Relazioni internazionali

Enciclopedia delle scienze sociali (1997)

Relazioni internazionali

Carlo Maria Santoro

Definizioni

Oggetto della disciplina politologica delle 'relazioni internazionali' è lo studio della politica internazionale. La politica internazionale può essere a sua volta definita come il complesso degli eventi politici che scaturiscono dall'interazione fra unità (attori) politiche all'interno del contesto internazionale. Fra le definizioni più note è quella secondo cui si tratta di "un'attività umana in cui persone provenienti da più di una nazione interagiscono sia individualmente, sia in gruppi" (v. Alger, 1968).

L'ambito concettuale della politica internazionale è però più vasto di quello specifico delle relazioni internazionali e comprende diversi comparti disciplinari, distinti sia per statuto scientifico, sia per metodo d'analisi. In particolare si tratta di discipline aventi per oggetto tematiche connesse allo studio degli 'eventi' di politica internazionale, dalla storia diplomatica all'economia internazionale, dalla teoria della comunicazione al diritto internazionale e delle organizzazioni, fino agli studi strategici e geografici.

Questa interconnessione pluridisciplinare testimonia l'esistenza di una notevole difficoltà euristica nell'individuazione di un campo di indagine definito e di un metodo analitico univoco, così come, d'altro canto, manifesta anche il limite intrinseco del suo spazio teorico (v. Dougherty e Pfaltzgraff, 1971).

Semplificando e disboscando però la foresta delle tendenze e degli ambiti, è possibile tornare a dire - con Raymond Aron (v., 1962) - che l'analisi delle relazioni internazionali consiste essenzialmente nello studio della guerra e della pace, nonché di tutto ciò che esiste lungo il continuum che corre fra questi due elementi estremi.

Ma se il campo della disciplina inteso in senso lato è questo, diventa allora più semplice l'individuazione degli elementi portanti dello studio delle relazioni internazionali. Esso presuppone infatti la compresenza di tre condizioni originarie: a) l'esistenza di 'attori', vale a dire di unità analitiche elementari; b) l'individuazione di una 'struttura', vale a dire la posizione e la distribuzione nello spazio degli attori (ovvero dei livelli di analisi); c) un meccanismo di 'interazione', vale a dire un sistema di relazioni fra unità analitiche all'interno di un contesto territoriale e politico comune (v. Easton, 1953; v. Waltz, 1979).

L'oggetto della politica internazionale, da cui discende lo studio scientifico delle relazioni internazionali, consiste quindi nell'analisi dei meccanismi di formazione, gestione o implementazione dei comportamenti degli attori (statali o non statali) nel quadro della loro struttura e dello spazio geografico e politico in cui operano (v. Gilpin, 1981).

Il contesto spaziale e territoriale rappresenta perciò la base materiale su cui poggia lo strumento operativo dell'analisi internazionalistica, che è - come vedremo - lo studio del 'sistema internazionale', inteso come macchina organica (cioè come organismo) delle relazioni fra attori internazionali. I concetti onnicomprensivi di 'localizzazione' (Ortung) e di 'ordinamento' (Ordnung) possono così diventare i presupposti logici dello studio analitico della politica internazionale (v. Schmitt, 1950).

Da queste premesse generali deriva l'identificazione dei principî spazio-tempo e culturali ai quali si richiamano gli attori nelle vicende della politica internazionale, ma anche i comportamenti e le procedure di interazione, e con essi l'invenzione dei paradigmi scientifici di analisi, la tipologia degli approcci e delle teorie, la classificazione delle norme e delle regole. Tradizionalmente gli approcci consistevano nell'uso specializzato, ma parziale, di strumenti concettuali e modelli analitici tratti da discipline diverse, in particolare dalla storia diplomatica, dal diritto internazionale e dalla filosofia politica (v. Rosenau, 1961; v. Bonanate, 1976). Successivamente, con la crescita e il consolidamento delle scienze sociali, la sofisticazione e la complessità del campo delle relazioni internazionali sono andate via via aumentando in modo quasi del tutto autonomo rispetto alle discipline di provenienza. Cosicché l'enucleazione di concetti specifici, nonché di un metodo analitico originale, si è accompagnata alla costruzione di modelli basati su costanti e variabili, talvolta quantificabili, ma più spesso solo di tipo qualitativo, che attribuiscono allo studio delle relazioni internazionali uno statuto scientifico indipendente, anche rispetto alla 'scienza politica' di cui pure è parte integrante (v. Bonanate e Santoro, 1986).

Si è infine affermato quale principio generale interpretativo della politica internazionale il concetto-oggetto di 'sistema internazionale' che, nonostante le diverse e contrastanti letture, si è consolidato come lo strumento analitico primario nello studio degli eventi internazionali. La 'scoperta', ovvero l'invenzione del sistema politico internazionale, è stata quindi un risultato dell'evoluzione della teoria generale dei sistemi elaborata fin dagli anni cinquanta da Ludwig von Bertalanffy (v., 1950; v. Emery, 1969; v. Miller, 1978). Tale approccio ha gradualmente sostituito il più tradizionale approccio 'riduzionista' che, secondo la lezione e il metodo della storiografia e della meccanica razionale, impostava lo studio delle relazioni internazionali come analisi della sommatoria delle politiche estere degli Stati nazionali (v. Wight, 1978). L'approccio sistemico si propone invece di 'globalizzare' l'interazione fra gli attori e al tempo stesso assegna al sistema internazionale in quanto tale un ruolo indipendente, quasi di 'super-attore', rispetto alle politiche estere nazionali dei singoli Stati.

Ne è derivata una tendenza all'analisi del sistema internazionale che risente molto del principio giuridico della comunità, ovvero della società internazionale: è un modo per 'cablare' virtualmente il mondo, ma spesso ciò avviene senza che se ne riconosca più l'eterogeneità.

L'approccio moderno alle relazioni internazionali, quello che ha prevalso nel Novecento, ha infatti troppo spesso trascurato il fattore di contesto per privilegiare il fattore interattivo. Ha prestato più attenzione al contenuto sistemico rispetto al contenitore territoriale, e soprattutto alle differenze spazio-temporali e culturali, in nome di una spiccata tendenza alla globalizzazione che ha spesso prodotto l'effetto perverso di omologare al modello di partenza - quello anglosassone e americano in particolare - l'intero spettro delle opzioni teoriche della politica internazionale.

Alla concretezza materica della territorialità si è così sostituita l'astrazione sistemica, centrata sui meccanismi di comunicazione, indipendentemente dal loro contesto geografico. Si pensi alle teorie politologiche su 'i nervi del potere' (v. Deutsch, 1963), ovvero alle teorie sulla comunicazione politica (v. Pye e Verba, 1965), o ancora a quelle normative basate su codici di regole e architetture istituzionali (v. Keohane, 1984), se non a quelle spiccatamente ideologiche, fondate sull'utopia dell'integrazione universale (v. Zimmern, 1931), che hanno tenuto il campo a tutto discapito dello studio del ruolo dello spazio nella determinazione dell'efficacia e della decisione politica (v. Schmitt, 1972).

Questa dimenticanza teorica ha fatto sì che si diffondesse, fino a prevalere, una concezione della politica internazionale, e quindi un approccio alle relazioni internazionali, che non attribuiva allo spazio nella sua conformazione alcuna funzione di potere particolare, ma lo considerava invece come un dato invariante, cioè come una costante tutto sommato secondaria, accreditando l'idea, di derivazione illuministica, dell'esistenza di un ordine internazionale implicito. In questo modo si prescinde dalle diversità per accentuare le affinità, per rimuovere e impedire il disordine, imponendo un comune codice normativo basato sul principio dell'eguaglianza teorica degli attori di fronte alle norme in fieri della cosiddetta 'democrazia internazionale' (v. Bonanate, 1994).

Le Nazioni Unite, e prima di loro la Società delle Nazioni, sono state la conseguenza più vistosa di questo processo di 'de-territorializzazione' del sistema internazionale, che ha assunto così la forma (Gestalt) di simulacro e di modello virtuale della futura ricomposizione del mondo in termini di globalizzazione e di ordine democratico, indipendentemente dall'esistenza delle diversità che producono conflitto e diplomazia, della distribuzione del potere-potenza, e della dimensione geografica.

È avvenuto cioè che il pensiero 'insulare' (v. Mahan, 1890; v. Corbett, 1911) alla fine ha prevalso sia su quello 'peninsulare' europeo del sistema dell'equilibrio di potenza (v. Gulick, 1955), sia su quello 'continentalista', terrestre e imperiale, di ispirazione eurasiatica (v. Mackinder, 1904; v. Haushofer, 1934; v. Wittfogel, 1957; v. Chaliand, 1995).

Questa fase concettuale, frutto della vittoria del pensiero insulare anglosassone nelle tre guerre mondiali del Novecento (1914-1990; v. Hobsbawm, 1994), e già precedentemente impostata fin dalla conclusione delle guerre napoleoniche nel 1815, è stata determinata anche dall'egemonia, a partire dalla rivoluzione industriale, del capitale finanziario e imperiale marittimo, vale a dire dell'equazione a quattro fattori: libertà dei mari=free traderism=sviluppo economico=globalizzazione (v. List, 1837; v. Hilferding, 1910).

