’ambiente, uno dei più spettacolari fenomeni naturali è stato tecnologicamente riproposto dall’artista per rendere reale, almeno per quattro mesi, la presenza in città di quattro cascate frutto dell’illusione artistica.

Il fascino dell’obsoleto

All’impegno nello sviluppo di un modello di realtà tanto immaginaria quanto reale, l’artista polacco Robert Kuśmirowski (n. 1973) affianca l’attrazione per ciò che è passato e fuori moda, proponendo una sorta di resistenza all’incalzante logica del progresso contemporaneo. In questo primo decennio del 21° sec. si assiste, infatti, a un forte recupero delle esperienze anacronistiche e a un rinnovato interesse per il valore d’uso di alcuni oggetti ormai scomparsi. Questa operazione di salvataggio temporale non spinge l’artista al collezionismo di veri documenti provenienti dal passato, quanto piuttosto alla loro falsificazione. Kuśmirowski ricrea artigianalmente complesse installazioni, dimostrando una perfetta padronanza delle tecniche pittoriche e scultoree. Si tratta di grandi ambienti in scala reale ispirati a laboratori meccanici ed elettronici degli anni Sessanta, nei quali l’artista raggiunge una verosimiglianza davvero inquietante.

Nel 2007 ha realizzato DATAmatic 880, un protocomputer che riempie lo spazio di un’intera stanza riemergendo dal passato dopo cinquant’anni di oblio, una sorta di macchina del tempo pronta a catapultare l’osservatore in un mondo ormai dimenticato. È proprio il recupero di ciò che è destinato a essere dimenticato lo scopo di tale ricostruzione onirica, una falsificazione che genera ambiguità, spaesamento, una condizione in equilibrio precario tra ciò che è e ciò che è stato. Nel 2008 l’artista ha realizzato un’opera gemella della precedente, intitolata questa volta UHER.C, una scultura composta da mille elementi: tastiere, oscillatori, microfoni, amplificatori, registratori, cavi, oggetti misteriosi, pure invenzioni, suoni, voci e luci. Tutto ben visibile e illuminato, ma rigorosamente protetto da una solida vetrata per ricordare al visitatore che, nonostante la straordinaria capacità di proiezione nel passato, quegli oggetti non sono altro che una finzione contemporanea.

Questi relitti storici reinventati da Kuśmirowski stimolano più la memoria collettiva o sociale che quella individuale, così come accade nelle opere di Marco Samorè (n. 1964), che sul fascino per l’obsoleto e l’ambiguità della finzione ha puntato buona parte della propria ricerca artistica. Le sue opere parlano una lingua universale, proiettano l’osservatore in una dimensione domestica alla quale è facile accostare un ricordo collettivo, spesso legato alle atmosfere degli anni Sessanta e Settanta. L’effetto shock gioca un ruolo importante per l’artista, le sue installazioni, sculture o fotografie producono infatti un effetto di spaesamento perturban-te che lascia il fruitore in balia degli eventi, di fronte a un déjà-vu destabilizzante che non riesce a controllare.

Il meccanismo di finzione del ricostruito è sempre rintracciabile nelle opere di Samorè, facile da svelare attraverso piccoli particolari che ogni immagine porta al proprio interno. Per es., i mozziconi di sigaretta che mostrano un filtro non fumato, presenti nella serie fotografica Fidanzamento (1997-2000), la carta bianca visibile all’interno delle mazzette di dollari nel lavoro Un giorno perfetto (2000) o, ancora, il finto caffè versato dalla tazzina in La mia ultima scusa (2000), sono piccoli particolari che svelano la presenza di un impianto scenico ben preciso, che nelle installazioni ambientali diventa parte fondamentale del lavoro. In Don’t worry, be happy (2003), infatti, la struttura fittizia, le finte pareti, le luci da teatro lasciate a vista, i puntelli e quant’altro è stato utilizzato per realizzare l’intero allestimento, diventano essi stessi parte dell’opera. Anche nei lavori successivi Samorè espone strutture di legno, sostegni, saldature, tutti materiali non pregiati, spesso di riciclo, immagini prelevate da libri, riviste e poster, oggetti che evocano le atmosfere dei circoli culturali o delle pizzerie di provincia frequentate dall’artista nell’infanzia. Il passato che ritorna mediante la finzione è utilizzato come strumento per raccontare qualcosa di attuale, una nuova realtà pronta per essere nuovamente consumata.

