Religione

Enciclopedia del Novecento (1982)

Religione

Mircea Eliade

sommario: 1. Definizioni: la religione e il sacro. 2. Manifestazione del sacro. 3. Lo spazio sacro. 4. Vivere in un mondo sacro. 5. Il tempo sacro. 6. La struttura delle feste. 7. I miti come modelli esemplari. 8. Natura e soprannatura: gli dei celesti. 9. Il dio remoto. 10. La vita come esperienza religiosa. 11. Tra Yahweh e Baal. 12. Struttura e funzione dei riti. 13. Riti di iniziazione. 14. Gli specialisti del sacro: sciamani e stregoni. 15. Mistici e profeti. 16. Classificazione delle religioni. 17. Atteggiamenti verso le religioni forestiere: a) mondo antico; b) cristianesimo, giudaismo, islamismo. 18. Lo studio scientifico delle religioni. □ Bibliografia.

1. Definizioni: la religione e il sacro

Il termine ‛religione' viene dal latino religio. Etimologicamente religio è fatto derivare da relegere (‛osservare coscienziosamente') o da religare (‛legare'). Per i Romani religio stava a indicare una serie di precetti e di proibizioni e, in senso lato, precisione, rigida osservanza, sollecitudine, venerazione e timore degli dei; il termine non aveva alcuna attinenza, per esempio, con le tradizioni mitiche né con le feste degli dei. Pertanto religio non comprendeva molte importanti dimensioni religiose: miti, feste, soteriologie ed escatologie, ecc.

D'altro lato, il termine ‛religione' non comprende tutte le esperienze del sacro. È motivo di meraviglia la sua applicazione indiscriminata al Vicino Oriente antico, all'ebraismo, al cristianesimo e all'islamismo o all'induismo, al buddhismo e al confucianesimo, nonché ai cosiddetti popoli primitivi. Ma forse è ormai troppo tardi per cercare un'altra parola, e ‛religione' può ancora essere un termine utile, sempre che si tenga bene a mente che non implica necessariamente fede in Dio, o negli dei, o negli spiriti: si riferisce solo all'esperienza del sacro, e pertanto è strettamente connesso con le nozioni di ‛essere', ‛significato' e ‛verità'.

È invero difficile concepire come la mente umana possa operare senza la convinzione che esiste qualcosa di assolutamente ‛reale' nel mondo, ed è impossibile immaginare il sorgere della coscienza senza conferire un ‛significato' agli impulsi e alle esperienze dell'uomo. La consapevolezza di un mondo reale e pieno di significato è intimamente connessa con la scoperta del sacro. Attraverso l'esperienza del sacro, la mente umana afferrò la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e pieno di significato e ciò che non si rivela tale, cioè il flusso caotico e precario delle cose, la vicenda fortuita e senza senso del loro apparire e scomparire.

Il ‛sacro' è un elemento della struttura della coscienza, non uno stadio evolutivo della sua storia. Un mondo che abbia un senso - e l'uomo non può vivere nel ‛caos' - è il risultato di un processo dialettico che potrebbe essere chiamato la manifestazione del sacro. La vita umana assume un significato attraverso l'imitazione di modelli paradigmatici rivelati da esseri soprannaturali. L'imitazione di modelli oltreumani costituisce una delle caratteristiche fondamentali della vita religiosa, una caratteristica strutturale che prescinde dalla cultura e dal momento storico. A partire dalle più arcaiche esperienze religiose documentate sino al cristianesimo e all'islamismo, l'imitazione di modelli, intesa come norma e guida della vita dell'uomo, non è mai venuta meno, né del resto avrebbe potuto essere altrimenti. Ai livelli culturali più arcaici, già il ‛vivere come un essere umano' è di per sé un atto religioso, poiché l'alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno un valore sacrale. In altre parole, essere - o meglio divenire - un uomo significa essere ‛religioso'.

Pertanto, sin dall'inizio la riflessione filosofica si è trovata di fronte a un mondo di significati che era, geneticamente e strutturalmente, ‛religioso', e questo è vero in linea generale e non soltanto nei confronti dei ‛primitivi', degli orientali e dei presocratici. La dialettica del sacro precedette e servì da modello per tutte le forme dialettiche successivamente scoperte dalla mente umana. L'esperienza del sacro, rivelando l'‛essere', il ‛significato' e la ‛verità' in un mondo ignoto, caotico e spaventoso, pose le basi per l'elaborazione del pensiero sistematico. Le manifestazioni del sacro espresse in simboli, miti, esseri soprannaturali, ecc., vengono afferrate come ‛strutture', e costituiscono un linguaggio preriflessivo, che esige una ermeneutica particolare. Per più di un quarto di secolo storici e studiosi di fenomenologia della religione hanno cercato di elaborare un'ermeneutica siffatta. Questo tipo di indagine non è paragonabile alla ricerca erudita, sebbene anch'essa possa valersi di documenti provenienti da culture da lungo tempo scomparse e da popoli remoti. In virtù di un'ermeneutica adeguata, la storia delle religioni cessa di essere un museo di fossili, rovine e obsoleti mirabilia per diventare quel che avrebbe dovuto essere sin dall'inizio per ogni ricercatore: un complesso di ‛messaggi' che attendono di essere decifrati e compresi.

2. Manifestazione del sacro

L'uomo diviene consapevole del sacro perché il sacro si manifesta come qualcosa di completamente diverso dal profano. Per designare l'atto attraverso il quale il sacro si manifesta abbiamo proposto il termine ‛ierofania'. È un termine appropriato, perché non implica null'altro che quello che dice; non esprime nulla di più di quanto implichi il suo significato etimologico, e cioè che qualcosa di sacro si mostra a noi. Si potrebbe dire che la storia delle religioni - da quelle più primitive a quelle più progredite - è costituita da un gran numero di ierofanie, da manifestazioni di realtà sacre. Dalla ierofania più elementare - la manifestazione del sacro in oggetti comuni, come una pietra o un albero - alla ierofania suprema (per il cristianesimo, l'incarnazione di Dio in Gesù Cristo) non vi è soluzione di continuità. In ogni ierofania ci si trova di fronte al medesimo atto misterioso: qualcosa che appartiene a un ordine del tutto diverso, una realtà che non appartiene al nostro mondo si manifesta in oggetti che sono parte integrante del nostro mondo naturale ‛profano'.

L'uomo occidentale moderno prova un certo disagio di fronte a molte manifestazioni del sacro. Trova difficile accettare il fatto che, per molti esseri umani, il sacro può manifestarsi, ad esempio, nella forma di una pietra o di un albero. Ma non si tratta in verità di una venerazione della pietra in quanto tale, di un culto dell'albero in quanto tale. L'albero sacro, la pietra sacra non sono adorati come pietra o come albero; sono venerati proprio perché ierofanie, perché in essi si mostra qualcosa che non è più pietra o albero, ma il sacro, l'‛interamente altro' (ganz andere), secondo l'espressione di R. Otto.

Non si sottolineerà mai abbastanza il paradosso rappresentato da ogni ierofania, anche la più elementare. Manifestando il sacro, un qualsiasi oggetto diviene ‛qualcosa di diverso' pur rimanendo quello che è, perché continua a far parte dell'ambiente cosmico che lo circonda. Una pietra ‛sacra' resta una ‛pietra'; in apparenza (o, più esattamente, sotto l'aspetto profano), nulla la distingue da tutte le altre pietre. Ma per coloro cui la pietra si rivela sacra, la sua realtà immediata si tramuta in una realtà soprannaturale. In altre parole, per coloro che vivono un'esperienza religiosa tutta la natura è in grado di rivelarsi come sacralità cosmica. Il cosmo nella sua globalità può diventare una ierofania.

L'uomo delle società arcaiche tende a vivere il più possibile nel sacro o in prossimità di oggetti consacrati. Questa tendenza è perfettamente comprensibile, perché, per i primitivi come per l'uomo di tutte le società premoderne, sacro equivale a ‛potenza' e, in ultima analisi, a ‛realtà'. Il sacro è saturo di ‛essere'. Potenza sacra significa realtà e al tempo stesso permanenza ed efficacia. La polarità sacroprofano si esprime spesso come opposizione tra reale e irreale o pseudoreale. (Naturalmente, non ci si può aspettare di trovare nelle lingue di società arcaiche questa terminologia filosofica: reale-irreale, ecc.; ma si trova la ‛cosa'). È perciò facile capire perché l'uomo religioso desidera profondamente ‛essere', partecipare della ‛realtà', impregnarsi di potenza.

3. Lo spazio sacro

Per l'uomo delle società arcaiche, il solo fatto di vivere nel mondo ha un valore religioso. Egli vive infatti in un mondo che, in primo luogo, è stato creato da Esseri soprannaturali e nel quale, in secondo luogo, il suo villaggio o la sua casa sono un'immagine del cosmo. La cosmologia, cioè le immagini e i simboli cosmologici che informano il mondo abitato, è non soltanto un sistema di idee religiose, ma anche un modello di comportamento religioso. Ma se vivere nel mondo ha un valore religioso, questo è il risultato di un'esperienza particolare: l'esperienza di ciò che può essere chiamato ‛spazio sacro'.

In effetti, per l'uomo religioso lo spazio non è omogeneo; ci sono parti dello spazio qualitativamente diverse da altre. Esiste uno spazio sacro e quindi ‛forte', significativo; ed esistono altri spazi che non sono sacri e sono pertanto privi di struttura, forma o significato. E non è tutto. Per l'uomo religioso questa non-omogeneità dello spazio si manifesta nell'antitesi tra lo spazio che è sacro - l'unico spazio ‛reale' e ‛realmente' esistente - e tutti gli altri spazi, cioè la distesa informe che lo circonda.

L'esperienza religiosa della non-omogeneità dello spazio è un'esperienza primordiale, paragonabile alla creazione del mondo. È infatti la rottura operata nello spazio che, in quanto rivela il punto fermo, l'asse centrale per ogni futuro orientamento, consente la costituzione del mondo. Quando il sacro si manifesta in una ierofania, non si verifica solo una rottura nell'omogeneità dello spazio; si verifica anche la rivelazione di una realtà assoluta, contrapposta alla non realtà della vasta distesa circostante. La manifestazione del sacro crea ontologicamente il mondo. Nella distesa omogenea e infinita, ove non è possibile alcun punto di riferimento e ove non si può quindi stabilire alcun ‛orientamento', la ierofania rivela un punto fermo assoluto, un ‛centro'.

È perciò chiaro fino a qual punto la scoperta - cioè la rivelazione - di uno spazio sacro possieda un valore esistenziale per l'uomo religioso; nulla può infatti avere inizio, nulla può essere fatto senza un preventivo orientamento - e orientamento implica l'acquisizione di un punto fermo. È per questo motivo che l'uomo religioso ha sempre cercato di stabilire la sua dimora al ‛centro del mondo'. Se bisogna vivere nel mondo, occorre ‛fondarlo', e nessun mondo può scaturire dal caos dell'omogeneità e relatività dello spazio profano. La scoperta o proiezione di un punto fermo - il centro - equivale alla creazione del mondo. L'orientazione e la costruzione rituali dello spazio sacro hanno un valore cosmogonico; il rituale con cui l'uomo costruisce lo spazio sacro è efficace, infatti, nella misura in cui riproduce l'opera degli dei, cioè la cosmogonia.