Il successo generalizzato delle teorie 'economiciste', da Adam Smith a Karl Marx, ha influenzato a tal punto la teoria politica internazionale da dar luogo a una branca riconosciuta della disciplina delle relazioni internazionali chiamata proprio international political economy (v. Gilpin, 1987; v. Strange, 1970). Ma anche l'economicismo è, nella sua sintesi profonda, una sorta di teoria della deterritorializzazione la cui logica 'marittima', fin dalla guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene nel V secolo a.C., si coniuga bene con la logica 'ordinista egemonica' tipica delle potenze insulari, mentre quella 'ordinista imperiale' è caratteristica precipua delle potenze continentali e terrestri (v. Doyle, 1986; v. Gray, 1992; v. Kagan, 1995; v. Kupchan, 1994).

Storia

Lo studio delle relazioni internazionali, inteso come branca di quella scienza sociale che è la scienza della politica, è quindi una disciplina recente che ha però una storia implicita molto remota. Lo studio della politica internazionale (quindi la disamina della pace e della guerra) nasce con l'inizio dei rapporti, dapprima casuali e poi stabili, fra comunità umane diverse e organizzate. Esso è nella prima fase fortemente empirico, impostato su base mitica e successivamente su base storica e politica, senza ricorrenze o comportamenti nomotetici individuabili.

Si è andato cioè formando come un meccanismo anarchico intessuto di conflitto e di scambio fra comunità e ambienti umani differenti, fra forme istituzionali spesso incommensurabili, come le città-Stato e gli imperi, quindi come sistema di interazione regolato dalla doppia legge della forza e dell'interesse.

L'accumulazione di esperienze e di informazioni ha quindi creato una base di cultura internazionalistica che trova la sua espressione matura negli storici e nei politici dell'antichità, da Tucidide a Polibio, da Plutarco a Senofonte e a Cesare, ma anche, dall'altro lato dell'Eurasia, da Confucio a Hsun Tzu.

Al tempo stesso, però, lo studio della politica internazionale si specializzava per settori e per campi di indagine, soprattutto nel crogiolo della guerra, mestiere da professionisti che riflettendo sulla propria esperienza erano talvolta portati ad analizzare ex post i conflitti traendone considerazioni di strategia e di tattica.

A questo tipo di riflessioni si accompagnava, per converso, l'approfondimento analitico dell'alter ego della guerra, vale a dire della diplomazia, frutto della negoziazione e delle alleanze, che sono anch'esse la condizione tecnica e la rappresentazione spaziale della pace e della guerra (v. Liska, 1962; v. Riker, 1962; v. Walt, 1984). Questi studi, a cavallo fra la storiografia e la tecnica, possono essere considerati come le forme prime della politica tout court e della politica internazionale in particolare (Tucidide, Erodoto, Platone, Aristotile, Polibio).

Geograficamente, quindi, l'attenzione alla politica e alla politica internazionale ha origine nel continente antico, cioè nel 'grande spazio' (Grossraum) dell'Eurasia più l'Africa (v. Ratzel, 1897; v. Schmitt, 1950). Storicamente, però, lo studio moderno della politica nasce proprio nel centro dell'Europa, insieme alle forme moderne dello Stato, del conflitto e del negoziato, dapprima attraverso i microsistemi di interazione politica degli Stati comunali e regionali italiani, poi con il macrosistema centripeto degli Stati assoluti europei (v. Mattingly, 1955; v. Gulick, 1955).

La chiave di volta temporale della riflessione politica moderna si trova dunque nel periodo che va dalle grandi scoperte geografiche all'esplosione del Rinascimento, dalla Riforma protestante alla rivoluzione scientifica, fino ai trattati di Westfalia, fra il XV e il XVII secolo, quando prende consistenza la fase costituente dello ius publicum europaeum e si autorganizza il sistema dell'equilibrio di potenza (Hobbes, Grozio, Bodin, Pufendorf).

Tale architettura sistemica delle relazioni internazionali divide il pianeta in due parti: l'Europa da un lato e il resto del mondo dall'altro. Le linee di confine (amity line) separano la politica intraeuropea da quella extraeuropea stabilendo, per ciascuna di esse, norme e principî separati che vengono generalmente rispettati. Anzitutto in termini di liceità e di dimensione della guerra che, mentre è 'limitata' in Europa (almeno fino a Napoleone), diventa 'illimitata' nel resto del mondo. Tale meccanismo di interazione fra attori della politica internazionale si disgrega però con la prima guerra mondiale, che apre la fase della 'guerra civile europea', e più ancora con la seconda che pone termine al sistema di direzione europea della Terra (v. Schmitt, 1950; v. Nolte, 1987).

Gli Stati Uniti entrano pesantemente nel gioco imponendo una dottrina delle relazioni internazionali sostitutiva rispetto alla concezione classica degli attori europei, mentre l'Unione Sovietica, ennesimo gigante eurasiatico, si propone come modello globale alternativo, sia nella conduzione della politica interna, sia nella gestione della politica internazionale. In entrambi i casi si tratta di attori che sono per natura portatori di teorie globaliste, che si misurano cioè su scala mondiale, senza tener conto né della storia né della cultura dei popoli e dei territori che egemonizzano, o per la conquista dei quali si battono.

L'Europa viene così spodestata della sua primogenitura politica e anche politologica, e le relazioni internazionali mutano forma e cambiano leadership ideologica e scientifica. Con l'entrata in Europa degli Stati Uniti e della Russia sovietica, da un lato si innesta sul filone della tradizione classica - basata sul metodo politico del balance of power e sullo ius gentium di matrice europea - l'estensione planetaria della mission americana nel mondo (il manifest destiny: v. Merk, 1963), attraverso l'uso politico della 'dottrina Monroe' (v. Perkins, 1941), dall'altro si rafforza l'ipotesi di omologazione economico-sociale e politica universale, evangelizzata dalla Terza Internazionale comunista (v. Lenin, 1975).

Le relazioni internazionali, che fino allora avevano la logica e la forma di un cerchio con al centro il sistema europeo delle 'grandi potenze', e all'esterno gli imperi coloniali e i paesi terzi, ed erano basate sul trade-off fra forza e diplomazia, si trasformano in un complesso di teorie 'globaliste' basate sull'eguaglianza dei diritti degli Stati e sulla democrazia internazionale, scavalcando le regole e la prassi della tradizionale teoria 'regionale' dell'equilibrio dominante dell'Europa. Nascono così le prime architetture istituzionali fondate sul diritto delle organizzazioni internazionali (Società delle Nazioni e Nazioni Unite), mentre si completa, con la decolonizzazione degli imperi coloniali europei, la formazione di una 'comunità internazionale' composta oggi di oltre 180 Stati, alla quale vengono assegnati diritti e doveri virtuali, spesso inapplicabili.

La disciplina contemporanea delle relazioni internazionali è dunque la conseguenza di queste trasformazioni epocali del Novecento che hanno introdotto, anche nella cultura politica e nelle scienze sociali, il bagaglio di conoscenze e di esperienze di società nuove e in espansione, come quella americana, fondate sulla supremazia tecnologica e sull'industrializzazione diffusa. In particolare tali società hanno subito l'influsso culturale del positivismo scientista e della sociologia classica tedesca importata oltreoceano, oltre che del pensiero economico anglosassone, e hanno liberato quasi del tutto il dibattito scientifico sulla scienza politica dall'ipoteca tradizionale della prevalenza della storia e del diritto (v. Morgenthau, 1948; v. Hughes, 1975).

Teorie e approcci

Le relazioni internazionali non hanno ancora uno statuto scientifico consolidato, né dal punto di vista strettamente disciplinare, né da quello del metodo e degli approcci epistemologici. Più che di un vero e proprio 'continente' teorico si potrebbe infatti parlare di un 'arcipelago' che occupa un ampio tratto di mare aperto, disseminato di 'isole' di teoria, talvolta slegate fra loro, talaltra assai più vicine e comunicanti. È insomma un continente in lento affioramento, di cui per ora si vedono solo le terre emerse e le cime più alte, scosso oggi dalla rapida dissoluzione del paradigma scientifico costruito a fondamento della disciplina nel corso del XX secolo, soprattutto dagli Americani, i vincitori del Novecento (v. Ward, 1985; v. Huntington, 1993).

Questa metafora di Harold Guetzkow delle "isole di teoria" venne esposta in un articolo del 1950 che rappresenta ancora bene, a quasi cinquant'anni di distanza, l'evoluzione faticosa di una disciplina politologica in fieri, molto condizionata dal mutamento internazionale (v. Gilpin, 1981). In effetti la nascita, il consolidamento e poi la moltiplicazione delle 'isole' di per sé non porterebbero al raccordo fra i diversi nodi teorici, se non fosse possibile costruire dei 'ponti' tali da mettere in relazione metodologica e scientifica le diverse isole (v. Guetzkow, 1950).

La costruzione di ponti, ovvero di sistemi di comunicazione fra teorie, implica però l'individuazione di codici intelligibili, di metodologie armonizzabili e di caratteristiche compatibili all'interno di un contesto disciplinare (e interdisciplinare) comune.

