Redditi da lavoro autonomo [dir. trib.]

Diritto on line (2016)

Francesco Odoardi

Abstract

Con la presente voce si intende esaminare il profilo reddituale del lavoro autonomo nel nostro ordinamento, mettendo in evidenza, principalmente, le problematiche definitorie. Individuata la nozione di lavoro autonomo in ambito reddituale, si passa ad esaminare i criteri di determinazione del reddito imponibile, nonché alcuni casi particolari riguardanti i contribuenti “minimi” ed i lavoratori autonomi “non residenti”.

La definizione di lavoro autonomo nell’imposizione reddituale

Le problematiche definitorie e la loro rilevanza pratica

La categoria dei redditi di lavoro autonomo è una delle sei previste dal Testo unico delle imposte sui redditi (t.u.i.r.; di cui all’art. 6 d.P.R. 22.12.1986, n. 917) e, insieme alle altre, presenta specifiche regole ai fini della determinazione della base imponibile e della sua tassazione, con la conseguenza che il possesso dei redditi derivanti dallo svolgimento di una attività lavorativa viene determinato in modo diverso a seconda della tipologia del lavoro (si vedano Tinelli, G., Lavoro nel diritto tributario, in Dig. comm., Torino, VIII, 1991, 391; Fantozzi, A., Imprenditore ed impresa nelle imposte sui redditi e nell’IVA, Milano, 1982; Sacchetto, C., I redditi di lavoro autonomo: nozione e disciplina tributaria, Milano, 1984; Puoti, G., Il reddito di lavoro dipendente nel diritto tributario, Milano, 1975).

La particolarità delle regole di determinazione del reddito di lavoro autonomo, radicalmente differenti sia da quelle previste per il lavoro dipendente sia da quelle dettate per il reddito di impresa, avrebbe richiesto una maggiore attenzione da parte del legislatore in ordine all’individuazione degli elementi caratterizzanti la fattispecie impositiva. Sennonché, sebbene vi sia una specifica regolamentazione del presupposto, la definizione della categoria si presta a condivisibili critiche, dato che non è sempre agevole l’inquadramento della singola attività di lavoro autonomo nella fattispecie impositiva in esame (si vedano le critiche di: Ciani, A., Redditi di lavoro autonomo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 4; Tabet, G., Problemi vecchi e nuovi in tema di imposizione sul reddito degli agenti di commercio, in Rass. trib., 1987, 1001; Micheli, G.A., Reddito di impresa e imprenditore commerciale, in Riv. dir. fin., 1974, I, 396; Giovannini, A., Le professioni intellettuali fra legislazione civile e fiscale: note critiche ed interpretative, in Rass. trib., 1988, I, 81). Così, il primo aspetto che merita di essere analizzato riguarda, per l’appunto, il profilo definitorio.

Più in particolare, la problematica riguarda l’individuazione del confine tra il “lavoro autonomo” ed i “redditi di impresa” (per una ampia casistica di casi dubbi si veda Leo, M., Le imposte sul reddito nel testo unico, Milano 2007, 992 ss.; per un approfondito esame della questione v. Sacchetto, C., I redditi di lavoro autonomo, cit., 290 ss.).

I redditi di lavoro autonomo: cenni storico-evolutivi

Da un esame storico evolutivo si possono trarre alcune considerazioni utili per la ricostruzione della fattispecie reddituale in esame nei successivi paragrafi (v. infra 1.5).

Prima dell’entrata in vigore della riforma degli anni ‘70, il lavoro autonomo era disciplinato in un medesimo titolo comprendente il lavoro dipendente e l’impresa individuale (cfr. R.d.l. 16.10.1924, n. 1613). Successivamente (con il d.P.R. 29.1.1958, n. 645, noto come t.u. imp. dir.) i redditi di lavoro, mantenuti nella ricchezza mobile, erano distinti in tre sottocategorie (in part. nella cat. C1 erano inclusi i redditi di lavoro caratterizzati da una “minima organizzazione”, con la conseguenza che vi rientravano tanto i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo «delle persone fisiche, come quelli prodotti nell’esercizio di arti, di professioni», quanto quelli derivanti dalla “piccola impresa individuale”, con una nozione tributaria, data dall’art. 85 t.u. imp. dir., coincidente con quella di cui all’art. 2083 c.c.).

Con l’entrata in vigore del d.P.R. 29.9.1973, n. 597, la nozione dei redditi di lavoro autonomo viene formulata in termini sostanzialmente (se non esclusivamente) “negativi” dal momento che l’art. 49 così disponeva: «il reddito di lavoro autonomo è quello derivante dall’esercizio di arti e professioni, compreso l’esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del terzo comma dell’art. 5» e che «per l’esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, senza vincolo di subordinazione, di attività diverse da quelle considerate nei Titoli II (n.d.r. redditi fondiari) e V (n.d.r. redditi di impresa)».

