Retorica

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L’arte del parlare e dello scrivere in modo ornato ed efficace.

Le origini e l’età antica

La Grecia. L’arte retorica (➔ oratoria) nasce in Sicilia, a Siracusa, con Corace e l’allievo Tisia (5° sec. a.C.), sotto lo stimolo della necessità oratoria, incrementata dalla lotta politica e dalle controversie giudiziarie, in seguito alla fine della tirannia dei Dinomenidi e al ripristino della democrazia. I Siciliani definiscono primo fondamento della r. il problema della ‘invenzione’ (εὕρεσις), del trovare cioè gli argomenti del parlare. Già s’affaccia la distinzione tra essere vero e sembrare vero. Gorgia di Lentini, loro allievo, e Trasimaco di Calcedonia diedero in Atene i primi più complessi insegnamenti fissando i criteri della prosa d’arte; con essi la r. diviene non solo tecnica del parlare, ma anche dello scrivere. Trasimaco scopre la musicalità interna del periodo e ne fissa le cadenze; Gorgia eleva l’ideale del ben parlare (εὖ λέγειν) a ideale di cultura. Per lui la r. non è tanto razionalità di concetti, quanto arte di allettare con i suoni e i ritmi; la prosa gorgiana è assai affine alla poesia, per la ricchezza delle metafore, per ritmo metrico del periodare, antitesi, assonanze, rime. Per Gorgia concetto fondamentale è ‘il conveniente’ (καιρός): il discorso deve adattarsi ai fatti in questione, alle circostanze, al pubblico; d’altro canto, e in ciò la r. di Gorgia si lega alla sua dottrina sofistica, poiché nulla è certo, a ogni questione sono applicabili almeno due argomentazioni (due λόγοι), l’una contraria all’altra. Allievo di Gorgia fu Isocrate, il quale distingue tra prosa e poesia e riflette sui vari generi oratori: frutto del suo insegnamento è la pseudo-aristotelica Retorica ad Alessandro (῾Ρητορική πρὸς ᾿Αλέξανδρον), probabilmente di Anassimene di Lampsaco, risalente al 340 a.C. circa. In essa si compendia l’evoluzione della prassi e della dottrina retorica fino a quel tempo: si distinguono due categorie generali di orazione, la giudiziale e la deliberativa e sette generi (consigliare, sconsigliare, lodare, biasimare, accusare, difendere, esaminare). Questi generi si qualificano poi a seconda delle materie, dei metodi, degli scopi, della composizione ecc.

Nella Grecia del 4° sec. a.C., la r. è ormai fondamentale nell’educazione dell’uomo, e la sua influenza si fa sentire al di là dell’eloquenza, come generale ‘arte del bello scrivere’, e in questo senso l’arte retorica sarà poi esperienza fondamentale di tutti i letterati antichi, prosatori e poeti. Tuttavia, giudizi antiretorici si manifestano già in quest’epoca. Platone coinvolge nella condanna dei sofisti la r. (Eutidemo, Gorgia). Nel più tardo Fedro la riabilita in parte, distinguendo fra una r. falsa, indifferente alla verità, insieme di artifici che sfruttano le apparenze per irretire le coscienze, e una r. vera, psicagogica, che aiuta gli animi ad accostarsi alla verità scoperta dalla filosofia. Diverso l’atteggiamento di Aristotele che dà una trattazione della r. di importanza fondamentale. Il campo della r. è distinto da quello della filosofia da un lato, della poesia dall’altro. La parola ha un potere irrazionale di imitazione dei fatti, dei caratteri e delle passioni umane, ma anche una capacità razionale di costruzione di un ragionamento logico. La r. sfrutta entrambi, collocandosi sul terreno dell’opinione (δόξα), non delle verità dimostrabili, che pertengono alla filosofia. Suo ambito è il verosimile, il probabile. La forma è concepita come esterna al contenuto, come ornamento; la sostanza è nel valore pragmatico della parola, come facoltà di trovare le vie adatte alla persuasione, con argomenti e prove. Ad Aristotele risalgono la distinzione classica dei tre generi del discorso (giudiziale, deliberativo, epidittico), l’individuazione delle strategie (etica, passionale, logica), attraverso le quali guadagnare o rafforzare il consenso del pubblico, e la prima definizione delle fasi (4, che diverranno poi 5 nella classificazione canonica dei trattatisti latini) dell’elaborazione del discorso: εὕρεσις (inventio), οἰκονομία (dispositio), λέξις (elocutio) ὑποκριτική (actio).