Non è quindi un progetto semplice, perché l'individuazione di una epistemologia porta alla necessità di identificare al tempo stesso un 'paradigma' scientifico rivoluzionario, o almeno innovativo, al quale ricondurre tutte, o quasi tutte, le isole di teoria (v. Kuhn, 1962; v. Popper, 1935 e 1969; v. Lakatos e Musgrave, 1970; v. Masterman, 1970). Fra le principali forme d'approccio teorico usate nello studio della politica internazionale vi sono quelle basate sulla gerarchia dimensionale dei livelli analitici (individui, Stati, sistema internazionale) e quella più semplice e generale proposta da Kenneth N. Waltz (v., 1979), basata sulla distinzione fra teorie 'riduzioniste' e teorie 'sistemiche'.

"Sono riduzioniste le teorie [...] che si concentrano sulle cause a livello individuale o nazionale, mentre sono sistemiche le teorie che considerano anche le cause che operano a livello internazionale [...]. L'elemento essenziale dell'approccio riduzionista è che l'intero sia conosciuto attraverso lo studio delle sue parti" (ibid.; tr. it., pp. 65-66). "Se invece l'organizzazione delle parti influenza il loro comportamento e le loro interazioni, non è possibile predire o comprendere i risultati attraverso la semplice conoscenza delle caratteristiche, degli scopi e delle interazioni delle unità del sistema" (p. 100).

In altri termini la teoria sistemica è probabilmente più efficace di quella riduzionista nello spiegare le cause degli eventi della politica internazionale, in quanto utilizza, oltre all'approccio sistemico (il sistema è un insieme di unità interagenti), anche quello del contesto ambientale, ovvero "il posizionamento nello spazio" delle unità analitiche, che rappresenta un aggancio logico con la materia territoriale in quanto definisce "l'ordine o la disposizione delle parti di un sistema" (p. 166). In altri termini la struttura diventa una sorta di costituzione materiale di ogni sistema politico poiché ne definisce la 'forma' e il 'limite'.

La teoria sistemica è inoltre comprensiva, sia pure in senso lato e spesso solo virtuale, di tutte le isole di teoria che si sono andate formando nel tempo, e ciò anche se - come sostiene lo stesso Waltz - "la teoria, come la storia della politica internazionale, è scritta in termini di grande potenza di un'epoca" (p. 153). Cosicché lo studio delle isole di teoria delle relazioni internazionali potrebbe essere armonizzato alla luce di un paradigma scientifico, che è esso stesso un metodo d'analisi di tipo sistemico e che parte dal contesto politico e geografico per elevarsi al regno dell'astrazione e dell'ipotesi teorica (v. Masterman, 1970).

Le teorie e i paradigmi scientifici hanno comunque degli inventori, ovvero dei padri, che spesso prolificano dando luogo a scuole di dottrina basate sui principî generali ai quali la teoria o il paradigma fanno capo. Nelle relazioni internazionali le scuole riproducono tradizionalmente un confronto culturale e spesso ideologico, presente da secoli nel pensiero occidentale, fra metodologie d'indagine, ma soprattutto fra concetti diversi di filosofia politica. La dicotomia classica degli studiosi delle relazioni internazionali è, grosso modo, la stessa che contrapponeva, nel passato europeo, le teorie dello Stato e della società politica, interna o internazionale, da Machiavelli a Hobbes, da Grozio a Bodin.

Si tratta delle due correnti intellettuali che si richiamano, su un versante alle teorie del 'realismo' politico e derivati, fino alle diramazioni 'neo-realiste' di scuola recente, e sull'altro versante, alle teorie dell''idealismo' politico, fino alle più vicine tesi sul normativismo e sull'etica internazionale. Esse si annidavano già all'interno della quaestio teorica sul rapporto fra politica e morale, fra norma etica e norma positiva di due scuole radicalmente contrapposte e forse inconciliabili nella composizione dei valori profondi, ma assai dinamiche nell'evoluzione della dottrina. Il capofila della scuola realista delle relazioni internazionali intese come disciplina politologica moderna è stato l'inglese E. H. Carr (v., 1939), la cui opera più significativa, apparsa all'inizio della seconda guerra mondiale, è una serrata critica del pensiero idealista, di cui A. Zimmern (v., 1931) era stato l'alfiere fra le due guerre; dopo il secondo conflitto Hans Morgenthau (v., 1948) è stato l'architetto che ha costruito l'impalcatura teorica di stampo realista e riduzionista, mentre K.N. Waltz, in due libri del 1959 e del 1979, ne ha completato e innovato l'opera insieme con R. Gilpin (v., 1981), inserendo la dottrina realista delle relazioni internazionali all'interno del metodo sistemico.

Il sistema internazionale

L'approccio sistemico alle relazioni internazionali si sostanzia essenzialmente nella teoria del 'sistema politico internazionale' (v. Easton, 1953; v. Kaplan, 1957; v. Waltz, 1979). L'uso della categoria analitica del sistema internazionale e l'identificazione delle principali 'forme', pure o storiche, di sistema politico internazionale, a partire da quelle elaborate da M. A. Kaplan (v., 1957) fino alle più recenti ipotesi di lavoro (v. Santoro, 1995), conducono immediatamente al grande bivio concettuale delle due letture alternative della storia e della politica - quella 'evolutiva' o lineare e quella 'ciclica' - che diacronicamente (attraverso l'interpretazione storica) o sincronicamente (attraverso l'analisi spaziale) si siano avute nell'ambito delle relazioni internazionali.I modelli ciclici (v. Modelski e Thompson, 1987; v. Goldstein, 1988) ipotizzano sistemi internazionali che filosoficamente si ispirano all'insegnamento di Giambattista Vico e di Friedrich Nietzsche, ma anche alla teoria dei cicli economici di lungo periodo (long waves) di Nikolaj Kondrat'ev, mentre i modelli di tipo evolutivo tendono a preferire le ipotesi di organizzazione sistemica di taglio lineare, istituzionale e globalizzante.

La differenza fra i due approcci consiste nel fatto che, mentre la teoria ciclica è essenzialmente descrittiva e solo parzialmente esplicativa, la teoria evolutiva è teleologica e corrisponde a una filosofia della storia di taglio idealistico, trasformatasi inconsapevolmente in programma politico predittivo.Il modello ciclico riproduce quindi l'andamento tendenziale delle diverse forme di sistema, inteso come una rappresentazione iterativa dell'organizzazione della realtà, senza mettere in forse l'anarchia sottostante all'interazione fra gli attori, mentre quello evolutivo segue una tendenza ordinista e lineare, che presuppone una gerarchia naturale degli attori organizzati in un quadro regolamentato da norme e istituzioni sempre più integrate.

Il modello ciclico risponde quindi meglio di quello evolutivo alla complessità strutturale e all'imprevedibilità organizzativa della dinamica del sistema internazionale. Il metro analitico della ciclicità può comunque essere utilizzato in vari modi: uno dei più semplici è quello di adottare il criterio della 'concentrazione' ovvero della 'diffusione' di potenza, vale a dire di valutare l'andamento del ciclo sulla base della maggiore o minore concentrazione della potenza attorno a un numero crescente o calante di unità o poli, costituiti dagli attori maggiori o egemoni (v. Sabrosky, 1985; v. Rapkin e altri, 1979).

Il concetto di 'potere-potenza' diventa, in questa chiave, l'unità di misura della concentrazione/diffusione, e quindi del trend del ciclo, secondo la lezione di Morgenthau e di Deutsch che hanno sempre sostenuto la funzione essenziale del concetto di potenza, esplicitamente definito come la 'valuta' corrente della politica internazionale (v. Morgenthau, 1948; v. Deutsch, 1968).

Sulla base di questo assunto, la teoria consente di valutare e spiegare non solo le continuità, ma anche quelle che possono essere considerate come delle rotture, delle regressioni, ovvero delle 'catastrofi' (v. Thom, 1973) nel funzionamento del sistema internazionale, vale a dire come delle fratture (cleavages) che modificano, interrompono o invertono le fasi del ciclo internazionale (v. Rokkan, 1970).

Il criterio della potenza e il suo andamento ondulatorio sono quindi utili a spiegare le diverse forme che il sistema politico internazionale può assumere nelle diverse fasi del ciclo (v. Kennedy, 1987). Sulla base dell'esame storico, geografico, culturale e sistemico del ciclo della politica internazionale, è possibile infatti individuare almeno quattro forme primarie di sistema politico internazionale, che si sono costantemente ripetute nelle vicende della politica internazionale. Tali forme rappresentano emblematicamente le quattro modalità organizzative più frequenti del processo ciclico di concentrazione/diffusione di potenza nelle relazioni internazionali: a) frammentazione; b) equilibrio di potenza; c) sistemi di guerra o bipolari; d) ciclo degli imperi.

Frammentazione

Se si immagina un continuum 0-1 che muova da un minimo (0) a un massimo di concentrazione (1), il modello di sistema internazionale a frammentazione rappresenta la formula più esplicita e radicale della distribuzione di potenza fra un numero elevato di attori. Tale modello è tipico delle aggregazioni sociali e politiche multipolari anarchiche (cioè senza un ordine gerarchico), come furono i sistemi delle città-Stato greche (πόλειϚ) fra il VII e il IV secolo a.C., o quelli cinesi (Regni combattenti) fra il V e il III secolo a.C., ovvero i Comuni medievali italiani fra l'XI e il XIII secolo, le Città anseatiche e gli Stati regionali europei dei secoli XIV e XV.