L’aspetto definitorio si complica con il t.u.i.r., laddove la nozione di lavoro autonomo, inizialmente dettata dall’art. 49 e, a seguito della riforma dell’imposizione sul reddito avvenuta con il d.lgs. 12.12.2003, n. 344, dall’art. 53 t.u.i.r. (attualmente vigente), risulta essere la seguente: «Sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diverse da quelle considerate nel capo VI, compreso l’esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del comma 3 dell’art. 5».

Il ragionamento evidentemente “circolare” della disposizione, secondo cui sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni, per ciò intendendosi l’esercizio abituale, anche se non esclusivo, di attività di lavoro autonomo, determina un problema definitorio di non facile soluzione, al punto da far pensare che il legislatore sia incappato, certo involontariamente, nel più classico degli ibis redibis.

Del resto, anche la nozione di reddito di impresa non è affatto d’ausilio per tracciare i confini del lavoro autonomo, sebbene tale compito, come si vedrà, poteva risultare più agevole (fino ad una modifica apportata dall’art. 9 l. 29.12.1990, n. 408; v. Tinelli, G., Lavoro, cit., in part. nt. 43) nella vigenza del co. 2, lett. a), dell’art. 51 t.u.i.r. (oggi art. 55), laddove si escludevano dal reddito di impresa le attività «organizzate prevalentemente con il lavoro del contribuente e dei suoi familiari». Con la soppressione di tale esclusione, poiché attualmente tutte le prestazioni di servizi organizzate in forma di impresa rientrano nell’art. 55 t.u.i.r., si tratta, dunque, di verificare nei paragrafi seguenti quali siano gli attuali confini tra il reddito di lavoro autonomo ed il reddito di impresa.

Le disposizioni del codice civile in materia di lavoro autonomo

Alcuni spunti definitori devono indubbiamente ricercarsi nella nozione civilistica del lavoro autonomo, sebbene, come si vedrà, essi non siano sufficienti a risolvere la problematica sul piano fiscale.

Il titolo III del libro V del codice civile, intitolato Del lavoro autonomo, prevede che, sotto il capo I (intitolato “disposizioni generali”), all’art. 2222 c.c., si ha un contratto d’opera quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio «con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione». L’art. 2232 c.c., sotto il capo II (intitolato Delle professioni intellettuali) dispone che «il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto. Può tuttavia valersi, sotto la propria direzione e responsabilità, dei sostituti e ausiliari … ». Infine, il successivo art. 2238 c.c. dispone che «se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II».

Da tale sintetica ricostruzione si ricava che il lavoro autonomo si caratterizza, oltre che per l’assenza di un vincolo di subordinazione, per la prevalenza del lavoro del prestatore (art. 2222 cit.) e (quantomeno per le professioni intellettuali) per la personalità della prestazione e per la eventuale presenza di una propria organizzazione (ciò si ricava, a contrario, sempre dall’avverbio “prevalentemente”, nonché dal citato art. 2232 che consente di avvalersi di ausiliari e sostituti), mentre nei casi in cui l’organizzazione sia “in forma di impresa” (art. 2238 c.c.), all’attività di lavoro autonomo si applicano “anche” le regole civilistiche sull’impresa (cfr. ex multis Cass., 22.7.2004, n. 13677).

I redditi di lavoro autonomo: nozioni giurisprudenziali

Ulteriori indizi finalizzati alla ricostruzione della categoria in esame si traggono dai precedenti giurisprudenziali che, in ambito tributario, si sono occupati del lavoro autonomo.

In primo luogo, meritano di essere menzionate le note sentenze che, in passato, si sono occupate dell’assoggettabilità ad ILOR dei lavoratori autonomi. Con la sentenza C. cost., 26.3.1980, n. 42 la Consulta ha ritenuto illegittima l’ILOR nella parte in cui assoggettava al tributo i lavoratori autonomi. Come ha stabilito la Consulta, il carattere personale della prestazione degli autonomi rende irragionevole sostenere la sicura ingerenza di una componente patrimoniale ai fini della produzione del reddito.

Con la successiva C. cost., 14.4.1986, n. 87, avente ad oggetto l’assoggettamento ad ILOR di lavoratori autonomi considerati, ai fini reddituali, imprenditori perché svolgenti una delle attività di cui all’art. 2195 c.c. (nella specie si trattava di agenti di commercio) e di piccoli imprenditori, la Consulta, dichiarando inammissibile la questione (con giustificate critiche da parte della dottrina: v. Fantozzi, A., Ancora equivoci sulla nozione fiscale di reddito d’impresa, in Rass. trib., 1986, II, 461), ha rimesso al giudice di merito la valutazione, caso per caso, della rilevanza della componente patrimoniale. Anche da tale decisione si desume la pacifica esistenza di un lavoratore autonomo dotato di organizzazione (sebbene, nel caso di specie, si trattava di lavoratori che pacificamente generavano reddito di impresa, a prescindere da tale componente).