4. Vivere in un mondo sacro

La storia di Roma, come la storia di altre città o nazioni, inizia con la fondazione della città; e la ‛fondazione' è l'equivalente di una cosmogonia. Ogni nuova città rappresenta un nuovo inizio del mondo. Tracciando il solco circolare, il sulcus primigenius, si fonda la città. Gli scrittori classici furono tentati di far derivare la parola urbs da urvum, la curva di un vomere, o urvo, ‛aro in circolo'; taluni la facevano derivare da orbis, ‛superficie circolare', il globo, il mondo. Il centro di Roma era un foro, mundus, il punto di comunicazione fra il mondo terrestre e gli Inferi. W. W. Roscher ha interpretato il mundus come un omphalos, cioè l'ombelico della terra; ogni città che possedeva un mundus si riteneva collocata al centro del mondo, nell'ombelico dell'orbis terrarum.

Concezioni analoghe si ritrovano ovunque nel mondo neolitico e postneolitico. La presa di possesso di un nuovo territorio era legalmente convalidata mediante rituali particolari, equivalenti a una cosmogonia. Le città, i templi, i palazzi reali sono costruiti a somiglianza dell'universo. I riti di fondazione rappresentano la ripetizione della cosmogonia. Gli Ebrei credevano che Israele fosse collocato al centro del mondo e che la prima pietra del tempio di Gerusalemme rappresentasse la creazione del mondo. In molti casi ciò che vale per la città o per il tempio si applica anche alla casa. Il simbolismo fondamentale rivela l'esperienza esistenziale di ‛essere nel mondo', o più esattamente di trovarsi in un mondo organizzato e pieno di significato (e tale perché creato dagli Esseri soprannaturali, e pertanto sacro).

L'interdipendenza tra il Cosmo e il Tempo cosmico (Tempo ‛circolare') era così acutamente sentita che in diverse lingue degli Indiani dell'America settentrionale la parola che significa ‛mondo' viene usata anche per indicare ‛anno'. Talune tribù californiane dicono ‟il mondo è passato" o ‟la terra è passata" per dire che un anno è trascorso. Per i Fali del Camerun settentrionale la casa è l'immagine dell'universo ma riflette al tempo stesso tutte le fasi del mito cosmogonico. In altre parole, l'abitazione ha un ‛movimento' che corrisponde alle diverse fasi del processo cosmogonico. L'orientazione dei vari elementi (il palo centrale, le mura, il tetto) nonché la posizione degli arnesi e degli arredi sono collegate al movimento degli abitanti e alla loro collocazione nella casa. I membri della famiglia, cioè, cambiano posto all'interno dell'abitazione a seconda della stagione, dell'ora della giornata e delle variazioni del loro status familiare e sociale.

Per l'uomo delle società tradizionali, quindi, la casa non è un ‛oggetto', uno ‛strumento per vivere'; è l'universo che l'uomo si costruisce imitando la creazione paradigmatica degli dei, la cosmogonia. Ogni costruzione e ogni inaugurazione di un nuovo edificio sono nella stessa misura equivalenti a un nuovo principio, a una nuova vita.

5. Il tempo sacro

Per l'uomo religioso anche il tempo, come lo spazio, non è né omogeneo né continuo. Da un lato vi sono gli intervalli del tempo sacro, il tempo delle feste (per la maggior parte periodiche); dall'altro vi è il tempo profano, l'ordinaria durata temporale in cui trovano posto gli atti privi di significato religioso. Tra questi due tipi diversi di tempo vi è naturalmente soluzione di continuità, ma, per mezzo dei riti, l'uomo religioso può passare senza pericolo dall'ordinaria durata temporale al tempo sacro.

Colpisce immediatamente una differenza essenziale tra le due specie di tempo: per sua stessa natura il tempo sacro è reversibile, nel senso che, a rigore, è un ‛tempo mitico primordiale reso attuale'. Ogni festa religiosa, ogni periodo liturgico rappresenta la riattualizzazione di un evento sacro verificatosi in un passato mitico, ‛in origine'. La partecipazione religiosa a una festa implica l'uscita dall'ordinaria durata temporale e la reintegrazione del tempo mitico, riattualizzato dalla festa medesima. Pertanto il tempo sacro è recuperabile e ripetibile all'infinito. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che tale tempo ‛non trascorre', non costituisce cioè una durata irreversibile. È un tempo ontologico, parmenideo; resta sempre eguale a se stesso, non muta né si esaurisce. Al ritorno di ogni festa, i partecipanti ritrovano il medesimo tempo sacro, quello stesso che si era manifestato alla festa dell'anno precedente o alla festa di un secolo prima; è il tempo che fu creato e santificato dagli dei all'epoca delle loro gesta, di cui la festa è appunto una riattualizzazione. In altre parole, i partecipanti alla festa rivivono la prima apparizione del tempo sacro quale ebbe luogo ab origine, in illo tempore; il tempo sacro nel quale la festa si svolge, infatti, non esisteva prima delle gesta divine che la festa commemora. Creando le varie realtà che oggi costituiscono il mondo, gli dei fondarono anche il tempo sacro, poiché il tempo della creazione fu evidentemente santificato dalla presenza e dall'attività degli dei.

Pertanto l'uomo religioso vive in due specie di tempo, di cui la più importante, il tempo sacro, appare sotto l'aspetto paradossale di un tempo circolare, reversibile e recuperabile, una sorta di eterno presente mitico che viene periodicamente reintegrato grazie ai riti. Questo atteggiamento rispetto al tempo è sufficiente a distinguere l'uomo religioso da quello non religioso; il primo rifiuta di vivere unicamente in quello che, in termini moderni, viene chiamato presente storico; egli cerca di riguadagnare un tempo sacro che, da un certo punto di vista, può essere assimilato all'eternità.

Per l'uomo religioso la durata temporale profana può venire periodicamente arrestata; taluni rituali, infatti, hanno il potere d'interromperla con periodi di tempo sacro che non è storico (nel senso che non appartiene al presente storico). Così come una chiesa costituisce una rottura nello spazio profano di una città moderna, la celebrazione che si svolge al suo interno segna una rottura nella durata temporale profana. Quello che è presente nella chiesa non è più il tempo storico odierno - il tempo che si vive nelle strade circostanti - ma, ad esempio, il tempo in cui si verificò l'esistenza storica di Gesù Cristo, il tempo santificato dalla sua predicazione, dalla sua passione, morte e resurrezione. Si deve però aggiungere che questo esempio non rivela l'intera diversità tra tempo sacro e profano; il cristianesimo ha mutato radicalmente l'esperienza e il concetto di tempo liturgico, e ciò perché afferma la storicità della persona di Cristo. La liturgia cristiana si svolge in un ‛tempo storico santificato dall'incarnazione del Figlio di Dio'. Il tempo sacro periodicamente riattualizzato nelle religioni precristiane (specialmente nelle religioni arcaiche) è un ‛tempo mitico', cioè un tempo primordiale, non rintracciabile nel passato storico, un ‛tempo originario', nel senso che il suo cominciamento fu improvviso e istantaneo e non fu preceduto da un altro tempo, giacché nessun tempo poteva esistere prima dell'apparizione della realtà narrata dal mito.

6. La struttura delle feste

Il ‛tempo d'origine' di una realtà - cioè il tempo inaugurato dalla prima apparizione di quella realtà - ha valore e funzione paradigmatici. È questo il motivo per cui l'uomo cerca di riattualizzarlo periodicamente attraverso appropriati rituali. Ma la ‛prima manifestazione' di una realtà equivale alla sua creazione ad opera di Esseri divini o semidivini; pertanto, recuperare il ‛tempo d'origine' implica la ripetizione rituale dell'atto creativo degli dei. La riattualizzazione periodica degli atti creativi compiuti dagli Esseri divini in illo tempore costituisce il calendario sacro, la serie delle feste. Una festa si svolge sempre nel tempo originario. È proprio la reintegrazione di questo tempo originario e sacro che differenzia il comportamento dell'uomo durante la festa dal suo comportamento prima o dopo. Infatti, sebbene siano molti i casi nei quali i medesimi atti vengono compiuti sia durante la festa sia durante i periodi non festivi, l'uomo religioso crede di vivere in un ‛altro' tempo, di essere riuscito a ritornare al mitico illud tempus.

Durante la cerimonia totemica annuale, l'intichiuma, gli Aranda australiani ripetono il viaggio percorso dal divino Antenato del dan nel tempo mitico (alcheringa, letteralmente il ‛tempo del sogno'). Si fermano presso tutti gli innumerevoli luoghi ove l'Antenato si fermò e ripetono i medesimi atti e gesti da lui compiuti in illo tempore. Durante tutta la cerimonia digiunano, non portano armi ed evitano qualsiasi contatto con le loro donne e con membri di altri clan. Si immergono totalmente nel ‛tempo del sogno'.

Le feste celebrate annualmente in un'isola polinesiana, Tikopia, riproducono le ‛opere degli dei', cioè gli atti con cui nel tempo mitico gli dei formarono il mondo quale è oggi. Il tempo festivo in cui gli indigeni di Tikopia vivono durante le cerimonie è caratterizzato da taluni divieti (tabù): il chiasso, i giochi, le danze cessano. Il passaggio dal tempo profano a quello sacro viene indicato col taglio rituale di un pezzo di legno in due. I numerosi atti rituali compiuti durante le feste periodiche - e che, ancora una volta, sono solo la reiterazione degli atti paradigmatici degli dei - ‛non sembrano' differenziarsi da quelli compiuti nel corso delle attività normali; citiamo tra gli altri la riparazione rituale di barche, i riti relativi alla coltivazione di piante alimentari (igname, taro, ecc.), la riparazione di santuari. Ma in realtà tutte queste pratiche cerimoniali si differenziano da attività analoghe compiute nel tempo ordinario anzitutto perché la loro esecuzione riguarda ‛solo alcuni oggetti' (che in qualche modo rappresentano gli archetipi delle rispettive classi), e anche perché le cerimonie si svolgono in un'atmosfera satura di sacralità. Gli indigeni cioè sono consci del fatto che stanno riproducendo fin nei minimi particolari gli atti paradigmatici degli dei quali furono compiuti in illo tempore.

Ciò equivale a dire che l'uomo religioso, periodicamente, diventa contemporaneo degli dei nella misura in cui riattualizza il tempo primordiale nel quale le opere divine furono compiute. L'uomo religioso periodicamente rivive il tempo mitico e sacro, ritorna al ‛tempo d'origine', al tempo che ‛non scorre' perché non partecipa della durata temporale profana, perché è un ‛presente eterno' recuperabile all'infinito. Durante la festa si recupera la dimensione sacra della vita, i partecipanti vivono la santità dell'esistenza umana in quanto creazione divina. Apprendono di nuovo come gli dei o gli antenati mitici crearono l'uomo e gli insegnarono le varie forme di comportamento sociale e di attività pratica.