L'instabilità permanente di questa forma di sistema politico internazionale è collegata strettamente alla inadeguatezza dimensionale del territorio degli attori, alla conflittualità endemica, nonché alla labilità nella distribuzione del potere/potenza fra gli attori. Si tratta, infatti, di sistemi che talvolta costituiscono le forme prime dell'organizzazione territoriale, ma più spesso sono il prodotto della disgregazione di entità multinazionali e territoriali maggiori (imperi del mondo antico, ovvero federazioni, come nel caso delle diaspore sovietica e iugoslava negli anni novanta di questo secolo), che successivamente (o contemporaneamente) tendono a ricomporsi, sia pure con forme e modalità politiche diverse tra loro e rispetto alle precedenti fasi di concentrazione.Il processo di frammentazione è dunque una fase di transizione del ciclo da uno status aggregato del sistema internazionale a un altro status che possiamo chiamare di ricomposizione e che modella, più o meno anarchicamente, le linee di una nuova distribuzione spaziale e politica della potenza, vale a dire prefigura le nuove strutture del sistema politico internazionale (v. Santoro, 1995).

Equilibrio di potenza

Il ciclo di concentrazione/diffusione rivela dunque una caratteristica fenomenica permanente del funzionamento dei sistemi internazionali che è quella dell'instabilità. E ciò si manifesta tanto nella fase della massima concentrazione, come è quella dei sistemi imperiali (v. Doyle, 1986; v. Liska, 1978), quanto in quella della massima diffusione, come è quella dei sistemi frammentati, la cui dinamica interna di relazione fra struttura, attori e interazioni ha uno status di mobilità e mercurialità continua.

La consapevolezza di questa condizione di instabilità crea problemi politici di rilievo e induce gli attori a trovare modalità di comportamento dirette a rallentare i processi di mutamento delle varie forme di sistema politico internazionale. Le più efficaci sono quelle che puntano a interrompere i processi di mutazione tentando di stabilizzare, anche forzosamente, le situazioni di fatto e lo status quo.

Gli imperi, ad esempio, tendono a perpetuare il proprio ordine gerarchico interno o escludendo l'esterno o espandendosi ininterrottamente. Tuttavia, il processo di isolamento (Impero cinese dopo le dinastie Ming e Ching) rinvia, nel migliore dei casi, solo provvisoriamente il declino, quando non lo accelera, mentre l'overstretching espansivo accresce, oltre ai rischi del declino, anche le probabilità di crollo (Unione Sovietica, Austria-Ungheria, ecc.; v. Kennedy, 1987).

Nei sistemi a frammentazione il percorso della stabilizzazione è generalmente impraticabile perché nessuno degli attori è in grado di imprimere all'intero sistema procedure tali da impedire lo scatenamento di quel meccanismo conflittuale anarchico che caratterizza appunto questa forma sistemica delle relazioni internazionali. Lo stesso discorso vale - come vedremo - per i sistemi di guerra o bipolari che, per definizione, sono instabili in quanto basati proprio sulla gestione del conflitto.

Resta dunque solo il sistema multipolare dell'equilibrio di potenza, la cui esperienza storica nell'Europa moderna, fra la conclusione delle guerre di religione e della guerra dei Trent'anni e la prima guerra mondiale, ha attratto fin dall'inizio l'attenzione degli studiosi in quanto esempio principe di un sistema internazionale relativamente stabile, e soprattutto capace di trovare al suo interno degli strumenti quasi automatici di autoregolazione e di equilibrio.

Il sistema dell'equilibrio (balance of power) è infatti il risultato di un processo di aggregazione tendenziale che dalla miriade di attori delle fasi di frammentazione (i Comuni medievali dell'Italia centrosettentrionale fra l'XI e il XIII secolo erano oltre 1.500) enuclea un ristretto numero di 'attori essenziali', vale a dire di unità analitiche la cui presenza è necessaria alla vitalità del sistema politico internazionale nel suo complesso (v. Kaplan, 1957).

Nel contesto spaziale globale, in cui generalmente opera il sistema dell'equilibrio, sono attori 'essenziali' le grandi potenze, mentre in contesti più ristretti, regionali o locali lo sono gli Stati regionali maggiori. La loro 'essenzialità' consiste nel fatto che se uno di loro viene a mancare, l'intero equilibrio si incrina e gli automatismi smettono di funzionare.Il sistema multipolare così strutturato risponde quindi a un insieme di regole che ne perpetuano, in linea teorica, la stabilità e la continuità. Esse si fondano su meccanismi di retroazione che mettono in equilibrio sempre rinnovato i fattori di espansione e quelli di disgregazione, in modo da garantire la salvaguardia dei meccanismi automatici di funzionamento (v. Gulick, 1955; v. Dehio, 1948).

Il sistema europeo, teorizzato dalla filosofia politica fin dalla metà del Seicento (Bodin, Pufendorf, ecc.), è stato certamente l'esempio più riuscito di sistema dell'equilibrio di potenza. Esso era stato preceduto temporalmente da quel balance of power in miniatura che era stato il sistema dell'equilibrio fra Stati italiani, fra la pace di Lodi del 1454 e la discesa di Carlo VIII nel 1494 (v. Mattingly, 1955).

Le sei regole essenziali che secondo Morton A. Kaplan sono necessarie per tenere in equilibrio il sistema sono state ridotte a tre da Kenneth N. Waltz: 1) agire nel modo più economico possibile per aumentare le proprie risorse; 2) proteggersi dagli altri attori secondo i principî della regola precedente; 3) agire per mantenere il numero di unità essenziali al sistema (v. Kaplan, 1957, pp. 14, 21, 45; v. Waltz, 1979, pp. 119-132). Queste premesse condizionano alla base la stabilità del sistema.Le condizioni strutturali del balance of power riguardano dunque tanto il numero degli attori 'essenziali', che non può essere inferiore a cinque né superiore a nove, quanto la loro dimensione spaziale, nonché la misura della contiguità e della potenza relativa e reciproca.

Le regole di Kaplan, che sono complesse e per certi aspetti contraddittorie, hanno quindi bisogno di una tastiera di variabili politiche molto più ricca di quella necessaria agli imperi, oppure al modello a frammentazione. Essa si basa sull'uso alternato, e talvolta contemporaneo, della forza (o minaccia d'uso) e della diplomazia, entrambe necessarie proprio ai fini dell'autosostentamento (v. Craig e George, 1990).

Sistemi di guerra o bipolari

Come hanno dimostrato anche la logica e il destino del sistema europeo dell'equilibrio di potenza, la stabilità dei sistemi politici internazionali è una condizione sempre provvisoria e imprevedibile. Ciò deriva dal fatto che la tendenza di fondo degli attori è quella espansionista (regola 1 di Kaplan e Waltz). Per ragioni di sicurezza, ovvero per ambizione, le singole unità si sforzano di aumentare il proprio peso e, al tempo stesso, di evitare il declino o il crollo. Spesso questo trend conduce alla crisi e alla guerra, con la conseguenza di produrre situazioni di duello politico o militare che generalmente si traducono in una conclusione misurabile solo nei termini radicalmente alternativi della vittoria e/o della sconfitta. La teoria ciclica delle relazioni internazionali, sulla scorta della sua verifica storica, implica che il trend di concentrazione/diffusione di potenza orienti tanto le fasi di ascesa quanto quelle di caduta del ciclo. Nelle fasi di ascesa, muovendo da situazioni di frammentazione pulviscolare, si passa a situazioni di maggiore concentrazione e addensamento della potenza attorno a un numero più ristretto di attori (o poli), che a certe condizioni e per un periodo di tempo indeterminato, possono dar luogo a sistemi che appaiono quasi stabili, come quelli definiti dell'equilibrio di potenza.

Quando però i meccanismi di stabilizzazione e di riequilibrio automatico del balance of power si inceppano per ragioni diverse e anzitutto per il mancato funzionamento delle regole essenziali - come è accaduto al sistema dell'equilibrio europeo dopo il 1914 - la rottura del sistema si risolve in un conflitto o 'guerra generale' (v. Levy, 1983) che sovente ha una funzione strategica costituente, è cioè in grado di gettare le basi di un nuovo sistema politico internazionale (v. Gilpin, 1981; v. Bobbio, 1966).

Il fenomeno bellico in quanto tale ha però un duplice significato, perché da un lato può rimodellare la forma del sistema internazionale, imponendo una diversa distribuzione del potere/potenza fra gli attori, mentre dall'altro lato può dar luogo a un sistema di relazioni internazionali a sé, con caratteristiche sue proprie, distinte da quelle del sistema prebellico che lo precedeva e da quelle del sistema che lo seguirà alla conclusione del conflitto. Questa forma sistemica particolare presenta delle modalità funzionali originali, che permettono di definirla come una forma autonoma di sistema politico internazionale, un vero e proprio 'sistema di guerra'.

Tale forma sistemica è storicamente scaturita da un'accentuata tendenza che la politica delle alleanze e delle coalizioni, tipica del sistema dell'equilibrio, manifesta nel tempo, e che è quella di perdere gradualmente il connotato essenziale della flessibilità (le alleanze dovrebbero essere sempre ad hoc, cioè dirette a un fine parziale e limitato, tali da poter essere facilmente modificate o ribaltate) per acquisire uno status di permanenza e di irrigidimento.

