Religione e società

L'Unificazione (2011)

Religione e società

Guido Formigoni

L’epoca della Restaurazione aveva visto all’opera su scala europea una tendenza a riscoprire i legami tra civiltà e religione, all’ombra della prevalente tradizione cristiana. Die Christenheit oder Europa (Cristianità o Europa): il titolo dell’operetta di Novalis del 1799 era stato ritenuto ampiamente un segno dei tempi. Naturalmente esistevano versioni diverse di questo nodo storico. La versione reazionaria del nesso «guelfo» tra religione e civiltà si imperniava sull’universalismo tradizionale della Santa Alleanza, rigidamente chiuso a sviluppi liberali o nazionali. Un’altra versione di questo nesso era invece aperta alle novità storiche, cercando di costruire un rapporto tra religione e civiltà, incentrato sul concetto di «popolo cristiano», che comprendesse le libertà moderne e il senso delle nazioni.

Il problema religioso nel Risorgimento

Nel caso italiano, da Alessandro Manzoni ad Antonio Rosmini, si posero le basi di una valorizzazione dell’Italia come «nazione cattolica» geneticamente fondata nel rapporto storico con la Santa Sede, interpretata da una Chiesa aperta all’auto-riforma religiosa e alla libertà morale delle coscienze. L’accelerazione politica di questo percorso era venuta soprattutto con il neoguelfismo di Vincenzo Gioberti, che negli anni Quaranta dell’Ottocento aveva sviluppato tale potente mito in un progetto politico-istituzionale specifico: una confederazione degli antichi Stati italiani – riformati in senso consultivo o costituzionale – sotto la guida simbolica del pontefice romano.

L’equivoco nato attorno al ruolo politico di Pio IX nel 1846-48, con l’immagine del «papa liberale» sorta dopo la sua elezione, sembrò rendere attuale la proposta giobertiana. Il papa era effettivamente simpatizzante per il moto nazionale, ma molto lontano sia dall’accettare il neoguelfismo, sia soprattutto da posizioni liberali: aveva piuttosto in mente moderatissime riforme amministrative. Era però teso a farsi benvolere e quindi concesse uno Statuto e fece altre mosse che potevano apparire molto più avanzate delle sue reali intenzioni. Nel febbraio del 1848, prese ancora posizioni italiane, a sfondo chiaramente neoguelfo, esclamando: «Benedite, dunque, o grande Iddio, l’Italia, e conservatele questo dono, il più prezioso di tutti, la fede!» (cit. in Aubert 1969, pp. 53-54). Nel mentre, soprattutto in gran parte del Nord, preti e seminaristi sposavano in gran numero la causa della rivoluzione, che nel caso del Lombardo-Veneto identificavano con la liberazione della Chiesa dal giogo giurisdizionalista del governo imperiale asburgico. Non a caso, circolarono in quei mesi bandiere tricolori con la scritta: «Viva l’Italia – Viva Pio IX». Le illusioni caddero però rapidamente: ai primi cenni di una guerra «italiana» e rivoluzionaria alla cattolicissima Austria, Pio IX, con il proclama del 29 aprile del 1848, ritirò l’apporto dello Stato della Chiesa. E la radicalizzazione repubblicana della rivoluzione nei suoi domini doveva spaventarlo ulteriormente rispetto alle vere intenzioni dei patrioti.

La sconfitta politica del neoguelfismo creava per molti protagonisti anche un problema di natura spirituale. Il movimento nazionale nel suo complesso approfondiva il suo distacco dal mondo religioso, crescendo il numero di coloro che ritenevano impossibile compiere l’Unità in accordo con la Chiesa, e – parallelamente – la stessa Chiesa che viveva in Italia perdeva uno stimolo importante al confronto con la modernità, chiudendosi progressivamente in un ostile arroccamento. Si consumava il «vasto dramma spirituale» del Risorgimento, secondo l’espressione evocativa di Stefano Jacini. Ciò nonostante, la prima stagione cattolico-risorgimentale lasciò un’eredità culturale profonda e largamente irraggiata, estesa a una versione laicizzata delle istanze cattolico-liberali e cattolico-nazionali, che correva largamente soprattutto nel partito moderato unitario, secondo una logica separatista ma ispirata a logiche di positiva convivenza tra Stato e Chiesa.

Più ancora, correvano nel linguaggio risorgimentale metafore e concetti attinti dall’orizzonte del cristianesimo, per descrivere l’aspetto spirituale del movimento nazionale. La «religione della libertà» dei patrioti risorgimentali aveva insomma al suo cuore un’eredità cristiana, anche se naturalmente questo discorso poteva avere varianti diverse: in qualche caso si trattava di immaginare un cristianesimo depurato dal deteriore aspetto ecclesiastico e controriformistico, mentre in altri protagonisti si trattava di una rielaborazione profonda di modelli e linguaggi tradizionali in un contesto del tutto laico e civile, anzi profondamente critico verso ogni sopravvivenza cristiana.

Proprio mentre nella maggior parte degli Stati italiani restaurati il decennio degli anni Cinquanta dell’Ottocento vide accordi e politiche ecclesiastiche favorevoli alla Chiesa (concordato austriaco del 1855 per il Lombardo-Veneto, accordi del 1851 con la Toscana, politica moderata dei Borboni di Napoli), le vicende dello Stato sabaudo nel «decennio di preparazione» dovevano rendere la spaccatura sempre più marcata. Lo Statuto albertino aveva proclamato «la religione cattolica apostolica e romana» come «sola religione dello Stato», definendo «tollerati» gli altri culti. Dalla concessione della carta fondamentale, si apriva però rapidamente il percorso che doveva portare all’emancipazione e al riconoscimento di pari diritti civili ai membri delle minoranze religiose (dai valdesi agli ebrei), oltre che all’abolizione della censura ecclesiastica sulla stampa e alla laicizzazione dell’insegnamento con le leggi Boncompagni dell’ottobre 1848. Misure appoggiate dai cattolici liberali, ma osteggiate dai cattolici ultramontani. Nello stesso anno, fu anche soppressa la Compagnia di Gesù e sciolta la congregazione, diffusa in Savoia, delle Dame del Sacro Cuore.

Nel quadro costituzionale precariamente salvaguardato nel 1849 dal nuovo re Vittorio Emanuele II, la dialettica politica tra i liberali e la destra reazionaria ultramontana si inaspriva. Le moderate leggi Siccardi del 1850 riducevano antichi privilegi religiosi (tribunali speciali per gli ecclesiastici, diritto d’asilo, inalienabilità ed esenzione fiscale della proprietà religiosa). La legge sul matrimonio civile non passò solo per l’opposizione del re e del Senato. Ben più radicale – anche per la scelta di Cavour di appoggiarsi sulla sinistra anticlericale alla Camera – fu la legge del 1855 che abolì tutti gli ordini religiosi ritenuti privi di utilità sociale, conferendone i beni alla nuova Cassa ecclesiastica. La legge fu oggetto di un duro scontro parlamentare e civile, mentre Pio IX ruppe le relazioni diplomatiche con Torino.

Sotto il profilo della coscienza ecclesiale, peraltro, il papato della metà dell’Ottocento aveva continuato a rafforzare le sue caratteristiche di guida universale dei fedeli. Il «moto verso Roma» era ormai inarrestabile. La verticalizzazione interna alla Chiesa si proiettava anche nei giudizi cattolici sulla vita civile: Pio IX, dopo le vicende del 1848-49, accentuò il distacco da ogni ipotesi di conciliazione con le dinamiche nazional-liberali dell’epoca. Tra 1848 e 1855, in diversi istituti culturali, seminari e diocesi, si sviluppò una seria iniziativa epuratrice e uniformatrice in senso ultramontano. L’irrigidimento attorno alla difesa del potere temporale, sotto la guida abile anche se non lungimirante di un diplomatico come il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato dal 1849, divenne il cuore della nuova strategia del papato.

Comunque, il nascente intransigentismo cattolico non assunse un’ottica apertamente anti-nazionale. Anzi, la fondazione nel 1850 di quella che doveva diventare l’influentissima «Civiltà cattolica», da parte di un collegio di scrittori gesuiti, era avvenuta sotto il segno di una visione «altra» della nazione, guelfa e antiliberale. La divulgazione di queste idee nei racconti popolari come la Storia d’Italia di don Bosco (1856), insisteva sugli stessi stilemi. Il problema era come costruire tale identità nazionale: se con il papa o contro di lui.

I rapporti Stato-Chiesa nel 1859-61 e il testamento di Cavour

Nel periodo conclusivo delle lotte risorgimentali, ebbe una qualche fortuna nell’opinione cattolica il tentativo di rilanciare modelli federalisti a sfondo neoguelfo, agganciandosi ai motivi di carattere internazionale, che inducevano a vedere margini di flessibilità del processo nazionale. Si pensi al fatto che gli accordi di Plombières del 1858 tra Cavour e Napoleone III delineavano una prospettiva di rafforzamento dei Savoia, ma prevedevano al contempo la persistenza di un pluralismo statuale italiano e al suo interno dello Stato della Chiesa. Quando però la seconda guerra d’indipendenza mise in crisi gli assetti istituzionali nell’Italia centrale, le cose cominciarono a slittare su un piano inclinato. Pio IX fin dal giugno 1859 sposò con l’enciclica Qui nuper una posizione legittimista assoluta, che si concentrava sul rifiuto di abbandonare il modello di influenza sociale della religione garantita dall’autorità regia tradizionale.

Un aspetto di questo discorso era anche il rifiuto di accettare qualsiasi ridimensionamento del territorio degli Stati pontifici. Fin dal 1848 la necessità del potere temporale era stata motivata non solo con il ricorso al principio di legittimità, ma con l’esigenza di tutelare l’esercizio indipendente delle funzioni papali di capo della Chiesa universale (concetto inizialmente proposto da Bossuet nel Seicento). Il tema era però molto più delicato. Se infatti il problema era l’indipendenza spirituale del papa, sarebbe bastata una sovranità circoscritta, addirittura simbolica (come era stato consigliato caldamente anche dagli ambienti bonapartisti che avevano tutelato militarmente la Santa Sede). Traspariva piuttosto, nelle posizioni di difesa intransigente dell’assetto esistente, un altro e più radicale argomento: l’autorità temporale del papa era necessaria per testimoniare un modello di rapporti tra Chiesa e civiltà ispirato alla logica unificante della cristianità storica.

