Dulbecco, Renato

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze (2013)

Renato Dulbecco

Fabio De Sio

Renato Dulbecco è uno dei padri della virologia e oncologia molecolari. La tecnica di coltura in vitro da lui sviluppata negli anni Cinquanta per il virus della encefalite ha rivoluzionato lo studio dei virus animali e avuto un ruolo cruciale nel perfezionamento del vaccino antipolio di Albert B. Sabin (1906-1993). È stato pioniere nello studio dei virus oncogeni e nel 1975 è stato insignito del premio Nobel per la fisiologia o la medicina, insieme con Howard M. Temin e David Baltimore, «per le loro scoperte sulle relazioni fra i virus tumorali e il materiale genetico della cellula». Ha compiuto ricerche sullo sviluppo delle cellule tumorali ed è stato fra i promotori del Progetto genoma umano negli Stati Uniti e in Italia.

La vita

Renato Dulbecco nacque a Catanzaro il 22 febbraio 1914, da padre ligure e madre calabrese. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la famiglia Dulbecco seguì il padre arruolato a Cuneo, poi a Torino, per sistemarsi a Porto Maurizio (oggi Imperia) alla fine del conflitto. A soli 16 anni s’iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Al secondo anno di corso ottenne l’internato presso l’Istituto di anatomia umana di Giuseppe Levi, «Sancta Sanctorum» della ricerca biologica (R. Dulbecco, Scienza, vita e avventura, 1989, p. 48). Il breve periodo di lavoro con Levi, autorità internazionale nella citologia e nella microscopia, soprattutto dei tessuti nervosi, fu determinante per Dulbecco: qui si formò all’impostazione rigorosamente sperimentale e quantitativa del maestro, si impratichì nella coltura in vitro delle cellule e strinse amicizia con Salvador E. Luria e Rita Levi-Montalcini, altri due futuri premi Nobel. Dopo un solo anno Dulbecco lasciò l’anatomia umana per quella patologica, presso l’Istituto di Ferruccio Vanzetti. Laureatosi nel 1936, fu nominato assistente subito prima di partire per il servizio di leva. Congedato nel 1938, venne richiamato l’anno successivo e, allo scoppio della guerra, fu spedito sul fronte francese. Nel 1942 la sua divisione fu distaccata sul fronte russo, tuttavia l’anno successivo Dulbecco veniva congedato a seguito d’un banale ma provvidenziale incidente. Poté in questo modo tornare a casa e agli studi. Nell’estate del 1943 conseguì la libera docenza e, dopo la caduta del fascismo, si ritirò in un paesino delle Langhe dove attese la fine della guerra collaborando con i gruppi partigiani della zona (Scienza, vita e avventura, cit., pp. 114-23).

Dopo la Liberazione, tornò a Torino e al vecchio Istituto di anatomia umana. Vi ritrovò Levi-Montalcini, che lo spinse a riconsiderare la propria carriera. La rivoluzione americana nella genetica sperimentale avrebbe cambiato presto la medicina: occorreva quindi dotarsi di strumenti nuovi, fisici e chimici, per seguire le nuove strade aperte alla biologia. Dulbecco frequentò per due anni la facoltà di Fisica, senza tuttavia completare il corso.

Nel 1946 Luria, in visita dagli Stati Uniti, gli propose di seguirlo all’Indiana University e lavorare per un anno sulla genetica del batteriofago. Dulbecco si dimise da assistente e, nell’estate del 1947, partì per Bloomington, Indiana. Rimase negli Stati Uniti per venticinque anni, prima all’Indiana University (1947-49), succesivamente al California Institute of technology (1949-62) e al Salk Institute for biological research di San Diego (1962-72). In America, Dulbecco si reinventò genetista e virologo, imprimendo una svolta alla propria carriera e alla scienza biologica. Vi compì gli studi sui virus oncogeni che lo avrebbero condotto a ottenere il premio Lasker nel 1964 e il premio Nobel nel 1975.