In altre parole le alleanze diventano stabili e si dotano di strutture definitive, ovvero di gerarchie interne molto strette e vincolanti (v. Liska, 1962; v. Riker, 1962; v. Walt, 1984; v. Snyder, 1984). Ne deriva un sistema internazionale rigido e poco adattabile al mutamento, nonché alle variazioni della temperie politica che comportino effetti non voluti sulla struttura stessa del sistema.

Il sistema di guerra, che può altresì essere definito come bipolare, è stato la forma dominante della politica internazionale fra il 1914 e il 1945, dapprima come sistema bipolare di guerra 'calda' e successivamente, dopo la seconda guerra mondiale fra il 1945 e il 1990, come sistema bipolare di guerra 'fredda'. Esso consisteva nella contrapposizione di due schieramenti antagonistici e inconciliabili la cui radicalità alternativa era tale da ipotizzare costantemente l'opzione del conflitto, sia 'freddo' che 'caldo'.I due schieramenti di alleanze contrapposte che costituiscono la struttura portante dei sistemi bipolari possono essere organizzati al loro interno secondo meccanismi di distribuzione della potenza di tipo multiplo. Talvolta hanno caratteristiche 'egualitarie', vale a dire che gli attori di ciascuna coalizione non sono rispettivamente sovraordinati, ma si tratta di tre o più attori di potenza comparabile che si confrontano con altri tre o più attori dello stesso calibro, come è stato il caso della Triplice Alleanza e della Triplice (poi Quadruplice) Intesa che hanno generato il sistema bipolare della prima guerra mondiale.

In altre circostanze invece i due sistemi di alleanza possono misurarsi fra loro avendo al proprio interno un leader dell'alleanza che determina il comportamento politico o militare di tutti, come nel caso del ruolo svolto dagli Stati Uniti da una parte, e dalla Germania dall'altra, nel corso della seconda guerra mondiale.

Il sistema di guerra può infine tradursi in un vero e proprio sistema politico internazionale basato sull'esistenza di due blocchi contrapposti, egemonizzati da un leader per parte, riconosciuto e preminente all'interno della propria area d'influenza. Questa forma è tipica dei sistemi bipolari in senso stretto. Un esempio classico di questa organizzazione della politica internazionale è dato dalla struttura di blocco delle due Leghe greche del V secolo (Delia e Lacedemonia) che combatterono nella guerra del Peloponneso, e che erano rispettivamente egemonizzate da Atene e da Sparta; un esempio recente è dato dalla relazione fra il blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti, e quello orientale dominato dall'Unione Sovietica (v. Lebow e Strauss, 1991).

La condotta e l'interazione semplificata di questa forma sistemica bipolare denunciano la sottostante aspirazione di ciascun leader di blocco all'unipolarismo e quindi a una sorta di dominio globale di tipo imperiale, aspirazione perennemente frustrata dalla presenza di un antagonista. In questo senso tutti i sistemi bipolari, anche quello della guerra fredda, sono delle forme particolari di sistema di guerra. Hanno cioè delle regole di comportamento tali per cui i risultati del confronto militare, sia deterrente sia compellente (v. Schelling, 1960 e 1966), producono effetti politici permanenti. Pur essendo sistemi per definizione provvisori ed eccezionali, in quanto hanno inizio con lo scoppio della guerra (costituente) e si concludono con la fine delle ostilità, vale a dire in termini di vittoria/sconfitta per l'uno o per l'altro degli attori leaders, le conseguenze che ne derivano si prolungano nel tempo attraverso i trattati di pace, che stabiliscono le regole di funzionamento del sistema politico internazionale successivo, e quindi ne determinano le principali caratteristiche sia organizzative che strutturali.In questo senso il 1945 è stato l'anno chiave che ha concluso il sistema di guerra 1939-1945 e ha preparato la strada, con le Conferenze interalleate di Yalta e di Potsdam, al sistema bipolare (o della guerra fredda) che è venuto meno dopo il 1990 con la dissoluzione, causata da ragioni endogene, del sottosistema Est.

Il ciclo degli imperi

Il sistema imperiale è, insieme al sistema a frammentazione, la forma più antica di sistema politico internazionale. Esso rappresenta il punto di svolta superiore del processo ciclico di concentrazione di potenza. La forma impero tende a ordinare gerarchicamente entità diverse in un contesto multinazionale o multietnico, che prefigura la fine annunciata della politica internazionale, il cui ruolo di meccanismo di interazione fra unità indipendenti si esaurisce all'interno del contesto imperiale per trasformarsi in politica interna. Imperi e federazioni, organizzazioni internazionali integrate, sono infatti tutte forme estreme di quel processo di concentrazione di potenza che, ciclicamente, risponde alle fasi ascendenti del ciclo. La forma impero è quindi collocabile all'estrema destra del continuum 0-1 che rappresenta in modo semplificato il trend di diffusione/concentrazione di potenza, cioè all'estremo opposto del sistema a frammentazione che si colloca all'estrema sinistra.

Gli imperi sono stati storicamente generati dalla condensazione di piccoli aggregati sociali e politici autonomi (città-Stato, villaggi, clan o tribù, ecc.) in organizzazioni territoriali più ampie, generalmente per annessione o conquista, talvolta per esigenze collettive (lavori idraulici), come nel caso degli imperi 'potamici' delle società orientali (v. Wittfogel, 1957). La sede spaziale degli imperi, fin dall'antichità, è stata anzitutto l'Eurasia dove la contiguità territoriale e, spesso, la scarsa densità delle popolazioni, hanno favorito l'espansione e la conquista, sia da parte dei popoli nomadi sia da quella degli insediamenti stanziali: Unni, Mongolo-Tartari, Cinesi, Russi, Turchi (v. Chaliand, 1995).

Tuttavia è possibile anche concepire dei sistemi imperiali marittimi (Atene, Cartagine, Venezia, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, ecc.) la cui egemonia sui popoli soggetti è certo meno diretta, ma risponde meglio alle esigenze di controllo a grande distanza (sea control) e di sicurezza della madrepatria rispetto a una periferia non contigua (v. Doyle, 1986; v. Mahan, 1890; v. Corbett, 1911).

La forma imperiale può essere considerata, in un certo senso, come la metafora storica e culturale delle moderne teorie 'ordiniste' ed evolutive. Essa ha una valenza teleologica significativa in quanto gli imperi o le istituzioni sovranazionali possono essere visti come prefigurazioni e modelli del 'governo mondiale', così come accade con le varie architetture istituzionali globali (Società delle Nazioni e Nazioni Unite) e/o regionali (Unione Europea) del Novecento, che sono tutte forme modernizzate e democratiche di concetti e paradigmi imperiali.

Isole di teoria

La disciplina delle relazioni internazionali può, dunque, essere metaforicamente descritta come un arcipelago di teorie e di modelli che si ispirano a scuole epistemologiche e di pensiero diverse fra loro. Anche se il concetto di sistema internazionale è diventato sempre più centrale per l'analisi date le sue implicazioni generali a tutto orizzonte, tale strumento conoscitivo non è tuttavia in grado di studiare tutti i campi e i settori in cui la disciplina si suddivide. La teoria sistemica funziona però come un 'ponte' immaginario che collega, sia pure sporadicamente, le diverse isole dell'arcipelago. In effetti le 'isole di teoria' che studiano aspetti separati della materia sono essenziali per avere un quadro completo del campo di ricerca, e per di più hanno bisogno di un quadro metodologico coerente con l'oggetto stesso dell'analisi. Di qui l'esigenza di modellizzare i diversi ambiti separati per semplificare e schematizzare la crescente complessità di funzionamento delle relazioni internazionali e delle relazioni fra attori, nonché la diversità dei temi.

L'uso della teoria generale dei sistemi quale fondamento metodologico e analitico principale per lo studio delle relazioni internazionali, così come quello di altre tecniche analitiche tratte da discipline diverse (come la teoria dei giochi ovvero quella delle decisioni complesse), consente di articolare lo studio delle relazioni internazionali secondo parametri analitici diversificati a seconda delle diverse forme che acquisiscono le policies degli attori nazionali nelle loro relazioni verso l'esterno, oppure le modalità comportamentali delle istituzioni internazionali e i relativi processi di interdipendenza e di integrazione.

Abbiamo enucleato, fra le numerose possibilità analitiche, quelle isole di teoria delle relazioni internazionali che sono le più consistenti, sia come statuto scientifico, sia come ricchezza e vastità della letteratura e dell'applicazione operativa, e che costituiscono degli ambiti separati, ma inclusi nella disciplina. Si tratta cioè di veri e propri subfields disciplinari, dotati di notevole autonomia scientifica e confinanti con discipline diverse ma affini (storia, diritto, politologia interna, ecc.).

I principali sottoinsiemi analitici e tematici delle relazioni internazionali sono quelli che studiano la politica estera dei singoli attori nazionali e delle organizzazioni, poi quelli che si occupano della teoria delle crisi internazionali e della loro gestione e riduzione, e infine quelli che descrivono i modelli geopolitici integrati dal vasto campo degli studi strategici e/o della peace research.