Sui rivoltosi del 1859 nello Stato pontificio vennero fulminate le scomuniche papali. La sottrazione delle Legazioni romagnole allo Stato della Chiesa fu il primo vulnus allo status quo. Nel settembre del 1860 la decisione piemontese di entrare in Umbria e nelle Marche, per controllare la situazione messa in moto dalla spedizione dei Mille al Sud (basandosi formalmente sulla protesta contro la costruzione di un esercito pontificio con volontari di vari paesi europei), provocò lo scontro armato di Castelfidardo e un nuovo peggioramento dei rapporti con Roma. Le due regioni vennero annesse al Regno d’Italia con nuovi plebisciti, nell’ottobre dello stesso anno.

Gli uomini del partito moderato che stavano guidando il completamento dell’Unità, notevolmente preoccupati di slittamenti repubblicani e rivoluzionari, in questo frangente non intendevano approfondire lo scontro con la Chiesa. Certo, era opportuno a loro parere ridurre al diritto comune l’organizzazione ecclesiastica togliendone i privilegi, come anche limitarne le basi economiche di potere nella società. Per questo furono rapidamente estese le leggi ecclesiastiche piemontesi ai territori annessi. Ma non si intendeva affatto costruire uno Stato del tutto svincolato da un riferimento religioso, soprattutto perché i moderati condividevano la convinzione della necessità della Chiesa come strumento di ordine nei rapporti con le masse popolari.

Lo stesso Cavour veniva da posizioni teoriche nettamente separatiste, influenzate dalle teorie degli ambienti protestanti ginevrini assimilate durante la formazione, come quelle del pastore Alexandre Vinet. Dopo il 1859, però, elaborò progressivamente un approccio alla questione dei rapporti con la Chiesa molto prudente, ispirato a una volontà di conciliazione, rigoroso sulla libertà religiosa ma non escludendo di trovare vere e proprie intese con la Santa Sede. L’11 ottobre del 1860 tenne un discorso alla Camera in cui faceva propria l’idea mazziniana e radicale di Roma capitale, cercando contemporaneamente di offrire una sponda a un approccio cattolico-liberale alla questione ecclesiastica: la libertà avrebbe a suo parere offerto grandi spazi di sviluppo al vero sentimento religioso. Nel novembre del 1860 Diomede Pantaleoni e l’abate Carlo Passaglia elaborarono d’intesa con Cavour un memorandum che fu fatto pervenire al cardinal Vincenzo Santucci, ispirato alla formula «libera Chiesa in libero Stato», che doveva restare famosa. Si proponeva uno scambio tra rinuncia ecclesiastica al potere temporale e rinuncia statale a ogni condizionamento della vita ecclesiale (diritti antichi di nomina; placet ed exequatur, cioè prerogative regie di riconoscere gli effetti civili delle deliberazioni ecclesiastiche, fondamentali soprattutto per la gestione del patrimonio parrocchiale e diocesano). Oltrepassando il modello concordatario, sarebbero cadute tutte le eredità giuseppiniste e regaliste. Un trattato bilaterale avrebbe garantito le prerogative sovrane del pontefice e l’indipendenza della Santa Sede, oltre a un congruo assetto proprietario.

La ricerca di interlocutori disponibili si accompagnava al rifiuto di apparire troppo deboli: quindi Cavour non volle ammorbidire le posizioni assunte sugli ordini religiosi o sugli ecclesiastici fatti oggetto di misure giudiziarie perché recalcitranti (una sessantina erano solo i vescovi delle regioni meridionali arrestati, processati e confinati dopo l’impresa garibaldina, mentre anche nove cardinali incorsero nei rigori di polizia e magistratura, per cause che a posteriori possono sembrare futili). La risposta papale fu comunque di netta chiusura. Il 18 marzo 1861, un giorno dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Pio IX pronunciò l’allocuzione Jamdudum cernimus, in cui respingeva le proposte italiane, ribadendo la concezione tradizionale «dell’alleanza tra sacerdozio e imperio», messa in discussione dal rifiuto di negoziati concordatari e dall’usurpazione già compiuta di proprietà ecclesiastiche e territori papali.

A questo punto, le cose erano sostanzialmente fatte. Cavour colse l’occasione per tenere un paio di grandi discorsi alla Camera, che rappresentarono – soprattutto per la sua successiva inaspettata scomparsa, avvenuta dopo soli tre mesi – una sorta di testamento. Mentre nel primo, del 25 marzo, evocava ascendenti nel pensiero antipapale tardomedievale e moderno per giustificare la volontà di mettere fine al potere temporale, in quello del 27 marzo esprimeva con la massima lucidità e forza retorica la visione generale di un rapporto tra Chiesa e Stato regolato dalla libertà: «Santo padre, il potere temporale non è più per voi garanzia di indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che invano avete chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche» (cit. in Scoppola 1967, p. 13).

Naturalmente, nella difficoltà di parlare alla Santa Sede se non con un auspicio rivolto al futuro, Cavour intendeva in questo modo compiere una cospicua operazione politica nel breve periodo: ottenere il consenso di quella parte dell’opinione cattolica moderata aperta alla libertà, che si era coinvolta nel percorso risorgimentale, e che ora avrebbe potuto rafforzare la base di un grande partito liberale conservatore nazionale, che andasse oltre l’angustia del moderatismo risorgimentale. Tale prospettiva doveva però incontrare molteplici difficoltà.

Il nuovo stato di cose politico accelerò per forza di cose anche alcuni processi di movimento nella Chiesa in Italia. Non dimentichiamo infatti che non esisteva propriamente niente di nazionale in una struttura ecclesiastica italiana singolarmente frammentata. L’episcopato era caratterizzato da un orizzonte regionale ristretto (parliamo di regioni in senso storico, anche se in quell’epoca erano cadute in desuetudine le forme di coordinamento locale che saranno ristabilite, con le «regioni conciliari», solo nel 1889 da Leone XIII), più angusto anche rispetto ai vecchi Stati. Parecchi vescovi erano stati eletti con l’appoggio o l’indicazione dei governi, nell’ambito degli accordi concordatari precedenti e quindi è naturale che nel periodo rivoluzionario tenessero posizioni piuttosto lealiste. Come è anche naturale che i vescovi piemontesi e liguri (ma anche lombardi), quando criticavano le mosse del governo sabaudo, dal 1859 in poi, lo facessero sempre con abbondanti profferte di fedeltà dinastica.

Non solo: esisteva una controversia aperta e significativa tra il crescente centralismo romano e la fioritura di varie scuole culturali ecclesiastiche locali, tutte più o meno innervate di fermenti riformatori e liberali, gelose della propria storica autonomia. Si pensi all’ontologismo e al giobertismo torinese, alla tradizione scientifica del seminario patavino, al rosminianesimo a Milano e ad altri casi toscani o napoletani. In questo senso, l’unificazione politica poneva nuove esigenze di coordinamento alla positiva libertà di un pluralismo ecclesiologico vivace.

«Né eletti né elettori»: la crescita della polemica antistatale

La nuova classe dirigente liberale cercò quindi senza grandi risultati una legittimazione della costruzione nazionale anche sul terreno religioso, nella tradizionale volontà di utilizzare il cristianesimo come sostegno morale dell’autorità politica. La richiesta da parte delle nuove autorità di celebrazioni religiose dell’unità nazionale diede luogo a forti tensioni: l’intransigente vicario della diocesi milanese, monsignor Carlo Caccia Dominioni, fu costretto a fuggire a furor di popolo, rifugiandosi a Cornate d’Adda, perché si rifiutò di cantare il Te Deum in Duomo il 2 giugno del 1861 per celebrare l’avvenuta unificazione. E non si trattò di un caso isolato. La celebrazione contigua della festa sabaudo-patriottica dello Statuto (che si celebrava la prima domenica di giugno) e della tradizionale festa religiosa del Corpus Domini creò parecchie tensioni: per molti anni continuò a esprimersi un vero e proprio boicottaggio organizzato dei cattolici intransigenti nei confronti di questa festa nazionale.

Al di sotto della superficie, comunque, si insinuava negli ambienti nazionali più radicali la tentazione di sacralizzare la «religione della patria», in funzione sostitutiva della religione cattolica, autoesclusasi dalla costruzione risorgimentale. Già Bettino Ricasoli, il primo successore di Cavour, spirito profondamente religioso, aveva addirittura alluso alla possibilità che lo Stato divenisse sostenitore di una riforma democratica della Chiesa. Ma personaggi come i fratelli Spaventa o Quintino Sella andavano oltre queste posizioni. Il tentativo di una «pedagogia politica» nazionale degli italiani, nei primi anni postrisorgimentali, non era privo di difficoltà. Bastava poco, però, agli occhi dei cattolici per polemizzare contro i tentativi di costruzione di miti laici attorno allo Stato unitario.

La linea prevalente nel nuovo faticoso orizzonte cattolico nazionale fu quindi progressivamente quella di una sdegnata negazione di legittimità al nuovo Stato, in attesa del suo ineluttabile crollo. Sulle colonne dell’«Armonia della religione con la civiltà» – foglio divenuto radicalmente intransigente dopo una nascita molto diversa – don Giacomo Margotti lanciò, già in occasione delle prime elezioni «italiane» dell’inizio del 1861, il motto «né eletti né elettori», sull’onda delle sconfortanti vicende della presenza cattolica nel Parlamento subalpino nel decennio precedente (nel 1857 molte elezioni di cattolici militanti e di preti erano state fatte annullare da ricorsi governativi basati sull’accusa di aver utilizzato «armi spirituali» nella battaglia politica). Nel 1864 venne fondato a Milano un nuovo battagliero giornale di questa impostazione, «L’Osservatore cattolico», che doveva essere diretto, qualche anno dopo, dal vivace polemista don Davide Albertario. Lo stesso anno apparve nel Veneto asburgico il periodico «Letture cattoliche», intransigentemente anti-liberale quanto critico del governo austriaco, ad opera di un manipolo di giovani tra cui Giuseppe Sacchetti e Pietro Balan, sotto la guida del gesuita Bartolomeo Sandri. La «Civiltà cattolica» sosteneva apertamente fin dal 1863 che la «vera nazione» cattolica era al momento «tradita ed oppressa dai partiti» (cit. in Candeloro 1973, p. 115) e dal 1865 si schierò per boicottare le elezioni. L’astensionismo elettorale divenne quindi la bandiera di questi gruppi radicali. Certo, è difficile dire quanto del cospicuo astensionismo (nelle elezioni del 1861 votò il 57,2% dei 418.696 aventi diritto) fosse legato a questa protesta. Ma la stampa clericale se ne appropriò rapidamente.