Se l'uomo religioso sente la necessità di riprodurre all'infinito i medesimi atti e gesti paradigmatici, è perché desidera e si sforza di vivere vicino ai suoi dei. ‛In origine', gli esseri divini o semidivini operavano attivamente sulla terra. La nostalgia delle origini equivale quindi a una nostalgia ‛religiosa'. Il tempo mitico che si cerca periodicamente di riattualizzare è un tempo santificato dalla presenza divina; si potrebbe dire che il desiderio di vivere al cospetto della ‛presenza divina' e in un ‛mondo perfetto' (perfetto perché appena creato) corrisponde alla nostalgia del ‛paradiso terrestre'. Il desiderio di recuperare il mondo delle origini - forte, vigoroso, puro - è al tempo stesso sete del sacro e nostalgia dell'essere.

7. I miti come modelli esemplari

Il mito narra una storia sacra: racconta un evento verificatosi nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle ‛origini'. In altre parole, il mito racconta come, attraverso le gesta di Esseri soprannaturali, ebbe origine una realtà, si trattasse della realtà nel suo insieme - il cosmo -, o solo di un frammento della realtà: un'isola, una specie di pianta, un particolare tipo di comportamento umano, un'istituzione. Il mito, quindi, è sempre il racconto di una ‛creazione'; narra come qualcosa fu prodotto, cominciò a ‛essere'. Il mito parla solo di quel che ‛realmente' accadde, che si manifestò interamente. I protagonisti dei miti sono Esseri soprannaturali, noti anzitutto per ciò che fecero ‛in origine'. I miti narrano dunque la loro attività creativa e rivelano la sacralità (o semplicemente la ‛soprannaturalità') delle loro opere. In breve, i miti descrivono le varie e a volte drammatiche irruzioni del sacro nel mondo. Questa è la ragione per cui, fra i primitivi, assai spesso i miti non possono essere raccontati prescindendo dal tempo e dal luogo, ma ‛solo durante un periodo di tempo sacro' (autunno o inverno, e solo di notte).

Il mito è considerato un racconto sacro e pertanto una ‛storia vera', poiché tratta sempre di ‛realtà'. Il mito cosmogonico è ‛vero' perché l'esistenza del mondo è lì a provarlo; il mito dell'origine della morte è egualmente vero perché la mortalità dell'uomo lo prova, e così via.

Poiché il mito racconta le gesta di Esseri soprannaturali e la manifestazione dei loro poteri sacri, esso diviene il modello esemplare per tutte le attività umane significative. ‟Così facevano gli Antenati mitici, e noi facciamo allo stesso modo", dicono i Kai della Nuova Guinea. La medesima motivazione adducono i teologi e ritualisti indù, quando affermano: ‟Dobbiamo fare quel che gli dei fecero ‛in origine' (Śatapatha-brāhmaṇa, VII, 2, 1, 4) , ‟Così facevano gli dei, così fanno gli uomini" (Taittirīya-brahmana, I, 5, 9, 4).

In generale si può dire che: a) il mito, qual è vissuto dalle società arcaiche, rappresenta la storia delle gesta degli Esseri soprannaturali; b) questa storia è considerata assolutamente ‛vera' (perché concerne la realtà) e sacra (poiché è opera di Esseri soprannaturali); c) il mito si riferisce sempre a una ‛creazione', racconta come qualcosa ebbe inizio, o come si stabilì un modello di comportamento, un'istituzione, un modo di operare (ecco perché i miti costituiscono i paradigmi per qualsiasi atto umano significativo); d) conoscendo il mito si conosce ‛l'origine' delle cose, che si possono perciò manipolare e controllare a volontà; non si tratta beninteso di una conoscenza ‛esterna', ‛astratta', ma di una conoscenza acquisita ritualmente, sia raccontando il mito secondo le dovute forme cerimoniali, sia compiendo il rituale di cui il mito è la giustificazione; e) in un modo o nell'altro, il mito ‛viene vissuto', nel senso che si è pervasi dalla potenza sacra, esaltante degli eventi ricordati o rappresentati.

‛Vivere' un mito implica quindi un'esperienza genuinamente religiosa, diversa dalla comune esperienza della vita quotidiana. La ‛religiosità' di quest'esperienza è dovuta al fatto che si rivivono eventi favolosi, esaltanti, significativi, si assiste di nuovo agli atti creativi degli Esseri soprannaturali; si cessa di esistere nel mondo quotidiano e si entra in un mondo trasfigurato, aurorale, impregnato di presenze soprannaturali. Non si tratta di una commemorazione degli eventi mitici ma di una loro ripetizione. I protagonisti del mito vengono resi presenti, e si diventa quindi loro contemporanei. Ciò implica che non si vive più nel tempo cronologico, ma nel Tempo primordiale, il Tempo in cui l'evento ebbe luogo per la prima volta, il Tempo prodigioso, sacro, quando qualcosa di ‛nuovo', ‛forte' e ‛significativo' fu manifestato. In breve, i miti rivelano che il mondo, l'uomo e la vita hanno un'origine e una storia soprannaturali, e che questa storia è significativa, preziosa ed esemplare. (V. anche mito).

8. Natura e soprannatura: gli dei celesti

Per l'uomo religioso la natura non è mai solamente ‛naturale', è sempre pervasa di valore religioso. La cosa si capisce facilmente, dato che il cosmo è creazione divina; essendo opera diretta degli dei, il mondo è impregnato di sacralità. Non è semplicemente una sacralità ‛comunicata' dagli dei, come è il caso, ad esempio, di un luogo o un oggetto consacrato dalla presenza divina. Gli dei hanno fatto di più: hanno manifestato le diverse modalità del sacro nella struttura stessa del mondo e dei fenomeni cosmici.

Tale è l'articolazione del mondo che l'uomo religioso, contemplandolo, scopre le molte modalità del sacro e quindi dell'essere. Anzitutto, il mondo esiste e ha una forma; non è caos ma cosmo: si presenta quindi come creazione, come opera degli dei. L'opera divina mantiene sempre la sua qualità di trasparenza, cioè rivela spontaneamente i molti aspetti del sacro. Il cielo rivela direttamente, ‛naturalmente', la distanza infinita, la trascendenza della deità. Anche la terra è trasparente: si presenta come madre e nutrice universale. I ritmi cosmici manifestano ordine, armonia, perennità, fecondità. Il cosmo nel suo complesso è un organismo al tempo stesso reale, vivente e sacro; rivela simultaneamente le modalità dell'essere e della sacralità. Ontofania e ierofania coincidono.

Per l'uomo religioso il soprannaturale è indissolubilmente connesso con il naturale, la natura esprime sempre qualcosa che la trascende. Una pietra sacra viene venerata in quanto ‛sacra', non in quanto pietra; è la sacralità manifestantesi attraverso il modo di essere della pietra che ne rivela la vera essenza. Ecco perché non si può parlare di naturismo o di religione naturale nel senso attribuito a questi termini nell'Ottocento: è infatti la ‛soprannatura' che l'uomo religioso percepisce attraverso gli aspetti naturali del mondo.

Già la mera contemplazione della volta celeste suscita un'esperienza religiosa. Il cielo si mostra infinito, trascendente. È in sommo grado l'‛interamente altro' rispetto alla pochezza dell'uomo e del suo ambiente. La trascendenza si rivela attraverso la semplice coscienza di un'altezza infinita. ‛L'altissimo' diviene spontaneamente un attributo della divinità. Le regioni superiori, inaccessibili all'uomo, gli spazi siderali acquistano il valore del trascendente, della realtà assoluta, dell'eternità. Lassù risiedono gli dei; lassù pochi mortali privilegiati riescono ad accedere per mezzo dei riti di ascesa celeste; lassù, secondo alcune religioni, salgono le anime dei morti. ‛L'altissimo' è una dimensione inaccessibile all'uomo come tale; appartiene a forze e a esseri sovrumani. Colui che ascende al cielo salendo i gradini di un santuario o la scala rituale, cessa di essere un uomo; in un modo o nell'altro partecipa della condizione divina.

A tutto questo non si arriva attraverso un'operazione logica, razionale. La categoria trascendente dell'alto, dell'ultraterrestre, dell'infinito è rivelata all'uomo intero: alla sua intelligenza e alla sua anima. Per l'uomo, è una presa di coscienza globale; contemplando il cielo, egli scopre simultaneamente l'incommensurabilità divina e la propria situazione nel cosmo. È infatti attraverso il suo specifico ‛modo di essere' che il cielo rivela trascendenza, forza, eternità: ‛esiste assolutamente' poiché è alto, infinito, eterno, potente.

Questo spiega il vero significato di quanto affermato prima, che cioè gli dei hanno manifestato le diverse modalità del sacro nella struttura stessa del mondo. In altre parole, il cosmo - opera paradigmatica degli dei - è strutturato in modo che un senso religioso della trascendenza divina viene suscitato dall'esistenza stessa del cielo. E poiché il cielo ‛esiste assolutamente', molti degli dei supremi dei popoli primitivi vengono chiamati con nomi che designano l'altezza, la volta celeste, i fenomeni meteorologici, o semplicemente con nomi quali Padrone del Cielo o Abitatore del Cielo.

La divinità suprema dei Maori si chiama Iho; iho significa ‛elevato, altissimo'. Uwoluwu, il dio supremo dei negri Akposo, significa ‛ciò che sta in alto; gli spazi altissimi'. Fra i Selknam (Ona) della Terra del Fuoco, Iddio viene chiamato ‛colui che dimora in Cielo' o ‛colui che è in Cielo'. Puluga, l'essere supremo degli Andamanesi, dimora in cielo; il tuono è la sua voce, il vento il suo respiro, la tempesta il segno del suo furore: col fulmine punisce coloro che trasgrediscono i suoi comandamenti. Il Dio Cielo degli Yoruba della Costa degli Schiavi si chiama Olorun, letteralmente ‛padrone del Cielo'. I Samoiedi venerano Num, un dio che dimora nel cielo più alto e il cui nome significa ‛cielo'. Fra i Coriachi, la divinità suprema viene chiamata ‛colui che è in Alto', il ‛padrone dell'Alto', ‛colui che Esiste'. Gli Ainu lo chiamano ‛il Capo Divino del Cielo', ‛il Dio Cielo', ‛il Divino Creatore dei Mondi', ma anche Kamui, cioè ‛Cielo'. E l'elenco potrebbe continuare.

Si può aggiungere che analoga situazione si riscontra nelle religioni di popoli più civili, di popoli che hanno avuto un importante ruolo nella storia. Il nome mongolo per il dio supremo è Tengri, che significa ‛cielo'. Il cinese T'ien significa al tempo stesso ‛cielo' e ‛dio del cielo'. Il termine sumerico che vuol dire divinità, dingir, originariamente designava un'epifania celeste e significava ‛chiaro', ‛brillante'. Anche l'Anū babilonese esprime l'idea del cielo. Il dio supremo indoeuropeo, Dieus, designa sia l'epifania celeste sia il sacro (cfr. sanscrito div, brillare, giorno; dyaus, cielo, giorno; Dyaus, dio indiano del cielo). Zeus e Juppiter conservano nei loro nomi il ricordo della sacralità del cielo. Il celtico Taranis (da taran, tuonare), il baltico Perkunas (fulmine), e lo slavo Perun (cfr. il polacco pjorun, fulmine) sono particolarmente rivelatori delle successive trasformazioni degli dei celesti in dei della tempesta.

