RESTAURO

Enciclopedia Italiana (1936)

RESTAURO

Gustavo GIOVANNONI
Pietro TOESCA
Carlo ALBIZZATI
Umberto CIALDEA
Gino TESTI

. Restauro dei monumenti. - Il proposito di restaurare i monumenti, sia per consolidarli riparando alle ingiurie del tempo, sia per riportarli a nuova funzione di vita, è concetto tutto moderno, parallelo a quell'atteggiamento del pensiero e della cultura, che vede nelle testimonianze costruttive e artistiche del passato, a qualunque periodo esse appartengano, argomento di rispetto e di cura.

In pratica, le provvidenze che sono volte alla scoperta, alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio monumentale lasciatoci dai secoli si attuano in due tempi, vale a dire nello scavo e nel restauro propriamente detto.

Questi problemi raggiungono in Italia il valore essenziale di una questione nazionale per l'importanza e il numero delle opere architettoniche di tutti i tempi disseminate nelle varie regioni d'Italia, per il carattere multiplo di queste opere, per la gloria, la poesia, la bellezza che esse recano nelle nostre città, in molte delle quali tutto l'ambiente assume il carattere di monumento. A questo carattere risponde da un lato la legislazione italiana nel campo delle antichità e delle belle arti, la quale, nel fissare precise norme per la tutela delle opere d'arte pubbliche o private, ne ha fissato come oggetto non soltanto i monumenti maggiori, ma anche modesti edifici d'importante interesse storico e artistico e gli elementi costituenti l'ambiente; d'altro lato vi rispondono la dottrina e la tecnica ormai affermate su questo tema, e l'attività concreta che negli ultimi cinquant'anni ha dato risultati di alta importanza, tanto che può dirsi essere questo dei restauri dei monumenti uno dei pochi caratteri ben determinati nella produzione architettonica italiana di questo tempo.

Fino all'inizio del sec. XIX, pur non mancando esempî di edifici continuati secondo un disegno primitivo (come nelle cattedrali di Milano, di Firenze, di Orvieto) o di antichi monumenti adattati in rispondenza al primitivo concetto (Pantheon e tempio di Saturno a Roma, S. Apollinare nuovo di Ravenna, ecc.), il principio normale era quello di sovrapporre l'arte del proprio tempo all'antica, o distruggendo, o mascherando o addossando. Primi restauri degni di tal nome furono, nel periodo tipicamente archeologico dell'impero napoleonico e della restaurazione papale, quelli volti alla liberazione e alla ricomposizione dei monumenti classici in Roma, come i templi dei Dioscuri e di Vespasiano, l'arco di Tito, la basilica Ulpia, il Colosseo.

In seguito i concetti si estesero a monumenti di altri periodi, come in Francia a quelli del Medioevo, valorizzati dal pensiero romantico e dall'orgoglio nazionale, e ad applicazioni sempre più vaste praticamente e tecnicamente. Il Léon, nel tracciare la storia dei restauri francesi, distingue un periodo empirico, uno dottrinale, dominato dalla teoria del Viollet-le-Duc, e infine uno sperimentale, che tende a perfezionare la tecnica della stretta conservazione, mettendo in opera tutte le risorse offerte dai materiali e dai procedimenti moderni.

Le numerose teorie svolte intorno al tema dei restauri hanno risposto a tendenze assai varie.

Da parte degli archeologi e degli storici dell'arte è costante il concetto che, nel considerare prevalentemente i monumenti come tema di studio e come documento storico, intende escludere ogni aggiunta e ogni diminuzione e vuole conservare tutte le fasi dello sviluppo, solo ammettendo provvedimenti statici di conservazione e di rinforzo. Talvolta il desiderio della conquista di cognizioni ha fatto prescindere quasi da simili preoccupazioni vitali; e infatti spesso gli scavi intrapresi con soverchio entusiasmo hanno portato a rapide rovine, non seguiti dalla paziente, oscura, costosa opera di ripresa e consolidamento.

A questa tendenza quasi negativa spesso abbiamo visto associarsi scrittori romantici, come J. Ruskin (v.), il quale pensa che i monumenti debbono lasciarsi serenamente morire, pur cercando di allontanare il giorno fatale con qualche onesta e semplice opera di provvisorio sostegno.

All'estremo opposto è la concezione che può dirsi architettonica, che vede nei monumenti la funzione d'arte, e soprattutto il valore unitario di massa e di stile. Si delinea così la figura del ripristino, pericoloso in quanto trascina quasi fatalmente nell'arbitrario e nel falso e perché fa spesso capo a tendenze egotistiche di committenti e di architetti.

Rappresentante massimo di queste tendenze fu il Viollet-leDuc, il quale prendeva per temi i monumenti-tipo, rappresentanti di un'epoca e di uno stile, e si proponeva di riportarli alla loro integrità originale, quale era stata o quale avrebbe dovuto essere, sostituendo le parti mancanti con elementi nuovi desunti da monumenti similari e distruggendo le opere posteriori. In Francia, nella seconda metà del secolo XIX, oggetto di siffatta attività restauratrice furono, sotto il presidio della Commission des monuments historiques, le grandi cattedrali del sec. XIII; ma pur nelle altre nazioni le applicazioni sono state frequenti, ad es., nell'addossamento di nuove facciate in stile antico, a Colonia, a Firenze, ad Arezzo, o nella decorazione dell'interno, ad Aquisgrana e a Padova, o in complete ricostruzioni a Bologna, a Milano, a Messina.

Tra i due concetti antitetici ora esposti si è fatta strada una teoria intermedia, sostenuta in Italia da C. Boito e da G. Giovannoni. Essa propugna di dare la massima importanza alle opere di manutenzione e di consolidamento, volte a salvare l'organismo stesso della fabbrica; limita i casi del ripristino a quelli in cui sia dimostrata la legittimità e l'utilità, ma piuttosto che dell'unità architettonica, si preoccupa della salvaguardia, nel monumento, di tutte le opere di vario tempo che abbiano un carattere d'arte. Negli elementi aggiunti richiede che sia precisa la documentazione col segnare date e sigle, e con l'adottare nel completamento di antiche linee, materiali diversi dai primitivi e sagome d'inviluppo e ornati schematici in modo da ottenere un effetto sintetico senza l'inganno dell'imitazione precisa, secondo il classico esempio del restauro dell'arco di Tito eseguito da G. Valadier. Negli sviluppi di costruzione completamente nuova vuole che l'opera appaia tutta moderna, valendosi di espressioni semplici e aderenti alla costruzione, quasi elementi neutri che non aggiungano forme stilistiche né in armonia né in contrasto.

Questi criterî vanno maggiormente chiariti con alcune distinzioni. L'una è quella tra monumenti morti e monumenti vivi, lontani i primi dall'arte e civiltà moderne, rispondenti i secondi a un concetto e a una destinazione che ancora sussiste. Sono tra i primi i monumenti dell'antichità, per i quali è ordinariamente da escludersi una pratica utilizzazione e una trasformazione dallo stato di rudero con essenziali opere aggiunte. Tra i secondi si hanno palazzi e chiese, per i qualu può praticameme, e spesso anche idealmente, apparire opportuno il riportarli a una funzione concreta non troppo diversa dalla primitiva, sicché il problema del ripristino, pur circondato di ogni garanzia, torna a presentarsi.

Un'altra classificazione può farsi nei riguardi dell'argomento prevalente nei restauri: restauri di consolidamento, in cui tutte le risorse della tecnica, e specialmente quelle modernissime delle strutture in ferro o in cemento armato, son chiamate a contributo per dare solidità e resistenza alle costruzioni stanche, fatiscenti, manchevoli; restauri di ricomposizione (anastilosi), quando gli elementi, ordinariamente in pietra da taglio, ritornano al proprio posto con le sole aggiunte di parti secondarie mancanti; restauri di liberazione, quando si tolgono masse amorfe che all'esterno o all'interno chiudono il monumento e questo riprende il suo aspetto d'arte, semplice o multiplo; restauri di completamento e di rinnovazione, in cui le aggiunte, rispondenti ai principî suindicati, tendono a reintegrare l'opera o a utilizzarla con elementi nuovi.

In Italia questo così vasto e significativo campo di attività ha un'organizzazione statale, la quale, con una preparazione specifica che in così delicata materia nessun altro ufficio tecnico potrebbe avere, ha il compito di sorvegliare, di guidare e promuovere, e attuare studî e lavori. Le sovrintendenze alle antichità e all'arte medievale e moderna hanno appunto tale ufficio, quali organi periferici della Direzione delle antichità e belle arti del Ministero dell'educazione nazionale, di cui il Consiglio superiore delle antichità e belle arti nelle sue sezioni 1ª e 2ª è l'organo di consulenza, al quale spetta dare il parere sui singoli casi, mantenendo unità di criterî e di giudizio.