La scuola peripatetica, e in primo luogo Teofrasto, elabora la teoria dei tre stili, l’alto, il medio, il tenue, divenuta poi canonica, a cui vengono associati i diversi generi letterari (➔ genere). Con Teofrasto si enuclea la dottrina della forma ornata, con le sue suddivisioni in tropi, figure e sottodivisioni, che diverrà l’elocutio dei trattatisti latini. Alla metà del 2° sec. a.C. Ermagora di Temno mira a risollevare la r. dalle «meschinità» in cui era caduta per la decadenza dell’oratoria politica, il prevalere dello scolasticismo e il manierismo dell’asianesimo. Sulle orme della scuola stoica ma anche dei peripatetici Ermagora s’interessa sia alla forma del dire sia ai contenuti. A lui si deve la distinzione fra ϑέσεις (le quaestiones infinitae dei Latini) e ὑποϑέσεις (quaestiones finitae), cioè fra argomenti d’interesse generale, etico-politici e giuridici, ma anche puramente teorici (considerati propri dei filosofi), e argomenti concernenti direttamente la causa: persone, tempi, luoghi, circostanze ecc. Ermagora non muove più dalle precedenti distinzioni dei generi dell’eloquenza, ma tenta una classificazione fondata sui modi in cui un quesito si presenta (στάσεις; lat. status), esemplati sulle esperienze del dibattimento giudiziale. Il suo sistema dominerà con successive modificazioni il mondo antico, senza riuscire a scalzare le classificazioni precedenti e anzi fondendosi progressivamente con esse.

Roma. I Romani assimilarono rapidamente la r. greca, come dimostrano le prime trattazioni rimaste, la Rhetorica ad Herennium (➔) e il De inventione, opera giovanile di Cicerone: ambedue sono d’ispirazione ermagorea con una notevole accentuazione dei fini pratici, secondo l’indirizzo antifilosofico della scuola retorica di Rodi. La Rhetorica è importante tra l’altro per l’opera di traduzione in latino della terminologia tecnica greca della r.; inoltre le fasi di organizzazione del discorso vengono fissate a cinque con l’aggiunta della memoria fra l’elocutio e la pronuntiatio (o actio). Cicerone considera estranee all’oratore le quaestiones infinitae; tuttavia la sua formazione culturale e l’insegnamento di Catone il Censore (l’oratore deve essere un vir bonus dicendi peritus) lo portano a concepire l’oratore come un uomo che, ben lontano dall’accontentarsi della tecnica retorica, è nutrito di filosofia e possiede larghe capacità di argomentazione, di distinzione, di classificazione. Un ideale in cui filosofia e r. si ricompongono, producendo un tipo non dogmatico di eloquenza in contrasto con gli atteggiamenti più rigidamente scolastici che si affermeranno soprattutto in età augustea: asianesimo (➔) e atticismo (➔). L’insegnamento ciceroniano, affidato soprattutto al De oratore, al Brutus e all’Orator, eserciterà un forte influsso sul sistema educativo tra la fine dell’evo antico e il Medioevo. La r. si colloca come disciplina cardine tra filosofia, giurisprudenza, poesia epica, lirica, drammatica.

La fine della Repubblica e la costituzione dell’Impero trascinano la r. verso una decadenza progressiva. Trionfa la declamazione (➔), mentre si estingue il libero scontro delle opinioni nell’arengo politico e nei tribunali. Sotto i Flavi, Quintiliano sintetizza le dottrine greco-romane nella Institutio oratoria, eccellente manuale che fu letto e studiato per secoli, e considerato nel Rinascimento un capolavoro della trattatistica.