Qui non si tratta di naturismo. Il dio celeste non viene identificato col cielo: egli è infatti il dio che, creando l'intero cosmo, creò anche il cielo. Ecco perché viene chiamato Creatore, Onnipotente, Signore, Capo, Padre, e con altri nomi analoghi. Il dio celeste è una persona, non una semplice epifania uranica, sebbene dimori nel cielo e si manifesti nei fenomeni meteorologici: tuono, fulmine, tempesta, meteore, ecc. Questo significa che certe strutture privilegiate del cosmo - il cielo, l'atmosfera - costituiscono epifanie preferite dell'Essere Supremo; egli rivela la sua presenza con ciò che è specificamente e peculiarmente suo: la maestà (majestas) dell'immensità celeste, il terrore (tremendum) della tempesta.

9. Il dio remoto

La storia degli Esseri Supremi ‛celesti' è della massima importanza per la comprensione della storia religiosa dell'umanità nel suo complesso. Gli Esseri Supremi celesti tendono a scomparire dalla pratica religiosa, dal culto; essi si allontanano dagli uomini, si ritirano in cielo e divengono dei remoti, inoperosi (dei otiosi). In breve, si potrebbe dire che questi dei, dopo aver creato il cosmo, la vita e l'uomo, avvertono una sorta di stanchezza, come se l'immensa impresa della creazione avesse esaurito le loro risorse. Perciò si ritirano in cielo, lasciando un figlio o un demiurgo sulla terra, col compito di portare a termine o perfezionare la Creazione. Gradualmente il loro posto viene preso da altre figure divine: gli antenati mitici, le dee madri, gli dei fecondatori, ecc. Il dio della tempesta conserva ancora una struttura celeste, ma non è più un Essere Supremo creatore; è solo il fecondatore della terra, a volte è solo un aiutante (paredro) della madre terra. L'Essere Supremo celeste conserva il suo posto preminente soltanto fra i popoli pastori, e assurge a una posizione unica nelle religioni che tendono al monoteismo (Ahura Mazdā), o sono dichiaratamente monoteistiche (Yahweh, Allāh).

Il fenomeno del dio supremo come dio remoto è già documentato ai livelli arcaici della cultura. Fra i Kulin australiani, l'essere supremo Bunjil creò l'universo, gli animali, gli alberi e l'uomo; ma dopo aver investito il figlio del potere sulla terra e la figlia del potere sul cielo, Bunjil si ritirò dal mondo. Egli dimora fra le nubi, come un signore, brandendo un'immensa spada. Puluga, l'essere supremo degli Andamanesi, si ritirò dopo aver creato il mondo e il primo uomo. Il mistero della sua lontananza trova il suo corrispettivo in un'assenza quasi assoluta di culto; non si fanno sacrifici, né suppliche, né offerte votive. Il ricordo di Puluga sopravvive solo in poche consuetudini religiose, per esempio nel silenzio sacro dei cacciatori che ritornano al villaggio dopo una caccia fortunata.

Il dio dei Selknam, ‛colui che dimora in Cielo', o ‛colui che è in Cielo', è eterno, onnisciente, onnipotente, il creatore; ma la Creazione fu portata a termine dagli antenati mitici, creati anch'essi dal dio supremo prima del suo ritiro in una regione al di sopra delle stelle. Essendosi isolato dagli uomini, questo dio è indifferente alle cose del mondo. Non ha né immagini né sacerdoti. Gli vengono rivolte preghiere solo in caso di malattia: ‟Tu che sei in alto, non prendere il mio bambino, è ancora troppo piccolo!". Di rado gli vengono presentate offerte, salvo che durante le tempeste.

Analoga situazione si riscontra presso molte popolazioni africane; il grande dio celeste, l'essere supremo, creatore onnipotente, ha solo un ruolo secondario nella vita religiosa della maggior parte delle tribù. È troppo lontano o troppo buono per abbisognare di un culto effettivo, e viene invocato solo in casi disperati. Per esempio, il dio degli Yoruba, Olorun (‛padrone del Cielo'), dopo aver iniziato la creazione del mondo delegò a una divinità inferiore, Obatala, il compito di portarla a termine e di dirigerla, e si ritirò dalle cose umane e terrene. Il dio supremo non ha né templi, né statue, né sacerdoti; viene nondimeno invocato come ultima risorsa in tempi di calamità.

Ndyambi, il dio supremo degli Herero, ritiratosi in cielo, ha abbandonato l'umanità a divinità inferiori. ‟Perché dovremmo fargli dei sacrifici?" ha spiegato un membro della tribù. ‟Non dobbiamo temerlo, perché egli non ci fa alcun male, al pari degli spiriti dei nostri defunti". L'essere supremo dei Tukumba è ‟troppo grande per le faccende ordinarie degli uomini". La situazione si ripete con Njankupon fra i negri di lingua tshi dell'Africa occidentale: non ha culto e gli viene reso omaggio solo in circostanze particolari, come carestie o epidemie o dopo una violenta tempesta; allora gli uomini gli domandano in che modo lo hanno offeso. Dzingbe (il Padre Universale), l'essere supremo degli Ewe, viene invocato solo durante le siccità: ‟O Cielo cui dobbiamo grazie, grande è la siccità; dacci la pioggia in modo che la terra possa rinfrescarsi e i campi rifiorire!". La lontananza e la passività dell'essere supremo sono mirabilmente espresse in un detto dei Ghiriama dell'Africa orientale: ‟Mulugu (Dio) è lassù, gli spiriti dei morti sono quaggiù!". I Bantu dicono: ‟Iddio, dopo aver creato l'uomo, non si cura più di lui". E i Negritos ripetono: ‟Iddio è andato via, lontano da noi". Le popolazioni Fang delle praterie dell'Africa equatoriale riassumono la loro concezione religiosa in un canto: ‟Dio (Nzame) è lassù, l'uomo quaggiù / Dio è Dio, l'uomo è uomo. / Ognuno al suo posto, ognuno a casa sua".

È inutile moltiplicare gli esempi. Ovunque in queste religioni primitive l'essere supremo celeste sembra aver perduto ‛attualità' religiosa; non ha posto nel culto, e nei miti si distacca sempre più dall'uomo fino a divenire un deus otiosus. Lo si ricorda e lo si supplica come ultima risorsa, quando tutte le invocazioni ad altri dei e dee, agli antenati e ai demoni, sono risultate vane. Come dicono gli Oraon: ‟Ora abbiamo provato tutto, ma abbiamo ancora te che puoi aiutarci". E gli sacrificano un gallo bianco supplicando: ‟Dio, tu sei il nostro creatore, abbi pietà di noi".

10. La vita come esperienza religiosa

La lontananza del dio esprime di fatto il crescente interesse dell'uomo per le proprie scoperte in campo religioso, culturale ed economico. Concentrando l'attenzione sulle ierofanie della vita, attraverso la scoperta della fertilità sacra della terra e aprendosi a esperienze religiose di natura più concreta (più carnale, perfino orgiastica), l'uomo primitivo si distacca dal dio celeste e trascendente. La scoperta dell'agricoltura trasforma in modo radicale non solo l'economia dell'uomo primitivo, ma anche, e specialmente, la sua ‛economia del sacro'. Altre forze religiose entrano in gioco: la sessualità, la fertilità, la mitologia della donna e della terra e così via. L'esperienza religiosa diviene più concreta, cioè più intimamente connessa con la vita. Le grandi dee madri e gli dei della tempesta o gli spiriti della fertilità sono nettamente più dinamici e più accessibili agli uomini di quanto non fosse il Dio Creatore.

È doveroso aggiungere, tuttavia, che i mutamenti rivoluzionari verificatisi nel settore economico e nell'organizzazione sociale come risultato dell'evoluzione dalla fase della raccolta e della caccia a quella della protoagricoltura crearono bensì le condizioni per le nuove valorizzazioni religiose del mondo, ma non le ‛causarono' nel senso deterministico del termine. Non al fenomeno naturale della vegetazione va fatta risalire la comparsa dei sistemi mitico-religiosi della struttura agraria, ma piuttosto all'esperienza religiosa suscitata dalla scoperta di una solidarietà mistica fra l'uomo e la vita vegetale.

In verità, in base ai miti dei primi orticoltori delle regioni tropicali, la pianta commestibile non è ‛data' in natura; è il prodotto di un sacrificio primordiale. Nei tempi mitici un essere semidivino viene sacrificato affinché i tuberi e gli alberi da frutta possano germogliare dal suo corpo. Il paleocoltivatore si assume la responsabilità di garantire la vita delle piante commestibili, si assume cioè il compito di sacrificare vittime umane e animali domestici e di compiere riti sessuali e orgiastici. La caccia alle teste e il sacrificio di vittime umane per propiziare il raccolto trovano la loro motivazione in questa nuova ideologia religiosa. Con lo sviluppo della coltivazione del grano nel Vicino Oriente, numerosi riti e miti vennero elaborati attorno all'idea del rinnovamento periodico della sacralità cosmica, cioè della morte e resurrezione degli dei della vegetazione.

Tutte queste nuove forme religiose, che apparvero dopo l'avvento della paleoagricoltura e l'organizzazione delle società sedentarie (villaggi, mercati, città), sono solitamente caratterizzate da un'intensità drammatica dell'esperienza religiosa, da un accresciuto antagonismo rituale fra i sessi (associato all'attrazione reciproca) e dall'importanza ascritta alla sessualità e specialmente alla bisessualità e androginia, espressioni mitiche e rituali di ‛totalità' e di perfezione divina. Tracce dell'androginia divina si incontrano perfino nelle epoche paleolitiche e fra certi primitivi nella fase della raccolta e della caccia, ma è essenzialmente nelle culture agricole che queste idee formano un sistema religioso, che integra inoltre il complesso mitico-rituale della ierogamia. Si potrebbero rilevare, nelle culture agricole, altri esempi della rivalorizzazione di tali forme arcaiche di comportamento religioso. Uno dei più istruttivi è il culto dei morti: attestato già nel paleolitico, esso acquista considerevole importanza specialmente nelle culture megalitiche.