L’interesse di molti artisti verso forme espressive superate, favorisce l’utilizzo di media, come fotografia, cinema e video, appartenenti ai diversi periodi storici. «La fotografia diventa allora improvvisamente uno di quegli scarti industriali, una nuova curiosità, come il jukebox o la trolley car. Ma è proprio a questo punto, e in questa stessa condizione di fuori moda, che sembra essere entrata in un nuovo rapporto con la produzione estetica» (Krauss 2005, p. 57). La ricerca artistica di Tacita Dean (n. 1965) ben rappresenta questa tendenza: l’idea di perdita e scomparsa ha infatti un ruolo importante nei suoi film, che confondono fatti e fiction, percezione e realtà, ma soprattutto propongono una riflessione sull’esperienza cinematografica stessa. Le opere dell’artista inglese generalmente ruotano intorno a storie perse nella memoria, eventi eccezionali e progetti utopistici mancati. Dean inizia i suoi lavori imbattendosi in oggetti o persone abbandonate, di cui ricostruisce un archivio ramificato in una sorta di intreccio di coincidenze. Queste visioni di un passato non chiarito si risolvono nel corso dell’opera trasformandosi in scenari utopistici di un futuro alternativo.

Nei due film Kodak e Noir et blanc, entrambi del 2006, l’artista restituisce alle pellicole in 16 mm una nuova vita, proprio nel momento della loro obsolescenza. Tutto è iniziato quando Dean ha appreso della cessata produzione delle pellicole che utilizzava abitualmente per i suoi film. Questa scomparsa le ha offerto lo stimolo per compiere una serie di azioni: la visita e la relativa documentazione della fabbrica produttrice del materiale filmico (Kodak) e l’acquisto delle ultime cinque pellicole che ha trovato sul mercato, per filmare i riflessi e la luce che scivolano sulla celluloide in movimento, creando un’immagine astratta, quasi un dipinto (Noir et blanc). L’artista ancora una volta ha fuso il passato con il presente, gli eventi immaginari con quelli reali, riflettendo così sulla fine del film analogico.

L’ascesa del digitale

Se da un lato tornano alla ribalta apparecchiature obsolete, in controtendenza rispetto all’ascesa dei cosiddetti new media, dall’altro s’incontrano in questo primo decennio del secolo molti artisti che si servono delle tecnologie digitali. Il francese Pierre Huyghe (n. 1962) è noto per le sue installazioni, i film e per alcuni progetti di collaborazione con altri artisti, dove crea situazioni d’instabilità e di apertura che mettono in discussione il confine tra realtà e finzione. In No ghost just a shell (2000-2003), Huyghe insieme a Philippe Parreno, restituisce una seconda vita a un personaggio virtuale originariamente concepito per i videogame e privo di una marcata personalità. Dopo avere comprato i diritti da un’agenzia giapponese, Huyghe e Parreno hanno deciso di coinvolgere altri artisti nell’adozione di questo avatar, cui hanno dato il nome di AnnLee. L’accordo tra i partecipanti al progetto prevedeva l’utilizzo di AnnLee nei loro lavori, contribuendo così a fornirle un’identità, una vita propria, una storia. Per Huyghe la finzione è il punto di partenza per generare nuove realtà, così come aveva dimostrato con grande evidenza qualche anno prima in The third memory (1999). In questo video l’artista propone una ‘terza memoria’, un’ulteriore verità che fa luce sulla tentata rapina a una banca di Brooklyn compiuta nel 1972 da John Wojtowicz, resa celebre dal film di Sidney Lumet Dog day afternoon (1975; Quel pomeriggio di un giorno da cani). Ricostruendo in studio il set della banca, Huyghe chiama lo stesso Wojtowicz a interpretare sé stesso per correggere le scene che nella fiction non corrispondono alla realtà. Ancora una volta l’arte induce a riflettere su come l’esperienza contemporanea sia data da fatti reali che si confondono inevitabilmente con la loro rappresentazione, per diventare poi nuovamente oggetto di discussione e quindi di nuove verità.