In quest'unità può appunto rilevarsi la costanza da circa un venticinquennio, nell'applicazione pur adattata alle mutevoli e complesse esigenze della realtà, dei concetti della teoria intermedia che si è poc'anzi formulata. Essi sono stati recentemente concretati in una "Carta del restauro", che è, o dovrebbe essere, canone fondamentale per le sovrintendenze e per le iniziative da esse controllate.

I capisaldi di questa carta del restauro sono:

1. Che al disopra di ogni altro intento debba la massima importanza attribuirsi alle cure assidue di manutenzione e alle opere di consolidamento, volte a dare nuovamente al monumento la resistenza e la durevolezza tolta dalle menomazioni o dalle disgregazioni.

2. Che il problema del ripristino mosso dalle ragioni dell'arte e della unità architettonica strettamente congiunte col criterio storico, possa porsi solo quando si basi su dati assolutamente certi forniti dal monumento da ripristinare e non su ipotesi, su elementi in grande prevalenza esistenti, anziché su elementi prevalentemente nuovi.

3. Che nei monumenti lontani ormai dai nostri usi e dalla nostra civiltà, come sono i monumenti antichi, debba ordinariamente escludersi ogni completamento; e solo sia da considerarsi l'anastilosi, cioè la ricomposizione di esistenti parti smembrate con l'aggiunta eventuale di quegli elementi neutri che rappresentino il minimo necessario per integrare la linea e assicurare le condizioni di conservazione.

4. Che nei monumenti che possono dirsi viventi siano ammesse solo utilizzazioni non lontane dalle destinazioni primitive, tali da non recare negli adattamenti necessarî alterazioni essenziali all'edificio.

5. Che siano conservati tutti gli elementi aventi un carattere d'arte o di storico ricordo, a qualunque tempo appartengano, senza che il desiderio dell'unità stilistica e del ritorno alla primitiva forma intervenga a escluderne alcuni a detrimento di altri; e solo possano eliminarsi quelli, come le murature di finestre o d'intercolunnî di portici, che, privi d'importanza e di significato, rappresentino deturpamenti inutili; ma che il giudizio su siffatti valori relativi e sulle rispondenti eliminazioni debba in ogni caso essere assolutamente vagliato, e non rimesso a un giudizio personale dell'autore di un progetto di restauro.

6. Che insieme col rispetto per il monumento e per le sue varie fasi proceda quello delle sue condizioni ambientali, le quali non debbono essere alterate da inopportuni isolamenti, da costruzione di nuove fabbriche prossime, invadenti per massa, per colore, per stile.

7. Che nelle aggiunte che si dimostrassero necessarie, o per ottenere il consolidamento, o per raggiungere lo scopo di una reintegrazione totale o parziale, o per la pratica utilizzazione del monumento, il criterio essenziale da seguirsi debba essere, oltre a quello di limitare tali elementi nuovi al minimo possibile, altresì quello di dare a essi un carattere di nuda semplicità e di rispondenza allo schema costruttivo, e che solo possa ammettersi in stile similare la continuazione di linee esistenti nei casi in cui si tratti di espressioni geometriche prive d'individualità decorativa.

8. Che in ogni caso debbano siffatte aggiunte essere accuratamente ed evidentemente designate o con l'impiego di materiale diverso dal primitivo, o con l'adozione di cornici d'inviluppo, semplici e prive di intagli, o con l'applicazione di sigle o di epigrafi, per modo che mai un restauro eseguito possa trarre in inganno gli studiosi e rappresentare una falsificazione di un documento storico.

9. Che allo scopo di rinforzare la compagine stanca di un monumento o di reintegrarne la massa, tutti i mezzi costruttivi modernissimi possono recare ausilî preziosi, e sia opportuno valersene, quando l'adozione di mezzi costruttivi analoghi agli antichi non raggiunga lo scopo; e che, del pari, i sussidî sperimentali delle varie scienze debbano esser chiamati a contributo per tutti gli altri temi minuti e complessi di conservazione delle strutture fatiscenti, nei quali ormai i procedimenti empirici debbono cedere il campo a quelli rigidamente scientifici.

10. Che negli scavi e nelle esplorazioni che rimettono in luce antiche opere, il lavoro di liberazione debba essere metodicamente e immediatamente seguito dalla sistemazione dei ruderi e dalla stabile protezione di quelle opere d'arte rinvenute, che possono conservarsi in situ.

11. Che come nello scavo, così nel restauro dei monumenti sia condizione essenziale e tassativa che una documentazione precisa accompagni i lavori mediante relazioni analitiche raccolte in un giornale del restauro e illustrate da disegni e da fotografie, sì che tutti gli elementi determinati nella struttura e nella forma del monumento, tutte le fasi delle opere di ricomposizione, di liberazione, di completamento risultino acquisiti in modo permanente e sicuro.

Tra i più notevoli monumenti restaurati in tempo recente o recentissimo, ma non sempre in maniera rispondente alle direttive che hanno ispirato la carta del restauro, sono da rammentare in Italia: a Venezia la basilica di S. Marco; a Trieste il S. Giusto; a Napoli la chiesa di S. Maria di Donnaregina e Castel Nuovo; a Milano il Castello Sforzesco, la loggia degli Osî e palazzo Marino; a Pavia il Castello Sforzesco; a Poppi il castello dei conti Guidi; a Firenze la chiesa dei Ss. Apostoli, oltre alle facciate di S. Maria del Fiore e di S. Croce, assai discusse; a Roma le chiese di S. Maria in Cosmedin, di S. Sabina, di S. Saba, di S. Giorgio in Velabro, di S. Stefano degli Abissini, e i monumenti dei Fori imperiali, il tempio della Fortuna Virile e il teatro di Marcello; a Pienza la cattedrale; a Vercelli S. Andrea; a Torino il palazzo Madama;. i castelli della Val d'Aosta; a Gubbio il Palazzo dei consoli; a Perugia il Palazzo del comune; a Ferentillo la chiesa; a Bari il S. Nicola e la cattedrale; ad Ancona il S. Ciriaco e S. Maria a Piazza; ad Aquileia il duomo; a Bologna il gruppo delle chiese di S. Stefano e i varî edifici privati curati dalla Bologna storico-artistica; a Verona l'Arco dei Gavi; a Ferrara il palazzo di Ludovico il Moro; a Viterbo la loggia dei papi; in Puglia Castel del Monte; a Tripoli l'Arco di M. Aurelio; a Venezia il Palazzo ducale, il campanile di S. Marco, la Ca' d'Oro; a S. Gimignano la Porta S. Giovanni; a Trento il Castello del Buon Consiglio; a Gradara la Rocca; a Pompei la basilica e atrî e stanze di case; a Pesaro il Palazzo ducale; a Mantova il S. Sebastiano e il Palazzo ducale; a Orvieto il palazzo del Capitano del popolo e il S. Andrea; a Messina il Duomo; a Siracusa il Duomo; a Genova S. Agostino e la facciata del S. Lorenzo; a Ravenna il S. Vitale e il mausoleo di Galla Placidia, ecc.

All'estero rammenteremo, in Francia: il Palazzo dei papi ad Avignone; in Inghilterra: l'Abbazia di Westminster e il S. Paolo a Londra; in Grecia: i monumenti dell'Acropoli di Atene e i palazzi di Cnosso a Creta:

Bibl.: A. Didron e C. Daly, L'Archéologie aux prises avec l'Architecture, in Revue d'Arch., 1846, p. 276; E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l'Architecture française, VIII, 1869, s. v. Restauration; id., Entretien et restauration des cathédrales, in Revue d'Arch., 1851; id., Rapport aux inspecteurs des édifices diocésains, Parigi 1873; J. Stevenson, Architectural restoration, Londra 1877; C. Boito, Questioni pratiche di belle arti, Milano 1893; J. Ruskin, The seven lamps of Architecture, Londra 1910, cap. 6°; P. Schmit, L'architecte des Monuments religieux, Parigi 1784; L. Cloquet, La restauration des monuments, ecc., in Émulation (1902); F. Rucker, Les origines de la conservation des monuments, Parigi 1913; Ministero della pubblica istruzione, La tutela delle opere d'arte in Italia, Roma 1913; P. Léon, Les monuments historiques. Conservation et restauration, Parigi 1917; A. Rubbiani, Di Bologna riabellita, Bologna 1913; Ministero della pubblica istruzione, Relazioni della Commissione tecnica per lo studio delle condizioni del campanile di Pisa, Roma 1913; G. Calza, Scavo e sistemazione di rovine, in Bull. della Comm. archeolog. com., Roma 1916; A. Palmieri, La chimica e la fisica nella conservazione dei monumenti, in Atti del R. ist. d'incoragg. in Napoli, s. 5ª, IV; G. Giovannoni, Questioni d'architettura, Roma 1924, cap. 3°; G. Q. Giglioli, Restauri di capolavori dell'architettura antica, in Architettura ed arti decorative, 1924. Vedi altresì gli Atti dei Congressi internazionali degli architetti; gli Atti della Conferenza int. d'Atene pel restauro dei mon. (1931), in Mouseion (1932); i varî volumi di resoconti delle singole R. Sovraintendenze ai monumenti d'Italia.