In breve, da allora lo sviluppo della vita religiosa è stato dominato dalle conseguenze della scoperta della solidarietà mistica fra l'uomo e la vita vegetale, dall'importanza primaria attribuita alle epifanie della vita (sangue, sessualità, fecondità) e dalla valorizzazione religiosa della tensione, della sofferenza e del dolore. Gli dei incontrano il favore popolare per il dramma che hanno vissuto e non per ciò che sono o ciò che hanno creato. Gli dei più popolari non sono i creatori ma coloro la cui mitologia è ricca di episodi drammatici: hanno vissuto innumerevoli avventure, hanno conosciuto la sofferenza e a volte la morte e la resurrezione. Tutto ciò li rende più ‛vivi' e più ‛umani'. Esseri soprannaturali di questo tipo sono attestati già negli stadi più primitivi della cultura. Gli antenati mitici, gli eroi culturali e i leggendari fondatori delle società segrete vantano un'esistenza più drammatica di quella degli dei supremi e creatori. Ma è nelle società agricole che l'interesse per questo tipo di divinità diventa generale e dominante. Intorno agli dei sovrani o guerrieri, come anche intorno agli dei della vegetazione e della morte o alle dee della fertilità e del destino, fioriscono mitologie commoventi e stravaganti; le loro fantastiche imprese, che coinvolgono forze cosmiche e possenti magie, eccitano l'immaginazione degli uomini. Questi miti rivelano quel che avvenne nel mondo dopo la Creazione; esaltano l'azione, la forza e l'abilità raccontando non solo battaglie e avventure, ma anche prodigi e discese nell'oltretomba, incontri con la morte e la ricerca dell'immortalità. È in questo clima religioso che prende forma la figura di un essere divino che incontra una fine tragica e che più tardi diventerà la figura chiave dei culti misterici. Il processo di ‛umanizzazione' che gli dei subiscono, con l'implicito e progressivo distacco dalle fonti della sacralità cosmica, è quasi ovunque attestato nel Vicino Oriente e nelle regioni mediterranee, ma giunge a compimento nella Grecia classica. In taluni casi, il ritiro degli dei dalla sacralità cosmica finisce con lo svuotarli di valore religioso.

11. Tra Yahweh e Baal

Eppure, come si è visto, in casi di estrema disperazione, quando tutto è stato tentato invano e specialmente in casi di calamità che provengono dal cielo - siccità, tempeste, epidemie - gli uomini tornano a implorare l'Essere Supremo. Questo atteggiamento non lo si riscontra solo fra i primitivi. Ogni volta che gli antichi Ebrei avevano un periodo di pace e di prosperità abbandonavano Yahweh per i Baal e le Astarti dei loro vicini. Solo le catastrofi storiche li costringevano a rivolgersi a Yahweh. ‟Gridarono allora al Signore e dissero: abbiamo peccato, perché abbiamo abbandonato il Signore e reso culto ai Baal e alle Astarti; ora liberaci dalle mani dei nostri nemici e ti serviremo" (I Samuele, 12, 10).

Gli Ebrei tornavano dunque a Yahweh dopo le catastrofi storiche e sotto la minaccia di un annientamento determinato dalle vicende storiche; i primitivi si ricordano dei loro Esseri Supremi in occasione di catastrofi cosmiche. Ma il significato di questo ritorno al dio celeste è il medesimo in entrambi i casi: in una situazione estremamente critica, in cui è in gioco la sopravvivenza stessa della comunità, le divinità che in periodi normali assicurano e promuovono la vita vengono abbandonate a favore del dio supremo. Apparentemente, è questo un grande paradosso. Le divinità che per i primitivi presero il posto degli dei celesti furono - come i Baal e le Astarti per gli Ebrei - divinità della fertilità, dell'opulenza, della pienezza della vita; in breve, divinità che esaltavano e arricchivano la vita, sia cosmica - vegetazione, agricoltura, bestiame - sia umana. Queste divinità sembravano forti, potenti; la loro attualità religiosa era spiegata proprio con la loro forza, con le loro illimitate risorse vitali, con la loro fertilità.

E tuttavia coloro che le veneravano - sia i primitivi sia gli Ebrei - sentivano che tutte queste grandi dee e tutti questi dei della vegetazione erano incapaci di ‛salvarli', cioè di garantire la loro esistenza nei momenti veramente critici. Questi dei e dee avevano unicamente il potere di ‛riprodurre' e ‛incrementare' la vita e solo in periodi normali. In breve, erano divinità che governavano mirabilmente i ritmi cosmici ma che si dimostravano incapaci di ‛salvare' il cosmo o l'umanità nei momenti di crisi (crisi storiche per gli Ebrei).

Le varie divinità che avevano preso il posto degli Esseri Supremi erano titolari dei poteri più ‛concreti' e appariscenti, i poteri della vita. Ma proprio per questo si erano ‛specializzate' nella procreazione e avevano perduto i poteri più puri, più nobili, più spirituali degli Dei Creatori. Scoperta la sacralità della vita, l'uomo si lasciò trascinare sempre più dalla sua stessa scoperta; cedette alle ierofanie vitali e rifuggì dalla sacralità che trascendeva i suoi bisogni immediati e quotidiani.

Si deve aggiungere che la transitoria riattualizzazione religiosa dell'Essere Supremo in periodi di crisi esistenziale non è un fenomeno frequente, né potrebbe esserlo; l'abbiamo nondimeno ricordato perché è associato a un tipo generale di comportamento umano, riscontrabile perfino fra i popoli monoteisti della nostra epoca. Per un cristiano del XX secolo altri ‛idoli' prendono il posto dei Baal e delle Astarti, come l'interesse appassionato ed esclusivo per la sfera economica o per i problemi sociali, politici e culturali. Salvo rare eccezioni, il cristiano si rivolge a Dio in modo sincero, totale ed esclusivo solo quando è imminente qualche catastrofe.

12. Struttura e funzione dei riti

Per molti popoli primitivi, così come per le società urbane del Vicino Oriente antico, i riti più importanti venivano celebrati durante le feste del Capodanno. Tutti questi riti hanno un significato cosmogonico: simbolicamente, ripetono la Creazione del Mondo. In altre parole, ogni Capodanno determinava un rinnovamento del Mondo e la rinascita della Vita. Il caso più famoso è quello del Capodanno mesopotamico (akîtu). Una serie di riti faceva rivivere la battaglia fra Marduk e Tiamat (il Dragone simboleggiava l'oceano primordiale ‛caotico'), la vittoria del dio e le sue fatiche cosmogoniche; si recitava nel tempio il Poema della Creazione (Enūma elīsh). Come dice H. Frankfort, ‟qualcosa di essenziale accomunava ogni Capodanno al primo giorno in cui il mondo fu creato ed ebbe inizio il ciclo delle stagioni". Per quel che concerne il rituale del Capodanno ebraico, è stato dimostrato che una delle idee centrali era la rappresentazione della vittoria di Yahweh sui suoi nemici - sulle forze del caos come sui nemici tradizionali di Israele - e della sua investitura come re del mondo. Ovviamente, la ripetizione simbolica della cosmogonia nel Capodanno mesopotamico e in quello ebraico non ha lo stesso significato. Tra gli Ebrei, il rituale arcaico del periodico rinnovamento del mondo fu progressivamente storicizzato pur conservando qualcosa del suo significato originario. A. J. Wensinck ha dimostrato che il rituale di Capodanno, che simboleggiava il passaggio dal caos al cosmo, fu riferito ad avvenimenti storici quali l'esodo e il passaggio del Mar Rosso, la conquista di Canaan, la cattività babilonese e il ritorno dall'esilio.

Per l'uomo religioso le principali funzioni fisiologiche possono diventare sacramenti. Mangiare è un rituale, e il cibo viene variamente valorizzato dalle diverse religioni e culture. Gli alimenti vengono considerati sacri, o come doni della divinità, o come offerta votiva agli dei del corpo (per es. in India). Anche la vita sessuale viene ritualizzata, e quindi equiparata a quella divina (ierogamia Cielo-Terra).

Con il matrimonio si verifica un passaggio da un gruppo socio-religioso a un altro. Il giovane sposo lascia il gruppo degli scapoli ed entra a far parte, da quel momento in poi, del gruppo dei capifamiglia. Ogni matrimonio implica una tensione e un pericolo e perciò provoca una crisi; ecco perché richiede un rito di passaggio.

I ‛riti di passaggio' hanno un ruolo notevole nella vita dell'uomo religioso. Senza dubbio, il più importante rito di passaggio è rappresentato dall'iniziazione - nell'età puberale -, dal passaggio cioè da un gruppo di età a un altro (dall'infanzia o dall'adolescenza all'età adulta). Ma vi sono riti di passaggio anche in occasione della nascita, del matrimonio, della morte: può infatti dirsi che ognuno di questi eventi comporta sempre un'iniziazione, dato che implica un mutamento radicale dello status ontologico e sociale. Al momento della nascita il bambino non ha che un'esistenza fisica, non è ancora riconosciuto dalla famiglia, né accettato dalla comunità. Sono i riti celebrati immediatamente dopo la nascita che danno al nuovo nato lo status di effettiva ‛persona vivente' ed è solo in grazia loro che egli viene ammesso nella comunità dei viventi.

Per quel che concerne la morte, i riti sono ancora più complessi: non si tratta infatti solo di un ‛fenomeno naturale' (la vita - o l'anima - che lascia il corpo) ma anche di un mutamento nello status sia ontologico che sociale. Il defunto deve passare attraverso determinate prove che riguardano il suo destino nell'al di là, ma deve anche essere riconosciuto dalla comunità dei morti e da loro accettato. Per taluni popoli solo la sepoltura rituale conferma la morte; colui che non viene sepolto secondo la tradizione non è morto. Altrove, la morte non è ritenuta valida fino a quando la cerimonia funebre non sia stata celebrata o fino a quando l'anima della persona morta non sia stata ritualmente condotta alla nuova dimora nell'altro mondo e ivi accettata dalla comunità dei morti.

13. Riti di iniziazione

Già negli stadi arcaici della cultura l'iniziazione ha un ruolo preminente nella formazione religiosa dell'uomo; nella sua essenza, consiste in un totale mutamento dello status ontologico dell'iniziando. Per la comprensione dell'uomo religioso, è della massima importanza afferrare il significato di questo rito; esso mostra che l'uomo delle società primitive non si considera ‛completo' così come si sperimenta al livello naturale dell'esistenza. Per diventare un uomo in senso proprio, deve morire in questa prima vita (naturale) e rinascere a una vita più alta, che è al tempo stesso religiosa e culturale.

In altre parole, l'ideale di uomo che il primitivo si prefigge viene situato su un piano oltreumano. Questo significa che: a) non si diventa un uomo completo finché non si supera, e in un certo senso non si abolisce, la propria condizione umana ‛naturale': l'iniziazione è infatti comparabile a un'esperienza paradossale, soprannaturale, di morte e resurrezione (o seconda nascita); b) i riti di iniziazione, che comportano una serie di prove e la morte e resurrezione simboliche dell'iniziando, sono stati istituiti dagli dei, dagli eroi culturali o dagli antenati mitici; essi hanno quindi un'origine sovrumana e, compiendoli, l'iniziando imita un'azione sovrumana, divina. È importante sottolineare questo punto, in cui si mostra ancora una volta che l'uomo religioso ‛vuole essere diverso' da come si avverte sul piano ‛naturale', e cerca quindi di conformarsi all'immagine ideale svelatagli dai miti. L'uomo primitivo si impegna a conseguire un ‛ideale religioso di uomo', e il suo sforzo ha già in sé i germi di tutti i principi etici successivamente elaborati nelle società evolute. Ovviamente, nelle società areligiose moderne l'iniziazione non esiste più come atto religioso; ma i ‛modelli' di iniziazione, sebbene nettamente dissacrati, sopravvivono nel mondo moderno.