La r. nel Medioevo

L’età tardoantica. Verso la fine dell’antichità la r. domina la letteratura: sofisti e retori hanno nella società una posizione di prestigio e le scuole di r., divenuta un’arte della produzione letteraria in generale, si moltiplicano in tutto l’Impero; nel curriculum scolastico e nelle enciclopedie delle arti liberali, quali si diffonderanno nel Medioevo, si colloca alla sommità del trivium (grammatica, dialettica, r.). La fortuna di cui godettero i retori latini dal 3° al 6° sec. contrasta con la povertà delle opere, per lo più scolastiche (Aquila Romano, 3° sec.; Mario Vittorino, Chirio Fortunaziano, C. Giulio Vittore, 4° sec.; Giulio Severiano ed Emporio, 5° sec.).

La r. bizantina continua direttamente la r. greca, come si era venuta sistemando in età romana. Nella scuola di Gaza trovano espressione gli ultimi sviluppi dell’asianesimo cui si riconnette nel 7° sec. Teofilatto Simocatta; poi nella cultura bizantina prevale l’atticismo, pratica documentata dal codice retorico dell’Escorial che raccoglie discorsi, lettere, dissertazioni di pro;duzione retorica, soprattutto del 12° secolo.

R. cristiana. Il cristianesimo, nell’opposizione fra tradizione pagana e nuova teologia, non rinuncia a servirsi, soprattutto nella predica, dei mezzi della r. utile a persuadere e diffondere la Verità cristiana. Le basi della cristianizzazione della r. furono poste da s. Agostino, venuto a Milano nel 384 come maestro di r., nel De doctrina christiana. Acquisire la tecnica elaborata dai pagani era apparso già decisivo agli apologisti del 2° sec. (Tertulliano) per difendere sul piano giuridico e dialettico (genere giudiziario) la nuova religione dalle accuse ‘senza fondamento’ e dai metodi di inquisizione messi in atto dai ‘gentili’. D’altro canto lo stile delle Sacre Scritture invitava a rivedere il concetto di aptum, il rapporto tra forma e contenuto. La Bibbia aveva dato l’esempio della parola semplice, capace di parlare nella sua nuda efficacia anche agli illetterati; il sermo humilis doveva essere allora, in contrapposizione allo stile artificioso e ai tecnicismi dell’antica arte del dire, la forma con cui comunicare il contenuto della rivelazione divina. Agostino raccomanda lo stile umile, disadorno ma non incolto, per l’esegesi di testi biblici e per la spiegazione della dottrina cristiana (finalità: insegnare); lo stile medio, ornato di figure, per il genere epidittico (biasimare o elogiare); lo stile elevato, con o senza figure, ma sorretto da tensione emotiva, per spingere all’azione. I tre registri dovevano alternarsi nella predica ma il tono elevato non doveva essere preminente: il sermo humilis piuttosto, veicolando il contenuto dottrinario, mimando l’uso quotidiano della lingua, conferiva alla predica valore persuasivo.

Al contributo di Agostino, con il quale la r. viene rivolta ai problemi relativi all’interpretazione testuale dei libri sacri, si aggiungono in seguito quelli di Boezio e Cassiodoro; quest’ultimo nelle Variae (537), su richiesta di amici ‘diserti’ (eloquenti), offre un primo formulario cancelleresco retoricamente ornato, utile alla redazione di epistole e decreti dei sovrani. Contemporaneamente, il distacco dall’oralità e il primato della teologia conducono la r. sempre più nell’ambito della grammatica da un lato, della logica e della dialettica dall’altro, secondo un processo che contrassegnerà tutto il Medioevo con fasi alterne.

Alto Medioevo. Nella seconda metà del 5° sec. il centro degli studi retorici si sposta verso la Gallia, dove la r. ha nuovo impulso e domina, nel contenuto e nella forma, lo stile di cui la prosa rimata è uno degli espedienti più importanti; tra gli autori del 6° sec. emergono Venanzio Fortunato, Sidonio Apollinare e Claudiano Mamerto.