Dipinti. Sculture. Oggetti d'arte.

Si potrà sempre discutere genericamente sull'utilità del restauro in specie per i dipinti, già deprecato dal Vasari e dal Maratta, ma da loro stessi praticato; saranno sempre discussi i modi e i risultati dei restauri singoli: pure, tutti converranno che alla distruzione delle opere d'arte, per le svariatissime cause che vanno abbreviandone la durata, è preferibile il restauro; e che questo deve mirare soltanto a conservare l'opera d'arte e a mostrarne le qualità genuine. Non consideriamo perciò il restauro inteso ad altri scopi, spesso slealmente venali, che modifica nei suoi caratteri l'opera d'arte per nasconderne la natura, per renderne plausibile qualche più seducente attribuzione, anche per adattarla a nuovo uso, come sovente accade negli oggetti d'arte industriale: in codesti casi, e in altri più inconsapevoli ma altrettanto comuni, il preteso restauro non è che falsificazione.

Ma, accettata la norma generale del ben condotto restauro, le difficoltà sono innumerevoli nell'applicarla, e tante, appunto, quanti sono i restauri da eseguire, ognuno dei quali va studiato e risolto a sé, con l'esperienza, con il gusto e con l'arte del restauratore. Questi, per bene riuscire, dovrà essere pronto a lasciarsi guidare con umiltà dall'opera d'arte, nel risarcirla, nel reintegrarla; cioè sarà pronto a preferire ai propri preventivi progetti i suggerimenti che gli verranno a mano a mano dall'opera stessa, mentre procede con scrupolo nel suo lavoro. Quasi impossibile dettare norme particolari al restauro, quando non si tratti dei suoi procedimenti più meccanici, che sono anch'essi da modificare secondo l'opportunità: dannosi i ricettarî, ché pongono in mano agl'inesperti i mezzi che non possono andar disgiunti dall'esperienza; deleterî i "segreti" degli uomini del mestiere, perché, quando il segreto esista realmente, ignorandolo non si potrà riparare all'occorrenza ai danni che sovente si manifestano molto tempo dopo il suo apparente successo. Al quale riguardo sarà buona regola per le opere d'arte importanti, e pubbliche, che siano registrati, e ben noti, i procedimenti tenuti nei restauri e le materie che vi sono state adoperate: onde bene Innocenzo XI avvertì il Maratta di non tener segreti nel rinettare gli affreschi delle Stanze Vaticane; e di quella ripulitura fu data una relazione abbastanza diffusa, non senza lasciare nella Stanza della Segnatura un piccolo tratto non ripulito, per misurare poi il lavoro compiuto di fronte a quel resto, in attesa delle immancabili critiche. Pertanto qui saranno esposti solamente in modo generico i principali procedimenti del restauro, rimandando ai trattati che li descrivono in particolare e che raccolgono esperienze non sempre sicure né definitive, poiché anche la pratica del restauro è in continuo sviluppo per strumenti e per materie nuove di cui può disporre.

Restauro di dipinti. - I dipinti presentano per il loro facile deteriorarsi le necessità più frequenti di restauro. Vi si provvide già anche in passato: così nel 1778 la Repubblica veneta istituiva uno studio di restauro per le pubbliche pitture; e alcuni dei procedimenti ancora in uso erano già adoperati nel sec. XVIII, come il trasporto degli affreschi su tela.

Le pitture, siano su muro, siano su tavola, su tela, o su altra materia, possono richiedere restauri sia per deterioramento del loro supporto e della sua coesione con la superficie dipinta, sia per deterioramento di questa. Per lo più i loro danni si fanno evidenti con palesi alterazioni, come sono, fra altre, gli sgretolamenti dell'intonaco negli affreschi, il sollevarsi dell'imprimitura, lo squamarsi e macchiarsi del colore: e prima attitudine del restauratore è di riconoscerli e di ritrovarne le cause. In codesta ricerca, ch'è atto di osservazione e di esperienza, il conoscitore è ora sempre meglio aiutato dall'applicazione di mezzi che la fisica odierna ha aggiunto all'esame chimico e microscopico, che è pur sempre utile: i raggi ultravioletti e i raggi X. Questi mezzi scientifici di ricerca, sempre più largamente adottati nei laboratori di restauro annessi ai maggiori musei, sono necessarî per conoscere lo stato dei dipinti senza manometterli, riuscendo a trovare quanto l'occhio altrimenti non vede sia nella superficie, sia sotto di essa e nel suo supporto: e sembra che non producano nelle pitture alterazioni apprezzabili, quando la loro azione non sia troppo forte. I raggi ultravioletti, prodotti mediante lampada di quarzo a vapori di mercurio, rivelano la diversa natura degli agglutinanti nei colori, perché vi destano diverse luminescenze, e servono pertanto a determinare dove siano ritocchi e restauri altrimenti invisibili; ma, siccome non attraversano le vernici, richiedono che queste prima siano tolte, col rischio della sverniciatura. I raggi X invece, permeando variamente quasi tutte le materie, consentono di vedere quanto è nascosto dalla superficie dipinta, sia in suoi strati diversi, sia nel supporto, e svelano sovrapposizioni di colore, lacune, rifacimenti, permettendo di stabilire, prima di iniziarlo, quanto debba essere esteso il restauro.

Al deterioramento del supporto e della sua coesione con la superficie dipinta si provvede con procedimenti che sono meccanici, e nondimeno debbono essere continuamente sorvegliati. Esso può provenire da cause diverse, quali esterne, quali insite nella natura stessa del supporto.

Nelle pitture murali il supporto, costituito dal muro e dagli intonachi, può essere attaccato da umidità che salga dal terreno, o che si diffonda da ambienti vicini, e sovente da quella che provenga da precipitazione di vapore acqueo per differenze di temperatura, come O. Silvestri ha osservato anche sulle pareti settentrionali del Camposanto di Pisa; il supporto può pure deteriorarsi disgregandosi per varie cause, perdendo coesione nei diversi strati fino a produrre vani, sollevamenti, e anche la caduta dell'intonaco dipinto. Fra i varî mezzi posti in opera contro l'umidità si può ricordare l'inserzione di lastre di rame nell'intero spessore della parete al disotto della pittura, che così resta isolata dal suolo; l'apertura di canne d'aria; l'inserzione di "tubi Knapen", ecc. Per ristabilire la coesione tra il supporto e la superficie colorata, anche nei musaici, si sono usate lungamente - e fin dai restauri del Maratta alla Farnesina e nelle Stanze Vaticane - grappette di rame, ma ora si preferisce iniettare nei vuoti dell'intonaco sostanze atte ad assicurarne l'aderenza.

È opportuno inserire qui alcune precise notizie sugli ultimi restauri della Cena di Leonardo (v.), compiuti dal conservatore del Cenacolo Vinciano, Oreste Silvestri. Questi, avendo ricercato le cause dell'umidità già da molto tempo lamentata, e persistente anche dopo i restauri del Cavenaghi, sulla superficie del dipinto, le identificò nella condensazione del vapore acqueo prodotta dallo squilibrio di temperatura tra l'ambiente e la parete dipinta, dietro la quale vi era un locale chiuso e malsano. Per rimuovere quella umidità, che il Cavenaghi e il Silvestri giudicarono essere stata la causa principale del deperimento della Cena, poi tanto malconcia da restauri e da ritocchi, il Silvestri ottenne di aerare vivamente il locale dietro la parete dipinta così da mantenerlo a una temperatura uguale a quella della sala del Cenacolo, fu inoltre provveduto a stonacare il tergo della stessa parete, perché le murature traspirassero meglio, e fu praticata in basso del muro un'intercapedine a sfiatatoi. Tolte le cause d'umidità (1924), il Silvestri, avendo constatato la non perfetta coesione dell'intonaco, provvide a ripararvi iniettando un adesivo sotto le parti sollevate e poi stirando leggermente queste, a caldo, con piccoli rulli. Escludendo le colle, perché non atte a risultati duraturi, e avendo riguardo alla natura del dipinto, a tempera olio-resinosa, egli formò un adesivo di resina dura (mastice) e di trementina di Venezia aggiungendo alla mistura una soluzione alcoolica di aglio, che aveva sperimentata adattissima a rendere più omogenea l'azione adesiva delle resine. Il risultato di questi provvedimenti conservativi si è dimostrato ottimo a dieci anni di distanza: l'umidità è scomparsa; la superficie del dipinto e la coesione col supporto è in perfetto stato. Resta la seconda fase del lavoro, da augurarsi non lontana: liberare la Cena, per quanto si possa, dai restauri antichi e dai ritocchi, mentre è certo che del capolavoro rimane ancora assai più che prima non si pensasse.