L'iniziazione comporta di solito una triplice rivelazione: del sacro, della morte e del sesso. Il bambino non sa nulla di queste esperienze; l'iniziato invece le conosce e le fa proprie, incorporandole nella sua nuova personalità. Si deve aggiungere che l'iniziando, morendo alla vita infantile, profana, non rigenerata, per rinascere a un'esistenza nuova, santificata, rinasce anche a una modalità di essere che rende possibile l'apprendimento, la ‛conoscenza'. L'iniziato non è solo un nuovo nato o un risuscitato; egli è un uomo che ‛sa', che ha appreso i misteri, che ha avuto rivelazioni di natura metafisica. Durante la sua istruzione nel bosco egli apprende i segreti sacri: i miti che raccontano degli dei e dell'origine degli strumenti rituali usati nelle cerimonie di iniziazione (i rombi, i coltelli di pietra per la circoncisione, ecc.). L'iniziazione equivale a una maturazione spirituale. È questo un tema che si riscontra costantemente nella storia religiosa dell'umanità: l'iniziato, colui che ha sperimentato i misteri, è ‛colui che sa'.

La cerimonia inizia sempre con la separazione del candidato dalla sua famiglia e con un periodo di segregazione nel bosco. Già qui incontriamo un simbolo di morte: la foresta, la giungla, l'oscurità simboleggiano l'oltretomba, gli Inferi. Presso taluni popoli si crede che una tigre venga a prendere gli iniziandi per portarli sulla groppa nella giungla; il felino incarna l'Antenato mitico, il maestro dell'iniziazione, che conduce i fanciulli nell'oltretomba. Altrove si crede che l'iniziando venga inghiottito da un mostro. Nel ventre del mostro è la notte cosmica; è la modalità embrionale dell'esistenza, sul piano cosmico come su quello della vita umana. In molti casi vi è nel bosco una capanna di iniziazione, ove gli iniziandi affrontano una parte delle loro prove e vengono istruiti nelle tradizioni segrete della tribù. La capanna di iniziazione simboleggia il ventre materno; la morte simbolica dell'iniziando simboleggia la regressione allo stato embrionale. Ma ciò non si deve intendere solo in termini di biologia umana, bensì anche in termini cosmologici; lo stato fetale equivale a una temporanea regressione alla fase precosmica.

Altri rituali illuminano il simbolismo della morte iniziatica. Presso taluni popoli, i candidati vengono sepolti o distesi in tombe appena scavate; oppure vengono coperti di rami e restano immobili come morti; oppure vengono imbrattati di polvere bianca in modo da apparire simili a spiriti; e imitano gli spiriti anche nel comportamento: non usano le mani per mangiare, ma prendono il cibo direttamente con i denti, come si ritiene facciano le anime dei morti. Infine, le torture che subiscono, tra i molti altri significati hanno anche questo: si crede che il tormentato e mutilato iniziando venga torturato, tagliato a pezzi, bollito e arrostito dai demoni maestri dell'iniziazione, e cioè dagli antenati mitici. Le sofferenze fisiche sono quelle di chi venga ‛mangiato' dal demone felino, fatto a pezzi nello stomaco e digerito nel ventre del mostro iniziatico. Le mutilazioni (estrazione di denti, amputazione di dita, ecc.) evocano anch'esse un simbolismo di morte. Oltre a operazioni particolari - come la circoncisione e la subincisione - e alle mutilazioni iniziatiche, altri segni esteriori, come tatuaggi o scarificazioni, hanno il medesimo significato di morte e resurrezione. Anche la rinascita mistica viene variamente simboleggiata. Ai candidati vengono imposti nuovi nomi, che da quel momento in poi saranno i loro veri nomi. Presso talune tribù si presume che gli iniziati dimentichino completamente la loro vita precedente. Immediatamente dopo l'iniziazione vengono nutriti come bambini, condotti per mano, e istruiti di nuovo in tutte le forme di comportamento, come si fa appunto con i bambini. Solitamente nel bosco apprendono una nuova lingua, o per lo meno un vocabolario segreto noto solo agli iniziati. Appare evidente che, con l'iniziazione, tutto ricomincia daccapo. A volte il simbolismo della rinascita viene espresso in modo concreto. Presso alcuni popoli Bantu - prima della circoncisione - si celebra per il fanciullo una cerimonia chiamata ‛il rinascere'. Il padre sacrifica un ariete e tre giorni dopo avvolge il fanciullo nella membrana dello stomaco e nella pelle dell'animale. Immediatamente prima della cerimonia il fanciullo deve mettersi a letto e piangere come un neonato; rimane nella pelle di ariete per tre giorni. Gli stessi popoli seppelliscono i morti avvolgendoli, in posizione fetale, in pelli di ariete. Il simbolismo della rinascita mistica attraverso la vestizione rituale di una pelle di animale è attestato anche in culture altamente evolute (India e antico Egitto). Nei rituali iniziatici il simbolismo della nascita si trova quasi sempre affiancato a quello della morte. Nel contesto iniziatico, la morte significa il superamento della condizione profana, non santificata, della condizione di ‛uomo naturale' privo di esperienza religiosa, cieco alla luce dello spirito. Il mistero dell'iniziazione rivela gradualmente all'iniziando le vere dimensioni dell'esistenza; introducendolo al sacro, lo costringe ad assumere la responsabilità della sua raggiunta condizione di uomo. In ciò è da ravvisare un fatto d'importanza capitale: presso tutte le società arcaiche l'accesso alla spiritualità si manifesta con un simbolismo di morte e di rinascita.

14. Gli specialisti del sacro: sciamani e stregoni

Lo sciamanismo è un fenomeno religioso caratteristico dei popoli siberiani e uralo-altaici. Di origine tungusa, ‛sciamano' è approdato alla terminologia scientifica europea per il tramite del russo. Sebbene le sue manifestazioni più compiute si riscontrino nelle regioni artiche e dell'Asia centrale, lo sciamanismo non deve però considerarsi circoscritto a quei territori. Lo si incontra, ad esempio, nell'Asia sudorientale, in Oceania e presso molte tribù aborigene dell'America settentrionale. Bisogna però fare una distinzione fra le religioni dominate da un'ideologia sciamanica e dalle tecniche sciamaniche (come nel caso delle religioni siberiane e indonesiane) e quelle in cui lo sciamanismo rappresenta piuttosto un fenomeno secondario.

Lo sciamano è stregone, sacerdote e psicopompo; cura cioè le malattie, dirige i riti sacrificali della comunità e scorta le anime dei morti nell'oltretomba. È in grado di assolvere a tutte queste funzioni grazie alle sue tecniche dell'estasi, cioè alla facoltà di evadere a volontà dal suo corpo. In Siberia e nell'Asia nordorientale si diventa sciamano per via ereditaria o per vocazione spontanea, o ‛chiamata'. Più raramente, si può diventare sciamano per decisione propria o su richiesta del clan, ma gli sciamani di questa specie sono considerati più deboli di quelli che ereditano la professione, o che vengono ‛chiamati' dagli esseri soprannaturali. Nell'America settentrionale, invece, la ‛ricerca' volontaria dei poteri costituisce la via principale. A prescindere dal modo della loro selezione, gli sciamani sono riconosciuti tali solo in seguito a una serie di prove iniziatiche dopo essere stati istruiti da maestri qualificati.

Nell'Asia settentrionale e centrale le prove, di norma, si estendono per un periodo di tempo indefinito, durante il quale il futuro sciamano è ammalato e sta nella sua tenda o vaga nella landa selvaggia comportandosi in modo talmente stravagante da essere scambiato per pazzo. Diversi autori hanno infatti spiegato lo sciamanismo artico e sibenano come l'espressione ritualizzata di una malattia mentale, specialmente dell'isteria artica. Senonché, l'‛eletto' diventa sciamano solo se è in grado di dare alle sue crisi patologiche il significato di un'esperienza religiosa e riesce a curare se stesso. Le gravi crisi che a volte accompagnano la ‛chiamata' del futuro sciamano devono essere considerate ‛prove iniziatiche'. Nei sogni e nelle allucinazioni del futuro sciamano si rintraccia il modello classico dell'iniziazione: egli viene torturato da demoni, il suo corpo è fatto a pezzi, discende nell'oltretomba o ascende in cielo e infine viene risuscitato. Acquista cioè una nuova modalità di essere, che gli consente di avere rapporti con i mondi soprannaturali. Lo sciamano è ora in grado di ‛vedere' gli spiriti, ed egli stesso si comporta come uno spirito; può evadere dal suo corpo e vagare in estasi per tutte le regioni cosmiche. L'esperienza estatica non basta tuttavia a fare uno sciamano. Il neofita, sotto la guida di maestri, oltre alle tradizioni religiose della tribù deve imparare a riconoscere le varie malattie e a curarle.

L'ascesa al cielo è una delle caratteristiche particolari dello sciamanismo siberiano e centroasiatico. Nel sacrificio del cavallo, lo sciamano altaico ascende in estasi al cielo per offrire al dio celeste l'anima del cavallo sacrificato. L'ascesa viene compiuta salendo su un fusto di betulla, che ha nove intagli, ciascuno simboleggiante un particolare cielo.

La funzione più importante dello sciamano è quella di guarire. Poiché si ritiene che la malattia sia dovuta a una perdita dell'anima, lo sciamano deve anzitutto scoprire se l'anima del malato si è smarrita lontano dal villaggio o è stata rubata da demoni ed è imprigionata nell'oltretomba. Nel primo caso la guarigione non è molto difficile: lo sciamano riprende l'anima e la riunisce al corpo del malato. Nel secondo caso, invece, deve scendere nel mondo infero, impresa questa complicata e pericolosa. Egualmente emozionante è il viaggio dello sciamano nell'al di là, per scortare l'anima del defunto alla sua nuova dimora; egli narra ai presenti tutte le vicissitudini del viaggio man mano che si svolge.

15. Mistici e profeti

Gli sciamani possono essere definiti i ‛mistici' delle società arcaiche: l'estasi sciamanica equivale al misticismo caratteristico delle religioni dei cacciatori e dei pastori primitivi.

L'esperienza mistica muta radicalmente la condizione umana; chi la prova si sente ‛rinato' o ‛rigenerato' o ‛redento' o ‛salvato' o ‛libero'. È conscio che sta iniziando una ‛nuova vita', anzi che per la prima volta sta vivendo una ‛vera' vita, che ha trovato il suo ‛vero sé' o che si è guadagnato la ‛vita eterna'. Questa nuova realtà o nuovo essere o nuova vita, che l'esperienza mistica rivela, può significare la scoperta della ‛vera anima' (il Sé, ātman, nous) o un nuovo rapporto con un Sé superiore, una divinità. La divinità può essere impersonale (come l'indiano Brahman) o personale (Kṛṣṇa, Śiva, Gesù). Ogni esperienza mistica autentica implica una rivalutazione del concetto di Essere. La ‛nuova vita' o la ‛nuova personalità' è il risultato del confronto personale con l'Essere.