Nel solco di tale decisione, si pone poi la più recente sentenza C. cost., 21.5.2001, n. 156 in materia di IRAP, nella parte in cui ha rimesso ai giudici di merito la valutazione della sussistenza dell’autonoma organizzazione in capo ai lavoratori autonomi (autonoma organizzazione che, come è noto, è il presupposto del tributo). Specie alla luce della successiva giurisprudenza di merito e di legittimità, l’inquadramento dei lavoratori autonomi appare ancora più opaco (per tutte v. Cass., 13.10.2010, n. 21124, con nota di Odoardi, F., Esclusa l’Irap per i piccoli imprenditori: spunti per una nuova lettura del presupposto impositivo, in Riv. dir. trib., 2011, II, 91, la Suprema Corte ha di fatto ritenuto rilevante, ai fini IRAP, una cospicua organizzazione e, spostando l’attenzione sul piano quantitativo, ha escluso dall’applicazione del tributo anche i piccoli imprenditori).

Dalle decisioni sopra citate, si traggono le seguenti considerazioni: a) il lavoratore autonomo può pacificamente essere dotato di organizzazione, come può non esserlo; b) quando il lavoratore autonomo è dotato di una organizzazione indispensabile ai fini dell’esercizio della propria attività non realizza il presupposto di quei tributi che colpiscono elementi patrimoniali (v. ILOR) o l’autonoma organizzazione (v. IRAP); c) quando il lavoratore autonomo – questa è la conclusione più interessante ai nostri fini – è dotato di una complessa struttura organizzativa, certamente eccedente quella indispensabile ai fini dell’esercizio della professione, resta comunque un lavoratore autonomo (aderendo all’opposta tesi, sarebbe, infatti, irragionevole la distinzione tra lavoratori autonomi e imprenditori prevista all’art. 3 d.lgs. 15.12.1997, n. 446 che, peraltro, effettua un espresso rinvio all’art. 53 t.u.i.r.).

Il lavoro autonomo: nozione generale ai fini IRPEF

Vi sono, ora, sufficienti elementi per trarre le considerazioni conclusive sulla possibile individuazione di una nozione di carattere generale di lavoro autonomo ai fini IRPEF.

I punti fermi da cui partire sono l’assenza del vincolo di subordinazione, la “personalità” della prestazione in caso di professioni intellettuali, e, in genere, la prevalenza del lavoro proprio dell’autonomo rispetto alla componente organizzativa, perché, in assenza di tali elementi, non vi sarebbe (sul piano civilistico) quel minimo indispensabile per inquadrare la prestazione nell’ambito del lavoro autonomo.

Altre considerazioni che riterrei pacifiche sono: a) il carattere abituale della prestazione, dato che, in assenza, il provento conseguito verrebbe assoggettato a tassazione secondo le regole dettate dagli artt. 67, co. 1, lett. l) e 71, co. 2, t.u.i.r. quale reddito “diverso”; b) l’esistenza di attività che, pur di lavoro autonomo in senso civilistico, a prescindere dalla organizzazione, sono attratte al reddito di impresa perché rientranti nell’art. 2195 c.c. (cosicché sono considerate attività imprenditoriali in ambito reddituale quelle degli agenti di commercio e degli intermediari in genere; nulla questio, poi, per i redditi degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori che, salvo il caso del coltivatore diretto del fondo, rientrante sempre nei redditi fondiari, sono considerati “fondiari” se entro i limiti indicati nell’art. 32 t.u.i.r., o, in caso contrario, “d’impresa”; v. a tale riguardo Picciaredda, F., La nozione di reddito agrario, Milano, 2004; Boria, P., Agricoltura e zootecnia (diritto tributario), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994).

Il “cuore” della problematica concerne, come si accennava (supra 1.2), quelle attività di lavoro autonomo dotate di rilevante organizzazione non rientranti nell’art. 2195 c.c.. Alla luce della giurisprudenza sopracitata (v. supra 1.3 e 1.4, secondo cui l’autonomo dotato di organizzazione resta comunque autonomo) e del tenore delle norme di diritto comune (in specie artt. 2222 e 2238 c.c.) si possono trarre due diverse nozioni di lavoro autonomo in ambito reddituale tra loro confliggenti: una, certamente più complessa per l’interprete, dovrebbe portare ad una nozione di lavoratore autonomo che, fermo restando il criterio della “personalità”, nei casi di prestazione intellettuale e della “prevalenza” (quest’ultimo sicuramente elemento imprescindibile della nozione di “autonomo”), è fondata su un criterio “quantitativo” della organizzazione (cosicché, in ambito tributario, sussisterebbero addirittura tre distinte figure di lavoratore autonomo: quello privo di organizzazione, ovvero dotato di “organizzazione minimale” non assoggettato ad IRAP e redditualmente tassato secondo le regole degli artt. 53 e ss. t.u.i.r.; quello dotato di una organizzazione eccedente gli “standards”, integrante il presupposto dell’IRAP, ma sempre tassato, sul piano reddituale, secondo le regole degli artt. 53 ss. t.u.i.r.; quello, infine, dotato di ingente organizzazione, tassato sia ai fini IRAP, sia ai fini IRPEF, quale imprenditore; conforme al criterio quantitativo anche in ambito civilistico v. Ferri, G., Imprenditore commerciale e impresa soggetta a registrazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 4); l’altra, di più semplice individuazione, secondo cui, in caso di prevalenza del lavoro proprio rispetto agli altri fattori produttivi, in ambito reddituale, la tassazione delle attività di lavoro autonomo (non rientranti nell’art. 2195 c.c.) avverrebbe sempre secondo le regole dettate dagli artt. 53 e ss. cit., a prescindere dalla “quantità” dell’organizzazione (secondo quanto sostenuto da Fantozzi, A., Imprenditore e impresa, cit., 131; Napolitano, R., Il possesso e le attività produttive di reddito fiscale di impresa, Milano, 1982, 120, tesi certamente condivisibili al momento della loro formulazione, ossia prima della soppressione dell’inciso «tranne quelle organizzate prevalentemente con il lavoro del contribuente e dei suoi familiari», presente nell’art. 55, co. 2, lett. a), t.u.i.r.; v. supra 1.2).