L’utilizzo delle tecnologie digitali favorisce non solo la creazione di personaggi virtuali, come l’avatar di Huyghe, ma permette di realizzare, con maggiore facilità rispetto al passato, una serie di azioni impossibili nella realtà, rese però credibili nella rappresentazione visiva. Di fronte alle fotografie dell’artista cinese Li Wei (n. 1970), è possibile credere semplicemente a quello che vediamo nonostante l’evidente assurdità delle immagini proposte. Il principio di realtà vince anche in questi casi di sfacciata manipolazione. In fondo la realtà è qualcosa di ambivalente, comprende al suo interno anche il concetto di menzogna, come fin dalle origini fotografia e cinema hanno dimostrato. Li Wei è protagonista delle sue immagini che lo vedono spesso a testa in giù piantato in modo assurdo in terra (Li Wei falls to the earth, 2002), nel parabrezza di una jeep (Li Wei falls to the car, 2003) oppure immerso in uno specchio d’acqua (Li Wei falls to the Como lake Italy, 2004). In altre opere il suo corpo si fa incredibilmente leggero, fino a essere lanciato energicamente in aria (Love at the high place, 2004) o spinto con facilità giù da un grattacielo (25 levels of freedom, 2004). Le immagini ottenute sono, nella loro incoerenza, più credibili della stessa realtà, mostrano azioni improbabili o per lo meno impossibili da documentare con un’istantanea, restituendo però con grande realismo l’azione rappresentata.

Anche l’artista inglese Sam Taylor-Wood (n. 1967), che da anni sperimenta nelle sue opere condizioni fisiche e psicologiche estreme, ha sfruttato i vantaggi offerti dalla tecnologia digitale per porre la sua attenzione sul sottile confine che divide la vita dalla morte, forse anche in seguito a una drammatica esperienza personale. Nella serie Self portrait suspended (2004), l’artista si autoritrae sospesa nello spazio del suo studio, come se fosse in assenza di gravità: nuovamente la realtà è alterata mediante l’utilizzo del ritocco digitale, generando una chiara finzione, provvista però di una buona dose di plausibilità. Le otto fotografie di Taylor-Wood sono state eseguite riprendendo l’artista sorretta da speciali corde annodate in modo tale da lasciare il corpo libero di muoversi con disinvoltura come se effettivamente fluttuasse nell’aria.

La rimozione digitale di alcuni elementi, necessaria a creare l’illusione ottica, caratterizza anche la serie fotografica Bram Stoker’s chair (2005). Con la stessa spontaneità l’artista danza in modo irreale su una sedia che presenta qualcosa di misterioso. Come il Dracula di Bram Stocker, la seggiola sulla quale Taylor-Wood volteggia con leggerezza non proietta infatti la sua ombra sulla parete retrostante. Al contrario, l’ombra dell’artista duplica con evidenza il suo corpo durante l’atto performativo. Ancora una volta una fotografia, per quanto truccata e manipolata, continua a funzionare come certificato di verità: «Il reale proposto nella cosiddetta fotografia di finzione, a differenza di quanto accade in pittura, risulterà sempre reale credibile, potenzialmente vero, e questo a prescindere o meno dalla sua effettiva esistenza» (Marra 2006, p. 118).