Nel 7° sec., nel Sud Spagnoli e Visigoti, nel Nord Irlandesi e Anglosassoni esprimono per la prima volta forti personalità di retori: tra queste, Isidoro di Siviglia, che assegnò le figure di parola ai grammatici e quelle di pensiero ai retori, e Beda, che approfondì l’esemplificazione di figure e tropi nelle Sacre Scritture in uno studio al punto di confluenza tra manualetto di r. e trattatello sull’interpretazione allegorica della Bibbia. In quest’epoca il termine rhetoricus si usa sempre più per designare forme di stile elaborato e figurato, lontane dal linguaggio comune. Alcuino affronta il tema della r. (Disputatio de rhetorica et virtutibus, 796) con intenti civili, non religiosi, in relazione all’incarico ricevuto di ricostituire l’insegnamento nel nuovo Impero carolingio; Rabano Mauro, al contrario, nega (De clericorum institutione, 819) che la r. appartenga al dominio della sapienza mondana, poiché chi ne osserva i precetti (sia scrivendo, sia pronunciando un sermone) consegue maggiore efficacia nel predicare il verbo di Dio. Anselmo di Besate, detto il Peripatetico, manifesta dal canto suo l’aspirazione dell’eloquenza a riconquistare i suoi diritti nel foro, e a ridiventare valido strumento di attività sociale.

Basso Medioevo. Sottoposta alla grammatica nei secoli centrali del Medioevo, la r. si mescola con le artes poeticae, con le artes dictandi (➔ ars dictaminum) e con le artes sermocinandi, nelle quali sulla prosa rimata viene prevalendo la tecnica dell’assonanza del concetto dominante, rappresentato da una parola che si dilegua per riapparire a tratti favorendo quel gioco di concetti e quel meccanismo logico di cui era intessuta la predica. Lo stile della ripetizione divenne quindi nel 12° sec. la forma artistica della scolastica, espressa ai livelli più alti da Bernardo di Chiaravalle, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Fiorivano intanto le ‘arti poetiche’ con il proposito di raccogliere le norme retoriche per la letteratura d’immaginazione. Così Marbodo di Rennes illustra le figure di parola a uso dei versificatori (De ornamentis verborum, 1100 ca.); Matteo di Vendôme, Goffredo di Vinesauf, Everardo di Béthun, Giovanni di Garlandia e l’Anonimo di Saint-Omer trattano nelle loro poetiche dei tropi e dei colori retorici. Poiché l’insegnamento scolastico si fondava sull’analisi testuale (sistema di Bernardo di Chartres e dei maestri nelle scuole più celebri, Orléans e Parigi), ebbero grande autorità , anche per la r., grammatici come Pietro Elia e Alessandro di Villedieu, mentre Vincenzo di Beauvais e Brunetto Latini dedicavano alla r. un’intera sezione delle loro enciclopedie.

L’originalità della Retorica (1262) di B. Latini, traduzione del De inventione di Cicerone, sta nell’applicazione dei precetti ciceroniani alle epistole, e nel concetto nuovo che la r. non è più solo la scienza del dire ma anche del ‘dettare’, cioè dello scrivere lettere. All’interno del notariato, di fatto, erano sorte molte opere teoretiche, dapprima semplici raccolte di formule con modelli per lettere e diplomi, per processi ecc.; epistolari e formulari dai quali, dopo l’11° sec., la r. era stata sostituita, come fondamento della cultura giuridica professionale. Soprattutto l’epistola era venuta assumendo tutti i caratteri di una prosa artistica e si riteneva dovesse apparire solenne come un’orazione; da qui l’imporsi delle artes dictaminum. Stili prevalenti restavano: il solenne ‘della Curia Romana’ con il suo cursus (prosa ritmica), il ‘tulliano’ con le sue figure, e sopra tutti l’‘isidoriano’ con la sua prosa rimata, musicale.

