NAPOLETANA, REPUBBLICA

Enciclopedia Italiana (1934)

NAPOLETANA, REPUBBLICA

Nino Cortese

Vinte le truppe napoletane comandate da C. Mack che, iniziando le guerre della seconda coalizione, erano penetrate baldanzose nel confinante Stato romano (v. napoli, regno di), superate le ultime resistenze opposte da Capua, anche per opera dei "patrioti" che erano nella città, annullata la meravigliosa resistenza del popolo che, abbandonato dal re e dal generale Pignatelli di Strongoli, lasciato da quello come suo vicario generale, aveva tentato d'impedire la definitiva vittoria dell'esercito francese, la sera del 23 gennaio 1799 il gen. J.-É. Championnet entrò in Napoli e diede forma repubblicana al distrutto stato borbonico.

I primi giorni del nuovo regime parvero felici, specialmente per l'accorta prudenza del generale vincitore: la direzione dello stato fu affidata a un governo provvisorio presieduto dapprima da C. Lauberg e poi da I. Ciaja e composto da venticinque meridionali, fra i migliori uomini che allora avesse il Mezzogiorno, i quali, divisi in sei comitati (centrale, interni, guerra, finanza, giustizia e polizia, legislazione), cui era affidato il potere esecutivo, riuniti insieme formavano l'assemblea legislativa; con qualche abilità si riuscì a conquistare alla repubblica, se non alle idee da essa sostenute, almeno una parte del popolo cittadino; con entusiasmo s'iniziò lo studio dei provvedimenti da attuare per venire incontro ai bisogni del paese e dare compiutezza all'opera di riforma iniziata dal Borbone e poi interrotta allo scoppio della rivoluzione francese; si decise l'invio a Parigi di una commissione per domandare al Direttorio il riconoscimento ufficiale dell'organizzazione politica allora creata; e si plaudì all'energico intervento in favore di Napoli dello Championnet, che, scacciandolo (6 febbraio), si oppose alle richieste del commissario civile G.-C. Faypoult, il quale in nome della Repubblica francese aveva posto il sequestro non solo su tutta la fortuna privata del re e della sua famiglia, ma ancora su una quantità enorme di beni, non esclusi i banchi, i musei, gli scavi di Pompei. Ma la realtà in prosieguo doveva essere ben diversa. Di per sé significativa era stata l'iniziale rivolta popolare che aveva dato un'alba sanguigna alla Repubblica e il cui ricordo era sempre vivo nelle menti dei testimoni, atterrendoli con la minaccia di un suo possibile rinnovarsi, e un sordo malcontento serpeggiava ora in tutto il Mezzogiorno, che la monarchia aveva tenuto a freno più che altro con la forza della tradizione, ma che, sciolti i secolari vincoli politici, adesso poteva dare libero sfogo alle sue passioni troppo a lungo soffocate perché non dovessero richiedere di essere appagate in breve giro di tempo. Ma a far questo sarebbero state insuperabili difficoltà non solo la scarsa capacità di uomini di governo di quelli chiamati a costituire il Provvisorio, nuovi alle responsabilità e all'arte della politica, ingenui ideologi illusi della bontà assoluta delle proprie idee e perciò sicuri del trionfo che avrebbe arriso alla loro applicazione incondizionata e, almeno nei primi tempi, anche della lealtà delle intenzioni dei Francesi; e non solo l'immensità del lavoro da compiere, per di più in momenti estremamente difficili, quando si trattava di difendere perfino l'indipendenza dello stato e si doveva assumere anche l'iniziativa della complessa opera; sibbene specialmente gli ostacoli che a un opportuno svolgersi della rivoluzione sarebbero stati opposti da parte di coloro che, dopo averle dato inizio, avrebbero dovuto regolarla e proteggerla, e invece finirono per volerla dominare ai fini di una politica che non collimava con gl'interessi del paese. Infatti, rivoluzione eminentemente "passiva", secondo la definizione data dal Cuoco, e cioè non nata spontaneamente come la francese, ma imposta da elementi estranei, e quindi senza una propria ragione di vita e di sviluppo e senza un'effettiva indipendenza, era la napoletana: così non aveva generato ed educato gli uomini che avrebbero dovuto dirigerla, creando per essi il nuovo clima storico e aiutandoli nell'impresa col fornir loro via via la materia del lavoro e i mezzi adatti per compierlo; e, priva di quella forza indigena che soltanto la spontaneità del movimento avrebbe potuto fornirle, doveva necessariamente condizionare la sua vita alla volontà di coloro che l'avevano fatta scoppiare. Ora, ben presto si vide che le direttive di governo approvate dal Direttorio non erano quelle dello Championnet, che, sull'esempio del Bonaparte, sosteneva la necessità di organizzare saldamente i nuovi stati per dar loro il modo di pagare alla Francia le contribuzioni a mantenere il suo esercito di occupazione, sibbene quelle del Faypoult, cui non arrideva nessun ideale politico e che mirava soltanto ad attuare la seconda parte del programma, togliendo alla repubblica la possibilità di realizzarlo nella mancanza di solidi ordinamenti. La deputazione napoletana fu male accolta a Parigi; lo Championnet venne richiamato e sostituito con il suo rivale J.-É. Macdonald, e il Faypoult rientrò a Napoli e prese a disporre delle sorti dello stato, privandolo dei mezzi necessarî alla sua vita e togliendo al Provvisorio il modo di sviluppare l'opera di riforma e di consolidamento del nuovo regime: i membri dei comitati si esaurirono in una vana lotta contro le ingiuste e stravaganti richieste del commissario civile: i beni nazionali non poterono essere destinati a sanare la gravissima crisi finanziaria della repubblica; perché non sanzionata dal rappresentante francese, non fu possibile mettere in esecuzione la legge, da tutti desiderata e ansiosamente attesa, che aboliva la feudalità; e così da un lato lo stato non poté provvedere alla creazione di un esercito che gli assicurasse una certa indipendenza e garantisse l'ordine pubblico, mentre la sorte delle armi sui teatri della guerra si annunziava poco propizia ai Francesi e si cominciava a temere che essi non potessero continuare a presidiare l'Italia meridionale ancora per molto tempo; e dall'altro il popolo delle provincie, in nulla accontentato nelle sue richieste, cominciò a schierarsi contro la repubblica e iniziò la controrivoluzione.