Tra le due opzioni, credo che, attualmente, si debba propendere per la prima, la quale, sebbene determini una maggiore incertezza sul piano interpretativo, coinvolgendo, di volta in volta, un giudizio sulla “quantità” o la “misura” dell’organizzazione, è probabilmente più coerente, sul piano de jure condito, con la disciplina generale dettata dalle norme esaminate (la linearità della seconda soluzione interpretativa richiederebbe, invece, una riscrittura – peraltro auspicabile – dell’inciso presente nell’art. 53 t.u.i.r. da «diverse da quelle considerate nel Capo VI» in «diverse da quelle indicate nell’art. 2195 c.c.» che, tra l’altro, lascerebbe i piccoli imprenditori attratti nel reddito di impresa, rispetto alla previgente espressione, abrogata dalla l. n. 408/1990, presente nell’art. 55, co. 2, lett. a), t.u.i.r.).

Ciò detto, si può quindi ritenere che i redditi rientranti nella categoria in esame sono quelli conseguiti nell’esercizio di una attività di lavoro autonomo, intesa nel senso civilistico (quindi prestata personalmente nei casi di prestazione intellettuale, in assenza di subordinazione e con prevalenza del lavoro proprio rispetto agli altri fattori della produzione), abituale, ancorché non esclusiva, non rientrante nell’art. 2195 c.c. e tale da non costituire elemento di una organizzazione in forma di impresa (secondo la dizione testuale dell’art. 2238 c.c.).

Le inclusioni nella fattispecie del lavoro autonomo

Posta, dunque, una nozione generale del lavoro autonomo in ambito reddituale, esaminate quindi anche le esclusioni dalla fattispecie, è possibile verificare le “inclusioni” nella fattispecie generale.

Trattandosi di espresse “inclusioni”, per essere giuridicamente tali, dovrebbero difettare di uno degli elementi della fattispecie (altrimenti sarebbero frutto di una mera superfetazione normativa). Di converso, se sono vere inclusioni, non rilevano in alcun modo i profili, eventualmente mancanti, della fattispecie (quindi, sarà irrilevante il profilo organizzativo nell’ambito delle inclusioni).

A conferma della proficuità di un intervento modificativo dell’art. 53 t.u.i.r. (nei termini indicati nella parte finale supra 1.5), vi è l’inclusione nel lavoro autonomo delle associazioni professionali, con la conseguenza che l’esercizio di un’attività di lavoro autonomo sotto forma di associazione professionale non rientrerebbe mai tra i redditi di impresa, ma sarebbe sempre tassata con i criteri dettati dal lavoro autonomo (con determinazione del reddito in capo all’associazione secondo le regole dell’art. 54 t.u.i.r. e successiva imputazione degli stessi agli associati secondo le regole dettate dall’art. 5 t.u.i.r. espressamente richiamato; si vedano, al riguardo Carpinelli, M., Società e associazioni tra professionisti e artisti, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 2; Filippi, P., Redditi prodotti in forma associata, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 1; Boria, P., Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, Milano, 1996).

Si evidenzia, inoltre, che l’abrogazione della lett. a) del secondo co. dell’art. 53 cit., ad opera dell’art. 34, co. 1, lett. d), l. 21.11.2000, n. 342, con conseguente abrogazione implicita anche del terzo comma del medesimo articolo, ha avuto quale effetto quello di far ricadere i compensi ricevuti dai calciatori professionisti nella fattispecie del lavoro dipendente.

Secondo l’art. 53, co. 2, lett. b), t.u.i.r. sono, inoltre, redditi di lavoro autonomo i proventi derivanti dall’utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore delle opere dell’ingegno, purché tali corrispettivi non siano conseguiti nell’esercizio di “attività commerciali”. Pertanto, non rimane che richiamare quanto sopra esposto, perché, in tal caso, si può ritenere che l’autore o l’inventore percepisca corrispettivi disciplinati quali redditi di lavoro autonomo, pur non essendo lavoratore autonomo nel senso indicato (supra 1.5) e, dunque, anche essendo un lavoratore autonomo con organizzazione in forma di impresa, esclusa, in questa ipotesi, il solo caso di attività rientrante nell’art. 2195 c.c. (secondo Sacchetto, C., op. cit., 119 ss., potrebbe sussistere, in tal caso, anche l’occasionalità e/o, riteniamo analogamente, il vincolo di subordinazione).