Il vero iniziatore della prosa d’arte retoricheggiante fu Guido Faba con la Gemma purpurea, e con i Parlamenta et epistole (1242-43) in cui sottopose la lingua parlata alle norme della scrittura aulica latina, dando avvio allo svolgersi di un tipo di prosa artistica volgare, modellata sul latino classico e retoricamente ornatissima, che trovò in Guittone d’Arezzo il suo primo artefice.

Dall’Umanesimo al Romanticismo

Umanesimo. L’Umanesimo tentò di risalire alle fonti della r. classica per ritrovare lo stile, l’eleganza dei grandi autori in tutti i generi letterari, compresa l’epistolografia. La r., considerata il substrato indispensabile di ogni forma di attività intellettuale, fu oggetto di trattati sistematici come la Rhetorica di Giorgio da Trebisonda, mentre le Elegantiae di L. Valla costituiscono una r. pratica dell’Umanesimo. Per il suo carattere pragmatico la r., in quanto applicabile alle situazioni concrete e attraente nell’aspetto, ‘supera’ la dialettica. Nel programma educativo dei pedagoghi quattrocenteschi rappresenta il compimento della formazione integrale dell’uomo (nel Cortegiano di B. Castiglione è indispensabile alla formazione dell’uomo di corte). L’Institutio oratoria di Quintiliano, scoperta nel monastero di S. Gallo da Poggio Bracciolini (1416) e subito diffusa, fu un punto di riferimento per l’educazione umanistica, per quegli studiosi (i più) che avevano abbattuto la parete divisoria tra r. e logica, tra r. e speculazione scientifico-filosofica, e recuperato la centralità dell’inventio e la dignità delle forme.

Il Cinquecento. Mentre lo sviluppo delle letterature volgari stimolava l’applicazione delle teorie retoriche alle nuove lingue, si andava preparando durante il 16° sec. il declino della r. antica attraverso la frammentazione e il restringimento della disciplina. J.L. Vives sosteneva che oggetto della r. non poteva essere che l’elocutio, estesa alla prosa storica e narrativa e alla poesia. P. Ramo assegnava alla dialettica l’inventio e la dispositio e riservava alla r. l’elocutio e la pronuntiatio mentre alla memoria attribuiva una funzione ordinatrice. La separazione di dialettica e r. scindeva in due il tradizionale dominio della seconda; era la prima grande restrizione della r. a teoria dell’elocuzione, sottratti all’antica arte del discorso il possesso e il controllo dell’argomentazione. La teoria delle passioni, da sempre connessa alle riflessioni sull’elaborazione del discorso, veniva esclusa dal campo della r. e affidata ai filosofi morali. Ridotta all’elocutio, scissa dai contenuti e da qualsiasi contesto concreto, la r. era destinata a isterilirsi, trasformandosi in una disciplina dell’ornatus, del puro abbellimento formale, riducendosi a un catalogo di artifici a disposizione del letterato. Nel 16° sec. i trattati sull’elocutio presero il sopravvento (S. Speroni, F. Patrizi, P. Vettori).

Seicento e Settecento. La teoria dell’espressione doveva riscuotere di nuovo consenso nel Seicento. La concezione barocca dell’‘ingegno’, il ‘concettismo’ teorizzato da B. Gracián e da E. Tesauro, invitavano a osservare con acutezza attraverso la parola gli aspetti più reconditi della realtà da cui poter ricavare associazioni sorprendenti: somiglianze nascoste e analogie in una realtà cangiante, che l’occhio e la mente dell’osservatore scoprono tra settori lontani del mondo. Il simbolo appare adatto a rendere fenomeni sfuggenti, i collegamenti forniti dalla metafora consentono all’artista e al letterato di intuire ciò che i sensi e la ragione non sono in grado di decifrare con sicurezza.