Nel restauro di consolidamento agli affreschi della vòlta della Cappella Sistina, che sono in ottimo stato nella superficie dipinta ma rivelano larghissimi stacchi dell'intonaco, lavoro condotto con grande coscienza da B. Biagetti, i vuoti sotto l'intonaco vengono riempiti con iniezioni di calce e pozzolana, cioè con materiale omogeneo all'antico e alla natura del dipinto, ch'è a buon fresco.

Quando il supporto e la sua adesione alla superficie colorata siano così menomati che sarebbero inefficaci altri provvedimenti, miglior partito è addivenire al "trasporto" o distacco della pittura. Sembra che già nel sec. XVI frequentemente si sia praticato il trasporto tagliando l'intera parete (affreschi di Masaccio in S. Maria Novella, del Ghirlandaio e del Botticelli in Ognissanti, di Domenico Veneziano in S. Croce a Firenze), ma questo procedimento, che serve per dislocare il dipinto, non giova a risanarne il supporto. Per questo scopo vi sono due mezzi: asportare da tergo della superficie dipinta tutto il supporto guasto; strappare da questo la pittura. Nel primo procedimento, che sembra il preferibile per le pitture a secco (le quali dovranno previamente essere fissate in qualche modo), bisogna prima assicurare da ogni eventuale danno la superficie dipinta coprendola di carta sottile o di tela incollata con glutine leggiero e rinforzata poi con altri strati di carta o di tela fino a garantire la rigidità del tutto; indi, coi ferri adatti, si assottiglia da tergo la parete sino al punto voluto per risanarla, anche lasciandone soltanto l'ultima pelle dipinta, e a essa si sostituisce un altro supporto (tela; incannicciato; rete metallica) che si fa aderire con un forte agglutinante al rovescio della superficie dipinta; questa infine si libera con ogni cautela dalle carte e dalle tele che la ricoprivano. Nel procedimento a strappo, ch'è ora il più comune, procurate le condizioni igrometriche più favorevoli, si stende sulla superficie dipinta una tela incollandola con un adesivo la cui tenacia, quando sia secco, possa superare quella dell'intonaco: poi, quando l'adesivo abbia fatto presa pienamente, si tira in modo uguale la tela che trascinerà con sé, per forza della colla, la pelle dell'affresco mostrandone il rovescio: l'ultima operazione è di applicare codesto rovescio su un'altra tela con un adesivo di maggior forza del primo, liberando poi la superficie dipinta dalla tela che la copriva. Lo stesso si pratica per il trasporto dei musaici, che fu operato con tanta vastità, e con apparecchi speciali, nel S. Marco di Venezia, nel battistero di Firenze, e altrove.

Il trasporto va eseguito tenendo conto di tutte le condizioni particolari dei dipinti, perché, sebbene sembri operazione meccanica, richiede giudizio e non sempre avviene senza danni: la lavatura a cui la superficie dipinta si sottoponga può far scomparire i ritocchi a secco; squame di colore cadono; l'intensità delle tinte s'indebolisce per il fatto non infrequente che si strappi soltanto uno strato sottilissimo di colore, restando sul muro quella parte che è penetrata più addentro nell'intonaco.

Anche più delle pitture murali le pitture mobili sono facilmente deteriorate nei loro supporti di legno o di tela. Le tavole possono essere attaccate dai tarli fino a sbriciolarsi; possono incurvarsi e fendersi; possono perdere coesione con l'imprimitura su cui è steso il pigmento. Si provvede contro i tarli con iniezioni o con vaporizzazioni di disinfettanti - benzina, petrolio, ecc. - badando che questi non siano sostanze nocive ai colori; nei casi di danni profondi si assottigliano le tavole piallandole fino a distruggere le tracce più profonde degl'insetti. All'incurvarsi e alle altre deformazioni delle tavole si pone riparo con l'opera dell'ebanista secondo i diversissimi casi, e armando il tergo dei dipinti con regoli scorrevoli di legno o di ferro che mantenendolo diritto e unito consentano al legno tutti i suoi continui movimenti. Si ristabilisce la coesione, se il danno è poco e se la sua natura lo consente, facendo penetrare adesivi sotto il colore sollevato, anche mediante iniezioni, e passando il tutto al ferro leggermente caldo. Quando i danni siano più gravi, e la coesione tra la tavola e l'imprimitura, o fra questa e il colore, accenni a diminuire sempre più, determinando gravi lacune nella superficie dipinta, conviene trasportare il dipinto su altro supporto - tavola o tela -: e per questo prima se ne intela la superficie come per il trasporto degli affreschi, poi si va assottigliando a tergo la tavola fino ad asportarla tutta e a non lasciare nemmeno l'imprimitura se questa dà segno di poca adesione.

I dipinti su tela che sia consunta, lacerata, riarsa o presenti altri deterioramenti, si riparano rifoderandoli, cioè rinforzandoli a tergo con un'altra tela incollata sulla prima. Questa operazione, nella quale pure si richieggono molte avvertenze particolari sia sulla qualità della tela nuova sia sulle colle, spesso giova anche a ristabilire la coesione della tela con l'imprimitura e di questa coi pigmenti; ma quando l'adesione tra il dipinto e la tela pericoli maggiormente, conviene procedere al trasporto del dipinto, che si fa in modo analogo al trasporto dei dipinti su tavola.

Il restauro dei dipinti ha difficoltà assai maggiori, e d'ordine non meccanico, quando riguarda non il supporto ma la superficie dipinta, cui siano già stati apportati, se occorrano, i suddetti risarcimenti. E prima, teoricamente, si può discutere se convenga mai eseguirlo, poiché vi è chi vuole escluderlo affatto, pensando di conservare così sui dipinti ogni traccia della loro storia, sia pur essa segnata da sovrapposizioni e da alterazioni evidenti, oppure affermando che la "patina" data dal tempo aggiunga fascino al colore; e vi è chi, per contrario, desidera il ripristino dei dipinti fino a ricondurli possibilmente all'aspetto ch'essi avevano quando furono eseguiti. In realtà non v'è alcun dipinto, anche di epoca abbastanza recente, che non si presenti modificato per diversissime cagioni dal suo aspetto originario. La prima generale causa di alterazione nei dipinti è il modificarsi dei colori sotto l'azione della luce, dell'atmosfera, delle sostanze in cui i colori sono stati diluiti - olî, resine, tempere -: e ad essa non si può in alcun modo porre rimedio senza alterare ancor più, con ritocchi, la genuinità delle pitture, cui sarà meglio lasciare i toni cresciuti che tentare di ridare un equilibrio che d'altra parte non si può più ponderare con esattezza. Altre cause ugualmente comuni, ma più deleterie, sono gli offuscamenti prodotti da sostanze sovrapposte alla superficie dipinta: polvere e materie grasse; vernici, o diventate opache col tempo, o colorate ad arte; ritocchi apportati per coprire guasti o per modificare qualche parte; "patine" aggiunte per intonare col resto i ritocchi, o per armonizzare il tutto in una gamma arbitraria; spellature prodotte da ripuliture; lacune per colore caduto, ecc.

Volere conservare in un dipinto tutti gli effetti di queste cause, credendo di rispettare così l'opera d'arte, è senz'altro da giudicare eccessivo; ma proporsi sistematicamente di rimuoverli tutti sarebbe un procedere altrettanto ciecamente: norma ovvia è, invece, che il restauro di "ripristino" venga fatto sino al punto da restituire l'opera d'arte in uno stato migliore del precedente, sia rispetto alla sua genuinità, sia rispetto alla sua conservazione, ché cercando di rimediare troppo ai guasti passati si può anche cagionarne altri maggiori: sapersi trattenere a tempo, rinunciando a strafare, anche conservando quei guasti che non turbino l'effetto dell'opera d'arte, sarà ottima regola del restauratore.

Consideriamo soltanto i casi principali del restauro, e in modo generico, poiché sarebbe impossibile definire tutti gli accidenti, e i processi per porvi riparo, i quali vanno considerati e studiati a volta a volta, dalla scienza e dall'arte del restauratore o di chi ne regoli l'opera.

Le pitture murali sono ora le più minacciate da malintesi restauri, di cui si vanno moltiplicando anche tra noi i vantati saggi. La loro distanza dall'occhio del riguardante, l'essere osservate per solito sbadatamente o da chi le considera piuttosto nell'insieme della decorazione che per sé medesime, sovente la stessa vastità del lavoro da compiere, hanno dato animo a trattarne alla brava il restauro: e molte ne sono già irreparabilmente sconciate. In dipinti murali del Medioevo e del sec. XIV si sono rifatti scorniciature e sfondi, risparmiando sì le figure, ma senza avvedersi dell'inevitabile squilibrio cagionato nel tutto; in altri, per procedere a un restauro "oggettivo", si è costellata la superficie lacunosa con tinte neutre, distruggendo l'effetto d'insieme; in molti, e specialmente nei più antichi, si è ardito di "rinforzare" quanto pareva svanito, riuscendo qualche volta perfino a ridicole deformazioni iconografiche per avere male compreso ciò che restava.