Nel 1953 prese la cittadinanza statunitense. Fra il 1972 e il 1977 fu vicedirettore dell’Imperial cancer research fund di Londra per poi tornare definitivamente al Salk, di cui fu presidente dal 1988 al 1992. Fu uno degli ispiratori del Progetto genoma umano e, dal 1992 al 1997, coordinò per conto del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) le ricerche italiane del Progetto. Dal 1997 fino alla morte fu professore emerito al Salk Institute. Fu membro delle più importanti accademie scientifiche del mondo e ricevette diverse onorificenze al merito della Repubblica italiana. Morì il 19 febbraio 2012 a La Jolla presso San Diego.

Genetica del batteriofago

Nella tarda estate del 1946, al momento di imbarcarsi per l’America, in compagnia della collega Levi-Montalcini, Dulbecco aveva in tasca un contratto di ricerca per un anno, vaghe speranze e la determinazione ad apprendere la nuova biologia, fondata sulla genetica e la biofisica, che era nata negli Stati Uniti. Il suo nuovo capo, Luria, poco più anziano di lui, era già un ricercatore affermato. Anch’egli, come Dulbecco, aveva frequentato l’Istituto di anatomia di Levi, per poi specializzarsi in radiologia e studiare l’effetto dei raggi X sulle cellule. Fuggito dall’Italia nel 1938, nel 1940 era approdato negli Stati Uniti dove, con il fisico tedesco Max Ludwig Henning Delbrück (1906-1981), aveva fondato uno dei gruppi di ricerca più innovativi dell’epoca: il Gruppo del fago. Il Gruppo utilizzava come sistema sperimentale il batteriofago (detto fago), un virus che infetta i batteri e li ‘riprogramma’ alla produzione di altri virus fino a farli esplodere. Era un modello estremamente semplice, maneggevole e accessibile per lo studio della natura fisica del gene, il «Santo Graal della biologia» (Luria 1984, p. 30), soprattutto perché i diversi fenomeni (infezione, immunità, trasmissione ereditaria del virus) erano osservabili al microscopio ottico nelle colture batteriche e interpretabili quantitativamente. Dulbecco trovava questo approccio molto congeniale alla sua sensibilità scientifica e alla sua formazione, anche se dovette colmare le proprie lacune in genetica e biochimica.

Nei suoi due anni all’università dell’Indiana, Dulbecco collaborò con Luria su un problema di interazione fra virus e batterio, la cosiddetta riattivazione multipla. Luria aveva osservato che diversi fagi, resi inattivi da esposizione alla luce ultravioletta, recuperavano il potere infettivo se inoculati insieme in un medesimo batterio. Dulbecco elaborò un formalismo matematico in grado di predire il numero massimo di fagi capaci di ‘collaborare’ all’interno di un batterio, e lo confermò poi sperimentalmente. Nel corso di questi esperimenti osservò un altro fenomeno anomalo, la capacità della luce fluorescente (la lampada della sua scrivania) di riattivare virus ‘uccisi’ dai raggi ultravioletti. Chiamò questo fenomeno fotoriattivazione e ne intuì la relazione con la riattivazione multipla: si trattava di due meccanismi diversi ma cooperativi di riparazione degli effetti dannosi della radiazione, basati entrambi sull’interazione fra batteri e virus. Luria fu molto compiaciuto dell’autonomia e produttività del giovane collaboratore, tanto da dichiarare in sua presenza: «Forse il mio più grande contributo alla biologia è di avervi portato Renato» (Scienza, vita e avventura, cit., p. 144).

Il CalTech e i virus animali

Luria non era il solo ad aver intuito le potenzialità di Dulbecco. Nell’autunno del 1948, Delbrück gli offrì un contratto di ricerca presso il dipartimento di biologia del California Institute of technology (CalTech) a Pasadena. Dulbecco si concesse qualche tentennamento, non volendo contrariare il proprio mentore, ma era cosciente che un’offerta dal più avanzato centro di ricerca biologica al mondo non si rifiuta a cuor leggero. E non rifiutò.