A questi tre campi d'analisi, che corrispondono ai fondamentali parametri analitici delle relazioni internazionali, vale a dire la pace (politica estera), la guerra (studi strategici) e lo stadio intermedio fra le due condizioni (crisi internazionali), vanno aggiunte due sottodiscipline più recenti, quella che analizza la relazione fra potere e ricchezza (v. Baldwin, 1983), cioè lo studio della international political economy (v. Gilpin, 1987; v. Strange, 1970) che va di pari passo con l'estensione dell'internazionalizzazione dell'economia e dei mercati, e quella che studia l'evoluzione complessa delle istituzioni internazionali, modelli di quell'ordine gerarchico sviluppatosi nel corso del Novecento a seguito delle tre guerre mondiali che hanno caratterizzato il secolo che ora si conclude (v. Keohane e Nye, 1977; v. Krasner, 1983).

Teorie di politica estera

Lo studio della politica estera analizza i comportamenti degli attori nazionali nelle loro interazioni con l'esterno, in termini di rapporti sia bilaterali che multilaterali. Si tratta quindi di un approccio, tutto sommato, riduzionista in quanto considera le azioni esterne (e l'immagine politica) di uno Stato quasi fossero scomponibili in operazioni semplici. Nel passato la sommatoria delle politiche estere di tutti gli attori nazionali veniva considerata come l'oggetto primario e complessivo della politica internazionale. Tipico in questo senso l'approccio della storia diplomatica e, parzialmente, anche del diritto internazionale, che escludevano la possibilità di visualizzare in modo sistemico l'intero complesso delle interazioni, e con esso il ruolo indipendente e influente svolto dall'ambiente del sistema in quanto tale. Ma anche oggi la politica estera resta in primo piano come principale oggetto d'analisi a livello degli Stati nazionali, i quali non possono non avere un punto di vista statocentrico nel loro comportamento verso l'esterno.

L'evoluzione delle teorie di politica estera e in particolare il tentativo di costruire una teoria 'scientifica' della politica estera (v. Rosenau, 1971) integrata dall'analisi sistematica della casistica di politica estera comparata sono relativamente recenti (v. Hermann e altri, 1987; v. Santoro, 1991; v. Santoro e Draghi, 1986; v. Bonanate e Santoro, 1986).

I modelli della politica estera utilizzati dalla letteratura politologica delle relazioni internazionali si sono infatti sviluppati dall'esperienza storico-politica dei principali attori, a partire dall'età dell'equilibrio europeo. Tali modelli hanno però acquisito una dimensione teorica più coerente solo dopo la seconda guerra mondiale attraverso l'analisi della politica estera americana, e poi della politica estera delle organizzazioni internazionali globali (Società delle Nazioni, Nazioni Unite) e regionali (Unione Europea). A questo campo d'analisi va aggiunta anche la notevole messe di studi relativa alla politica estera dell''antagonista' politico globale (l'Unione Sovietica), che è stata dissezionata per via virtuale dando luogo a un comparto di ricerche 'sovietologiche' il cui valore scientifico deduttivo è stato sorprendentemente elevato.

Si potrebbe affermare che è stata proprio la rete di interazioni istituzionali a livello multinazionale o transnazionale, infittitasi dopo il 1945, insieme con le modalità specifiche della politica estera del sistema bipolare della guerra fredda, a stabilire un ponte fra le isole di teoria della politica estera degli attori nazionali di tipo classico e la concezione sistemica della moderna teoria delle relazioni internazionali.

C'è stata dunque una relazione multipla fra la politica estera tradizionale degli Stati nazionali, secondo la lezione di Ranke (v. Dehio, 1948), a) la crescita delle organizzazioni internazionali e delle regole di comportamento multinazionale, b) l'emergenza di un modello speculare tipico del confronto bipolare e c) l'identificazione di una teoria del sistema politico internazionale che di quegli spezzoni teorici si è concretamente alimentata. È stata indubbiamente una triade concettuale, ibrida ma feconda, e soprattutto funzionale alla dinamica generale della teoria delle relazioni internazionali.

Da questo incrocio a tre vie nasce una lettura multipla della politica estera, a seconda del punto di osservazione: come 'politica pubblica' dei singoli attori nazionali (cfr. Santoro, in Dente, 1990), come 'politica estera' degli Stati, di cui Graham Allison (v., 1971) è stato il più autorevole sistematizzatore, come 'politica delle alleanze' e delle coalizioni di blocco durante la guerra fredda (v. Liska, 1962; v. Riker, 1962) e infine come 'politica multilaterale' nelle organizzazioni internazionali (v. Walt, 1984).

I tre modelli di Allison (razionale, organizzativo e burocratico) hanno quindi indicato alla ricerca un percorso che gli studi di politica estera comparata hanno arricchito di ipotesi, ambiziose quanto insufficienti, di scientificità predittiva (v. Rosenau, 1966, 1971 e 1980; v. Hermann e altri, 1987).

Teoria delle crisi internazionali

Il terreno intermedio fra la guerra e la pace, nella dimensione del XX secolo, quando la relazione fra 'interno' ed 'esterno' diventa sempre più labile e i confini fra i due livelli si dissolvono, si è straordinariamente ampliato.

Lo sviluppo delle tecnologie, i processi di comunicazione scientifica e politica, la possibilità di controllare strategicamente le forme dell'influenza e del potere (flussi politici e geoeconomici) hanno esteso il campo dell'intervento politico attuato attraverso l'uso della minaccia militare, senza per questo varcare la soglia del conflitto aperto.

A questo si aggiunga che le grandi istituzioni universali o globali hanno per compito primario proprio quello di prevenire le tensioni internazionali o ridurne l'entità affinché non si trasformino in crisi gravi o in conflitti armati. Di qui l'ampliarsi del terreno grigio fra la pace e la guerra e la necessità di individuare forme e procedure di gestione delle crisi che spesso possono preludere alla guerra vera e propria.

La teoria della gestione delle crisi nelle sue diverse forme (crisis prevention, crisis management, peace-keeping, peace-enforcement, peace-making) ha interessato, fin dagli anni cinquanta, un considerevole numero di studiosi delle relazioni internazionali che hanno elaborato un significativo numero di casistiche basate sul materiale empirico fornito, oltre che dalla storia degli ultimi due secoli, anche dalle particolarità della guerra fredda.

Tale ricchezza empirica, e quindi la possibilità di approfondire la ricerca, era dovuta anche al fatto che il sistema bipolare postbellico manifestava una strutturale tendenza alla crisi, nel senso che il confronto permanente fra Est e Ovest denunciava un'immanenza critica di tipo endemico, anzi direttamente costitutiva della forma stessa del sistema.

La crisi permanente del sistema bipolare comportava infatti una situazione di tensione generale che spesso si rompeva in episodi di crisi ai confini fra i due blocchi contrapposti, con effetti pericolosi per la stabilità dello stesso sistema la cui tenuta si basava sulla più terribile delle minacce reciproche, quella dello scontro nucleare (v. a questo proposito Schelling, 1960 e 1966).

La letteratura sulle crisi, intesa come sottosettore disciplinare delle relazioni internazionali, prende le mosse con il volume curato da Charles F. Hermann (v., 1972) per giungere, dopo lo studio di Richard Ned Lebow (v., 1981), ai testi più recenti come quello basato su progetti di ricerca empirica, curato da Brecher, Wilkenfeld e Moser (v., 1988).

Studi strategici e geopolitici

Il campo degli studi strategici, al quale corrisponde per converso il settore delle 'ricerche sulla pace' (peace research), è anch'esso un terreno di ricerca che precede, come quello della politica estera, la nascita ufficiale della disciplina delle relazioni internazionali.In esso si studia essenzialmente l'ambito concettuale e scientifico della guerra e se ne circoscrive il campo d'analisi, anche se il metodo della strategia, intesa come scienza dell'organizzazione delle forze sul terreno per un fine politico (Clausewitz, 1832), non va applicato esclusivamente all'impiego della forza militare, bensì all'intera gamma della teoria dei giochi, utilizzata sovente nello studio delle relazioni internazionali come modello di comportamento degli attori nelle loro interazioni politiche.

Le teorie strategiche hanno comunque acquisito uno statuto scientifico autonomo, che le rende automaticamente una branca delle relazioni internazionali. L'arte o la scienza militare sono concetti ambigui, ma le teorie strategiche in quanto tali sono delle vere isole di teoria riconoscibili e acquisite al patrimonio culturale delle relazioni politiche internazionali. Concetti come 'guerra assoluta' e 'guerra limitata', 'guerra totale' e 'strategia dell'approccio indiretto' (v. Liddel Hart, 1954) sono punti fermi nello studio della politica internazionale, sia del passato che del presente.

I modelli strategici che hanno dato corpo ai concetti teorici sono assai numerosi. Nel periodo del sistema bipolare i più significativi sono stati quelli della 'guerra convenzionale' e/o della 'guerra nucleare', con le loro derivazioni politiche nei paradigmi concettuali del 'controllo degli armamenti' e della 'deterrenza nucleare'.

Le teorie strategiche hanno inoltre una base materiale, dovuta all'esigenza di operare in un ambiente o contesto territoriale, che si richiama per forza di cose alle teorie geografiche e per questa via si connette al complesso teorico della geopolitica che rappresenta l'ovvia matrice culturale e storica delle teorie strategiche.