Bisogna però notare che la Santa Sede non prese subito posizioni ufficiali su questo punto. Anzi, su richiesta di alcuni vescovi, la Sacra Penitenzieria (il tribunale supremo della Santa Sede) fece sapere che l’elezione a deputato di fedeli cattolici poteva essere ammessa, se il giuramento fosse completato facendo sentire a due testimoni le parole «salve le leggi divine ed ecclesiastiche». Il compromesso non impedì vivaci polemiche.

Dopo aver partecipato al congresso cattolico di Malines, in Belgio, del 1863, un gruppo di laici cattolici italiani decise che era giunto il momento di passare all’azione. Non si poteva più affidare ai soli vescovi la difesa degli interessi cattolici, occorreva organizzarsi nei nuovi spazi civili (lo aveva sostenuto lucidamente già nel 1848 il giovane gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio, fratello del più noto uomo politico e scrittore Massimo). Una tra le prime esperienze fu l’Associazione cattolica italiana per la difesa della libertà della Chiesa fondata a Bologna nel 1864 dagli avvocati Giulio Cesare Fangarezzi e Giambattista Casoni. Attenta a non presentarsi come legittimista, assunse però un carattere politico battagliero che la fece entrare nel mirino delle autorità di polizia (dove si stavano stringendo i freni dei controlli, in previsione della guerra all’Austria), tanto che fu sciolta d’autorità all’inizio del 1866, utilizzando le norme della legge Crispi sul domicilio coatto.

Anche il brigantaggio nelle regioni meridionali venne ampiamente descritto nella stampa intransigente come uno spontaneo movimento legittimistico e cattolico contro il nuovo Stato rivoluzionario. Tuttavia, in questo vasto e sfrangiato movimento di sovversivismo sociale – che non si deve dimenticare come sia stato stroncato solo con una dura opera di occupazione militare proseguita per parecchi anni – confluiva una serie di motivi diversi, dall’azione di agenti legittimisti stranieri alle proteste contro i nuovi assetti fiscali, dalla reazione contadina contro i «galantuomini» alle battaglie sugli usi civici. In questo orizzonte, ci furono certamente anche preti che sostennero, giustificarono, a tratti incoraggiarono i «banditi». Ma pur con queste consapevolezze, appare difficile oggi accettare l’immagine di un compatto movimento ispirato a una moderna logica politica di difesa dell’identità cattolica tradizionale contro le novità moderne. Le figure più importanti dell’episcopato meridionale, ad esempio, come il cardinal Sisto Riario Sforza di Napoli o il cardinal Giuseppe Benedetto Dusmet di Catania, seppure inizialmente di sentimenti legittimisti, tennero una linea rigorosamente spirituale e magnanima, resistendo contro quelli che venivano ritenuti abusi del nuovo Stato, ma inducendo in fondo il clero e il popolo all’accettazione delle autorità costituite.

Il cattolicesimo nazionale e conciliatorista: l’appello passagliano

Del resto, negli anni dell’unificazione, si era sviluppato in varie regioni del paese un significativo movimento di clero «nazionale», su posizioni che erano al contempo conciliatoriste e filosabaude sul piano politico, anti-temporaliste e riformiste sul piano ecclesiale. Si trattava in buona parte dell’alone di influenza delle posizioni rosminiane, ma anche di più antiche istanze che affondavano le loro radici nell’illuminismo cristiano settecentesco. Figure di rilievo in questo senso furono per esempio il mantovano monsignor Luigi Martini, il cremonese monsignor Luigi Tosi, il milanese don Giulio Ratti presidente della Società ecclesiastica, il bellunese don Angelo Volpe coordinatore di un Santissimo sodalizio diffuso in tutto il Veneto, il ravennate don Eusebio Reali, oppure il domenicano napoletano Luigi Prota Giorleo fondatore di una Società emancipatrice del clero italiano. Non bisogna dimenticare che anche nella roccaforte della «Civiltà cattolica» stava maturando una crisi, con il ripensamento anti-temporalista di uno dei fondatori, padre Carlo Maria Curci.

L’episodio forse più noto della presenza civile di questo mondo fu la petizione rivolta nel 1862 a Pio IX dall’ex gesuita e teologo della Sapienza, Carlo Passaglia, che raccolse 8.943 adesioni di preti italiani (circa un 10% del totale) sulla richiesta di conciliare «la voce di religione, di pietà cattolica: viva il Papa!», con «la voce di patriottismo, e voce di nazionale indipendenza: viva Roma, metropoli del nuovo Regno» (cit. in Formigoni 2010, pp. 36-37). A parte questa esperienza, resta difficile quantificare esaustivamente il fenomeno del clero «nazionale», che a livello locale è stato ben studiato in alcuni casi, ma si trattò di movimenti assolutamente non irrilevanti. Sicuramente più ridotto fu invece il numero dei vescovi che si ispirarono a queste posizioni: nel 1869, il primo presidente della Corte di cassazione di Firenze, Paolo Onorato Vigliani segnalava in una lettera al presidente del Consiglio Luigi Federico Menabrea che si poteva contare soltanto su sette vescovi come «filogovernativi». Comunque, in molte parti del paese, la divisione e le frizioni tra clero intransigente e temporalista e clero conciliatorista e liberale continuarono a lungo negli anni successivi.

Le preoccupazioni di Pio IX e della Curia romana furono fortissime, come dimostrò la notevole stretta sul piano disciplinare che fu intrapresa dopo il 1860. Innumerevoli le condanne, le riduzioni allo stato laicale, le procedure disciplinari che vennero aperte dai nuovi vescovi intransigenti. Nel 1863 si condannarono esplicitamente le società «clerico-liberali» oltre a quelle «di mutuo soccorso, emancipatrici del clero italiano». Naturalmente il fondo del problema era il rischio che prendesse piede l’istanza di una chiesa «nazionale», che tentasse di strutturarsi in modo indipendente dalla Santa Sede, appoggiandosi al governo. Era in gioco il successo di tutto il movimento ultramontano, non solo una banale questione tattica, di rapporto con le nuove istituzioni politiche.

La cultura cattolico-liberale della prima parte dell’Ottocento mostrava del resto segnali di crisi proprio dopo il raggiungimento dell’Unità. Le sue istanze più rigorose di separatismo temperato, riformismo religioso, centralità della coscienza, convergenza tra fede e libertà, si appannavano anche in coloro che si presentavano come suoi eredi. Il conciliatorismo assumeva tratti sempre più prudenti sul piano religioso e più conservatori sul piano socio-politico, difendendo il luogo comune secondo cui la religione era indispensabile per sostenere l’ordine della società.

O meglio, mentre il gruppo dei cattolici liberali toscani e lombardi, cui facevano capo Manzoni (che, non dimentichiamo, aveva accettato la nomina a senatore del Regno) e Raffaello Lambruschini, conservava una certa autorevolezza e influenza sul piano letterario e culturale, non aveva però avuto la capacità di darsi sbocchi organizzativi e politici organici per costruire una posizione forte nel panorama unitario. Per cui la duplice tenaglia delle repressioni ecclesiastiche e dell’indifferentismo dei liberali (soprattutto della Sinistra, ma per la verità anche della Destra, se si eccettuano singoli individui) tolse progressivamente spazio al loro ruolo pubblico.

Nei primissimi anni postunitari continuarono a uscire alcuni periodici di segno cattolico-liberale, che però dovevano sfiorire rapidamente: si pensi ai milanesi «Il Conciliatore» e «Il Carroccio», ai torinesi «Il Mediatore» e «La Pace» (promossi dallo stesso Passaglia), ai genovesi «Annali cattolici» (nati nel 1863 sull’onda del congresso di Malines e delle posizioni di Montalembert). Quest’ultima testata si trasformò nel 1866 nella «Rivista universale», che apparve con il notissimo motto «cattolici col Papa, liberali con lo Statuto»: distinguere le due appartenenze, collocate su piani diversi, poteva permettere di ricollegarle nelle coscienze e nella vita civile. I documenti pontifici del 1863-64 – che incontreremo tra poco – dovevano togliere loro molto spazio e capacità di influenza.

Alcuni deputati al Parlamento (Vito D’Ondes Reggio, Cesare Cantù, Augusto Conti, Paris Salvago) continuavano a dichiararsi insieme «patrioti» e «cattolici», nel primo decennio post-unitario. Ma senza coesione particolare: il siciliano Vito D’Ondes Reggio, ad esempio, stava compiendo un’evoluzione, nel suo costituzionalismo federalista di simpatie liberali, che lo condusse ad attribuire sempre maggiore centralità alla difesa del potere temporale del papa. Era quindi difficile scorgere attorno a questo gruppetto il processo costitutivo di qualcosa di simile a un partito, come era auspicato, ad esempio, dal patrizio lombardo Stefano Jacini, il quale riteneva possibile superare il dissidio tra «paese reale» e «paese legale», creando un grande partito conservatore a base agraria, che accogliesse in un alveo nazionale anche la sensibilità cattolica.