Dopo appena due anni al CalTech, in cui aveva continuato a lavorare sulla fotoriattivazione, la sorte offrì a Dulbecco l’opportunità di un altro radicale cambiamento. E lo fece sotto le spoglie di un facoltoso imprenditore, James G. Boswell (The plaque technique and the development of quantitative animal virology, 1966, p. 287). Il signor Boswell soffriva di Herpes zoster, un’infezione virale del sistema nervoso debilitante e non curabile, e nel 1949 decise di donare una considerevole somma al CalTech, da impiegare nello studio dei virus, in particolare quelli pericolosi per l’uomo. La donazione non era vincolata a studi specifici sull’Herpes zoster, né alla produzione di risultati applicativi immediati, ma ad aprire la strada a uno studio veramente scientifico del problema. Né Delbrück né alcuno dei suoi collaboratori, tuttavia, avevano alcuna competenza di virologia o malattie infettive: erano tutti ricercatori di base che studiavano la natura fisica del gene. Nel 1950, il fisico tedesco convocò due ricercatori giovani, Dulbecco e Seymour Benzer (1921-2007), e propose loro di cambiare completamente campo, abbandonando i virus dei batteri per quelli dei tessuti animali. Benzer rifiutò: avrebbe ottenuto il suo premio Nobel in un altro modo. Dulbecco, invece, si gettò con entusiasmo nella nuova impresa. In quanto medico di formazione, era più interessato dei suoi colleghi biologi dalla possibilità di contribuire alla terapia; in più, riteneva di avere una pratica adeguata con la coltura in vitro dei tessuti, che aveva appreso a Torino e che era necessaria per lo studio dell’infezione virale di cellule animali.

L’impatto con il nuovo sistema sperimentale frustrò subito il suo ottimismo. Delbrück e Dulbecco organizzarono nel 1950 una conferenza sui virus, nella speranza di ricavarne una visione chiara dello stato dell’arte. Che non era roseo. Gli studiosi del batteriofago erano avvezzi a un approccio rigidamente quantitativo e sperimentale, e a un livello di controllo del sistema che la virologia animale non permetteva. La sperimentazione virologica, infatti, si fondava sull’inoculazione di virus in animali interi o, al massimo, interi organi o embrioni di pollo, il che limitava le possibilità di rigorosa misurazione e modificazione sperimentale del sistema. Anche la coltura di tessuti, pur progredita enormemente dai tempi in cui Dulbecco l’aveva appresa, era ancora troppo rozza se paragonata alla semplicità e trasparenza delle colture di batteri, in cui gli effetti dell’infezione virale erano visibili a occhio nudo, come placche biancastre che punteggiavano le colonie nelle piastre di Petri e che corrispondevano ai batteri distrutti (‘lisati’) dal virus. Essendo ogni placca corrispondente all’azione di una singola particella virale, era quindi possibile, con un semplice microscopio ottico, saggiarne quantitativamente l’azione. Per il progresso della virologia animale bisognava concentrarsi sullo sviluppo di un’analoga tecnica quantitativa, che rispondesse a quattro requisiti fondamentali:

(1) utilizzo di un tipo uniforme di cellula ospite; (2) tecnica di misurazione accurata; (3) possibilità di isolare la progenie di ogni singola particella virale; (4) possibilità di isolare ogni singola particella virale prodotta da ogni singola cellula infetta (Production of plaques in monolayer tissue cultures by single particles of an animal virus, «Proceedings of the National Academy of sciences of the Unites States of America», 1952, 38, pp. 747-48).

Per soddisfare queste condizioni, Dulbecco aveva adottato la tecnica di Earle, basata sulla triturazione finissima dell’embrione di pollo, attraverso retine d’acciaio. La polpa risultante era centrifugata per separare le cellule intere dai frammenti e altri ‘rifiuti’; successivamente era posta in soluzione con la tripsina, un enzima che ‘digerisce’ le fibre connettive che tengono insieme le cellule nei tessuti animali, producendo così uno strato uniforme e sottile di cellule libere simile alle colonie di batteri. Questo sostrato veniva poi infettato con il virus dell’encefalite bovina, scelto appositamente perché uccide rapidamente le cellule che infetta, producendo così, come il fago con i batteri, dei buchi nella coltura cellulare visibili con opportuna colorazione. Con questo sistema, Dulbecco poté dimostrare che ogni placca corrispondeva all’azione di un singolo virus su una cellula e che, quindi, l’infezione di un embrione è spiegabile con l’azione di una sola particella virale.