Le teorie sul potere marittimo (v. Mahan, 1890; v. Corbett, 1911), così come quelle sul potere terrestre (v. Mackinder, 1904; v. Haushofer, 1934; v. Spykman, 1942) e, più recentemente, quelle sul potere aereo (v. Douhet, 1921; v. De Severski, 1942), corrispondono bene all'evoluzione delle diverse forme del pensiero strategico costituendone il quadro contestuale di riferimento (v. Jean, 1994).

La international political economy

Nata alla fine della seconda guerra mondiale, a Bretton Woods, come sottoprodotto dell'egemonia politico-militare, marittima e finanziaria anglosassone, la international political economy è la risultante su scala globale dell'influenza reciproca di politica ed economia nelle società avanzate.

Muovendo dalla constatazione che "le discipline della scienza politica e dell'economia continuano a studiare lo sviluppo contemporaneo in modi che tengono separate e distinte le sfere dello Stato e del mercato" (v. Gilpin, 1987, p. 5), si è sentita l'esigenza di una specializzazione accademica che mettesse in relazione i due termini (Stato e mercato), soprattutto a seguito della rapida evoluzione del ciclo economico internazionale nella seconda metà del Novecento.

Lo studio della relazione fra Stato e mercato è così diventato un'applicazione alla politica internazionale delle varie forme di economicismo, da quelle dell'economia liberista e del pensiero liberoscambista, a quelle della teoria marxista e neomarxista. Le ragioni di questa assimilazione concettuale risiedono nei processi di multinazionalizzazione degli scambi e nell'integrazione dei mercati mondiali, vale a dire nella creazione di quella 'gabbia dei flussi' che ha recentemente dato vita anche a teorie geoeconomiche che applicano le categorie della strategia, quindi ancora una volta le forme della politica, alle funzioni dell'economia.

Per forza di cose la international political economy interagisce con le teorie dell'integrazione e funzionaliste che attribuiscono alle relazioni fra Stato e mercato una sorta di oggettiva creatività, senza necessariamente passare attraverso la politica. È, in altri termini, una commistione d'uso di categorie analitiche dell'economia e della teoria istituzionalista o dei processi integrativi a livello sia regionale che globale (v. Strange, 1970).

L'importanza di questa isola di teoria di taglio organicistico deriva dall'aver messo in luce la relazione fra globalizzazione dell'economia e andamento della politica internazionale. Essa presuppone dunque la decadenza naturale dello Stato-nazione, gradualmente sostituito dalle società e/o dalle istituzioni multinazionali di settore, specializzate o globali, come prospettato dalle teorie dell'integrazione politica. Nella versione realista, e non istituzionalista, tale ipotesi di un'aggregazione globale basata sulla competizione e la cooperazione ha dato luogo alle recenti teorie della geoeconomia, che, nonostante l'assonanza, sono ben distanti dalle teorie della geopolitica classica e/o critica.

E ciò anche se la geoeconomia, nel tentativo di sottrarsi ai rischi dell'omogeneizzazione istituzionalista e globalista, sottolinea il ruolo dello Stato, attivo nella 'guerra economica', passivo nella difesa neomercantilista delle strutture nazionali. Anche in questo ambito, dunque, malgrado l'uso tecnico delle leggi dell'economia e delle griglie istituzionali, emergono i conflitti fra la spinta alla concentrazione e la salvaguardia delle specificità nazionali.

Solo la scuola realista classica e quella ciclica delle relazioni internazionali si oppongono alle quattro scuole economicistiche della politica internazionale (liberale, marxista, istituzionalista, geoeconomica) che tendono a normalizzare e temperare, attraverso l'uso delle leggi dell'economia, l'incoercibilità della politica intesa come conflitto.

Teorie istituzionaliste

Il corpo dottrinale che definiamo delle teorie istituzionaliste non è che il prodotto ultimo e aggiornato delle teorie ordiniste di groziana memoria. Esso rappresenta, in certa misura, una conseguenza del fallimento delle prime sperimentazioni multinazionali di stampo idealista che avevano avuto corso negli anni fra le due guerre mondiali e avevano trovato la loro massima espressione nella Società delle Nazioni, prima fra le organizzazioni internazionali di stampo universalista.

Si tratta, in altri termini, di una versione aggiornata delle teorie 'idealiste' della prima generazione degli scienziati politici internazionali, tradotte successivamente in linguaggio normativo e funzionalista: esse approdano al vasto campo delle teorie dell'integrazione internazionale e alla teoria delle organizzazioni regionali partendo dall'ipotesi della necessità di strutturare alleanze vincolanti e permanenti, premessa indispensabile di ogni 'ordine internazionale' (v. Machlup, 1977).

Le teorie istituzionaliste vengono ormai considerate da molti studiosi come il corpo dottrinale centrale delle relazioni internazionali nel loro insieme, e soprattutto come il progetto futuribile dei caratteri architettonici del prossimo ordine internazionale. Senza eccedere nell'attribuire loro una valenza totalizzante, è però vero che esse hanno una coerenza interna consolidata e sono sorrette da un'impalcatura di norme, procedure e regole tali da rappresentare un modello interpretativo delle relazioni internazionali contemporanee che è sembrato rispondere bene alle esigenze di riorganizzazione della politica internazionale, dopo la traumatica esperienza delle due guerre mondiali, sia in termini di 'globalizzazione' dei rapporti internazionali che di 'cablaggio' politico dell'intero pianeta.

Si colloca nel cuore delle teorie istituzionaliste il progetto di 'integrazione' nelle sue forme più diverse, che si propone l'omologazione degli attori e dei popoli in vista della formazione delle comunità politiche nell'ordine mondiale. È il trionfo del metodo lineare ed evolutivo, che afferma la necessità di condividere valori comuni da diffondere e talvolta imporre (democrazia internazionale), e contrasta con il metodo opposto di scuola hobbesiana, che sostiene invece la possibilità di costituire la 'comunità' solo in vista di una minaccia o attraverso la forza.

Nuove prospettive di ricerca

La crisi del paradigma bipolare ha aperto la strada verso nuovi orizzonti di ricerca. Sono cadute, infatti, le interpretazioni del sistema internazionale basate sul confronto fra i blocchi ovvero sui meccanismi di crescita dei rapporti determinati dalla deterrenza nucleare. Così come si sono attenuate le ipotesi di un'evoluzione lineare della 'densità' del sistema in termini di concentrazione di potenza.

Nella stessa misura si sono ridotte anche le operazioni della globalizzazione, e con esse quelle della costruzione di una griglia istituzionale a livello planetario attraverso il rafforzamento delle organizzazioni universali come le Nazioni Unite - che paradossalmente hanno rivelato la loro grave impotenza operativa proprio nel momento in cui, con la fine del confronto bipolare, avrebbero dovuto assumere compiti sempre più rilevanti - o di quelle regionali, come l'Unione Europea, che faticano a fare il salto dall'interdipendenza funzionale all'integrazione organica. Sono altresì diminuite le illusioni sulla mondializzazione dell'economia, apparentemente unificata dall'informatizzazione dei mercati valutari e finanziari, ma in realtà compartimentata per aree di egemonia, differenziali nel costo del lavoro, nelle tecnologie, spesso in competizione e talvolta in conflitto aperto tra di loro.

L'inatteso fenomeno della frammentazione internazionale, che ha destrutturato alcuni attori nazionali essenziali come l'Unione Sovietica e altri attori di rilievo nel centro dell'Europa (Iugoslavia, Cecoslovacchia), insieme ai fenomeni di dislocazione di diversi attori in Africa Nera e la minaccia di disgregazione di altri in Medio Oriente ha infatti invertito un trend secolare che aveva marciato nella direzione opposta, vale a dire dalla diffusione alla concentrazione di potenza, e che aveva caratterizzato il sistema internazionale dalla metà del secolo scorso fino al 1990.

Questa inversione di tendenza ha fatto così entrare in crisi il paradigma scientifico delle relazioni internazionali costruito su quelle premesse, e in particolare ha posto in primo piano il doppio problema di prevedere tanto la durata e l'ampiezza del fenomeno della frammentazione, quanto i tempi e le forme dell'inevitabile processo di ricomposizione del sistema: è ciò che si può definire come la questione delle forme organizzative che il sistema potrà assumere nel prossimo o lontano futuro (v. Santoro, 1995 e 1997).

Le ipotesi possibili muovono dalla considerazione che il sistema politico internazionale attualmente in essere non è certamente una forma stabile, ma è invece il prodotto dello sgretolamento del sistema bipolare, dei processi di diffusione di potenza, nonché della possibilità di una riorganizzazione 'unipolare' del mondo sotto il controllo dell'unica superpotenza residuale (gli Stati Uniti). Tale opzione può essere anche definita come una forma moderna di impero (v. Doyle, 1986) che può agire, volta per volta, o per via 'diretta', cioè attraverso il consolidamento della sua capacità di controllare l'evoluzione del sistema, oppure per via 'indiretta', cioè attraverso l'esercizio dell'influenza e del potere per il tramite di organizzazioni globali o regionali, sia politiche come le Nazioni Unite, sia militari come la NATO, sia economiche come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

La trasformazione lineare del sistema politico internazionale da bipolare in unipolare sembra però essere un'ipotesi poco probabile, in quanto i fenomeni di frammentazione delle entità federali o degli Stati nazionali hanno gravemente compromesso le potenzialità sia dell'opzione unipolare, anche per il crescente 'unilateralismo' politico degli Stati Uniti che è una forma blanda e aggiornata di neoisolazionismo, sia dell'opzione universalista, cioè del governo mondiale esercitato dalle organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite per conto di un direttorio delle grandi potenze (G7+1).