Su questa linea si mosse il tentativo di mettere le basi di un partito «conservatore nazionale», che sarà però avviato praticamente dal manipolo di illustri personalità convenute in casa Campello solo qualche anno dopo, nel 1878-79, sfruttando le illusioni conciliatoriste suscitate dalla morte di Pio IX e dal cambio di pontificato. Ricalcavano linee analoghe anche la pluridecennale ricerca dell’austera rivista fiorentina «Rassegna nazionale», oppure l’itinerario personale di figure come Carlo Santucci. Questo conservatorismo nazionale a base cattolica conservava scarsi riferimenti diretti alla tradizione giobertiana, ma il suo clima ideale era il medesimo del conciliatorismo risorgimentale. L’affermazione politica della nazionalità rendeva per loro possibile far incontrare – su un terreno di rispetto delle istituzioni rappresentative – patria, religione e ordine sociale.

L’eredità del filone cattolico-liberale assumeva insomma una prospettiva ben diversa da quella del movimento cattolico ufficiale. Marginalizzato e criticato dai vertici ecclesiali, questo «sentire» tuttavia non scomparve: continuò a esprimersi in alcuni percorsi formativi dei seminari, in alcune impostazioni pastorali di vescovi diocesani (si pensi a figure importanti come Geremia Bonomelli o Alfonso Capecelatro), nelle riflessioni di uomini di cultura, in fermenti di riforma religiosa, caratteristicamente diffusi in ambienti sociali, professionali e intellettuali d’élite. Ci fu un’influente diaspora intellettuale e morale che da questi presupposti culturali giunse a interessare spezzoni della classe dirigente italiana a livello politico, sociale, economico: si pensi all’alta dirigenza burocratica, all’esercito o alla stessa imprenditoria borghese (con figure come Alessandro Rossi o Gaetano Marzotto).

Il «Sillabo» e la deriva pessimista del pontificato di Pio IX

Dopo il 1861, come abbiamo notato, l’indirizzo del pontificato di Pio IX divenne sempre più restrittivo e preoccupato, soprattutto per quella che veniva considerata una drammatica infiltrazione dei princìpi liberali nella Chiesa, che metteva a rischio contemporaneamente la sua autorità e la sua stessa universalità. Maturò proprio in quegli anni il proposito di rendere più solenne e sintetica la condanna di questi errori. Se ne parlava fin dal 1849, e qualcuno avrebbe voluto accompagnare questa iniziativa alla definizione del dogma dell’Immacolata concezione di Maria, nel 1854, ma non se ne era fatto niente. Un modello preciso fu fornito dalla pastorale del vescovo di Perpignan, monsignor Olympe Philippe Gerbet, che nel 1860 accompagnava un elenco di 85 proposizioni erronee.

Nel giugno 1862, un indirizzo dei vescovi giunti a Roma per la canonizzazione dei martiri giapponesi confermava a Pio IX la solidarietà dell’episcopato attorno al potere temporale, presentando tuttavia una versione «relativa» di questa necessità, collegata alla situazione dei tempi presenti. L’indirizzo raccolse progressivamente più di seicento firme, anche tra gli assenti (i vescovi italiani non avevano avuto il permesso del governo di recarsi a Roma), compresi molti esponenti dell’ala favorevole al cattolicesimo liberale. In risposta, l’allocuzione papale Maxima quidem del 9 giugno 1862 condannò nuovamente i princìpi liberali, mentre il papa rimise ai vescovi il progetto di «Sillabo», chiedendo pareri, che furono a quanto sappiamo per la maggior parte positivi. Una nuova commissione, il cui perno fu il cardinale Bilio, selezionò quindi un elenco più circoscritto di errori dagli stessi interventi papali precedenti. La pubblicazione slittò alla fine del 1864, dopo la radicalizzazione del discorso cattolico-liberale di Montalembert, al congresso di Malines del 1863 e quella Convenzione di settembre che sembrò allentare la minaccia su Roma.

Il «Sillabo» fu così collegato a una enciclica, la Quanta cura (8 dicembre 1864), che riassumeva con parole forti le condanne di razionalismo, naturalismo, utilitarismo, socialismo. A cascata, oltre che il gallicanesimo, venivano condannate tutte le opzioni che chiedessero di sganciare la sfera pubblica dalla verità religiosa: la libertà di culto, la laicizzazione della società. L’enciclica si completava appunto con un Syllabus di 80 proposizioni erronee, la cui conclusione non poteva essere più chiara, condannando la tesi secondo cui «Il romano pontefice può e deve con il progresso, con il liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e a conciliazione» (cit. in Aubert 1969, p. 398).

Naturalmente questo testo, tra i più enfatici del magistero papale, non poteva che suscitare un enorme scalpore, deprimendo tutte le posizioni favorevoli al dialogo e ringalluzzendo invece specularmente sia gli intransigenti cattolici che gli anticlericali più rigorosi. Era il simbolo di un definitivo arroccamento del pontificato. E non riuscì a ridurre tale impressione il largo successo di un’interpretazione minimalista dell’enciclica, offerta da monsignor Dupanloup, vescovo di Orléans, che introduceva la famosa distinzione tra «tesi» e «ipotesi» (cioè tra scelte di principio e condizioni di fatto, che avrebbero anche potuto chiedere accomodamenti).

Parallelamente, il papa avviò a fine 1864 il progetto di convocare un nuovo concilio. Doveva essere in qualche modo il completamento solenne di un’opera di restaurazione e definizione dottrinale della resistenza cattolica agli errori moderni. Nelle solenni feste per l’anniversario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo del 1867 il progetto fu annunziato ufficialmente. La preparazione fu guidata da una scuola teologica romana a carattere internazionale, segnata da un forte approccio intellettualistico, mentre tra i teologi europei furono coinvolti quasi solo esponenti ultramontani. I lavori preparatori puntavano quindi alla riaffermazione della centralità della Chiesa, nella sua dimensione giuridico-istituzionale, come supremo motivo di credibilità dell’annuncio cristiano.

Il conflitto politico-religioso, a valle di questo arroccamento, non poteva che crescere. Del resto, non è un caso se nel 1864 ben 108 sedi episcopali su 225 risultavano formalmente vacanti perché il governo non aveva concesso l’exequatur a vescovi nominati da Roma, in quanto ritenuti inaffidabili per gli equilibri del nuovo Stato. Nella primavera del 1865, lo stesso papa cercò un canale di dialogo su tale questione, sollecitando una missione del governo italiano per trovare un modus vivendi sul piano religioso: ma l’invio da parte del governo di Firenze di Saverio Vegezzi fu sabotato parallelamente dalla sinistra anticlericale e dalle componenti reazionarie della Curia romana.

Pio IX, a ulteriore rafforzamento pratico di queste posizioni, cominciò una politica di nomine ecclesiastiche ispirate a criteri radicali. Pur tendendo a elevare al soglio episcopale sacerdoti di indubbia pietà personale, affiancò a questa linea «religiosa» un’attenzione crescente alle loro posizioni teologico-culturali. In un primo tempo, questo orientamento non escluse la nomina di figure di orientamento anche sinceramente liberale. Una nuova missione politica italiana a Roma, condotta nel 1866-67 da Michelangelo Tonello, riuscì a superare le intransigenze curiali e politiche, approfittando soprattutto del clima di paura per la sconfitta dell’Austria a Sadowa, che apparve un duro colpo alla tradizione. Pio IX fu quindi soddisfatto per l’approvazione governativa di una trentina di nomine episcopali. Gli spostamenti di due prelati lealisti come monsignor Alessandro Riccardi di Netro e monsignor Luigi Nazari di Calabiana in sedi importanti come Torino e Milano furono significativi. Ma questa doveva rimanere l’ultima occasione di intesa.

Le nuove battaglie sulla questione romana (spedizione garibaldina e scontro di Mentana del 1867) e le contemporanee leggi sulla proprietà ecclesiastica peggiorarono definitivamente i rapporti. Non per caso, nel gennaio del 1868 la Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, alla domanda se fosse conveniente che i cattolici partecipassero alle elezioni politiche, rispose per la prima volta non expedit («non conviene»). Era una formula che doveva rimanere famosa, anche se espressa ancora come un giudizio di inopportunità prudenziale e non con significati ultimativi.

La soppressione delle congregazioni religiose e la liquidazione dell’asse ecclesiastico

L’inasprirsi dei rapporti governativi con il pontefice e le difficoltà nel trovare una via di intesa, rafforzarono le posizioni della Sinistra e le sue richieste di una politica ecclesiastica meno conciliante. Uno dei campi di lotta preferiti fu quello della libertà di associazione, soprattutto in rapporto agli istituti religiosi. La loro presenza sul territorio, vecchia spesso di secoli, il loro radicamento sociale, il rapporto stretto con la popolazione, li rendevano uno degli anelli principali di una catena di potere e di sudditanza che si riteneva di dover spezzare. Molti di loro, poi, disponendo di patrimoni cospicui e vistosi, richiamarono l’attenzione governativa, proprio mentre si allargava la crisi finanziaria dello Stato.

Del resto, si trattava di una questione aperta anche dal punto di vista pastorale: si discuteva molto tra cattolici sulle manchevolezze della vita religiosa, gli abusi, le condizioni intollerabili di molti piccoli conventi o di congregazioni che erano state sciolte nel periodo napoleonico e poi precariamente ricostituite. La vita comune e la spiritualità lasciavano spesso a desiderare, per non parlare della cultura teologica, mentre c’erano ancora molti religiosi non sacerdoti che vivevano una condizione ambigua tra la servitù e la professione. L’esigenza di una riforma era stata posta parecchie volte, anche da alcuni superiori generali degli antichi ordini, senza grandi risultati. Lo stesso Pio IX aveva nominato nel 1846, appena eletto, una commissione cardinalizia per sovrintendere alle situazioni più critiche.

Lotta politica, opinione diffusa nella stessa base ecclesiale e necessità di bilancio crearono così la miscela da cui prese vita l’azione legislativa, basata sul presupposto che gli enti morali non avessero la capacità di possedere beni se non attraverso la personalità giuridica loro concessa dallo Stato. La legge del 7 luglio 1866 toglieva il riconoscimento di ente morale alle congregazioni religiose, estendendo così a tutto il Regno le misure regaliste prese in Piemonte (senza più nemmeno il criterio precedente della distinzione tra vita attiva e contemplativa). Venivano soppresse le relative case e incamerati edifici e beni; ai membri delle comunità cancellate venivano riconosciuti i diritti civili e politici e una pensione annua; le monache potevano continuare a vivere nelle loro sedi, ma, se ridotte a sei per convento, potevano essere trasferite e concentrate altrove a discrezione del governo, che si riservava tale facoltà anche per il futuro. Fu molto importante nell’approvazione della legge la pressione delle necessità finanziarie endemiche – l’obiettivo del «pareggio del bilancio» era ritenuto dalla Destra una necessaria patente di legittimità del nuovo Stato – che erano state drammaticamente peggiorate dalla terza guerra d’indipendenza.