La nuova tecnica segnava, nelle parole di Delbrück, «una svolta nella ricerca sui virus animali» (Kevles 1993, p. 437), anche se la conversione dei virologi allo stile di pensiero della scuola del fago non fu immediata né semplice. Dulbecco e collaboratori dimostrarono in seguito che la tecnica a placche poteva essere applicata a molti altri tipi di virus, sia quelli (come l’encefalite) che uccidono le cellule, sia quelli che le mutano (The plaque technique and the development of quantitative animal virology, cit., pp. 290-91). In particolare, dal 1952 Dulbecco si concentrò sullo studio del virus della poliomielite, con l’assistenza di Marguerite Vogt (1913-2007) e una generosa sovvenzione della National Foundation for infantile paralysis. In breve tempo, i due migliorarono la tecnica di coltura e di misurazione e l’adattarono perfettamente al nuovo virus, fornendo un contributo fondamentale allo sviluppo del vaccino antipolio di Sabin (Scienza, vita e avventura, cit., pp. 176-78).

I virus oncogeni e la virologia molecolare dei tumori

Alla fine degli anni Cinquanta, il laboratorio di Dulbecco a Pasadena era diventato il più importante centro internazionale per la virologia sperimentale e attraeva giovani da ogni parte del mondo. Due studenti, Harry Rubin e H.M. Temin, vi introdussero un nuovo oggetto di studio che sarebbe presto divenuto dominante: i virus oncogeni. Scoperti all’inizio del secolo, i virus oncogeni erano dei microrganismi capaci di indurre formazioni tumorali in determinati tessuti ospiti, secondo meccanismi allora ignoti (From the molecular biology of oncogenic DNA viruses to cancer, 1975). Rubin e Temin studiavano il virus del sarcoma di Roux che causa tumori nei polli, e ritenevano di poter usare una modificazione della tecnica delle placche per determinarne quantitativamente la specificità d’azione. In particolare, Rubin era interessato al periodo di latenza del virus: subito dopo l’infezione, esso sembrava sparire nella cellula e ritornava visibile con i suoi effetti solo qualche generazione cellulare dopo, quando i tessuti iniziavano la crescita incontrollata. Questo comportamento era simile a quello di alcuni batteriofagi, cosiddetti temperati, studiati dal collega di Dulbecco Jean-Jacques Weigle (1901-1968).

Dal 1958, Dulbecco e Vogt si dedicarono a questo nuovo mistero, partendo dall’idea che la latenza del virus corrispondesse al periodo in cui il parassita inseriva pezzi del proprio materiale genetico in quello della cellula ospite. Completata l’integrazione, la cellula modificata avrebbe cominciato a produrre proteine tipiche del virus, rendendolo così di nuovo riconoscibile. Nulla più che una sensata ipotesi, che aveva però il vantaggio di fornire una spiegazione generale dell’infezione virale (dai batteri alle cellule animali) e di delineare un meccanismo molecolare della degenerazione cancerosa: così come i nuovi geni introdotti dal virus riprogrammavano la cellula ospite, era possibile che la degenerazione delle cellule nei comuni processi di cancerogenesi fosse dovuta alla mutazione di pochi geni. Era l’inizio della virologia molecolare, e di un nuovo modo di intendere lo studio del cancro.

Il virus di Roux era troppo complicato per questo tipo di studi, perché il suo materiale genetico è RNA e quindi richiede un passaggio intermedio di traduzione. Vogt e Dulbecco si concentrarono, invece, su virus a DNA, in particolare sul virus del polioma, con lo scopo di studiare dettagliatamente l’interazione fra cellula ospite e particella infettante, come Dulbecco aveva fatto con il batteriofago all’inizio della carriera. Gli studi furono iniziati al CalTech, e portarono presto risultati, come la scoperta che il DNA del virus del polioma è di forma circolare (come quello del fago) e che la sua azione non è univoca, ma dipende in misura critica dalla cellula ospite e dalle condizioni dell’infezione (Review lecture: configurational and biological properties of polyoma virus DNA, 1964, p. 426). In particolare, Vogt e Dulbecco dimostrarono che il polioma causa la necrosi dei tessuti di embrione di topo in coltura (effetto citocida), mentre induce proliferazione cellulare incontrollata (effetto neoplastico) nei tessuti di criceto (Virus-cell interaction with a tumor-producing virus, 1960, p. 365). In entrambi i casi, inoltre, si osservava un periodo di latenza, in cui le cellule infette si riproducevano al medesimo tasso dei controlli e sembravano a tutti gli effetti normali. Decisiva fu anche l’osservazione che, sia nel caso della neoplasia sia in quello della morte cellulare, alla mutazione della fisiologia del tessuto corrispondeva una marcata diminuzione della quantità di particelle virali libere, il che suggeriva un’integrazione fra DNA ospite e parassita (Virus-cell interaction with a tumor-producing virus, cit., p. 367).