Nelle pitture murali il primo pericolo del ripristino è la ripulitura. Quando, come accadde frequentemente, esse siano state imbiancate a calce, il procedimento più comune ma più dannoso per scoprirle è il raschiamento, ché lascia coperta di abrasioni la superficie dipinta: conviene invece cercare di staccare il bianco con leggieri colpi, e infine strapparlo con qualche adesivo. Per pulirle dalle sostanze grasse, depostevi specialmente dal fumo, si adoperano detersivi liquidi di varia natura (il Maratta per gli affreschi delle Stanze ricorse al vino greco) nella certezza che esse debbano reggere alle lavature: e non è dubbio che da tali trattamenti a umido le pitture murali sovente escano come ringiovanite agli occhi dei più, salvo poi ad accorgersi, gl'intelligenti, dei danni che furono cagionati asportando dalla superficie dipinta le parti pittoricamente più delicate, che sono le ultime finiture a tempera frequenti anche nei dipinti eseguiti più largamente a fresco, estesissime in altri come nelle decorazioni del battistero di Castiglione d'Olona, dove Masolino in molte parti dipinse a buon fresco soltanto le teste e le mani, ma eseguì invece a secco le vesti, che perciò, nelle replicate ripuliture, hanno perduto in gran parte il colore. In quasi tutti gli affreschi medievali, a cominciare da quelli cimiteriali e da quelli di S. Maria Antiqua a Roma, è facile osservare che sopra le tinte incorporate dall'intonaco fresco ve ne sono altre che aderiscono a questo superficialmente, quasi friabili al tatto, e tanto più soggette a perdersi nei lavaggi; in affreschi del Rinascimento, come nella cupola del Correggio nel S. Giovanni di Parma, bastò l'umidità e lo sfregamento della mollica di pane adoprata nel pulirli per metterne in pericolo l'epidermide. Non si raccomanderà perciò mai abbastanza che anche negli affreschi la ripulitura venga eseguita e sorvegliata con grandi cautele, facendone prima un saggio su parti secondarie. Per le pitture murali a tempera la ripulitura presenta anche maggiori difficoltà, perché in esse l'adesione dei colori alla parete può trovarsi ridotta al minimo, o per la natura dei colori (come è per solito nell'azzurro d'oltremare) o per altre cagioni; e prima di tentarla bisogna ristabilire la solidità del colore, come si è fatto nel Cenacolo di Leonardo. Non è infrequente che la superficie delle pitture murali, avendo già subito restauri, sia stata spalmata di qualche sostanza ritenuta adatta a ravvivarle: olio, gomma, chiara d'ovo, cera, paraffina, ecc.; ed è necessario riconoscere, ove occorra anche con esame chimico, la presenza di tali sostanze. L'olio, ch'è perniciosissimo anche ai dipintì murali, non cede forse ad alcuna ripulitura; ma le altre sostanze si possono rimuovere con i mezzi opportuni: così il Silvestri ora ha deterso dalla cera, che l'aveva offuscata, imbiancandosi e coprendosi di polvere, in alcune teste, la Maestà di Simone Martini nel Palazzo pubblico di Siena. È poi da ricordare che esperti restauratori, come il compianto F. Lucarini, consigliano che a restauro finito gli affreschi siano leggermente imbevuti di paraffina, che ne dovrebbe assicurare la conservazione ed è facilmente removibile: ma sarà da considerare se tale pratica sia opportuna, caso per caso, dovendosi conservare all'affresco la sua opacità di superficie.

Anche nelle pitture murali saranno da rimuovere con adatti mezzi i ritocchi che ne alterino il carattere o ne coprano parti originarie; ma non converrà troppo insistere nel nascondere le abrasioni e le piccole lacune di colore che offendono meno delle tinte sovrapposte a coprirle. D'altra parte sembra del tutto da sconsigliare di rinnovare il colore dove esso sia caduto in larghi tratti, come negli sfondi: gli sfondi d'oltremare rifatti modernamente, e macchiati ad arte perché sembrino antichi, diffondono il senso del falso anche sulle parti conservate.

Le lacune dell'intonaco dipinto, dopo essere state stuccate e pareggiate al resto, potranno essere tinteggiate di una tinta neutra per mantenerle più distinte; ma meglio si provvederà all'effetto artistico delle parti conservate, che deve primeggiare sullo scrupolo dell'archeologo restauratore, colorandole con tinte locali che non disturbano l'occhio, pur senza volere accompagnare la modellazione delle parti vicine: in tal modo furono egregiamente eseguiti i vecchi restauri negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo. Superfluo ripetere che ogni ritocco a colore, inteso a rafforzare quanto rimane più o meno svanito del dipinto originario, è una pratica insensata: ma purtroppo è stata applicata ad aneschi celebri.

La superficie dei dipinti non murali presenta anche più frequentemente che quella dei dipinti murali inderogabili necessità di restauro pur dopo averne risanato il supporto: può essere perfino interamente nascosta da altre sovrapposte pitture; offuscata da materie estranee: patine, vernici decomposte, "beveroni"; alterata da restauri che la macchiano per sopravvenuta alterazione dei colori, o ne nascondono parti conservate; lacunosa per colore caduto; guasta da precedenti ripuliture che l'abbiano variamente intaccata. I mezzi scientifici odierni; già ricordati, consentono di conoscerne lo stato prima di por mano a qualunque restauro: e permettono di stabilire preventivamente i limiti di questo, per non riuscire a risultati inferiori alle condizioni ad esso precedenti. Si dànno nei dipinti sovrapposizioni che i raggi X rivelano in modo inatteso. Sono dovute qualche volta a pentimenti dell'artista, o coprono dipinti frammentarî e di minor valore: e non conviene affatto toglierle, come nell'Uomo dalla gabbia del museo di Strasburgo, attribuito al Grünewald, o nella S. Caterina del Granacci nella Galleria Borghese. Quando s'intenda di rimuoverle, sia che ricoprano l'intera superficie sia che ne nascondano parti originali, ci si dovrà soprattutto proporre che rimuovendole non ne riesca danneggiata la pittura originaria, e si dovrà perciò procedere con i mezzi più acconci per non guastare quello ch'è da scoprire: a volte converrà procedere a secco, asportando il colore con punte e con temperini; a volte bisognerà usare reagenti liquidi. Questi hanno sempre il grande inconveniente di non potersene frenare a tempo l'azione: e sono perciò da adoperare in dosi graduate secondo il caso. Si adoperano reagenti caustici di varia natura, l'alcool diluito in acquaragia (la cosiddetta "mista") e altri prodotti chimici, ma i loro effetti e i loro danni dipendono dalla varia esperienza del restauratore, e sono inoltre variamente condizionati all'azione meccanica, di sfregamento, che ne accompagna l'uso.

Le vernici sovrapposte ai dipinti possono alterarne i toni perché ingiallite, anche ad arte, oppure offuscarli perché ossidate e opache. Per ridare loro trasparenza fu largamente adoperato il metodo ideato dal Pettenkofer. Consiste nell'esporre abbastanza prolungatamente la superficie dipinta ai vapori d'alcool, sotto l'azione dei quali le vernici riacquistano coesione molecolare tornando diafane; ma ora questo metodo è meno praticato, perché non dà risultati molto permanenti ed è pericoloso alle pitture eseguite a vernice: si preferisce asportare le vernici invecchiate e rinnovarle. La sverniciatura non è sempre facile, ed è da eseguire cautamente, potendone conseguire gravi danni. A volte può ottenersi anche col mezzo di un semplice attrito, quando la vernice disgregandosi si polverizza; per lo più richiede l'uso di sostanze liquide (acquaragia; "mista"), che dovranno essere adoperate badando di non smuovere i primi strati della pittura, sovente condotti a velature di olio e di vernice e perciò intaccabili con somma facilità. Spogliato il dipinto anche delle materie grasse che lo coprano e delle "patine", che sovente consistono di sostanze eterogenee con le quali in passato si dava ai quadri il dovuto "colore di galleria", si presenta con le ultime difficoltà il problema, anche teorico, del restauro in diversi modi: se siano da mantenere in vista le lacune della superficie dipinta; se invece si debbano coprire accompagnandole, e fino a qual punto, con ciò che rimane di originario; se siano da reintegrare anche le ultime velature, molte volte distrutte in tutto o in parte da precedenti ripulimenti. E questi quesiti s'impongono con più insistenza che per le pitture murali, trattandosi di dipinti da vedere dappresso, nei quali l'effetto può essere più facilmente guastato così da parti mancanti come da quelle malamente ripristinate. Inoltre, il restauro incominciato trascina quasi irresistibilmente l'operatore a insistervi, a strafare, onde più che mai si richiede il gusto di chi lo moderi nei termini giusti rispetto alla piena conservazione della genuinità dell'opera d'arte. D'altra parte bisogna tener presente, per i restauri reintegrativi, che essi di necessità col tempo si altereranno, anche se eseguiti, escludendo il ritocco a olio, coi mezzi che si affermano più inalterabili (ritocchi a tempera e a vernice), e prima o dopo formeranno macchie sul dipinto originale, che dovranno essere eliminate con nuovi restauri. Norma generale dovrebbe essere che il restauro sia limitato in modo assoluto a coprire le lacune della superficie dipinta, non trascorrendo cioè a coprire in parte anche l'originale, come usarono vecchi restauratori per fondere con l'antico il nuovo ch'essi altrimenti non riuscivano a intonare con quello. Quando si tratti di opere di grande importanza, meglio forse sarebbe, come negli affreschi, dopo avere stuccate e pareggiate le grandi e le piccole lacune della superficie dipinta, coprirle con tinta neutra, come fece il Cavenaghi per il polittico di Antonello ora nel museo di Messina, oppure con tinte locali, che meglio si adattano a fondersi nell'effetto totale; ma non si può escludere, quando le lacune non tocchino parti di eccezionale importanza, che il restauratore a ciò sufficiente cerchi di accompagnare in esse abbastanza da vicino la modellazione, facendosi guidare dal dipinto stesso, che nelle parti contigue gl'indicherà i toni e l'andamento del pennello, e contenendosi sempre entro le sue cicatrici. In quanto a reintegrare le velature scomparse, queste sono parte così imponderabile e nello stesso tempo così essenziale per molte pitture, e specialmente per le veneziane, da non potersi restituire che approssimativamente e con successo dubbio anche se il restauratore sia artista che comprenda bene il dipinto intorno a cui lavora.