Il successivo governo Ricasoli presentò quindi nel gennaio 1867 un progetto di legge Borgatti-Scialoja sulla «libertà della Chiesa e la liquidazione dell’asse ecclesiastico», che mirava a delineare una rinuncia statale all’eredità giurisdizionalista, collegata all’attribuzione alla Chiesa di ampia libertà, una volta che essa stessa avesse mobilizzato il suo capitale immobiliare, vendendolo e utilizzando il ricavato per le esigenze del clero (dopo aver pagato una tassa allo Stato). Tale progetto coerentemente separatista fu però sabotato dalla convergente opposizione della Chiesa e delle componenti liberali che non volevano perdere il controllo sull’organizzazione ecclesiastica.

Ad arrivare allo scontro aperto fu quindi il secondo gabinetto Rattazzi, facendo approvare la legge 15 agosto 1867, sull’incameramento dell’asse ecclesiastico esteso a tutti gli enti «secolari» tranne la parrocchia (ma comprese le cosiddette «chiese ricettizie», comunità di preti che al Sud spesso surrogavano un tessuto parrocchiale molto blando). Rispetto alle parrocchie, fu istituito un Fondo per il culto che forniva il «supplemento di congrua» ai soli parroci in cura d’anime che non avessero rendite sufficienti dal beneficio parrocchiale: era un riconoscimento della funzione sociale del clero, ma anche un tentativo politico di ottenerne il consenso, in chiave di riduzione dell’influenza accentratrice di Roma.

La legislazione eversiva sarà poi completata nel 1873 con le norme relative alla provincia romana di recente annessione, che comprensibilmente erano più complesse, dato che vi insistevano sedi di congregazioni religiose a carattere internazionale. Si fece quindi una deroga per le case generalizie che guidavano religiosi residenti anche all’estero, permettendo al solo superiore in carica di restare nei conventi. Esclusi da questa clausola furono esplicitamente i gesuiti, che quindi dovettero lasciare la sede storica del Gesù. Ma la Compagnia, per la farraginosità della legislazione sedimentata nel periodo risorgimentale, non era esclusa in tutte le regioni d’Italia e quindi poté lentamente riformarsi, con piccoli gruppi di religiosi che abitavano in residenze private.

Molti stabili dei monasteri soppressi vennero incamerati dagli enti locali e dal demanio dello Stato, con i loro patrimoni culturali e artistici. L’obiettivo delle leggi di eversione era soprattutto quello di attuare una cospicua privatizzazione di proprietà terriere e immobiliari: alcune stime hanno individuato nella manomorta ecclesiastica circa un sesto delle terre coltivabili, quindi una quota assolutamente significativa. Il modo in cui fu attuata l’eversione e la messa sul mercato (che durò parecchi anni) favorì peraltro la classe dei possidenti, i funzionari dello Stato e l’alta borghesia, poiché era previsto che «i beni nazionali» andassero venduti soprattutto a possessori di titoli del debito pubblico, mentre la clausola dei «piccoli lotti» di vendita fu spesso aggirata. Insomma, ci fu solo parziale movimentazione tecnologica e produttiva di questi beni, che – soprattutto al Sud – andarono in parte a rimpinguare il latifondo e ad accentuare lo sfruttamento delle plebi agrarie.

Naturalmente, al fondo di queste misure stava una questione più complessa: la persistenza stessa della possibilità di organizzare e mantenere congregazioni di tipo religioso. Se da una parte esisteva il principio della libertà di associazione, dall’altra le componenti anticlericali della classe dirigente facevano leva sulla caratteristica pericolosamente sovversiva di questi organismi, in quanto soggetta a logiche estranee all’individualismo liberale divenuto regola di Stato, per chieder la loro completa interdizione. Il risultato di questa dialettica fu alla fine una sorta di compromesso, che tolse agli istituti di vita consacrata ogni forma di riconoscimento giuridico e quindi di ricchezza e influenza sociale, ma permise loro di sopravvivere.

La crisi fu forte: un’inchiesta del 1879 metterà in luce che dal punto di vista numerico le case monastiche soppresse dal 1855 erano state complessivamente 4.056, con 57.492 membri coinvolti. I maggiori ordini storici furono in qualche caso dispersi, oppure conservarono pochissime case. I dati ufficiali dei censimenti (peraltro non sempre ritenuti attendibili dagli studiosi su materie così ingarbugliate) videro il numero dei religiosi calare drasticamente nel primo ventennio post-unitario: da 30.262 frati e 42.664 monache del 1861, scendiamo rispettivamente a 7.191 e 27.172.

Ma proprio dopo questi passaggi critici, si aprì un periodo di rilancio e rinnovamento della vita religiosa. Da una parte, alcuni monasteri di vita contemplativa femminile sopravvissero, perché le clausole della legislazione lo permettevano, una volta spogliati dai patrimoni, a condizione che non si facessero più reclutamenti di novizie. Più difficile fu per gli ordini maschili: in qualche caso le congregazioni soppresse ottennero la possibilità di rimanere come custodi di abbazie storiche riconosciute di importanza monumentale (Montecassino, Santa Scolastica, la Certosa di Pavia, ma una transazione fu raggiunta anche per i benedettini di San Paolo fuori le mura di Roma). In altri casi, ricorrendo a sotterfugi e prestanomi le comunità poterono ricomprare le case messe all’asta o riacquistarle dai primi acquirenti (magari parecchi anni dopo i fatti), oppure ricostituirsi attorno a chiese rimaste aperte al culto. Questa nuova condizione favorì spesso un’autoriforma dello zelo religioso.

Si verificarono anche numerose nuove fondazioni di congregazioni dedite a impegni innovativi nel campo dell’istruzione e dell’assistenza, ma anche nel campo contemplativo. Molte di loro si adeguarono rapidamente al carattere privatistico richiesto dalle nuove norme, organizzandosi come libere associazioni, il cui patrimonio veniva via via intestato ai fondatori o ai responsabili pro tempore (è il caso dei salesiani di don Bosco, le cui costituzioni furono approvate nel 1869 e che si diffusero rapidamente con il loro modello educativo positivo e aperto nei confronti dei giovani delle classi popolari) oppure a una società a norma di diritto civile (fu questa la scelta del nuovo Pontificio istituto missioni estere di Milano) per aggirare i divieti.

Religiosità popolare e nuovi modelli di associazionismo laicale: la Società della gioventù cattolica

Sembra comunque di poter notare che non ci fossero particolari modificazioni nella pratica religiosa e nelle condizioni della pietà popolare a causa degli sconvolgimenti politici dell’unificazione. La maggioranza del popolo comune appariva tendenzialmente ancora molto vicina alla tradizione religiosa, seppur con una varietà di pratiche di pietà, talvolta lontane dalla purezza religiosa della riforma cattolica.

Certo, esistevano ormai alcune aree di indifferenza, di incredulità e di ateismo militante, ma oltre che nelle classi colte (dove avevano un rispettabile ruolo), erano diffuse soltanto in ristretti ambienti artigiani o piccolo-borghesi prevalentemente cittadini. In questi ambiti, è stato notato, gli anni attorno all’Unità e alle grandi polemiche nei rapporti del Risorgimento con la religione e lo Stato della Chiesa costituirono un passaggio abbastanza significativo. Nella prima parte del secolo, spesso la polemica contro la Chiesa e i suoi ritardi era svolta in un orizzonte religioso, per cui si avevano manifestazioni di anticlericalismo cristiano, oppure al massimo ispirato a una religione umanizzata del popolo (come nel caso mazziniano). Dopo le fratture e contraddizioni degli anni 1866-70, si manifestò un’«evoluzione dell’anticlericalismo in senso antireligioso» (Scoppola 1973, p. 246). Contribuirono in questa direzione la prima diffusione del positivismo, la crescita dell’influenza delle logge massoniche (organizzatesi a livello nazionale con l’assemblea costituente del Grande Oriente d’Italia del 1864), ma anche l’evoluzione del repubblicanesimo e il nuovo radicalismo di Felice Cavallotti. Si moltiplicarono le società del libero pensiero, nel cui ambito prese piede addirittura l’idea di un «anticoncilio», convocato a Napoli nel 1869.

Le plebi rurali rimanevano invece largamente ancorate alla tradizione, immerse in una continuità dove la rottura sociale della tradizione di cristianità era ancora di là da iniziarsi. E la vicinanza delle strutture capillari della Chiesa a questi esclusi dalla storia era ancora indubbia. Le forme di tale pastorale non erano né lineari né identiche in tutto il paese. I circa 80-90.000 preti secolari non sempre erano impegnati nella cura d’anime. Anzi, la molteplicità delle forme di organizzazione religiosa sconfinava nei personalismi e spesso negli abusi privatistici del ministero. Molti preti campavano come precettori di famiglie nobili o come maestri, mentre in altri casi la possibilità di godere di ricchi benefici attirava figure di preti non certo disinteressati, con vocazioni malcerte. Nel Sud, ad esempio, la struttura tridentina della parrocchia e del seminario si era diffusa con grandi difficoltà e lentezze. In molte località i seminari costituivano quasi l’unica forma di istruzione diffusa post-elementare (tanto che venivano frequentati da ragazzi dei ceti medio-alti che non avevano nessuna intenzione di abbracciare la vocazione ecclesiastica). In tutta Italia esisteva ancora la pratica del chiericato esterno, con seminaristi che vivevano in famiglia, fuori da ogni controllo e assiduità spirituale. Le piccole diocesi non avevano spesso personale sufficiente per garantire studi adeguati in seminario (e non si pensava ancora a seminari interdiocesani).