Nel 1962 Dulbecco lasciò l’università per il neo fondato Salk Institute for biological research di San Diego. Dal 1965, coadiuvato dalla nuova assistente e consorte Maureen Muir, estese gli esperimenti a un altro virus, l’SV40 (Simian Virus 40) che, come il polioma, altera i meccanismi di proliferazione cellulare in colture di embrione di pollo, criceto e topo.

In tre anni di intenso lavoro, Dulbecco e collaboratori dimostrarono che il DNA virale s’integrava in quello della cellula ospite nella fase di latenza e si riproduceva con esso, producendo uno specifico antigene (T) anche dopo diverse generazioni. Questo risultato, che eliminava l’ipotesi di un’azione semplicemente trasformatrice del virus sul meccanismo cellulare, fu confermato dall’osservazione che, a distanza di generazioni cellulari, il DNA virale produceva il suo specifico e riconoscibile RNA. Nuove tecniche di purificazione permisero di provare ulteriormente l’integrazione dei due DNA oltre ogni dubbio, mentre altri esperimenti erano avviati sull’influsso dell’ospite (la cellula) sui meccanismi di espressione del DNA virale. Questi risultati furono presentati al Cold Spring Harbor Symposium del 1968, e pubblicati in tre articoli nello stesso anno (From the molecular biology of oncogenic DNA viruses to cancer, cit.):

[…] fu il principio di una nuova era per la virologia. Fino ad allora i virus si erano studiati osservandone le conseguenze che provocavano nelle cellule […]. Da quel momento in poi diventava imperativo usare criteri molecolari, come l’identificazione dei geni del virus e il loro studio attraverso […] le proteine corrispondenti. Nasceva la biologia molecolare dei virus dei tumori. In quel momento tutto un mondo di esperimenti e di ricercatori diventarono vecchi, sorpassati (Scienza, vita e avventura, cit., p. 228).

Ulteriori esperimenti consentirono di provare che la differenza negli effetti dei virus (citocida e neoplastico) era dovuta all’interazione fra un numero limitato di geni del DNA ospite e di quello virale, quindi a processi di regolazione genica.

La portata di questi risultati fu immediatamente riconosciuta: il complicato fenomeno dell’insorgenza di tumori virali era stato ridotto all’interazione fra pochi geni noti, che adesso poteva essere controllata sperimentalmente. Per questo lavoro, Dulbecco ricevette nel 1975 il premio Nobel per la fisiologia o la medicina insieme a Temin e Baltimore, i quali avevano ottenuto risultati analoghi sui virus a RNA.

Studi sul cancro e il Progetto genoma umano

Al principio degli anni Settanta, Dulbecco aveva maturato la decisione di abbandonare la California per un luogo più tranquillo. Accettò quindi l’offerta di un posto da vicedirettore dell’Imperial cancer research fund a Londra, e decise altresì di cambiare direzione di ricerca, dai virus oncogeni (fenomeno di interesse principalmente biologico e veterinario) alle neoplasie umane, in particolare il carcinoma della mammella. Dulbecco applicò a questo nuovo settore ipotesi simili a quelle della sua ricerca precedente: come il virus modificava il metabolismo della cellula ospite, inducendola a produrre nuove proteine, così le cellule neoplastiche potevano essere riconosciute in base alla differenza fra i loro prodotti e quelli delle cellule sane, e queste modificazioni del metabolismo potevano essere ricondotte alla mutazione di un numero limitato di geni, detti oncogeni (Genes and cancer, 1997, p. 425).