Corpi inquietanti

La convivenza fra realtà e finzione nell’espressione artistica contemporanea trova una sua interessante manifestazione anche nei dipinti di John Currin (n. 1962). L’artista statunitense è considerato un maestro del realismo immaginario; i soggetti raffigurati, spesso gruppi di donne magrissime o giunoniche, rappresentanti di una finta bellezza che rasenta la deformazione, provengono direttamente dall’osservazione della realtà. L’indagine compiuta dall’artista è percorsa da una spietata quanto ironica riflessione sulla decadenza morale di certe classi sociali, una sorta di parodia dell’America puritana e politically correct. Currin ritrae in modo caricaturale una società che si riconosce in falsi valori, quali il denaro, la perversione, i vestiti costosi, gli accessori e le acconciature alla moda. Non sono ritratti otticamente realistici, anzi l’artista ci presenta corpi deformati e inquietanti, frutto della finzione pittorica; sono reali invece i vizi e i comportamenti dei suoi personaggi, ben vestiti e curati ma privi di ogni etica. Il sesso è protagonista di questi dipinti, come accade, per es., in The Danes o in Rotterdam, entrambi del 2006: una sessualità esibita in modo esplicito che in alcuni casi sfiora la pornografia. Anche l’atto sessuale pare recitato dai protagonisti di questi dipinti, alla pari di altri gesti quotidiani; il fine rimane quello di assumere ruoli immaginari come mezzo di evasione dalla realtà. Se la cifra stilistica di Currin corrisponde alla perfetta combinazione fra la pittura colta dei grandi maestri del passato e la cultura popolare americana, la sua contemporaneità consiste invece nell’avere intuito come il disordine tra fatti reali e falsità sia probabilmente la chiave di lettura del nostro tempo.

Le sculture di Ron Mueck (n. 1958), invece, inquietano lo spettatore non per la deformazione dei corpi ritratti, come accade nei dipinti di Currin, ma al contrario per l’eccessivo realismo. L’artista australiano, londinese d’adozione, riproduce il corpo umano con le sue naturali imperfezioni nei minimi dettagli, spesso con grandezze e scale esagerate che ne esaltano i particolari. Queste sculture mostrano individui vulnerabili che trasmettono insicurezza, causata non tanto dall’esibizione dei loro difetti, quanto piuttosto dal fatto di essere sorpresi in alcuni momenti d’intimità: durante la gravidanza (Pregnant woman, 2002), a disagio per l’assenza di vestiti (Wild man, 2005), in uno stato avanzato di decadimento fisico (Two women, 2005), oppure in un istante di fragilità psicologica che rende imbarazzante essere al centro dell’attenzione (Big man, 2000). Il realismo nella restituzione plastica dei particolari non è volutamente supportato da una fedele resa delle dimensioni dei corpi, che sono esageratamente grandi o eccessivamente piccoli, suggerendo angoscianti associazioni con il mondo delle scienze e della biotecnologia. L’arte di Mueck oltrepassa la realtà, pur simulandola alla perfezione, per spingersi in un territorio che stravolge la normale consistenza delle cose, instaurando con lo spettatore un forte coinvolgimento emotivo.

Questo nuovo modo di concepire la scultura, fatto di corpi realistici ottenuti modellando materiali plastici e resi ancora più credibili mediante l’utilizzo di sostanze biologiche e reali capi di abbigliamento, caratterizza anche la produzione artistica di Maurizio Cattelan (n. 1960) che, come Mueck, è interessato a stabilire una forte relazione con lo spazio espositivo per sorprendere ogni volta il visitatore. Tra le opere più significative di Cattelan è doveroso ricordare Him (2001), il ritratto di Adolf Hitler superbamente ambientato, nella sua prima installazione, nella Färgfabriken di Stoccolma. Il Führer è un simbolo che fa ancora molta paura, è difficilmente nominato e riprodotto. Cattelan cerca d’infrangere questo tabù e attraverso la sua opera vuole rendere meno doloroso il confronto con uno dei personaggi più inquietanti e spietati della storia. L’artista preferisce non far apparire nel titolo dell’opera il nome del dittatore tedesco e lo rappresenta in ginocchio nell’atto di chiedere perdono. Ma chi potrebbe accettare di assolverlo? La piccola scultura in cera si presenta mostrando la schiena allo spettatore e all’interno dell’ampio e spoglio spazio espositivo Hitler appare indifeso, quasi un ragazzino, ma il volto adulto e gli inconfondibili baffi lo rendono facilmente riconoscibile, provocando nel visitatore un inevitabile sussulto. Quest’opera non è solo una finzione, ma un reale momento d’incontro con una pagina di storia non ancora risolta perché, come ha dichiarato lo stesso artista, per sconfiggere il potere dobbiamo prima in qualche modo avvicinarlo, esercitandoci anche sui manichini se necessario. Qualche anno dopo Cattelan ha scelto l’emblematica figura di John Fitzgerald Kennedy come nuova icona mediatica da recuperare (Now, 2004). L’artista riproduce nei minimi dettagli il cadavere ben vestito ma a piedi scalzi del presidente degli Stati Uniti, mostrando per la prima volta dopo il tragico assassinio del 1963 il corpo di Kennedy all’interno di una bara. Cattelan si appropria nuovamente di un’immagine di alto valore simbolico, riportando all’attenzione del pubblico un omicidio mai totalmente chiarito pur essendo avvenuto in diretta televisiva.