In questo quadro incerto e complesso, la linea del pontificato intese applicare il modello ultramontano, senza un piano unico e rigoroso, ma cercando di appoggiarsi a nuove figure episcopali per dar forza a una migliore selezione del clero e a una maggiore disciplina (uscendo anche dai vincoli delle intromissioni statali nelle beghe ecclesiastiche). Un periodo di formazione presso le istituzioni romane diede al clero maggiore uniformità. La stessa soppressione delle congregazioni religiose favorì la concentrazione sul tessuto parrocchiale di una struttura ecclesiastica più libera da assilli materiali e incentrata sui compiti pastorali, sacramentali e liturgici.

Non sempre le misure riformatrici furono efficaci, ma ciò nonostante la vicinanza del clero alle popolazioni si rafforzò, assumendo il carattere di una predicazione e di una pastorale che tentava di motivare il significato religioso della vita, ma soprattutto di confermare una traduzione morale spicciola dell’insegnamento evangelico. Negli almanacchi, nelle raccolte di omelie o nei questionari preparatori delle visite pastorali, l’accento cadeva spesso sulla dimensione delle virtù e dei vizi, più che sulla figura del Cristo o sulla parola dei Vangeli. Anche se poi la morale era spesso vissuta in una chiave più blanda rispetto all’eredità giansenista. La pietà suggerita e praticata era spesso calda ed esteriore, con una larga diffusione del culto mariano e del riferimento al Sacro Cuore (che aveva un aspetto mistico-sentimentale e uno pubblico e battagliero), contemplando anche una frequenza elevata ai sacramenti e particolarmente una ripresa del riferimento eucaristico alla figura di Cristo presente nel tempo. Non mancarono di riaffermarsi o di crearsi ex novo centri di devozioni, luoghi di pellegrinaggio, santuari, ambiti di aggregazione comunitaria. Si pensi al nuovo ruolo assunto dal Santuario di Loreto, posto direttamente sotto la protezione del re e teatro di un non semplice ma significativo percorso di simbiosi tra Chiesa e monarchia.

Lo stesso pontefice si compiaceva per il «fervore delle opere buone» e «l’universale frequenza ai sacramenti» (cit. in Camaiani 1973, p. 79), nonostante le polemiche dei cattolici sulla dilagante immoralità causata dalle leggi laiciste del nuovo Stato. Le durissime polemiche contro la nequizia dei tempi affondavano le proprie origini quindi non tanto in un’analisi della realtà, ma nella riproposizione di un modello, secondo cui non sarebbe stata possibile la fioritura del cristianesimo senza la continuazione di un assetto civile ispirato alla centralità autorevole della religione nella vita pubblica. Queste posizioni dovevano far auspicare il crollo della nuova sperimentazione istituzionale, ma parallelamente indurre all’organizzazione e alla mobilitazione dei gruppi intransigenti, per cercare di sfruttare i nuovi margini di libertà al fine di combattere attivamente in nome dei propri princìpi.

Le prospettive del laicato cattolico nel fervore dei dibattiti dell’epoca erano quindi segnate da una condizione contraddittoria. Da una parte infatti il processo di laicizzazione della società e le difficoltà incontrate dall’istituzione ecclesiastica avevano aperto uno spazio notevole per il laicato cattolico, che assumeva potenzialmente un compito più importante rispetto al tradizionale ruolo di «popolo fedele»: quello di difendere la fede e la Chiesa nel campo aperto dalle libertà moderne. Dall’altro lato, però, proprio la reazione a questi fenomeni aveva causato un certo irrigidimento ecclesiologico, con la riaffermazione di motivi di autoritarismo gerarchico. Pio IX aveva espresso in più occasioni la preoccupazione che i laici potessero «rovesciare in senso democratico la tradizionale struttura ecclesiastica» (cit. in Martina 1969, p. 347).

Per cui ci fu prudenza, ma anche moltiplicarsi di iniziative varie. Tra le più solide, fu un’associazione nata in ambito giovanile, la Società della gioventù cattolica italiana (Sgci), promossa da due giovani animatori di circoli cattolici cittadini: il viterbese Mario Fani (scomparso giovanissimo di lì a poco) e il bolognese Giovanni Acquaderni, che divenne il presidente del nuovo organismo e rivestì per molti anni un ruolo centrale nel movimento cattolico organizzato. Sorta tra 1867 e 1868, la società poco per volta si allargò nel Veneto e poi in diverse regioni italiane, con la fondazione di vari circoli parrocchiali o cittadini (a Padova da parte di Giuseppe Sacchetti, a Venezia attorno all’avvocato Giovanni Battista Paganuzzi): dopo pochi anni erano già una settantina. Essi erano collegati con una struttura federativa da un Consiglio superiore eletto democraticamente, con sede a Bologna, dove risiedeva anche l’importante direttore spirituale, il gesuita padre Luigi Pincelli (il nesso tra i «due eserciti del papa», quello laicale e quello religioso, doveva rimanere forte anche in seguito). Il nuovo organismo ottenne una nota di calda approvazione da parte di Pio IX, con il breve Dum filii Belial, che ne ufficializzava lo Statuto.

Il carattere intransigente della nuova Società era indubbio. Note caratteristiche del programma erano la strenua difesa dei diritti del papa e del potere temporale (presto tramutata in protesta per la sua soppressione), la lotta contro la massoneria e le altre manifestazioni di anticlericalismo, mentre l’ostilità al governo e a casa Savoia era percepibile. Venivano però sottolineati gli aspetti più nettamente religiosi dell’aggregazione, piuttosto che quelli legati alla polemica politica contingente. La forma aggregativa del «circolo» era del resto una modalità usuale per i giovani della classe abbiente e colta dell’epoca, e non dava nell’occhio come possibile cellula politica. Ogni circolo doveva dotarsi di quattro commissioni, specializzate rispetto ai compiti fondamentali della Società: la stampa, l’Obolo di San Pietro (la nuova forma per rilanciare la raccolta di fondi per il sostentamento materiale della Santa Sede), il culto e l’istruzione religiosa. L’intransigentismo si manifestava all’interno di un programma di formazione religiosa e civile della gioventù. La Società si proponeva infatti di stimolare la crescita personale di laici convinti di essere «cattolici di professione» (l’espressione è di Acquaderni 1977, p. 83), consapevoli cioè della necessità di una forte fede personale, nutrita di una conoscenza dottrinale qualificata ed espressa attraverso una sottolineatura decisa della dimensione pubblica della fede e dell’appartenenza ecclesiale (si pensi a gesti come i pellegrinaggi, le petizioni o le processioni). Il motto sociale, rimasto poi famoso, recitava: «preghiera, azione, sacrificio».

Comunità ebraiche e chiese riformate nel nuovo quadro giuridico

L’emancipazione e la parificazione delle minoranze religiose, il riconoscimento della loro libertà di culto e dei loro diritti civili furono tratti significativi del nuovo orizzonte unitario liberale, sull’onda delle decisioni già ricordate, assunte nel Regno subalpino. Le nuove condizioni giuridiche furono all’origine di evoluzioni significative interne a questi mondi, come nei loro rapporti con il dominante cattolicesimo.

Secondo il censimento del 1861 i protestanti in Italia erano 32.684, mentre dieci anni dopo si dichiararono tali 58.651 persone: un incremento modesto in assoluto, ma percentualmente significativo. A parte i 15-20.000 valdesi delle storiche comunità delle valli del Pellice e del Chisone, si trattava di piccoli nuclei di origine straniera, oppure di evangelici di recente conversione, membri di un centinaio di chiese e chiesette, sparse lungo quasi tutta la penisola. Le due componenti rispondevano a logiche diverse: nel caso valdese, si trattava di chiese territoriali di battezzati, sopravvissute alle persecuzioni e all’emarginazione, che avevano un’organizzazione legata alla tradizione calvinista (concistori parrocchiali, sinodo, tavola). Nel 1860 i valdesi decisero di governare la diffusione di chiese anche fuori dalla loro tradizionale area di insediamento, fondando a Torino un Comitato di evangelizzazione, assieme a una stamperia e a una Scuola teologica. Qualche anno dopo, proprio per uscire dalla dimensione subalpina e sviluppare linguisticamente e culturalmente un nuovo orizzonte italiano nei pastori della Chiesa, le istituzioni furono spostate a Firenze (nel 1873 vi sarà aggiunta anche una rivista culturale, la «Rivista cristiana»).

Altri convertiti o stranieri residenti (si pensi alla vivace presenza di svizzeri nell’industria tessile del Nord) preferirono non aderire alle chiese valdesi e far nascere altri organismi. Tale effervescenza era frutto tipico della diffusione di tendenze risalenti al «risveglio» religioso protestante europeo della prima parte dell’Ottocento, con eredità pietiste e metodiste. Le nuove chiese radicalizzarono il modello della chiesa libera e del sacerdozio universale dei fedeli, senza particolari gerarchie, contrapponendo la comunità dei fervorosi all’esterno. In questi ambiti operarono figure come il conte fiorentino Piero Guicciardini o il salentino Bonaventura Mazzarella (che diverrà deputato dell’Estrema dal 1870 al 1882).

Il protestantesimo italiano era stato molto «nazionale» durante il Risorgimento. Il collegamento di questi entusiasmi con la rottura del moto nazionale verso il papa e la Chiesa cattolica era nei fatti. Ci si aspettava dai rivolgimenti storici una grande occasione di risveglio anche spirituale, di rottura del conformismo tradizionale delle genti italiane. In questo plesso di tensioni e aspettative, gli evangelici italiani si erano anche divisi tra una corrente più «spirituale» e una invece ben inserita nelle battaglie rivoluzionarie. In questa seconda linea, il gruppo guidato da Alessandro Gavazzi (ex frate barnabita bolognese) sviluppò l’adesione al garibaldinismo e tentò nel 1865 la fondazione di una Chiesa cristiana libera in Italia, che però non raccolse l’adesione di molte comunità.