Parve che dovesse cominciare una nuova era quando, con l'incarico di riorganizzare il governo in attesa della costituzione che Mario Pagano veniva preparando e che non fu mai applicata, giunse a Napoli A.-J. Abrial (28 marzo) e ne partì il Faypoult. Egli era "uomo savio, onesto, giusto, discreto e ben intenzionato", come fu detto da un contemporaneo; nel nuovo ordinamento divise i poteri, affidando l'esecutivo a una commissione di cinque membri e a quattro ministri e il legislativo a un'altra commissione di venticinque membri; risolse la questione dei beni nazionali e fece pubblicare la legge eversiva della feudalità. Ma ormai era troppo tardi: la rivolta dominava nelle provincie, fornendo sempre nuove reclute al cardinale Fabrizio Ruffo che, dalla Sicilia sbarcato in Calabria l'8 febbraio con l'incarico di riconquistare il trono al Borbone, ai primi d'aprile era padrone di gran parte delle Calabrie e puntava risoluto verso la Basilicata e le Puglie, aiutato nella sua opera da altri "capi-masse" e dagl'Inglesi che bloccavano le coste dell'Italia meridionale; e poi, l'8 maggio, richiamato nell'Italia settentrionale dai disastri delle armi francesi, il Macdonald con quasi tutto l'esercito partiva da Napoli. Allora, abbandonato a sé stesso, privo di forza, ridotto ogni giorno più di estensione, pur tra gl'inevitabili, perché umani, dissensi fra i suoi reggitori e pur tra gli errori quasi sempre determinati dalla loro scarsa esperienza politica e dalle loro ideologie che li portavano a mutuare dalla Francia istituzioni e sistemi di governo che non erano adatti a Napoli, lo stato visse eroicamente gli ultimi suoi giorni. Nessuno si macchiò di vigliaccheria. Il 13 giugno, dopo aver superato una meravigliosa resistenza opposta dai patrioti al ponte della Maddalena, il Ruffo entrava nella capitale, e la ferocia del popolo, nuovamente insorto contro di essi, come già aveva fatto alla sua alba, rese sanguigno e terrificante il tramonto della Repubblica. Seguì l'orribile tradimento voluto dal Nelson ai danni di coloro che si erano chiusi nei castelli di Napoli; e poi nella reazione legale ordinata dal Borbone lavorò il boia e si popolarono di condannati le carceri e le vie dell'esilio. Ma ormai i tragici avvenimenti di quei sei mesi di dolorosa esperienza e le seguenti feroci persecuzioni, avevano dato alla parte migliore del Mezzogiorno una nuova coscienza, che l'opera e la parola degli esuli, specialmente di V. Cuoco, dovevano rendere coscienza dell'Italia tutta. Perché non soltanto il Borbone non riuscì più a far dimenticare il sangue che aveva fatto spargere, condannando uomini rei soltanto di aver assunto le redini del governo quando erano state abbandonate dal legittimo sovrano, e da allora cominciò la lotta contro il suo dominio che doveva terminare nel 1860; ma l'amara esperienza fatta in quei giorni dell'impossibilità di applicare a un paese istituzioni che non fossero sorte dal suo intimo, della necessità di non dover riporre fiducia nell'aiuto dello straniero e, di contro, della grande forza insita nelle spontanee rivolte e rivelata dalla tragica controrivoluzione popolare, persuase che bisognava foggiare il proprio avvenire soltanto con le proprie mani. Allora s'iniziò la formazione di una coscienza nazionale: cominciava il Risorgimento italiano.

Bibl.: La più profonda ricostruzione della rivoluzione napoletana del 1799 è il Saggio storico di V. Cuoco: si veda l'ed. curata da N. Cortese (Firenze 1924), anche per la bibl. dell'argomento. Per la storiografia, in genere, del periodo cfr. inoltre: N. Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e dell'Impero, Bari 1925. Come opere d'insieme cfr.: B. Croce, La rivol. napolet. del 1799, Bari 1925; N. Rodolico, Il popolo agl'inizi del Risorgimento nell'Italia merid., Firenze 1925; F. Serrao de' Gregorj, La Repubblica Partenopea e l'insurrezione calabrese contro i Francesi, voll. 2, Firenze 1934.

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