L’art. 53, co. 2, lett. c), t.u.i.r. (in tema di contratto di associazione in partecipazione) considerava redditi di lavoro autonomo la partecipazione agli utili di cui all’art. 44, co. 1, lett. f), t.u.i.r., ma tale lettera deve, tuttavia, intendersi implicitamente abrogata dall’inserimento del secondo comma all’art. 2549 c.c., ad opera dell’art. 53, co. 1, lett. a), d.lgs. 15.6.2015, n. 81, secondo cui «Nel caso in cui l’associato sia una persona fisica l’apporto di cui al primo comma, non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro».

La successiva lett. d) prevede quali redditi di lavoro autonomo la partecipazione agli utili spettanti ai promotori e ai soci fondatori di società di capitali, sull’assunto che tale remunerazione non riguardi un capitale, bensì l’attività lavorativa finalizzata alla successiva costituzione della società (la ragione principale dell’inclusione dovrebbe ricavarsi dal fatto che potrebbe mancare, in tale caso, la professionalità o abitualità della prestazione; cfr. D’Ayala Valva, F., I redditi di lavoro autonomo nel T.U.I.R. n. 917 del 22 dicembre 1986, in Rass. trib., 1989, I, 321).

Secondo la lett. e) del medesimo articolo, sono assimilati ai redditi di lavoro autonomo le indennità per cessazione di rapporto di agenzia. Tale voce ha destato diverse perplessità in considerazione del fatto che, al contrario, i rapporti di agenzia sono assoggettati al regime previsto per i redditi di impresa (cfr. Sacchetto, C., op. cit., 167 ss.). Forse, la previsione è giustificata dall’intento di voler colpire per cassa in capo all’agente tale emolumento, peraltro assoggettato a tassazione separata (cfr. art. 17, co. 1, lett. d), t.u.i.r.).

Infine, ai sensi della lett. f) del medesimo articolo si considerano redditi di lavoro autonomo quelli conseguiti nell’attività di levata dei protesti esercitata dai segretari comunali. La ragione dell’inclusione deriverebbe dalla necessità, evidentemente avvertita dal legislatore, di sottrarre tali redditi dal lavoro dipendente (sul punto tuttavia, in passato, la Cass., 23.1.1985, n. 274 aveva ritenuto non sussistere per questa particolare attività dei segretari comunali, il vincolo di subordinazione, non rientrando tali mansioni nel rapporto di lavoro; si tratterebbe quindi, dell’unica ipotesi dell’elenco di cui all’art. 53, co. 2, t.u.i.r. di superfetazione normativa, giustificata, però, dalla particolarità del caso).

Attività economiche negli ordinamenti sovranazionali

Da ultimo, probabilmente in controtendenza con l’ordinamento interno, si evidenzia come sul fronte comunitario ed internazionale vi siano alcuni segnali di equiparazione del lavoro autonomo all’impresa (cfr. raccomandazione della Commissione europea del 6.5.2003, n. 361, in tema di micro e piccole imprese; nonché ex multis C. giust., 19.2.2002, C-309/99, Wouters; dall’altra parte, nei modelli di convenzioni OCSE per evitare le doppie imposizioni internazionali è scomparsa una specifica regolamentazione dei lavoratori autonomi ormai inclusi nei “business profits”, di cui all’art. 7 del modello intitolato, come espressamente indicato dall’art. 3, co. 1, lett. h) del modello). Ciò detto, però, non credo che i principi comunitari, nella specie, possano comportare in alcun modo la disapplicazione delle norme del t.u.i.r. sopra esaminate, anche perché queste ultime disciplinano un tributo non armonizzato Boria, P., Diritto tributario europeo, Milano, 2010, in part. 197 ss.). Per giunta, non si potrebbe neanche ritenere che il diritto comunitario, quale canone di indirizzo per gli Stati membri, osti ad un trattamento differenziato di determinazione dei redditi di diverse attività economiche, dato che ciò non dovrebbe, di per sé, determinare un conflitto con il risultato primario perseguito dall’Unione (cfr. Fedele, A., Diritto tributario (principi), in Enc. dir., Milano, 2008, 459; Fantozzi, A., Diritto tributario, in Diritto on line Treccani 2015). Analoghe considerazioni dovrebbero valere sul fronte del diritto internazionale, posto che i principi risultanti dalle convenzioni sono finalizzati all’individuazione di criteri di territorialità e non interferiscono sulle regole di determinazione della base imponibile negli Stati contraenti.

I criteri di determinazione del reddito di lavoro autonomo

Un doppio binario

Come detto, alla corretta individuazione del “lavoratore autonomo” in ambito tributario conseguono regole particolari per la determinazione del reddito e degli altri obblighi accessori.