Il profetismo è un fenomeno ben noto nella storia delle religioni; trova però la sua espressione più significativa nella tradizione israelita. Già nell'XI secolo a. C. gruppi di profeti (nebiim, singolare nabī) predicevano il futuro in uno stato di trance estatica (I Samuele, 10, 5). Più tardi, i profeti svolsero la propria attività presso i santuari nazionali, specialmente presso il tempio di Gerusalemme. Combatterono strenuamente l'influenza cananea sul culto israelita e proclamarono il messaggio etico dello yahwismo, predicando la giustizia e la rettitudine.

Il profeta è sostanzialmente diverso non solo dal mistico, ma anche dal sacerdote, che è responsabile del culto istituzionalizzato. Non si diventa profeti senza vocazione, senza essere ‛chiamati' da Dio. Il profeta si considera messaggero di Dio. Proclamando la parola di Dio, egli annuncia una nuova rivelazione. Una caratteristica del profeta dell'Antico Testamento sta nel fatto ch'egli critica la religione istituzionalizzata e la società contemporanea attraverso un'interpretazione di eventi storici.

Ovviamente, la tipologia degli ‛specialisti del sacro' e degli ‛uomini eletti' è ben più ricca e complessa di quella qui tratteggiata. Oltre allo stregone, allo sciamano, al mistico, al profeta e al sacerdote, notevolmente più importanti sono i fondatori e i riformatori delle religioni. Qui ci limiteremo a ricordare fra i fondatori Mosè, Zarathustra, Buddha, Gesù, Mani e Maometto, e fra i riformatori Ekhnaton, san Francesco, Rāmānuja, Lutero, Ignazio di Loyola e Wesley.

16. Classificazione delle religioni

Sin dal Settecento le religioni sono state classificate in molti modi e da diverse prospettive. Hegel distinse uno stadio oggettivo, in cui Dio è immerso nella Natura, uno stadio soggettivo, quando Dio si manifesta come Ente spirituale, e infine il cristianesimo, nel quale Dio si rivela come Spirito Assoluto.

Nella seconda metà dell'Ottocento e all'inizio del Novecento sono state avanzate una quantità di classificazioni: religioni della Natura e dello Spirito, della Legge e della Grazia, della Fede e delle Opere, dell'azione e della contemplazione mistica; oppure religioni nazionali e universali, cosmiche e acosmiche, ecc. N. Söderblom ridusse a tre le forme di religioni: animismo, dinamismo e religioni dei fondatori.

La tipologia più complessa fu elaborata da G. van der Leeuw. Egli distinse: a) le religioni dell'allontanamento e della fuga (Cina, deismo del XVIII secolo, buddhismo originario); b) la religione del combattimento (dualismo zoroastriano); c) la religione della quiete (misticismo); d) le religioni dell'inquietudine (giudaismo antico, cristianesimo, Islàm); e) la religione dello slancio e della figura (Grecia antica); f) le religioni dell'infinità e dell'ascesi (India antica, primo buddhismo); g) la religione del nulla e della pietà (buddhismo del Mahāyāna); h) la religione della volontà e dell'obbedienza (giudaismo); i) la religione della maestà e dell'umiltà (Islàm); l) la religione dell'amore (cristianesimo).

La distinzione tra religione ‛naturale' e ‛rivelata' non ha senso, giacché ogni religione - sia ‛primitiva' che ‛storica' - è in ultima analisi il risultato di una rivelazione primordiale, soprannaturale. Parimenti inaccettabile è la classificazione delle religioni in ‛inferiori' (primitive) e ‛superiori'. Più utili sono le distinzioni fra religioni ‛cosmologiche' (cioè quelle in cui il sacro si manifesta attraverso i fenomeni cosmici), ‛acosmiche' (buddhismo, gnosticismo) e religioni ‛storiche' (giudaismo, cristianesimo, Islàm), o fra ‛religioni del libro' (vedismo, giudaismo, zoroastrismo, cristianesimo, Islàm) e religioni dei popoli preletterati e di quelli che, pur possedendo una letteratura religiosa, non ne proclamarono l'ispirazione divina (Vicino Oriente antico, Grecia antica, Cina, ecc.).

17. Atteggiamenti verso le religioni forestiere

a) Mondo antico

Sebbene la scienza delle religioni come disciplina autonoma abbia avuto inizio solo nell'Ottocento, l'interesse per le religioni di altri popoli risale molto più addietro nel passato. Se ne trova documentazione per la prima volta nella Grecia classica, specialmente a partire dal V secolo. Tale interesse si manifestò sia nei resoconti dei viaggiatori, che descrissero i culti di paesi lontani raffrontandoli con le pratiche religiose greche, sia nella critica filosofica della religione tradizionale. Già Erodoto descrisse in modo sorprendentemente preciso diverse religioni barbare ed esotiche (dell'Egitto, della Persia, della Tracia, della Scizia, ecc.), formulando perfino ipotesi sulla loro origine e sulle loro relazioni con i culti e i miti greci. I filosofi presocratici indagarono la natura degli dei e il valore dei miti, fondando una critica razionalistica delle religioni. Così, ad esempio, per Parmenide ed Empedocle gli dei erano personificazioni di forze naturali. Anche Democrito sembra aver mostrato viva curiosità e interesse per le religioni straniere con cui era venuto direttamente a contatto durante i suoi numerosi viaggi. Platone fece frequente uso di paragoni con le religioni dei barbari; Aristotele elaborò la prima formulazione sistematica della teoria della degenerazione religiosa dell'umanità (Metafisica, XII, 7), concetto che sarà spesso ripreso in epoche successive. Teofrasto, che succedette ad Aristotele come scolarca del Liceo, può essere considerato il primo storico greco delle religioni: secondo Diogene Laerzio (V, 48), egli scrisse una storia delle religioni in sei libri.

Ma fu specialmente dopo le conquiste di Alessandro Magno che gli scrittori greci poterono acquisire una conoscenza diretta delle tradizioni religiose dei popoli orientali e quindi descriverle. Durante il regno di Alessandro, Beroso, un sacerdote di Bēl-Marduk, scrisse una storia della Babilonia in tre libri. Megastene, che tra il 302 e il 297 fu più volte inviato da Seleuco Nicatore come ambasciatore presso il re indiano Candragupta, scrisse un trattato in quattro libri sull'India; Ecateo di Abdera (o di Teo) scrisse sugli Iperborei e dedicò un'opera alla religione degli Egiziani. Manetone, un sacerdote egiziano, si occupò dello stesso argomento in un'opera che porta un identico titolo. Il mondo alessandrino venne perciò a conoscere un gran numero di miti, riti e consuetudini religiose esotiche.

Nell'Atene dell'inizio del III secolo Epicuro elaborò una critica radicale della religione: a suo parere il ‟consenso universale" prova che gli dei esistono, ma egli li considera esseri superiori e remoti, che non hanno rapporto alcuno con l'uomo. Le sue teorie incontrarono gran favore nel mondo latino del I secolo a.C., soprattutto grazie all'opera di Lucrezio. Furono però gli stoici che influenzarono profondamente tutto il mondo antico elaborando il metodo dell'interpretazione allegorica, che consentì loro di conservare e al tempo stesso rivalorizzare il retaggio mitologico. Secondo gli stoici, i miti rivelano o concezioni filosofiche sulla natura ultima delle cose o dottrine etiche. I molti nomi degli dei stanno a indicare un'unica divinità: solo la terminologia varia. Il metodo allegorico degli stoici rese possibile la trasposizione di qualsiasi tradizione arcaica o esotica in un linguaggio universale e facilmente comprensibile; esso ebbe larga fortuna e vasta applicazione.

L'idea che talune divinità erano una volta re o eroi, deificati per i servizi resi all'umanità, aveva trovato fautori fin dall'epoca di Erodoto, ma fu Evemero che rese popolare questa interpretazione pseudostorica della mitologia nel suo Sacro scritto. L'evemerismo ebbe molti seguaci, soprattutto grazie alla traduzione latina, fatta da Ennio, dell'opera di Evemero, e agli apologisti cristiani, che ne ripresero per i loro scopi gli argomenti. Meritano particolare menzione, fra gli autori romani, Cicerone e Varrone per il valore storico-religioso delle loro opere. I quarantuno libri delle Antiquitates rerum humanarum et divinarum erano una miniera di notizie; nel De natura deorum Cicerone dette un'accurata descrizione dei riti e delle credenze dell'ultimo secolo dell'era pagana.

Il diffondersi dei culti orientali e delle religioni misteriche nell'Impero romano e il sincretismo religioso che ne derivò, specialmente ad Alessandria, favorirono la conoscenza delle religioni esotiche e lo studio dei fenomeni religiosi di vari paesi. Durante i primi due secoli dell'era cristiana, Erennio Filone, seguace di Evemero, pubblicò la Storia fenicia, Pausania la Periegesi della Grecia - una miniera inesauribile per lo storico delle religioni - e lo pseudo-Apollodoro la Biblioteca, un compendio mitografico. Il neopitagorismo e il neoplatonismo si dedicarono alla rivalutazione dell'interpretazione spirituale dei miti e dei riti. Plutarco fu un tipico rappresentante di questa scuola di esegesi, soprattutto col suo trattato Su Iside e Osiride. Secondo Plutarco, la diversità nelle forme religiose era solo apparente: i simboli rivelavano la fondamentale unità di tutte le religioni. La tesi stoica fu brillantemente riformulata da Seneca: le molte divinità altro non erano che aspetti di un solo Dio. Si moltiplicavano frattanto le descrizioni di religioni straniere e di culti esoterici: Giulio Cesare e Tacito fornirono preziose informazioni sulle religioni dei Galli e dei Germani; Apuleio descrisse la cerimonia di iniziazione ai misteri di Iside; Luciano nell'opera Sulla dea siriana illustrò il culto siriano.

b) Cristianesimo, giudaismo, islamismo

Per gli apologeti e gli eresiarchi cristiani, il problema si presentava su un piano diverso, giacché essi opponevano l'unico Dio della religione rivelata ai molti dei del paganesimo. Essi erano dunque obbligati da un lato a dimostrare l'origine soprannaturale - e la conseguente superiorità - del cristianesimo, dall'altra a spiegare l'origine degli dei pagani e in particolare a chiarire il perché dell'idolatria che caratterizzava il mondo precristiano. Dovevano anche dar ragione delle analogie fra religioni misteriche e cristianesimo. Furono prospettate diverse teorie: a) i demoni nati dal connubio tra gli angeli caduti e le ‟figlie degli uomini" (Genesi, 6, 2) avevano spinto l'umanità verso l'idolatria; b) la teoria del ‛plagio' (gli angeli del male, a conoscenza delle profezie e allo scopo di turbare i fedeli, avevano introdotto nelle religioni pagane alcuni elementi di somiglianza con il giudaismo e il cristianesimo; i filosofi pagani avevano mutuato le loro dottrine da Mosè e dai profeti); c) l'intelletto è in grado di giungere alla conoscenza della verità grazie alle sue facoltà: il mondo pagano aveva quindi potuto acquisire una conoscenza naturale di Dio.