La spettacolarizzazione del privato

Il caso Kennedy è stato spesso citato come esempio della rivoluzione culturale che ha trasformato la televisione in un mezzo relazionale capace di favorire la condivisione di eventi privati con milioni di spettatori giudicanti. La linea che un tempo divideva lo spazio personale da quello pubblico è stata ulteriormente cancellata nei primi anni del 21° sec. con l’avanzare dei reality televisivi e della TV spettacolo in genere, in cui si intende trasmettere l’inesistenza di pensieri e sentimenti tanto privati da non poter essere espressi in pubblico. «Il mondo che abitiamo e che quotidianamente ricreiamo non è, ovviamente, uno show televisivo alla Grande fratello proiettato sul grande schermo della società. Il Grande fratello non è una fotografia, una copia o una replica dell’odierna realtà sociale. Ne è però il suo modello condensato, distillato, purificato; potremmo dire che è un laboratorio in cui certe tendenze di quella realtà sociale, altrove nascoste, diluite o represse, vengono sperimentate e messe alla prova in modo da sviscerare il loro pieno potenziale» (Bauman 2002; trad. it. 2006, pp. 56-57).

L’arte contemporanea non può esimersi dal considerare queste problematiche che riguardano così da vicino il nostro tempo. La riflessione di Marina Abramovič (n. 1946) sulla sfrenata esibizione di sentimenti e gesti quotidiani in cerca dell’approvazione del pubblico è evidente nella performance intitolata The house with ocean view (2002). Per dodici giorni l’artista serba ha vissuto su tre piattaforme rialzate da terra, costruite per l’occasione alla Sean Kelly gallery di New York, esposta ogni giorno allo sguardo indiscreto dei visitatori che potevano osservare ogni suo movimento, anche servendosi di un telescopio per indagare lo spazio da lei occupato. L’utilizzo del corpo come soggetto e mezzo d’espressione è sempre stato il filo conduttore della sua produzione artistica. Nell’esplorare i limiti fisici e mentali del suo essere, Abramovič ha spesso trasformato in rituale i semplici gesti della vita quotidiana. In quest’opera l’annullamento della privacy porta l’artista a eliminare anche i confini fra la vita reale e quella immaginaria, la recitazione performativa si fonde con l’inevitabile abbandono alle azioni di routine come bere, urinare, fare la doccia, semplicemente stare in piedi e guardare gli spettatori. La privazione di alcune azioni quali mangiare, scrivere, utilizzare tecnologie e comunicare con il pubblico, permette all’artista di vivere un’esperienza fisica e psicologica paradossale: il totale isolamento proprio nel momento di massima esposizione della sua persona, dovendo quindi fronteggiare il senso di vuoto e la sofferenza che ne conseguono.