La particolarità della tassazione del lavoro autonomo consiste senza dubbio nel principio di cassa, in luogo del principio di competenza applicabile alle imprese (cfr. art. 54, co. 1, t.u.i.r.; il principio di cassa è stato introdotto con la riforma degli anni ’70, che ha limitato il principio di competenza ai soli redditi di impresa, a differenza di quanto disposto dall’art. 115 t.u. imp. dir.). In base a tale principio, i compensi e i costi rilevano nel momento in cui, rispettivamente, sono incassati e sostenuti, salve le eccezioni di cui si dirà nel successivo paragrafo (v. infra 2.2).

Altra differenza concerne gli obblighi contabili: l’art. 19 d.P.R. 29.9.1973, n. 600 prevede l’elenco dei libri che il lavoratore autonomo è obbligato a tenere. Si tratta di una contabilità “semplificata” rispetto a quella degli imprenditori (peraltro, sono in contabilità semplificata anche gli imprenditori individuali che non superano le soglie di ricavi di cui al precedente art. 18; da notare che, per gli autonomi, il superamento delle soglie non determina un mutamento degli obblighi contabili). Pur essendo denominata “semplificata”, la contabilità di cui all’art. 19 cit. è, quindi, la regola per il lavoratore autonomo che, solo su opzione (a prescindere da limiti quantitativi della propria attività), ai sensi dell’art. 3 d.P.R. 9.12.1996, n. 695, può scegliere quella che (in tal caso impropriamente) viene definita, in gergo tecnico, contabilità “ordinaria” (consistente, per gli autonomi, della tenuta, in aggiunta agli altri libri, di un registro cronologico con indicazione delle movimentazioni finanziarie redatto, quindi, secondo il principio della partita doppia).

Infine, il lavoro autonomo si caratterizza, ai sensi dell’art. 25 d.P.R. n. 600/1973, per la ritenuta a titolo di acconto del 20% sui compensi corrisposti da committenti “sostituti”, ai sensi dell’art. 23, d.P.R. n. 600/1973 (sulla casistica in tema di ritenuta sui lavoratori autonomi si rinvia a Leo, M., Le imposte sul reddito, cit., 1010; Parere Avvocatura dello Stato n. 4332/92; Cass., S.U., 12.6.1982, n. 3544). Si noti che la ritenuta è del 30% e a titolo di imposta in caso di pagamento di compensi da sostituti residenti in Italia ad autonomi residenti all’estero (v. art. 25, co. 4, cit.; nonché art. 23 t.u.i.r.; v. infra 3.3).

Occorre evidenziare come, in ragione delle norme sulla contabilità e del principio di cassa, vi è un forte disallineamento del regime fiscale degli autonomi sul piano dell’imposta sul reddito e dell’IVA. Si sottolinea che, sul piano IVA, valgono regole identiche per tutti i soggetti passivi, a prescindere dalla natura del soggetto emittente (salvo particolari regimi opzionali, infra 3.2), applicandosi l’art. 6 del d.P.R. 26.10.1972, n. 633, anche per gli autonomi (conseguentemente anche le regole per la variazione delle fatture di cui all’art. 26 d.P.R. n. 633/1972); inoltre, per gli autonomi (ma anche per le imprese individuali) che superano le soglie di fatturato di cui al citato art. 18 d.P.R. n. 600/1973 (norma che, come visto, in materia reddituale, disciplina la contabilità semplificata dei soli imprenditori, ma che è richiamata in generale in tema di liquidazione periodica IVA dall’art. 14, co. 11, l. 12.11.2011, n. 183; si veda anche Ris. 15/E/2012), la liquidazione dell’IVA avviene mensilmente e non trimestralmente.

La determinazione del reddito di lavoro autonomo

La determinazione avviene attraverso i criteri indicati all’art. 54 t.u.i.r., secondo cui il reddito di lavoro autonomo è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura (v. anche artt. 1, 6 e 9 t.u.i.r.; si veda anche Carpentieri, L., Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Milano, 1997) percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte e della professione (si ritiene che tale formulazione renda applicabile, sebbene non espressamente richiamato, il principio di inerenza anche nel lavoro autonomo; Leo, M., op. cit., 1015 con una critica, però, alla non chiara disposizione normativa, Procopio, M., Il principio di inerenza nel sistema delle imposte sui redditi, Milano, 2009).

La deducibilità dei costi inerenti di produzione del reddito (inerenti) costituisce, del resto, un principio cardine della determinazione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, implicito nel concetto stesso di reddito, quale “novella ricchezza”, ovvero incremento patrimoniale (Nocerino, O., Il problema dell’individuazione di un principio generale (inespresso) di inerenza, in Rass. trib., 1995, II, 910) ponendosi altresì, in una prospettiva evolutiva, come regola di collegamento dei componenti negativi alla struttura organizzativa (Panizzolo, A., Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 1999, I, 675 ss.).