La reazione pagana assunse diverse forme. Ne sono espressione l'attacco violento del neopitagorico Celso contro l'originalità e il valore spirituale del cristianesimo; la Vita di Apollonio di Tiana, del sofista Filostrato, in cui vengono messe a raffronto le concezioni religiose degli Indiani, Greci ed Egiziani e viene illustrato un ideale pagano di pietà e tolleranza; l'opera del neoplatonico Porfirio - discepolo di Plotino - che abilmente polemizza contro il cristianesimo ricorrendo al metodo allegorico, e di Giamblico, che propugna un ideale di sincretismo e tolleranza.

Le figure preminenti del contrattacco cristiano furono gli africani Minucio Felice, Lattanzio, Tertulliano, Firmico Materno e i grandi eruditi alessandrini Clemente Alessandrino e Origene.

Eusebio di Cesarea nella Cronaca, sant'Agostino nel De civitate Dei e Paolo Orosio negli Historiarum adversus paganos libri septem sbaragliarono definitivamente il paganesimo. Le loro opere, nelle quali viene ripresa la tesi degli autori pagani sulla crescente degenerazione delle religioni, sono preziose - al pari di quelle dei loro avversari e di altri autori cristiani - in quanto ci tramandano molto materiale storico-religioso relativo ai miti, ai riti e ai costumi di quasi tutti i popoli dell'Impero romano, nonché degli gnostici e delle sette cristiane eretiche.

L'interesse per le religioni forestiere fu risvegliato in Occidente durante il Medioevo dalla minacciosa presenza dell'Islàm. Nel 1141 Pietro il Venerabile fece tradurre il Corano da Roberto di Rétines, e a studiosi di arabo si dovettero importanti opere sulle religioni pagane. Al-Bīrūnī (973-1048) fornì una pregevole descrizione delle religioni e filosofie indiane; ash-Shahrastānī (morto nel 1153) scrisse un trattato sulle scuole islamiche; Ibn Hazm (994-1064), nell'opera voluminosa ed erudita al-Fiṣal (La discriminazione), diede una critica del dualismo mazdeo e manicheo, del bramanesimo, dell'ebraismo, del cristianesimo, dell'ateismo e di varie sette islamiche. Ma fu soprattutto Averroè (Ibn Rushd, 1126-1198) che, dopo aver profondamente influenzato il pensiero islamico, doveva dare il primo impulso a un'intera corrente intellettuale in Occidente; per interpretare la religione, Averroè adottò il metodo simbolico e allegorico e giunse alla conclusione che tutte le religioni monoteistiche sono vere, pur condividendo l'opinione di Aristotele che - in un mondo eterno - le religioni compaiono e scompaiono incessantemente.

Fra i dottori ebrei del Medioevo due meritano particolare menzione: Sa‛adyāh (882-942) che nel Kitāb al-amānāt wa 'l-i‛tiqādāt (Libro delle credenze e dei dogmi, 933 circa) interpretò il bramanesimo, il cristianesimo e la religione musulmana nel quadro di una filosofia religiosa, e Maimonide (1135-1204), che intraprese uno studio comparato delle religioni evitando scrupolosamente di cadere nel sincretismo. Egli cercò di spiegare le imperfezioni della prima religione rivelata, il giudaismo, con la teoria della condiscendenza divina e del progresso umano, tesi queste che erano state sostenute anche dai Padri della Chiesa.

La comparsa dei Mongoli - ostili agli Arabi - in Asia Minore indusse i papi a inviare missionari affinché si informassero sulle loro religioni e sui loro costumi. Nel 1244 Innocenzo IV inviò due domenicani e due francescani, uno dei quali, Giovanni dal Piano dei Carpini, arrivò fino a Karakorum, in Asia centrale, e al suo ritorno scrisse la Historia Mongalorum. Nel 1253 Luigi IX inviò Guglielmo di Rubruquis a Karakorum, dove - egli ci racconta - tenne testa in un dibattito a manichei e a Saraceni. Infine, nel 1274 il veneziano Marco Polo pubblicò Il Milione in cui, fra innumerevoli altre meraviglie orientali, raccontava la vita del Buddha. Tutti questi libri riscossero enorme successo. In base a questa documentazione, Vincenzo di Beauvais, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo esposero in varie opere le credenze degli ‛idolatri' Tartari, Ebrei, Saraceni. Furono riesumate le tesi dei primi apologisti cristiani - in particolare la teoria della conoscenza spontanea di Dio e le tesi della degenerazione e dell'influenza demoniaca nella diffusione del politeismo.

18. Lo studio scientifico delle religioni

La riscoperta e rivalutazione - nel Rinascimento - del paganesimo furono dovute anzitutto al favore di cui godeva l'interpretazione allegorica neoplatonica. Le scoperte geografiche del Quattro e Cinquecento aprirono nuovi orizzonti alla conoscenza delle religioni ‛primitive'. Le raccolte dei resoconti dei primi esploratori incontrarono grande favore tra gli Europei colti; seguì la pubblicazione di lettere e relazioni di missionari dall'America e dalla Cina. Un primo tentativo di mettere a confronto le religioni del Nuovo Mondo con quelle dell'antichità si deve al missionario J. F. Lafitau nei Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiers temps, pubblicati a Parigi nel 1724. Nel 1757 Ch. de Brosses scrisse Du culte des dieux fétiches ou parallèle de l'ancienne réligion de l'Égypte avec la réligion actuelle de Négritie. Rispondendo a Lafitau e ispirandosi a Hume, de Brosses dichiarò erronea la tesi secondo cui l'umanità aveva in un primo tempo posseduto un'idea pura di Dio, poi corrottasi; al contrario, ‟poiché la mente umana si eleva per gradi da un livello inferiore a uno superiore", la prima forma di religione non poteva essere stata che grezza, cioè un ‟feticismo", termine che de Brosses usò annettendogli un vago significato di culto degli animali, piante e oggetti inanimati.

I deisti inglesi (specialmente Hume), i ‛filosofi' ed enciclopedisti francesi - Rousseau, Voltaire, Diderot, D'Alembert - e gli illuministi tedeschi (particolarmente Wolf e Lessing) continuarono a discutere accanitamente sul problema della religione naturale. Furono però i ricercatori eruditi che offrirono un valido contributo all'interpretazione delle religioni esotiche, pagane o primitive. Taluni autori esercitarono un forte influsso, sia per le ipotesi prospettate sia per le reazioni suscitate. Nel 1794 Fr. Dupuis pubblicò Origine de tous les cultes, in cui cercò di dimostrare che la storia degli dei e perfino la vita di Cristo sono solo allegorie dei moti delle stelle, tesi che fu ripresa dai panbabilonisti alla fine dell'Ottocento. G. Fr. Creuzer, in Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen (1810-1812), tentò di ricostruire le fasi primordiali delle religioni ‛pelasgiche' e orientali e di dimostrare la funzione del simbolismo.

Come risultato delle scoperte fatte in tutti i rami degli studi orientali durante la prima metà dell'Ottocento, nonché dell'affermazione della linguistica comparata, la storia delle religioni fece il suo vero esordio con Max Müller, il cui Essay on comparative mythology (1856) è il primo di una lunga serie di studi condotti da lui personalmente e dai suoi discepoli. Müller trovò la genesi dei miti nei fenomeni naturali, specialmente nelle epifanie solari, e spiegò la nascita degli dei come una ‛malattia del linguaggio': quel che prima altro non era che nome, nomen, era divenuto una divinità, numen. Le sue teorie ebbero grande successo e decaddero solo verso la fine del secolo, con la comparsa delle opere di W. Mannhardt e di E. B. Tylor. Nella sua opera principale Antike Wald- und Feldkulte (1875-1877) Mannhardt dimostrò l'importanza della ‛bassa mitologia', che ancora sopravvive nei riti e nelle credenze dei contadini; a suo parere queste credenze rappresentano uno stadio religioso precedente a quello delle mitologie naturistiche di Max Müller. Le teorie di Mannhardt furono adottate e divulgate da J. G. Frazer nei dodici volumi di The golden bough (London 1907-19153). Nel 1871 uscì la Primitive culture di E. B. Tylor, che fece epoca perché lanciò una nuova moda, quella dell'animismo. In base alla teoria animistica, l'uomo primitivo credeva che ogni cosa fosse dotata di un'anima, e, secondo Tylor, questa credenza fondamentale e universale spiegava non solo il culto dei morti e degli antenati, ma anche la genesi degli dei. Una nuova teoria, quella del preanimismo, fu elaborata dopo il 1900 da R. R. Marett, K. T. Preuss e altri studiosi, secondo i quali l'origine della religione andava ricercata nell'esperienza di una forza impersonale (mana). Una critica dell'animismo, ma da un diverso punto di vista, fu formulata da A. Lang, per il quale la credenza negli Esseri Supremi (All Fathers), riscontrata anche nelle culture più primitive, non poteva essere spiegata mediante una credenza negli spiriti. W. Schmidt riprese quest'idea e, sviluppandola sotto il profilo della metodologia della ‛storia della cultura' (Kulturgeschichte), cercò di dimostrare l'esistenza di un monoteismo primordiale (Der Ursprung der Gottesidee, 12 voll., Münster 1912-1955).

Verso la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si delinearono altri indirizzi di pensiero. É. Durkheim ritenne di aver trovato la spiegazione sociologica della religione nel totemismo. (Fra gli indiani Ojibwa dell'America settentrionale il termine totem sta a indicare l'animale il cui nome designa un clan, dal quale viene venerato come antenato). Fin dal 1869 J. F. MacLennan aveva sostenuto che il totemismo rappresenta la forma originaria della religione. Ma studi successivi, soprattutto quelli di Frazer, avevano dimostrato che il totemismo non è universalmente diffuso e non può essere considerato la primissima forma assunta dalla religione. L. Lévy-Bruhl tentò di provare che il comportamento religioso può essere spiegato in base alla mentalità prelogica dei primitivi (ipotesi che ripudiò verso la fine della sua vita).

Freud ritenne di aver trovato l'origine della religione, dei divieti morali e dell'organizzazione sociale in un delitto primordiale, cioè nel primo parricidio. Dio non è altro che il padre fisico sublimato. L'interpretazione freudiana della religione è stata più volte criticata e totalmente respinta dagli etnologi.

Fu G. van der Leeuw a pubblicare la prima importante opera sulla fenomenologia della religione. Egli sostenne l'irriducibilità delle rappresentazioni religiose a funzioni sociali, psicologiche o razionali, e confutò quei pregiudizi naturalistici che cercano di spiegare la religione con qualcosa che religione non è. Il crescente interesse per la fenomenologia della religione ha creato uno stato di tensione fra gli studiosi della Religionswissenschaft. Le diverse correnti storiche e storicistiche hanno vivamente reagito contro la pretesa, avanzata dai fenomenologi, di poter afferrare l'essenza e la struttura dei fenomeni religiosi. Per gli storicisti, la religione è esclusivamente un fatto storico privo di qualsiasi significato o valore soprastorico, e cercarne le ‛essenze' equivale a ricadere nell'antico errore platonico (gli storicisti naturalmente hanno ignorato Husserl). Ma una tale tensione fra coloro che cercano di comprendere l'essenza e la struttura e coloro che si preoccupano solo della storia dei fenomeni religiosi è creativa. È proprio grazie a essa che la scienza delle religioni potrà sfuggire al dogmatismo e all'immobilismo.

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