L’assenza e il dolore sono tematiche autobiografiche ricorrenti anche nella ricerca di Sophie Calle (n. 1953). In occasione della 52a Esposizione internazionale d’arte di Venezia l’artista ha rappresentato la Francia occupando l’intero padiglione nazionale con l’opera Prenez soin de vous (2007), dove ha messo in scena una sua presunta vicenda sentimentale. La complessa installazione composta da centinaia di testi, foto e video, consiste nella rielaborazione di una e-mail inviata all’artista dal suo compagno che le comunica freddamente l’imminente rottura della loro relazione, concludendo questo triste addio con una frase poi utilizzata nel titolo del lavoro. L’artista ha chiesto a centosette donne di immaginare e poi scrivere una risposta che motivi la rottura del rapporto, interpretandola in base alla loro esperienza professionale. La lettera è stata così analizzata, commentata, recitata, danzata, cantata, tradotta, avvalendosi dei supporti tecnici più vari. Per la criminologa Michèle Agrapart-Delmas l’autore della e-mail è un grande manipolatore, perverso, psicologicamente pericoloso. La scrittrice Christine Angot parla di «un coro di morte» riferendosi al gruppo di donne riunite da Calle. La sessuologa Catherine Solano si rifiuta di prescrivere all’artista degli antidepressivi per superare il dramma; basta andare avanti e trovare in sé stessi le risorse utili per reagire. La madre dell’artista, invece, capisce che questo abbandono potrebbe diventare l’humus di una nuova esperienza artistica.

Non sappiamo con certezza se questo episodio personale sia autentico oppure solo il frutto di un’abile finzione, quello che sappiamo è che una presunta storia reale si è trasformata in qualcosa d’altro nel momento in cui è stata sottoposta al giudizio di una piccola comunità d’individui che, inevitabilmente, hanno alterato la normale relazione tra gli eventi, producendo una realtà parallela a quella iniziale. La vicenda personale di Calle è spettacolarizzata, i confini tra verità e inganno divengono indistinti.

Questa peculiarità che avvicina l’arte ai media, la felice convergenza di realtà e finzione, è trasmessa nelle opere di Ryan McGinley (n. 1977) in modo ancora più indeterminato. L’artista statunitense è considerato, assieme a Ed Templeton e sulla scia del più noto Wolf-gang Tillmans, l’erede più promettente di Nan Goldin e Larry Clark, dai quali però si differenzia per un ottimismo e un’allegria particolari, nonostante un’esistenza fatta di eccessi. Mentre le immagini dei suoi predecessori, che rappresentano tutte giovani alla scoperta della vita, si caratterizzano per essere severe, poco luminose e a volte drammatiche, le fotografie di McGinley testimoniano invece una straordinaria vitalità. Gioventù, trasgressione, bellezza e gioia di vivere sono alcuni degli elementi che caratterizzano queste opere, documentando con rara dedizione la passione per la vita e la consapevolezza di rappresentare un’epoca. Le vivaci tribù urbane che egli fotografa negli anni crescono assieme a lui, instaurando nel tempo quella complicità che favorisce l’immediatezza dello scatto. Nella serie Celebrating life (2005) l’artista mette in scena la libertà, l’evasione dal degrado della routine quotidiana, fotografa i comportamenti disinibiti dei suoi amici nella vasca da bagno oppure nudi sopra un albero, immortalando una vitale esuberanza. Lo smarrimento dei suoi coetanei, ripreso negli eccessi che caratterizzano un gruppo di vite disordinate, diviene a noi familiare poiché rappresentativo di un tempo che stiamo vivendo, dove la gioia di gruppo rimane l’unico antidoto alla solitudine. Sono scene riprese dalla vita reale, dove i soggetti si comportano in modo spontaneo e il loro divertimento è effettivo, ma questo processo avviene sotto la regia dell’autore, che sceglie con attenzione dove ambientare le fotografie, incitando gli amici a compiere determinate azioni. Lo stesso McGinley descrive le sue immagini come spontanee ma controllate, e in un certo senso costruite. Si tratta molto spesso di attimi di vita premeditati che l’autore cerca di comporre nell’inquadratura, restituendoli però con l’inganno, evitando in tutti i modi di svelare visivamente la loro effettiva costruzione.