Tra 1866 e 1868 vennero fondate in Italia, da pastori provenienti dall’Inghilterra, una chiesa metodista e una battista. Qualche anno dopo, nel 1872, arrivarono missionari metodisti e battisti americani, convinti che la fine del potere temporale dei papi fosse un’occasione da sfruttare per accelerare la sconfitta del papismo. E arrivarono anche le falangi ordinate dell’Esercito della salvezza. Il loro proselitismo non ebbe peraltro i successi sperati, e la crescita numerica, nonostante il nuovo clima di libertà religiosa, non fu elevata. Dopo il 1870, quindi, la situazione doveva rimanere abbastanza statica, sia in quanto a crescita numerica dei protestanti italiani, sia in quanto a vitalità di questo piccolo mondo. Solo dopo il volgere del secolo si assisterà alla ripresa di un ruolo significativo nel crocevia della cultura italiana.

Il mondo protestante italiano non trovò una sponda significativa nemmeno nell’Italia laica, tanto che è stato descritto «una sorta di reciproco allontanamento fra Italia unita e protestanti» (Spini 2002, p. 73). L’Italia evangelica riusciva sgradita alla Destra storica di governo – a parte eccezioni come i cattolici Marco Minghetti e Ruggiero Bonghi – perché percepita come ostile all’ordine, mentre appariva incomprensibile alla Sinistra influenzata dal verbo positivista.

Le comunità ebraiche italiane che uscivano dai ghetti in cui – seppure con modalità molto varie da un capo all’altro della penisola – era stata confinata da secoli la loro esperienza, erano anch’esse rappresentative di una minoranza esigua della popolazione. Alla fine del Settecento si contavano circa 30.000 ebrei in Italia, in un’ottantina di comunità: quasi nessuno nel Mezzogiorno, né in Liguria o in Lombardia. Alla metà del secolo, erano forse arrivati a 36.000 e la loro crescita continuò anche dopo l’Unità, ma con tassi inferiori a quelli della crescita media della popolazione italiana. Contemporaneamente, anche grazie alla nuova libertà di movimento, si verificò un fenomeno di concentrazione nelle città più grandi, dove le comunità fiorirono (oppure si svilupparono, anche in centri dove prima non c’erano). I poli importanti dell’ebraismo italiano dovevano divenire sempre più chiaramente Roma e Milano.

Le comunità mirarono a darsi un organismo di coordinamento nazionale, soprattutto per finalità di mediazione con il governo. La legge piemontese del 1857 aveva fissato un sistema di riconoscimento formale e di tutela statuale delle comunità, con partecipazione e tassazione obbligatoria degli ebrei. Dopo il 1861 tale modello fu esteso solo in parte del paese (non nelle ex regioni asburgiche). Occorreva quindi prendere una posizione sul regime giuridico e sui problemi pratici dell’esercizio dei diritti: la questione fu discussa in due congressi, tenuti a Ferrara nel 1863 e a Firenze nel 1867, organizzati dalla rivista «L’Educatore israelita». Nacque una commissione esecutiva, con potere di rappresentanza delle comunità, sia pur controllata da un complicato sistema consultivo: le prerogative di autonomia delle singole «università» furono però accesamente difese. Tanto che l’organismo di collegamento fu lasciato a poco a poco cadere, anche per le resistenze rabbiniche a che si occupasse di riforma religiosa. La tendenza maggioritaria favorì un modello privatistico e volontario di aggregazione comunitaria, il che andò in parallelo alla diffusione negli ambienti del liberalismo italiano di un approccio individualistico alla problematica della libertà religiosa.

Il grande problema degli anni successivi all’unificazione fu quindi la nascita di una dialettica (per certi versi ineluttabile) tra parificazione civile e mantenimento dell’identità ebraica. Se molti ebrei parteciparono alla vita pubblica su posizioni liberali e nazionali, con l’orgoglio della propria identità culturale e religiosa (già nel primo Parlamento unitario furono eletti tre deputati ebrei, che arriveranno a 15 nel 1874), è anche vero che molte comunità sfiorirono nella diffusione di un fenomeno di indifferenza e di abbandono degli elementi cultuali e religiosi di riconoscimento. Dal punto di vista dei centri culturali, si sviluppò un confronto tra l’erudizione tradizionale promossa soprattutto dall’istituto superiore rabbinico di Padova – nato a suo tempo approfittando delle particolari condizioni della legislazione asburgica, con intellettuali di rilievo come Samuel David Luzzatto – e posizioni più aperte e dialettiche, come quelle di Marco Mortara o Elia Benamozegh.

La libertà religiosa per i culti «acattolici» rimaneva comunque ristretta nelle previsioni statutarie che tolleravano la loro esistenza, solo lentamente evolutesi in un modello più liberale. In siffatto quadro, si verificarono anche ripetute tensioni, soprattutto attorno a nascite e morti, battesimi nascosti, intervento di pastori o rabbini e sepolture contrastate. In questi non infrequenti incidenti, le autorità di pubblica sicurezza tendevano spesso a far prevalere il quietismo della tradizione sul rispetto della libertà religiosa individuale.

D’altro canto, l’antigiudaismo e l’antiprotestantesimo ebbero notevoli spazi di sviluppo nel cattolicesimo intransigente, basandosi sull’idea dell’estraneità alla «vera nazione» di questi piccoli gruppi religiosi e – ancor di più – sul complesso di persecuzione che dopo il 1870 si diffonderà ampiamente nelle file dei cattolici papalini. Ebrei e protestanti diventarono rapidamente i simboli della modernità nella sua versione radicalmente anticattolica (il che trovava speculare rafforzamento nelle posizioni spesso molto dure delle minoranze religiose che temevano nuove sopraffazioni). I pregiudizi negativi erano espressi con toni spesso disinformati e artatamente demonizzanti, sia dalla stampa popolare che da paludati articoli delle riviste più diffuse (a cominciare dalla citata «Civiltà cattolica»). Il dialogo di questi compositi mondi di minoranza con il cattolicesimo non fu praticamente nemmeno avviato, in quest’epoca. In fondo, però, proprio il fatto che i pericolosi pregiudizi fossero coltivati da gruppi estranei al potere costituito, rese più modesto il loro influsso nella società italiana.

Porta Pia e la scomunica del Risorgimento

L’8 dicembre 1869, con la presenza di più di 700 vescovi convocati a Roma da tutto il mondo (anche se con larga prevalenza europea e italiana), si apriva il concilio Vaticano I. Inizialmente ispirato a un vivace dibattito interno, vide la costituzione di una dialettica tra una maggioranza ultramontana e infallibilista e una minoranza più attenta alle tradizionali posizioni episcopaliste e alle ragioni del dialogo con la modernità (l’assise visse alcune sedute molto polemiche). I vescovi italiani erano divisi come gli altri, anche se nessuno di loro ebbe una posizione centrale nei lavori. Il governo, dopo qualche tentennamento, assicurò la massima libertà d’azione al concilio e di movimento ai vescovi, mentre le diplomazie europee seguivano i lavori, ipotizzando di intervenire con pressioni dirette, quando si prospettò la riaffermazione delle tesi papali sui rapporti Chiesa-Stato. Il concilio approvò per prima una costituzione Dei filius che risistemava in modo ampio i rapporti tra fede e ragione, definendo meglio la relazione della tradizione cristiana con le fonti bibliche e con la ragione umana. In questa cornice, poi, fu collocata la definizione dell’infallibilità papale nella costituzione Pastor Aeternus, espressa peraltro con una formula che la collegava alla fede della Chiesa e la limitava alle definizioni dottrinali pronunciate ex cathedra (il che non era così scontato per l’ala più radicale degli infallibilisti). La costituzione fu proclamata in fretta e furia il 18 luglio del 1870 – il giorno prima dello scoppio della guerra franco-prussiana – con l’astensione dei padri della minoranza (ebbe 535 voti), prima che gli eventi politici conducessero alla forzata sospensione del concilio, prorogato sine die il 20 ottobre 1870 (e non sarebbe stato mai più ripreso).

La disfatta del Secondo Impero precipitò gli avvenimenti e, dopo il ritiro del contingente francese, il governo Lanza proclamò l’intenzione di annettersi Roma (tranne la Città Leonina). Dopo una breve resistenza simbolica le truppe pontificie cedettero all’ingresso delle truppe italiane attraverso una breccia nelle mura della città, ricavata vicino a Porta Pia. Il cardinal Antonelli chiese che anche la Città Leonina fosse sorvegliata dalla polizia italiana: si può leggere in questa decisione sia la preoccupazione per possibili incidenti che una logica del «tanto peggio». Dopo un plebiscito, il 9 ottobre Roma e le sue province furono annesse al Regno d’Italia.

Il governo promosse quindi un disegno di legge per regolare autonomamente le condizioni del papa e la sua libertà di esercizio del ruolo di capo della Chiesa universale. Presentato già il 9 dicembre, fu oggetto di un’ampia discussione tra una tendenza separatista moderata (propria di Giovanni Lanza e del ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta) e una visione più legata alla tradizione giurisdizionalista (vivacemente rappresentata da Quintino Sella e Pasquale Stanislao Mancini). Il risultato, mediato da figure come Bonghi e Vigliani, fu la legge del 13 maggio 1871, detta «delle Guarentigie»: essa attribuiva al papa onori sovrani, alcune prerogative di libertà diplomatiche e una rendita annua come risarcimento per la perdita dei suoi territori; aboliva poi alcune restrizioni e vincoli all’attività del clero (come le ultime vestigia del diritto regio di proposta o nomina di alcune cariche ecclesiastiche) e anche i vecchi istituti del placet e dell’exequatur (ma subordinando questa abolizione all’approvazione di una legge generale sul riordinamento delle proprietà ecclesiastiche, che non sarebbe mai stata varata).

Il papa rifiutò sdegnosamente la legge con l’enciclica Ubi nos. Le opportunità del dialogo, o almeno la sospensione del giudizio cattolico sullo Stato nazionale, finirono ingloriosamente. La scomunica sui promotori del Risorgimento fulminata da parte di Pio IX, con il suo sdegnato ritiro nei palazzi papali, divenne il simbolo del rifiuto di ogni compromesso e di qualsiasi incontro tra le due Italie.