È molto probabile, invece, che le ipotesi di ricomposizione del sistema politico internazionale siano del tutto diverse e possano assumere varie forme. Che possano cioè prevedere più di una modalità riorganizzativa, anche a motivo della continuazione della fase di diffusione di potenza, iniziata molti anni orsono ed esplosa a partire dalla seconda metà degli anni ottanta.

La rottura dello schema bipolare ha infatti liberato il mondo dai vincoli della deterrenza nucleare, e in particolare dalla minaccia dell'Olocausto che limitava la capacità di agire degli attori nella loro interazione subglobale. Ne è derivata una rinnovata possibilità di immaginare forme di mondi possibili molto più ricche e varie del passato, e di prefigurare l'ipotesi di una ricomposizione spontanea delle aggregazioni di potenza, sia geopolitiche che geoeconomiche o culturali (v. Huntington, 1996).

È possibile cioè che il nuovo sistema politico internazionale sia il risultato della compresenza di meccanismi di riaggregazione diversi fra loro, ma coesistenti e interagenti. Meno plausibile è invece l'ostinazione con cui ci si sforza, anche a livello della teoria delle relazioni internazionali, di prolungare nel tempo quelle ipotesi di riorganizzazione istituzionalista e neofunzionale che avevano un senso durante l'età bipolare, ma che oggi hanno perso buona parte del loro significato.

D'altra parte la rottura del vincolo bipolare ha messo in moto dei processi di ricomposizione spontanei che tendono a seguire modalità e decorsi riassumibili in poche forme principali. Per semplicità esse possono venir suddivise secondo quattro diverse modalità di organizzazione primaria che corrispondono ai principali modelli di aggregazione possibili. È questa la teoria dei 'nuovi poli geopolitici' che ha per oggetto delle ipotesi di rappresentazione dell'evoluzione del sistema internazionale in questa fase di transizione.

I modelli principali che abbiamo selezionato sono quattro: istituzionale, egemonico, autoritario, virtuale (v. Santoro, 1997, cap. I). Per ciascuno di essi valgono regole e procedure diverse di aggregazione del 'potere/potenza' nel processo di ricomposizione tendenziale del sistema, che non escludono però la continuazione o la compresenza dei fenomeni di disgregazione sistemica iniziati con la frammentazione bipolare.Il carattere strutturale di tali modelli è determinato (con l'eccezione del modello istituzionale che aspira imprudentemente alla globalità) dalla loro applicabilità regionale, ovvero dalle loro caratteristiche specifiche nella diversità dei grandi spazi. Essi sono quindi una rappresentazione della differenza, della non omogeneità globale, piuttosto che dell'aggregazione indistinta. Le regole di funzionamento di ciascun modello operano infatti in modo radicalmente diverso. Ciò comporta, per conseguenza, una valutabilità diversa e una relativa disomogeneità nei comportamenti politici di ciascun aggregato geopolitico, dovuta anche ai suoi connotati geopolitici e culturali.

In altri termini lo stato attuale del sistema politico internazionale è tale da far coesistere formule e tendenze politiche diverse e spesso contraddittorie fra loro, sia per ciò che riguarda il trade-off fra concentrazione e diffusione di potenza, sia per quanto si riferisce alle forme assunte dai processi di ricomposizione.

La compresenza di spinte autonome, al di là di quelle programmate o guidate dalla griglia istituzionale delle organizzazioni globali o universali, rende più complesso il modello della transizione dal sistema (di guerra) bipolare a quello (postbellico) multipolare, che è oggi in via di formazione.

In particolare crescono, a cavallo fra l'istituzionalismo e lo spontaneismo, alcune forme classiche di sistema politico internazionale che parevano del tutto escluse dal quadro delle opzioni, sia per motivi ideologici (nel confronto bipolare), sia per ragioni sistemiche (nell'organizzazione dell'ordine globale), quali sono quelle del modello egemonico o del modello autoritario.

Queste due forme di aggregazione sistemica, i cui potenziali leaders sono nel primo caso la Germania a Ovest e il Giappone a Est, nel secondo la Russia e la Cina, non hanno una configurazione globale, ma invece tendono a costituire dei 'poli' geopolitici ed economici - sia pure con una cospicua estensione territoriale e influenza politica o economica - che non aspirano all'egemonia planetaria.

Resta, per concludere, il modello più difficile da definire per la sua evanescenza normativa e organizzativa, ma molto potente per la sua capacità di mobilitazione e aggregazione sistemica e, soprattutto, per il suo profondo radicamento storico nel mondo delle culture politiche e delle civiltà etniche. Questo sistema potenziale, più ideale e ideologico che non territoriale, che si sviluppa sui rottami e i frammenti dei sistemi organizzati e riconosciuti, spezzandone la logica e innestando fattori estranei al paradigma classico delle relazioni internazionali, può essere definito come modello 'virtuale'.

Un esempio di questa opportunità euristica è offerto, a nostro avviso, dalla proposta analitica di Samuel Huntington definita come teoria del conflitto delle civiltà, clash of civilizations, che tenta di individuare, attraverso l'esame di alcune aree di civilizzazione (o meglio di Kultur) che, tutto sommato, potrebbero rappresentare le principali zone omogenee del mondo alla fine della guerra fredda, i centri di gravità del mondo contemporaneo (v. Huntington, 1993 e 1996).

In altri termini si potrebbe creare, come forma di ricomposizione del sistema politico internazionale, una sovrapposizione di aree per la gran parte coincidenti in termini culturali e geopolitici, ma spesso anche non compatibili o differenziate. La costruzione di questi 'lucidi' sovrapposti sulla mappa del pianeta potrebbe dar luogo, geopoliticamente, alla realizzazione di aree forti, nel senso della loro compattezza culturale e al tempo stesso geopolitica, ma anche all'esistenza di aree deboli o incerte dove i temi di identificazione non sarebbero definiti nei dettagli. Si potrebbero quindi delineare aree di confine marginali, ovvero territori di sovrapposizione di aree di cultura diversa. In altri termini potrebbe essere impossibile individuare, solo attraverso le cosiddette civilizations, il vero network interattivo e la prevalenza dei flussi d'interdipendenza o comunicazione. Si porrebbe quindi ancora una volta il problema dei 'confini', delle linee divisorie fra aree della stessa civiltà, mentre si potrebbero altresì avere connotati simili fra aree diverse e lontane fra loro.

La virtualità dei modelli di sistema politico internazionale consiste, quindi, in senso generale, nella differenza o discrepanza fra 'potenza' e 'idea', fra cause monofattoriali (ideologie, fedi, missioni, o altro) e realtà polivalenti, di tipo politico-economico e militare.

In altri termini la virtualità dei modelli plurifattoriali opera attraverso lo sprigionamento di energia che deriva dai processi di rimozione collettiva della realtà e dall'attribuzione di valore e potere alle idee, alle ipotesi, alle leggi (il Nomos), alle istituzioni, alla memoria, al consenso, alle regole del gioco, alle illusioni, ai miti e ai simboli, e alle emozioni collettive (v. Smith, 1986).

Il modello virtuale si propone quindi di analizzare gli effetti che le utopie, gli equivoci, gli errori, le fedi esercitano sulla realtà concreta dei rapporti politici internazionali, e quindi il peso quantitativo che essi hanno nel trasformare la debolezza in forza, la fantasia in realtà e, viceversa, la stabilità in caos.In effetti i modelli di organizzazione più frequenti concepiti ed elaborati dall'uomo, sottostanti alla ricomposizione effettiva del sistema politico internazionale, sono in genere molto più ambiziosi e onnicomprensivi perché non giocano le carte della realtà delle relazioni internazionali, cioè quelle tradizionali della potenza, della forza, dell'equilibrio e della diplomazia. Giocano invece le carte segrete e immaginarie della propaganda e quindi dell'epopea, del mito globale, della totalità del futuro, della rigenerazione, del Götterdämmerung, della palingenesi, della paura e dell'illusione. Sono gli alfieri dell'ignoto, dell'esoterico e perfino del suicidio rituale, della Nuova Gerusalemme o della Gerusalemme Celeste in terra.

Dall'Impero universale degli Accadi nel terzo millennio a.C. fino ai Cinesi della dinastia Song, all'Impero di Roma e a quello occidentale - Sacro, Romano e poi Germanico - per arrivare alla rivoluzione mondiale e permanente dei comunisti, ovvero al 'Reich dei mille anni', dalla teocrazia implicita dei re taumaturghi, della monarchia universale e delle filosofiche 'repubbliche', fino alla Umma islamica, la virtualità nella politica globale è stata, fin dalle origini della storia, una costante della politica internazionale.Le relazioni internazionali, in questa prospettiva di trasformazione dell'interazione politica, possono diventare uno strumento interpretativo complesso, utile per leggere l'incerto e imprevedibile disegno della dinamica del reale. (V. anche Cooperazione economica internazionale; Diplomazia; Economia internazionale; Egemonia; Europeismo; Federalismo; Geopolitica; Guerra; Imperi; Integrazione politica; Liberismo; Organizzazioni internazionali; Pace; Pacifismo; Protezionismo; Strategici, studi).

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