Le eventuali perdite riportate da un’attività di lavoro autonomo possono essere sottratte esclusivamente dal reddito complessivo dello stesso periodo (secondo il disposto dell’art. 8, co. 1, t.u.i.r.; in passato, per i periodi di imposta 2006 e 2007 era stata introdotta la possibilità di riportare “a nuovo” le perdite conseguite secondo il modello della compensazione verticale di cui all’art. 84 t.u.i.r.; con l’art. 1, co. 29, l. 24.12.2007, n. 244 tale possibilità è stata esclusa con la conseguenza che il lavoratore autonomo può compensare le perdite solo in orizzontale; cfr. Fransoni, G., Finanziaria 2008 e modifiche alla disciplina delle perdite, in Riv. dir. trib., I, 2008, 651; Zizzo, G., Profili di incostituzionalità del regime dell'utilizzo delle perdite nelle imposte sul reddito, in Corr. trib., 2007, 1987; Stevanato, D., Prime riflessioni sulle nuove norme in materia di inutilizzabilità delle perdite in presenza di esenzioni del reddito o dell’utile, in Dial. dir trib., 2007, 545).

Tra le eccezioni al criterio generale di determinazione del reddito si richiamano le seguenti: a) per i beni strumentali eccedenti l’importo di 516,40 euro, si applicano i coefficienti di ammortamento stabiliti nel relativo d.m. 31.12.1988 (art. 54, co. 2, primo alinea); b) i canoni di leasing sono deducibili per competenza, ma la deduzione è ammessa se la durata del leasing non sia inferiore alla metà del relativo periodo di ammortamento previsto per tipologia di bene (inclusi gli autoveicoli, nei limiti di cui all’art. 164 t.u.i.r. espressamente richiamato) e, per i beni immobili strumentali, non sia inferiore a 12 anni (art. 54, co. 2, seconda parte); c) le spese di ristrutturazione o manutenzione degli immobili strumentali sono deducibili nell’anno del loro sostenimento nei limiti del plafond del 5% di tutti i beni ammortizzabili, e, per la parte eccedente, in quote costanti nei successivi cinque periodi di imposta, a meno che, in base alle loro caratteristiche, non siano incrementative del valore ammortizzabile, nel qual caso sono deducibili per competenza in quote costanti (attualmente pari al 3%; art. 54, co. 2, ultimo periodo; v. studio del Notariato 88-2011/T; v. Ris. 99/E/2009 in tema di spese su immobili detenuti in locazione dal professionista, sempre tassate secondo il sistema del plafond del 5%); d) i beni mobili o immobili adibiti promiscuamente alla professione sono ammortizzabili (se superano i 516,40 euro) o deducibili nei limiti del 50%, secondo criteri specificamente indicati (art. 54, co. 3); e) le spese alberghiere o di somministrazione di alimenti sono deducibili nei limiti del 2% dei compensi del periodo, a meno che non sostenute in nome e per conto del committente e addebitate in fattura dal professionista, mentre le spese di rappresentanza sono deducibili nei limiti dell’1% ed, infine, le spese di partecipazione a convegni nei limiti del 50% del loro ammontare (art. 54 co. 5); f) sono deducibili per competenza i TFR spettanti ai dipendenti dei professionisti, mentre le spese di vitto e alloggio sostenute dai dipendenti del professionista sono deducibili nei limiti di euro 180,76 al giorno se in Italia o euro 258,23 se all’estero o secondo tariffe chilometriche (art. 54, co. 6); g) non sono deducibili i compensi erogati ai familiari indicati nel co. 6-bis che, simmetricamente, non costituiscono reddito in capo agli stessi (art. 54, co. 6-bis).

La cessione di beni strumentali del lavoratore autonomo (come anche la loro destinazione al di fuori dell’attività o la loro perdita e/o danneggiamento) può generare plusvalenze o minusvalenze, analogamente a quanto avviene per i beni dell’impresa (art. 54, co. 1-bis e ss.).

Si evidenzia, infine, che non rientra tra la base imponibile IRPEF il contributo previdenziale chiesto in rivalsa dal lavoratore autonomo al committente (quindi anche la ritenuta d’acconto si calcola al netto del contributo, mentre lo stesso concorre a formare la base imponibile IVA), invece sono deducibili dal reddito di lavoro autonomo i contributi versati alla cassa di appartenenza, nonché quelli versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza, ivi compresi quelli per la ricongiunzione di periodi assicurativi (art.10, co. 1, lett. e), t.u.i.r.).

Regimi particolari

Le norme per le fattispecie incluse nel lavoro autonomo

L’art. 54, co. 8 prevede un criterio forfettario di determinazione della base imponibile per i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno di cui all’art. 53, co. 2, lett. b), nei limiti del 75% del loro ammontare o del 60% se il percettore ha un’età inferiore ai 35 anni.

Non è ammessa, invece, alcuna deduzione per i redditi di cui alle lett. d) ed e) del medesimo articolo 53 (stessa disciplina era prevista per i redditi di cui alla lett. c), oggi, implicitamente abrogata) mentre è prevista una deduzione forfettaria del 15% a titolo di spese per i proventi di cui alla lett. f) del medesimo articolo.