Un primo grosso conflitto avvenne proprio sugli exequatur. Dopo il 1871-72 le nomine episcopali ripresero a ritmi sostenuti (ben 135 fino al 1875), e furono quasi esclusivamente di intransigenti ultramontani. Il papa chiedeva esplicitamente loro di rifiutarsi di cercare l’approvazione statuale. Il che metteva molte diocesi in condizioni pastorali difficili, anche solo per la gestione ordinaria dei seminari e del patrimonio delle diocesi stesse, che spesso cadde in rovina o fu smembrato e diviso. Si ridussero peraltro notevolmente anche i nostalgici legittimisti, almeno al Centro-Nord, a favore di figure pastorali più zelanti e rigorose, magari di cultura teologica non eccelsa, ma di fedeltà indubbia alla Santa Sede. Al Sud il rinnovamento fu particolarmente forte (quasi una metà delle diocesi cambiò titolare nel periodo 1871-1878). L’episcopato italiano tenne una linea di fedeltà intransigente su questo punto, finché dopo il 1876 (anche per la minaccia di una posizione più dura da parte dei nuovi governi della Sinistra) si troverà un compromesso pratico. I nuovi vescovi cominciarono a chiedere almeno indirettamente l’exequatur e in genere il governo iniziò a concederlo, tranne nei casi di ecclesiastici ultra-refrattari, pur magari attraverso procedure travagliate e penose.

L’astensionismo elettorale divenne invece più diffuso, esplicito, rigoroso. Nel settembre del 1874 la Sacra penitenzieria ribadì in una lettera ai cattolici italiani il consiglio sulla inopportunità del voto, dandogli un carattere di maggiore cogenza, e lo stesso papa tornò a più riprese sull’argomento. Lo scioglimento delle facoltà teologiche delle università, deciso nel 1873, pose quindi il suggello su una separazione della cultura ecclesiastica da quella civile che avrebbe approfondito drammaticamente il solco scavato negli anni. Gli eredi della tradizione cattolico-liberale tentarono di difendere l’autonomia di queste facoltà (nel dibattito parlamentare si espressero le voci di Bonghi e di Domenico Berti e Diomede Pantaleoni), ma senza più successo.

Un movimento intransigente nazionale: i «cattolici senza aggettivi»

La prima proposta di costituire uno stabile raggruppamento cattolico intransigente a livello nazionale fu lanciata da un esponente della Gioventù cattolica italiana in occasione di un’adunanza tenuta il 2 ottobre 1871, che celebrava il ricordo della vittoria di Lepanto «trionfo cattolico e più particolarmente italiano» (cit. in De Rosa 1966, pp. 93-94). A trecento anni di distanza, occorreva iniziare una nuova battaglia «contro i… musulmani d’Italia» – come avrebbe commentato icasticamente in seguito Francesco Olgiati (Olgiati 1922, p. 36) – cioè gli infedeli all’interno della stessa nazione, e quindi era necessario mettere in campo un nuovo adeguato esercito.

La «Dichiarazione», presentata il 12 giugno del 1874 al primo congresso cattolico di Venezia da Vito D’Ondes Reggio (che aveva abbandonato il Parlamento dopo Porta Pia), verrà letta poi per trent’anni in apertura di ogni successivo appuntamento dell’organizzazione, divenendone una specie di simbolo ideologico: «Il congresso è cattolico e nient’altro che cattolico. Imperocché il cattolicismo è dottrina compiuta, la grande dottrina del genere umano. Il cattolicismo non è liberale, non è tirannico, non è d’altra qualità; qualunque qualità vi si aggiunga, da per sé è un gravissimo errore...» (Primo congresso 1874, p. 43). Separando il cattolicesimo da qualsiasi aggettivazione, tale breve ma efficace testo negava la possibilità di conciliare la fede con il liberalismo o con la mitologia nazionale, come peraltro – a ben vedere – tagliava in radice anche un possibile legame esclusivo con il tradizionalismo e il legittimismo. Proprio in questa occasione, Giuseppe Sacchetti proclamava finita l’era delle illusioni (cioè il momento in cui si pensava che il Risorgimento sarebbe crollato da solo, sotto il peso dei propri errori), e aperta invece l’era dell’operosità, con accenti tanto apocalitticamente intransigenti quanto anche passionalmente «nazionali».

L’anno successivo, al congresso di Firenze, il movimento si diede un organismo stabile, con una struttura piramidale di comitati parrocchiali, diocesani e regionali (cui spesso si fecero aderire realtà locali già esistenti, come le Società di San Vincenzo, le congregazioni mariane, le prime società operaie di mutuo soccorso), coordinati da un Comitato permanente, con sede inizialmente a Bologna in quando strettamente legato al citato Consiglio superiore della Sgci. Nasceva l’Opera dei Congressi (qualche anno dopo alla denominazione sarebbe stato aggiunto «e dei Comitati cattolici»). La sua diffusione territoriale doveva essere squilibrata: molto più capillare al Nord, molto più difficile al Centro-Sud. E anche la tenuta interna avrebbe attraversato momenti difficili, come nel decennio degli anni Ottanta dell’Ottocento. Ma l’Opera era comunque un nuovo fattore di straordinario impatto sia religioso che civile.

Il movimento si collocava all’opposizione politica rispetto allo Stato unitario sabaudo (opposizione simboleggiata dall’astensionismo elettorale). Da queste posizioni, peraltro, non si rassegnava affatto alle accuse di anti-patriottismo, e cercò di recuperare in modo peculiare e alternativo l’idea e il mito della nazione. Del resto, l’armamentario concettuale della nazione serviva in modo precipuo a difendere l’idea dell’esistenza di una «Italia cattolica», tradizionale e profonda, che costituisse propriamente il «paese reale», contro quella ristretta élite, fuorviata dalle ideologie moderne, che aveva realizzato contro il papa e contro la Chiesa il fragile «paese legale», lo Stato unitario.

Lo stesso costituirsi in movimento organizzato fu in fondo un grandissimo fattore di nazionalizzazione delle masse cattoliche della penisola e quindi anche di integrazione di strati popolari consistenti, che uscirono attraverso le iniziative dell’Opera dalle angustie della dimensione locale e regionale, dalla condanna della periferia, impegnandosi su cause e orizzonti definitivamente nazionali. Al congresso cattolico tenuto a Bergamo nel 1877 (l’anno prima a Bologna il congresso era stato sciolto dal prefetto, dopo incidenti causati dall’aggressione di una folla anticlericale ai congressisti), Paganuzzi ammoniva: «Senza l’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici non è possibile movimento cattolico che meriti il nome di italiano. Potrà essere romano, milanese, napoletano, fiorentino […]» (cit. in Spadolini 1974, p. 139).

Attorno a questa scelta convergevano motivazioni di vertice e di base. Nell’ottica papale, occorreva evitare che la forza del mito nazionale divaricasse le esperienze ecclesiali «cattoliche», e quindi ricondurre anche simbolicamente le tendenze nazionali alla fonte di legittimazione del papato. Dal punto di vista popolare, invece, la cultura guelfa funzionava come veicolo di inserimento in quella modernità nazionale, che in questo caso poteva essere assunta all’interno di un progetto «cattolico» ortodosso. Lo stesso rifiuto di definirsi come «partito» era frutto di una rivendicazione nazionale orgogliosa. I cattolici non erano una «parte» nella nazione, bensì in via di principio coincidevano con essa, in quanto ne esprimevano l’essenza più vera. Sacchetti scriveva sul suo giornale: «Noi non siamo un partito; l’abbiamo detto e ripetuto mille volte e lo diremo ancora una volta. Noi siamo l’Italia, poiché rappresentiamo la sua fede, la sua storia, le sue glorie, i suoi geni cristiani, i suoi monumenti» (cit. in De Rosa 1968, p. 88).

La nazione «italiana e cattolica» degli intransigenti del secondo Ottocento trovava comunque le sue glorie originarie e le sue mitologie fondative soprattutto nei liberi comuni del medioevo unificati dalla cultura cristiana e dall’opera del papato: è interessante notare che questo riferimento costituiva contemporaneamente un richiamo autonomistico – contrapposto allo statalismo liberale e al centralismo sabaudo – e un aggancio per un discorso di indipendenza dallo straniero e di unità della nazione, con riferimento alla storia mitizzata della Lega Lombarda e alla contrapposizione antimperiale e antigermanica. Molto impegno fu quindi attribuito dal movimento cattolico alla dimensione municipale, intendendo a tratti la conquista delle amministrazioni locali come base privilegiata per ricostruire una diversa visione della nazione. Esisteva poi anche una non banale questione di potere di indirizzo: i comuni governati dai cattolici potevano ad esempio impegnarsi a filtrare direttive centrali altamente simboliche come quelle connesse alle celebrazioni nazionali, oppure pratiche, come quelle sull’insegnamento.

Il primo problema degli intransigenti appariva quindi organizzare l’«Italia reale» contro l’«Italia legale». Tutto ciò approfondiva il solco decisivo scavatosi tra la coscienza cattolica e le modalità concrete del costituirsi dell’Italia in Stato nazionale. Giocava però a smorzare gli aspetti più battaglieri di questo indirizzo un altro elemento, che mitigava la contrapposizione politica ai «fatti compiuti»: la cultura della sostanziale sottomissione alle autorità costituite, che era un perno indiscusso della mentalità politica degli intransigenti, dato il lungo retaggio di un’interpretazione delle pagine paoline sul potere che insisteva fortemente sul carattere sostanzialmente divino e praticamente indiscutibile dell’autorità civile. Tale cultura ora impacciava e limitava gli intransigenti, proprio mentre organizzavano un’operazione politica sostanzialmente extracostituzionale.

Le polemiche tra intransigenti e transigenti permanevano comunque vivissime, mentre il lunghissimo pontificato di Pio IX andava verso il suo tramonto (il papa morirà nel 1878): la Chiesa che viveva in Italia affrontava in modo travagliato, con grandi lacerazioni interiori, le novità storiche. Il peso degli eventi modificherà lentamente questo contesto: una nazionalizzazione del cattolicesimo italiano maturerà lentamente, tra mille contraddizioni, nel medio periodo post-unitario. Ma attraverso forme e modelli largamente condizionati da questa controversa stagione.

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