Compiuto il restauro, è necessario proteggere tutta la superficie dipinta con una nuova vernice: e mentre si discute ancora sulla migliore qualità di vernice, e qualcuno proporie di sostituire le vernici con soluzioni a base di cera o con altri moderni preparati, conviene affermare in genere che la vernice deve presentare il miglior grado possibile di alterabilità, e potersi facilmente rimuovere senza danno della pittura. S'intende che nei dipinti a tempera, quando per caso rarissimo siano giunti a noi senza verniciature, meglio è rinunciare alla vernice, il cui effetto è di alterare i toni.

Restauro di sculture. - Meno complesse che per i dipinti, ma non tutte risolte, sono molte questioni intorno al restauro di altre opere d'arte. Per le sculture lo stato frammentario è forse meno dannoso agli effetti estetici che per le pitture; un frammento felicemente tagliato si può apprezzare come la scultura intera: ma ciò non toglie che sia sovente opportuno riparare a piccoli danni molesti (p. es., naso del S. Giorgio di Donatello).

Il problema principale per le sculture in marmo, in pietra, in terracotta è, comunque, quello di provvedere allo sgretolamento che vi si manifesti per l'azione dell'aria, del variare delia temperatura, dell'umidità: e nessuna delle pratiche esperimentate finora (bagni di silicato, ecc.) sembra senza inconvenienti. Anche la ricomposizione di sculture frammentarie in marmo o in bronzo rientra nel restauro di ordine meccanico (ricordiamo i lavori nella cappella del Rosario ai Ss. Giovanni e Paolo in Venezia), mentre per le sculture in legno sono specialmente i mezzi chimici che valgono contro le erosioni del tarlo, e riporta alle pratiche di restauro intorno alle superficie colorate il trattamento della loro policromia, sovente mascherata da sovrapposizioni, da ritocchi, o consunta e lacunosa in tal modo da sconsigliare qualunque ripristino.

Per ciò che si riferisce più particolarmente alle sculture antiche, oggi le tendenze sono varie. In massima si lasciano intatti i marmi, salvo a ricomporre, per quanto si può, i frammenti. Ma quando si possono ricostruire con certezza taluni elementi, il restauro artistico si può e si deve fare, specialmente sui calchi: ottimi esempî di questo metodo ha presentato recentemente G. E. Rizzo nel suo libro su Prassitele. In qualche museo si è cominciato a rimuovere dalle sculture le aggiunte dei secoli scorsi, ma l'effetto è talora disastroso, perché si mettono in evidenza i tagli e le tassellature, deturpazioni ripugnanti, ancor meno scusabili dei vecchi restauri. Operazioni di questo genere si devono discutere caso per caso: spesso è meglio evitare la chirurgia.

Nell'antichità il restauro delle sculture ebbe scopo conservativo: più volte, come nel "Toro Farnese" (v. apollonio di tralle), si sono riscontrate sui marmi tracce di riparazioni. L'iscrizione del basamento d'un colosso d'Apollo nel santuario di Delo: "Son della stessa pietra figura e piedistallo" si crede da alcuni che sia stata aggiunta dopo che la statua, spezzata e ricostruita, non mostrava più l'integrità originaria: le lettere sono del sec. VI a. C. Il più antico restauro che si ricordi è quello del colosso fidiaco di Zeus, per opera di Damofonte di Messene (v.) nel secolo II a. C.: i pezzi d'avorio che formavano le carni non aderivano più al fusto di legno, e bisognava ricomporre le superficie deformate. Nel frontone della centauromachia del tempio di Zeus in Olimpia, s'è ritenuto da qualche studioso moderno che in epoca romana sia stata sostituita qualche figura, riproducendo l'originale deteriorato con marmo d'altra qualità. Alla statua marmorea di Artemide, opera di Timoteo, nel tempio d'Apollo al Palatino, Avianius Evander avrebbe "rimesso" la testa, secondo una notizia di Plinio (Nat. Hist., XXXVI, 32): le parole dello scrittore non permettono di stabilire l'esatta entità del restauro (rifacimento, sostituzione, ricupero?), che si può datare intorno al 30 a. C. Restauri, in certo modo, si possono considerare anche gli adattamenti di statue onorarie, alle quali si cambiava la testa per ragioni politiche.

Ma il restauro "artistico" quale noi l'intendiamo, sorse principalmente nel Rinascimento: spesso ne risultarono vere devastazioni. Allora ben di rado si apprezzavano i frammenti, e poco piacevano le superficie fruste, o scheggiate: le anticaglie si volevano rimettere a nuovo. Buoni artisti eran chiamati a rifare le parti mancanti, ed essi ricostruivano a modo loro, seguendo spesso i suggerimenti degli eruditi, che interpretavano il soggetto secondo le loro cognizioni, per lo più letterarie.

Uno dei casi più istruttivi, per intender la tecnica e la mentalità di quel tempo, è un torso marmoreo completato dal Cellini, al Museo Nazionale in Firenze: lavorando a suo capriccio, il maestro ne fece un Ganimede, e il pregio del restauro supera quello dell'originale. Il grande cesellatore ha pure fatto un Bacco con un torsetto di statuetta in bronzo, e ha supplito in oro il pezzo mancante d'un cammeo, di casa Medici, conservato nel Museo archeologico della stessa città. Noti restauri cinquecenteschi sono quello del gruppo di Laocoonte al Vaticano, errato nel braccio della figura principale, che invece Michelangelo aveva mirabilmente divinato in un suo schizzo, e quello dell'Apollo di Belvedere, eseguito dal Montorsoli. Già allora si cominciò a completare "l'antico con l'antico", accozzando pezzi scompagnati, come nel gruppo dei lottatori della Galleria degli Uffizî, e a rilavorare le superficie per farne sparire i guasti, ripulendo e tingendo per "intonare" l'insieme. L'andazzo, specialmente in Italia, continuò fino al secolo XIX. Quando la Signoria di Venezia decise di collocare nella libreria di S. Marco le sculture donate dai Grimani, fu dato incarico di restaurarle ad Alessandro Vittoria e Angelo delle Due Regine: un documento del 1587 dichiara con entusiasmo ch'erano state "abbellite in maniera che non parevano più quelle" (Valentinelli, Marmi del museo della Marciana, Prato 1866, p. xii seg.). E ciò può bastare per apprezzare la critica d'allora. Per il sec. XVII valga l'esempio dello scultore F. Girardon, che ripassò a scalpello la Venere famosa donata dalla città di Arles a Luigi XIV: parve alquanto grassoccia, e la si volle snellire. Un calco eseguito prima della riduzione fa vedere l'entità del restauro.

Nel sec. XVIII a Roma, quando si adunarono le grandi raccolte papali e rifiorì il commercio antiquario, il restauro dei marmi diventò una vera industria. L'abbondanza dei frammenti servì a risparmiar lavoro: di solito è la testa che non appartiene al corpo, ma talvolta s'incontrano statue composite, che poterono anche trarre in inganno qualche studioso d'arte antica, come il Pugilatore di Policleto. Un caposcuola per tali pasticci fu il famoso B. Cavaceppi. Pio VI fece rilavorare il sarcofago di S. Elena per collocarlo nel Museo Vaticano: si dovette istruire una maestranza per la tecnica del porfido, il lavoro fu lungo, e il monumento risultò secondo il gusto veneziano del testo citato poc'anzi.

E. Thorwaldsen ebbe da Luigi I di Baviera la commissione di racconciare le statue dei frontoni di Egina: purtroppo accettò. Ben altrimenti la pensò A. Canova, quando gli domandarono a Londra se fosse il caso di metter mano alle statue del Partenone, e le salvò dalla maggiore iattura.