La realtà è intesa da McGinley come qualcosa di ambivalente poiché rappresentativa al tempo stesso della menzogna e della verità. Una parte della sua produzione documenta direttamente la cultura giovanile di cui fa parte; l’altra metà, invece, consiste in rifacimenti di attimi importanti sfuggiti all’obiettivo, fatti accadere una seconda volta per non perderli per sempre, poi trasmessi al fruitore come colti al primo sguardo. I tagli delle fotografie sono sapientemente studiati senza che questo alteri la freschezza della composizione; la loro bellezza è direttamente proporzionale al divertimento di gruppo, al rapporto speciale che l’artista ha instaurato negli anni con gli amici.

La credibilità della finzione

La conoscenza del reale, in questi primi anni del nuovo secolo, ha cessato di essere la finalità artistica prioritaria, cedendo il passo alla rappresentazione di situazioni fittizie ma non per questo meno credibili. Il nuovo mondo che viene a crearsi è accuratamente esplorato dagli artisti con l’ambizione di affrontare in profondità le nuove frontiere del reale. Contrariamente a quanto accade durante la visione di un film o di uno spettacolo teatrale (dove tutti sono ben consapevoli di assistere a una finzione, anche nel caso in cui questa si presenti in modo realistico), il mondo attuale ci propone situazioni fuorvianti dove l’inganno è mascherato da realtà. La ricerca artistica non può sottrarsi al compito di evidenziare questo fenomeno, alimentando nello spettatore alcuni interrogativi. Il dubbio è, infatti, l’atteggiamento critico che genera una maggiore consapevolezza della realtà; pertanto uno dei compiti dell’arte pare quello di mettere in guardia dagli inganni della finzione: «La realtà virtuale assume sembianze di ammaliatrice fata morgana lì dove l’osservatore non può essere certo della sua presenza e viene quindi indotto a considerarla come reale. Una situazione tipica, per esempio, di alcune trasmissioni televisive o anche di contatti interpersonali che si possono realizzare via Internet o attraverso i mezzi di stampa» (Dioguardi 2009, pp. 14-15).

L’ambiguità del nostro tempo trova nell’arte contemporanea un luogo di riflessione, un laboratorio in cui sperimentare gli eccessi di questa tendenza, presentando opere che riflettono criticamente sulla fusione delle due realtà che la società quotidianamente alimenta, quella tangibile e quella percepita. L’espressione artistica di questi ultimi anni si sforza di restituire l’incertezza generata dall’alternanza di prospettive, la cui distinzione non è più facilmente rilevabile, stimolando proprio per questo un’indagine più approfondita. Gli artisti esplorano questo nuovo territorio servendosi dei mezzi più svariati, utilizzando contemporaneamente le arti classiche e quelle mediali con progetti installativi che superano le tradizionali distinzioni tecniche. L’unione di differenti competenze progettuali offre maggiori possibilità d’indagine sull’attuale stato delle cose, stabilendo un rapporto privilegiato con lo spettatore che, proprio nello smarrimento provocato dai continui rimandi tra realtà e finzione, riscopre un nuova cultura basata sull’accettazione degli opposti. L’esistenza di una realtà multipla che contiene al suo interno esperienze così diverse ma in relazione fra loro, favorisce l’affermarsi di una logica polivalente che accetta la convivenza di vero e falso, ponendo su questa contraddizione le basi per la comprensione dello scenario contemporaneo.

Bibliografia

M. Augé, Fictions fin de siècle, Paris 2000 (trad. it. Torino 2001).

Forma e finzione nell’arte di oggi, a cura di J. Deitch, Castello di Rivoli, Torino 2001 (catalogo della mostra).

Z. Bauman, Society under siege, Cambridge 2002 (trad. it. Roma-Bari 2006).

R. Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Milano 2005.

C. Marra, L’immagine infedele, Milano 2006.

Thomas Demand. Yellowcake, a cura di C. Bonini, A. Farquharson, R. Storr, Fondazione Prada, Milano 2007 (catalogo della mostra).

50 lune di Saturno, a cura di D. Birnbaum, T2 – Torino Triennale, Torino 2008 (catalogo della mostra).

G. Dioguardi, Le due realtà, Roma 2009.

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