I contribuenti minimi e gli altri regimi speciali: cenni

Nel corso degli ultimi anni, sulla spinta delle esigenze indotte dalla contingente crisi economica, si sono susseguite numerose iniziative legislative finalizzate ad approntare regimi agevolativi opzionali volti ad incentivare le nuove iniziative economiche e a diminuire la pressione fiscale sulle fasce reddituali autonome più deboli (applicabili anche agli imprenditori non dotati di ingente organizzazione e con ricavi ridotti). Sono stati così introdotti diversi regimi impositivi, variamente denominati, i quali – pur distinguendosi quanto ai requisiti di accesso ed all’entità del carico fiscale “sostitutivo” – risultano incentrati su un analogo meccanismo di determinazione del reddito imponibile, da assoggettarsi ad una imposta sostitutiva dell’IRPEF che varia dal 5% previsto nell’ambito del regime per le nuove iniziative economiche aderenti al “regime dei minimi” (art. 27, d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. con mod. dalla l. 15.7.2011, n. 111, oggi abrogato), al 15% del nuovo regime forfettario (art. 9 l. 23.12.2014, n. 190 come modificato dall’art. 1, co. 111-113, l. n. 28.12.2015, n. 208) al 10% dell’ormai abrogato “forfettino” (art. 13, l. 23.12.2000, n. 388), con contestuale alleggerimento o azzeramento degli obblighi contabili ed IVA (di particolare interesse, i contributi di Rossi, P., Il nuovo regime fiscale dei contribuenti minimi, in Fransoni, G., a cura di, Finanziaria 2008: Saggi e commenti, Milano, 2008, 273 e ss.; Lupi, R., Regime dei minimi e sua inadeguatezza alla tassazione delle microimprese, in Corr. trib., 2007, 3169 e ss.).

I lavoratori autonomi non residenti: cenni

Potrebbe non risultare agevole l’individuazione delle regole di tassazione in Italia dei lavoratori autonomi non residenti. Come è noto, i lavoratori autonomi non residenti (secondo i criteri dettati dall’art. 2 t.u.i.r.) sono assoggettati a tassazione in Italia per i redditi ivi prodotti (art. 23 t.u.i.r.). Per gli stati esteri che hanno sottoscritto con l’Italia una convenzione sul modello stabilito dall’OCSE, la tassazione del reddito avviene in Italia solo in presenza, oggi di un “permanent establishment” (in passato di “fixed base”, ai sensi del soppresso art. 14 del modello, ancora presente in diverse convenzioni sottoscritte dall’Italia).

Il sistema di tassazione per le attività di lavoro autonomo svolte in Italia da non residenti sarebbe, pertanto, il seguente: a) nel caso di compenso corrisposto da un sostituto ad un residente in uno stato estero che non ha sottoscritto una convenzione basata sul modello OCSE con l’Italia, si applica una ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 30% che esaurisce gli obblighi contributivi e dichiarativi del percettore (art. 25 d.P.R. n. 600/1973); b) nel caso di compenso non corrisposto da un sostituto ad un residente in uno stato estero che non ha sottoscritto una convenzione basata sul modello OCSE con l’Italia, oppure corrisposto ad un residente in uno stato estero che ha sottoscritto una convenzione basata sul modello OCSE con l’Italia, dotato di stabile organizzazione o di base fissa in Italia, il percettore ha l’obbligo di dichiarare in Italia il compenso e di corrispondere l’imposta risultante dalle regole del t.u.i.r.; c) nel caso di compenso corrisposto da un sostituto ad un residente in uno stato estero, dotato di stabile organizzazione o di base fissa in Italia, sarebbe sempre assoggettato, secondo l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, a ritenuta d’acconto (e non d’imposta; cfr. Ris. 154/E/2009, secondo cui sarebbe applicabile l’ultima alinea dell’art. 25, co. 4 cit.; contra Garbarino, C., Redditi di lavoro autonomo (diritto tributario internazionale), in Dig. comm., Torino, 2008, 187 ss.); d) i compensi corrisposti da sostituti a soggetti residenti in stati esteri che non hanno sottoscritto una convenzione OCSE con l’Italia, privi di stabile organizzazione, sarebbero assoggettati a ritenuta a titolo di imposta del 30%; e) nel caso di compenso, da chiunque corrisposto, ad un residente in uno stato estero che ha sottoscritto una convenzione basata sul modello OCSE con l’Italia, non dotato di stabile organizzazione o di base fissa in Italia, non vi sarebbe tassazione in Italia (neanche l’obbligo del sostituto di applicare la ritenuta; v. Garbarino, C., Redditi, cit., 187 ss.; Id., Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2005, 483 e ss.; cfr. Baggio, R., Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, 478; nonché Cass., 19.1.2009, n. 1138; Cass., 23.5.1981, n. 3375).

Fonti normative

Tra la normativa più rilevante si vedano: d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (cd. t.u.i.r.), con particolare riguardo agli artt. 1, 6, 8, 9, 10, 23, 53, 54, 55 e 66; artt. 2082, 2083, 2195, 2222, 2232, 2238, c.c.;, artt. 18, 19, 23, 25 d.P.R. 29.9.1973, n. 600; art. 3 d.lgs. 15.12.1997, n. 446; art. 27, d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. con mod. dalla l. 15.7.2011, n. 111; art. 9, l. 23.12.2014, n. 190.

Bibliografia essenziale

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