P. Tenerani, sotto Pio IX, ripassò il Sofocle del Laterano, al quale rifece anche il naso e i piedi.

Per le sculture in bronzo il "vecchio" restauro consisteva nella pulitura meccanica e nell'aggiunta di pezzi rifatti, oltre alla ricomposizione dei frammenti che si pratica tuttora.

Oggetti d'arte e metalli antichi. - Non è qui possibile indicare le pratiche adoperate per gli svariatissimi minori oggetti d'arte: piombi, che sembrano insanabili quando sono attaccati da un'intensa corrosione che li polverizza; maioliche e porcellane; vetri; smalti; orologi; tessuti; legature; tarsie; mobili, ecc.: suggerite dalle esperienze, esse per lo più mirano a ripristinare l'integrità e l'aspetto originario di quegli oggetti, e molte volte sono trattate da abilissimi artefici.

Particolare importanza ha il restauro degli oggetti antichi di metallo, che si rinvengono imprigionati da tenaci e spesse incrostazioni, che impediscono di vedere i più fini tratti, le più belle incisioni e, ciò che è più grave, nascondono il lavorio di distruzione che sotto di esse compiono gli agenti atmosferici. Tale lavorio, se non è arrestato in tempo, finisce a poco a poco per ridurre l'opera in un masso informe di minerale, e probabilmente di quello stesso minerale da cui gli antichi flatores avevano con tanta cura estratto il metallo. Si comprende così l'importanza del restauro. Le alterazioni che subiscono gli oggetti di metallo sono molteplici e purtroppo poco note. Il cosiddetto cancro o rogna del bronzo fu studiato per primo da M. Berthelot. Seguirono gli studi di A. Rosenberg (Antiq., p. 73), di F. Rathgen (Die Konservierung von Alterthumsfunden, Berlino 1898), di Ch. Frisch (Rev. Chim. Ind. [1904], XV, p. 169), di F. Margival (ibid., XXII [1911], pp. 304-331) e di altri. Alcuni autori attribuiscono il cancro del bronzo ai composti di cloro, altri all'attività di batterî, altri invece alle azioni elettrochimiche "effetto Volta" (U. Cialdea, in XXIII Riunione della Soc. ital. per il progresso delle scienze, ottobre 1934). Tutti quelli che seguirono tali ricerche si preoccuparono più di escogitare i mezzi di conservazione che dello studio delle alterazioni.

Possiamo dividere in due categorie i metodi applicati fino ad oggi dalla tecnica restauro per gli oggetti di scavo resi irriconoscibili dalle incrostazioni, dai gonfiamenti, dalle pustole, dagli sfaldamenti, ecc. Nella prima si debbono comprendere tutti quei mezzi che servono a rilevare la forma, i disegni, gl'intarsî e a decifrare le iscrizioni dell'oggetto irriconoscibile; nella seconda quelli che servono ad arrestare il processo di corrosione ed a conservare l'oggetto nel suo vero aspetto artistico e archeologico.

Alla prima categoria appartengono: a) mezzi meccanici, che comprendono la pulitura a lima, a bulino e ripasso a cesello, o con trapano, ruote a smeriglio, colla calda, ecc.; b) mezzi chimici, che comprendono i solventi delle incrostazioni, come acqua calda, soluzione di ammoniaca, di potassa, di cianuro di potassio, d'iposolfito, di acidi deboli forti, ecc.; c) mezzi elettrolitici, che si possono suddividere in: 1. autoelettrolitici di Rosenberg (che adopera lo stagno e l'alluminio per sostituire il metallo più nobile che riprecipita sull'oggetto); di Krefting (che adopera invece lo stagno in una soluzione d'idrato di sodio); di Rhousopoulos (che adopera lo zinco in soluzione di acido nitrico); 2. elettrolitici propriamente detti di: Finkener (che fa funzionare l'oggetto da catodo in una soluzione di cianuro di potassio); di G. Fink (che adopera come elettrolito una soluzione di idrato di sodio). Mezzi elettrolitici adoprava anche con ottimi risultati Francesco Rocchi, restauratore dell'Ufficio del Palatino.

Alla seconda categoria appartengono: a) le patinature artificiali che, pochissimo usate, è necessario siano tali da potersi togliere facilmente senza arrecare danno all'oggetto; b) le vernici o lacche, che debbono essere trasparentissime, invisibili, non infiammabili e senza azione sul metallo sottostante; c) le custodie, che si debbono mantenere a una temperatura possibilmente costante, secondo la natura degli oggetti. (Così, per es., quelle contenenti oggetti di stagno non dovranno avere la temperatura al disotto di 20°).

I mezzi meccanici e chimici della prima categoria hanno poco bisogno di ulteriori perfezionamenti: essi sono stati applicati nel British Museum con risultati soddisfacenti da Scott (1923). Hanno dato pure grande aiuto a Colin G. Fink (The Restoration of ancient bronzes and other alloys, 1925), dell'università di Columbia, sebbene questi, insieme con Ch. H. Heldridge, usi quasi esclusivamente il metodo elettrolitico.

U. Cialdea attualmente, presso la R. Soprintendenza alle antichità in Roma, applica metodi scientifici per il restauro dei metalli antichi. Tali metodi sono basati principalmente sull'elettrolisi le cui condizioni vengono, secondo i casi, variate in modo da riottenere la riprecipitazione al suo posto della maggior parte del metallo passato nelle incrostazioni. Tale metallo, che fa parte dello strato superficiale, riprecipitando, rivela le iscrizioni, gl'intarsî e i disegni, facendo riacquistare all'oggetto la solidità perduta. Gli altri sistemi sono in via di perfezionamento.

La mancanza di trattati scientifici si deve in parte all'avere soltanto recentemente sostituite le tecniche razionali, basate sui più recenti ritrovati delle scienze fisiche e chimiche, alle tecniche empiriche ed inefficaci di carattere esclusivamente artistico, in parte poi alle difficoltà di trovare un metodo scientifico generale per tutte le innumerevoli varietà di leghe e d'incrostazioni. Un procedimento, mentre è ottimo per una certa specie di deterioramento, non è applicabile ad un altro: il restauratore, oltre al senso artistico e alle cognizioni fisico-chimiche, deve avere una serie di cautele, di accorgimenti speciali da poter scegliere, improntare e variare durante ogni singola operazione.

V. tavv. XXXI-XXXVIII.

Bibl.: Sul restauro in genere, e su qualche restauro antico: G. P. Bellori, Le vite, ecc., Pisa 1821, III, pp. 223-32; id., Descrizione delle immagini dipinte da Raffaello, Roma 1751 (sui restauri di C. Maratta); G. Bottari, Dialoghi sopra le tre arti del disegno, Lucca 1754; C. Boito, Questioni pratiche di belle arti, Milano 1893; Le vicende del Cenacolo di Leonardo nel sec. XIX, Milano 1906; Mantegna's Cartoons at Hampton Court, in The Burlington Magazine, LXIV (1934), pp. 106-113. Riviste particolari: Museumkunde, Berlino 1905 segg.; Mouseion, Parigi 1926 segg.; Technical Studies in the Field of the fine Arts, Cambridge 1932 segg.; Technische Mitteilungen für Malerei, Monaco 1884 segg. - Sulle nuove applicazioni scientifiche: J. J. Rorimer, Ultra-violet Rays and their use in the Examination of Works of Art, New York 1931; V. Bauer e H. Rinnebach, L'examen des peintures aux rayons X, in Mouseion, XIII (1931), pp. 42-70; A. Eibner, Les rayons ultra-violets appliqués à l'examen des couleurs et des agglutinants, ibid., XXI (1933), pp. 32-68; J. Wilde, L'examen des tableaux à l'Institut Holzknecht de Vienne, ibid., XVI (1931), pp. 18-25. - Per il restauro dei dipinti, buono il manuale di G. Secco Suardo (Il restauratore dei dipinti, 4ª ed., con pref. di G. Previati, Milano 1927); v. inoltre: U. Forni, Manuale del pittore restauratore, Firenze 1866; O. E. Ris-Paquot, Guide pratique du restaurateur-amateur de tableaux, Parigi 1890; Ch. Dalbon, Traité pratique et raisonné de la restauration des tableaux, Parigi 1898; E. Berger, Beiträge zur Entwicklungs-Geschichte der Maltechnik, Monaco 1909, V, pp. 37-44; H. Ruhemann, La technique de la conservation des tableaux, in Mouseion, XV (1931), pp. 14-22; P. Tudor-Hart, Nettoyage rentoilage et vernissage des peintures, ibid., pp. 23-40; A. P. Laurie, Devernissage des tableaux anciens, ibid., XXVI (1934), pp. 216-19; L. Branzani, Le tecniche, la conservazione, il restauro delle pitture murali, Città di Castello 1935. - Per il restauro di oggetti d'arte industriale: O. E. Ris-Paquot, Manière de restaurer soi-même les faïences, porcelaines, cristaux, Parigi 1876; H. W. Krieger, La conservation des objets exposés dans les Musées, in Mouseion, XXII (1933), pp. 177-191; La conservation des tapisseries et tissus anciens, ibid., pp. 192-211. - Per il restauro dei metalli antichi v.: U Cialdea, in Mouseion, XVI (1931), p. 57; id., in Atti e memorie dell'istituto italiano di numismatica, VII (1932), p. 155; id., in Atti III congresso nazionale di studi romani, 1934, p. 118 segg.; F. Rocchi, Un po' di patologia dei metalli antichi, in Atti e mem. dell'Ist. ital. di numism., III, p. 95.