La nuova ricerca, più prossima alla malattia umana, spinse Dulbecco a un impegno sociale su due fronti: la denuncia degli effetti cancerogeni del tabacco, per la quale si avvantaggiò dell’autorità morale conferitagli dal Nobel (From the molecular biology of oncogenic DNA viruses to cancer, cit.) e, dalla metà degli anni Ottanta, la promozione di un impegno cooperativo di identificazione e catalogazione di tutti i geni che compongono il genoma umano. Questo sforzo titanico avrebbe facilitato e accelerato la comprensione dei processi fisiologici e patologici causati da mutazioni, imprimendo un’accelerazione alla lotta ai tumori (A turning point in cancer research: sequencing the human genome, «Science», 1986, 231). Quando furono espresse, nel 1986, queste idee apparvero anche a molti scienziati quanto meno utopiche (Berg 2006), ma erano condivise da un numero non scarso di ricercatori importanti e rese sempre più plausibili dal rapido sviluppo della tecnologia di clonaggio e analisi del genoma (The Code of codes).

Nel 1990 il progetto prendeva ufficialmente l’avvio negli Stati Uniti e in altri Paesi, compresa l’Italia. Il CNR offrì a Dulbecco la carica di coordinatore delle ricerche italiane, focalizzate su una regione del braccio lungo del cromosoma X. Nel 1995, per mancanza di fondi, la partecipazione italiana al progetto fu ritirata e uno sconsolato Dulbecco si ritirò definitivamente nella sua casa di La Jolla, presso San Diego, a scrivere e a suonare il pianoforte.

Opere

Production of plaques in monolayer tissue cultures by single particles of an animal virus, «Proceedings of the National Academy of sciences of the United States of America», 1952, 38, pp. 747-52.

M. Vogt, R. Dulbecco, Virus-cell interaction with a tumor-producing virus, «Proceedings of the National Academy of sciences of the United States of America», 1960, 46, 3, pp. 365-70.

Review lecture: configurational and biological properties of polyoma virus DNA, «Proceedings of the Royal society of London. Series B, Biological sciences», 1964, 160, pp. 423-31.

The plaque technique and the development of quantitative animal virology, in Phage and the origins of molecular biology, ed. J. Cairns, G.S. Stent, J.D. Watson, Cold Spring Harbor (NY) 1966, pp. 287-91.

Virology, in Microbiology, ed. B.D. Davis, R. Dulbecco, H.N. Eisen, H.S. Ginsberg, Hagerstown 1967 (trad. it. Padova 1985; una edizione abbreviata dell’intero manuale è stata pubblicata come Trattato di microbiologia comprese immunologia e genetica molecolare, Padova 1986).

From the molecular biology of oncogenic DNA viruses to cancer, Nobel lecture, december 12, 1975, http://www. nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1975/ dulbecco-lecture.html (7 aprile 2013).

A turning point in cancer research: sequencing the human genome, «Science», 1986, 231, pp. 1055-56.

The design of life, New Haven 1987 (trad. it. Il progetto della vita, Milano 1989).

R. Dulbecco, R. Chiaberge, Ingegneri della vita, Milano 1988.

Scienza, vita e avventura, Milano 1989.

Encyclopedia of human biology, ed. R. Dulbecco, 9 voll., San Diego 1991.

I geni e il nostro futuro, Milano 1995.

Genes and cancer, «Proceedings of the American philosophical society», 1997, 141, 4, pp. 425-35.

Human genome project: Italian contribution. Future directions, «Journal of cellular physiology», 1997, 173, pp. 140-43.

Interview by Shirley K. Cohen, Pasadena, California, September 9 and 10, 1998, http://resolver.caltech.edu/ CaltechOH:OH_Dulbecco_R (7 aprile 2013).

Scienza e società oggi. La tentazione della paura, Milano 2004.

La mappa della vita, Milano 2005.

Bibliografia

S.E. Luria, Storia di geni e di me, Torino 1984.

D.J. Kevles, Renato Dulbecco and the new animal virology: medicine, methods, and molecules, «Journal of the history of biology», 1993, 26, pp. 409-42.

The Code of codes. Scientific and social issues in the Human genome project, ed. D.J. Kevles, L. Hood, Cambridge (Mass.) 1993.

G. Corbellini, Le grammatiche del vivente, Roma-Bari 1999.

P. Berg, Origins of the human genome project. Why sequence the human genome when 96% of it is junk?, «American journal of human genetics», 2006, 79, pp. 603-605.

A. Grignolio, F. De Sio, Uno sconosciuto illustre. Giuseppe Levi fra scienza, antifascismo e Premi Nobel, «Medicina nei secoli», 2009, 21, pp. 847-913.

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