Restauro dei libri e dei manoscritti.

Ha lo scopo di pulire e smacchiare i fogli, renderli consistenti e ripristinare le parti corrose, marcite o asportate a opera di varî agenti, che hanno potuto esplicare tutta la loro azione deleteria a causa del tempo o della cattiva conservazione. Al primo si possono attribuire, per le carte, il fenomeno dell'ingiallimento, dell'imbrunimento e della perdita della colla animale (gelatina) fatta assorbire al momento della fabbricazione del foglio per renderlo atto alla scrittura e per preservarlo; alla seconda tutta un'innumerevole serie di danni che vanno dalle muffe (che oltre a corrodere le fibre producono macchie variamente colorate e spesso ribelli ai processi imbiancanti) alle macchie di umidità o di deiezioni liquide e solide di topi, scarafaggi, ecc., alle bucherellature dei tarli e di numerosi altri insetti che si nutrono della carta o della pergamena, alla corrosione operata dagl'inchiostri troppo acidi, ecc.

Cenno storico. - Numerosi chimici, che furono nel contempo bibliofili appassionati, contribuirono a questi studî: fra essi G. A. Chaptal, che appena scoperte, nel 1787, le proprietà decoloranti del cloro, le applicò alla sbiancatura delle stampe antiche. Ma il primo che si occupò seriamente, e in modo sistematico, dell'arte del restauro fu Giovanni Fabbroni, che espose i metodi da lui escogitati per riparare i danni che un lungo abbandono aveva recato ai manoscritti e ai libri della biblioteca da lui diretta. Dopo di lui, H. Davy, chiamato dal governo di Napoli a restaurare i papiri ercolanensi, studiò colà i primi metodi tecnici per tale delicato materiale. Nella seconda metà del sec. XIX l'introduzione, nella fabbricazione della carta, della pasta meccanica di legno, portò a una notevole diminuzione della resistenza delle carte all'uso e al tempo. Né a combattere l'uso della pasta di legno, oggi divenuto generale, valsero le raccomandazioni dei bibliotecarî, degli archivisti e degli studiosi. Nel 1898 il padre F. Ehrle, prefetto della Biblioteca Vaticana, pubblicò i suoi sistemi per la conservazione e il restauro dei manoscritti antichi, sistemi che furono poi seguiti e perfezionati da P. I. Vottero, da M. Marrè, da C. Marino e da altri. Nel 1905 un grave incendio colpì e distrusse parte della ricca Biblioteca nazionale di Torino, e il governo affidò a Icilio Guareschi e Piero Giacosa, di quella università, il compito di salvare quanto era possibile dei codici miniati arsi dal fuoco, deturpati dalle muffe e infraciditi dall'acqua. Le osservazioni e i risultati pubblicati dal Guareschi e dal Giacosa costituiscono oggi la guida migliore per i laboratorî dei restauri. Fino al 1930 l'arte del restauro bibliografico era esercitata principalmente, in Italia, presso il gabinetto dei restauri della Biblioteca Vaticana, fondato dall'Ehrle e dal quale sono usciti i migliori tecnici in materia. Venivano, dopo, il Gabinetto dei restauri dei papiri ercolanensi a Napoli e quello del R. Archivio di stato di Roma; vi erano e vi sono inoltre varî laboratorî privati, taluni dei quali ottimi e con buone tradizioni. Con il 1931, per iniziativa del Ministero dell'Educazione nazionale e dei religiosi della Badia Greca di Grottaferrata, iniziò il proprio funzionamento un gabinetto dei restauri presso la biblioteca della badia stessa, che in breve volger di anni si è affermato, sia per la perizia del personale addettovi, sia per la competenza bibliografica di quei religiosi, divenendo nel 1935 un vero istituto di patologia del libro, attrezzato di tutti i sussidî scientifici più perfetti e moderni. Nel 1933 lo stesso ministero costituì un'apposita commissione che, sotto la presidenza di N. Parravano, coordina e promuove tutti gli studî relativi al restauro e alla prevenzione delle alterazioni dei materiali librarî e alla loro conservazione.

Tecnica. - I metodi per il restauro sono molteplici e si differenziano a seconda del materiale. Per le carte si usa un velo "crepline", specie di organzina molto sottile e resistente, e per combattere la causa maggiore della debolezza e del disfacimento delle fibre, derivato dalla perdita della colla animale della quale fu imbevuto il foglio all'atto della sua fabbricazione, si dà un nuovo bagno di colla animale (gelatina) in soluzione tiepida. Per le parti mancanti, si esegue il rattoppo con carta della stessa qualità e colore. Nei casi più gravi si deve ricorrere allo sfaldamento del foglio nel senso del suo spessore e all'interposizione fra i due fogli sottilissimi, così ricavati, di un altro foglio di carta resistente. Anche per le pergamene si pratica il rattoppo con altra pergamena dello stesso spessore, e talvolta l'applicazione del velo come per le carte, il bagno di gelatina, di altre sostanze, previa la stiratura e la spianatura meccanica. Grande cura si deve avere per evitare l'applicazione di sostanze acide o corrosive, che possono esplicare, sia pur lentamente, la loro azione deleteria.

Per il rattoppo si debbono ritagliare i pezzi, con l'ausilio di un vetro opaco illuminato dal basso, seguendo le sinuosità e i fori del documento, e si applicano sulle parti mancanti in modo da ridare al foglio la continuità della sua estensione primitiva. Talvolta i rappezzi si possono fermare con pellicole ricavate da viscere di giovani animali (vitello, suino, ecc.), opportunamente conciate e preparate. Completa l'opera l'azione di forti presse, che riportano il foglio allo spessore primitivo facendo aderire i rinforzi appostivi.

È impossibile dilungarsi sui molti metodi di restauro che sono andati grandemente perfezionandosi, dando luogo a una rilevante bibliografia. Si ricorderà solo uno dei compiti più importanti, che è quello di ravvivare le scritture sbiadite sia dal tempo, sia in seguito ad azioni meccaniche (raschiatura, lavatura, ecc.); appartengono a questa seconda specie quelle dei palinsesti (v.). Va ricordato infine che lo scopo del restauratore deve limitarsi alla riparazione dei danni e al rafforzamento dei fogli allo scopo di rendere duraturo il restauro stesso, senza spingersi troppo al ritocco e al rifacimento grafico, artistico e coloristico, che rappresenterebbe una vera e propria falsificazione o contraffazione.

Bibl.: G. Fabbroni, Lettera al bibliotecario di Modena intorno al restauro dei libri, in Nuovo giorn. dei letterati, IV, Pisa 1806, e in Giorn. pisano dei letterati, V, ivi 1806; A. Bonnardot, Essai sur l'art de restaurer les estampes et les livres, ecc., 2ª ed., Parigi 1858; P. Palmeri, Modo di riconoscere le scritture scancellate, in Annali Ist. Sup. Agr., II, Portici 1893-94, p. 355; F. Ehrle, Della conservaz. e del restauro dei manoscritti antichi, in Zentralbl. für Bibliothekswesen, XXVI (trad. it. in Riv. delle bibliot. e degli archivi, IX); I. Guareschi, Osservazione ed esperienze sul recupero e sul restauro dei codici danneggiati dall'incendio della Bibl. Naz. di Torino, in Mem. R. Acc. sc. e lett. di Torino, LIV, s. 2ª (1904); F. Ehrle, Per il restauro dei manoscritti, in Riv. bibl. e arch. XXII (1911); P. I. Vottero, Conservazione e restauro dei documenti, Pisa 1912; M. Mastrorilli, Considerazioni sul restauro degli antichi manoscritti, Napoli 1912; G. Vittani, D'un metodo per far rivivere gli inchiostri studiato a Miano nel 1792-93, in Il libro e la stampa, VI (1912); Department of scientific and industrial research, The cleaning and restoration of museum exhibits,Londra 1921, 1923, 1926; F. C. Lonchamp, Therapeutica graphica, Parigi e Losanna 1930; A. Gallo, Malattie dei libri, in Acc. e bibliot., III (1930); id., Per una lotta razionale contro alcuni nemici dei libri, ibid.; id., Trattato di restauri bibliografici, Milano 1935; M. Morgana, Restauro dei libri antichi, ivi 1932.