Un ulteriore colpo a una disciplina le cui basi erano state pericolosamente minate venne dal clima instauratosi in Europa con il diffondersi delle nuove idee e metodologie scientifiche, per alcuni aspetti anticipato nel 16° sec. dalle posizioni di Ludovico Castelvetro, fautore della preminenza delle ‘parole assolute’ sulle espressioni figurate, del parlar chiaro, scientificamente esatto sui traslati e gli ornamenti: un preannuncio del razionalismo di Port-Royal e di R. Descartes. Si fa strada una nuova opposizione fra lettere e scienze, fra r. e logica contribuendo a rafforzare il restringimento già teorizzato da Ramo. Per qualche tempo lo sviluppo del pensiero illuminista applicato alla psicologia relega la teoria delle passioni alla retorica. Le figure retoriche divengono per molti teorici un sintomo delle differenti passioni del soggetto. H. Home tenta un’interpretazione delle figure partendo dall’elemento passionale (Elements of criticism, 1762), e H. Blair, nelle sue conferenze di Edimburgo tradotte in tutta Europa (1783), ragguaglia il linguaggio figurato ai fattori dell’immaginazione e della passione. P. Fontanier scrive uno degli ultimi trattati (Les figures du discours, 1827) in cui si riduce la r. all’ornatus: un esame attento delle figure, di cui si riconosce la presenza anche nel parlare comune; nozione fondamentale è quella di ‘scarto’, di allontanamento dalla forma d’espressione semplice, propria.

L’Ottocento

Sviluppando antiche opposizioni quali natura e artificio, verosimile e assurdo, chiarezza e oscurità, ragione e passione, il Romanticismo, coerentemente con la sua concezione della poesia come diretta effusione dell’anima, svalutò la teoria dell’ornato. La battaglia contro la r., identificata con l’elocutio, vista come un coacervo di precetti privi di legami con la realtà, il sentimento e la poesia, ebbe tanto successo che la parola r. e l’aggettivo retorico si sono caricati, da allora, di un valore negativo. Le mutate condizioni storiche e sociali, la crescita culturale accompagnata da un’estensione dei generi letterari, il superamento di molte convenzioni per opera delle avanguardie, la nascita di nuove discipline e lo sviluppo del metodo scientifico avevano reso nel corso del 19° sec. la r., così come si era venuta configurando, del tutto inadeguata a rispondere alle esigenze della comunicazione, artistica e non.

La r. nel 20° secolo

Nel Novecento si ha una rinascita degli studi retorici, su basi nuove. Un impulso decisivo è venuto dall’Inghilterra e dagli USA. In ambito filosofico il positivismo logico sviluppatosi negli anni 1930 rivolse il suo interesse a un’analisi del funzionamento logico e simbolico del linguaggio su basi scientifiche; in campo pedagogico si ricercarono nuovi metodi di studio della comunicazione pubblica, volta alla persuasione e alla formazione del consenso. Contro la frammentazione e la svalutazione della r. operate dal Romanticismo, ci si rivolse a un riesame delle teorie classiche e ad Aristotele; ammodernata nei suoi presupposti, la r. apparve come un valido strumento di interpretazione di testi scritti e orali. D’altro canto, l’esistenzialismo e la scuola fenomenologica, mettendo in discussione la distinzione stessa fra vero e probabile e sottolineando la relatività e storicità di ogni acquisizione umana, ponevano le basi per un recupero della r. come analisi del discorso argomentativo attraverso cui si forma la conoscenza. Gli studi di C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca (Traité de l’argumentation, 1958) segnano una delle tappe fondamentali della rivalutazione della r. come teoria dell’argomentazione. H.G. Gadamer, J. Habermas, H. Blumenberg portavano contributi relativi all’ermeneutica, mentre in svariati ambiti storico-letterari venivano applicate categorie retoriche nell’analisi di testi (A. Schiaffini, E.R. Curtius, H. Lausberg, A. Pagliaro). Il discorso poetico letterario è affrontato da prospettive diverse nel mondo anglosassone (New Criticism), nella tradizione sviluppatasi dal formalismo russo e dalla Nouvelle Critique francese degli anni 1960 (J. Tynianov, R. Jakobson, R. Barthes, G. Genette, Gruppo μ).

L’analisi strutturalista e formalista ha elaborato una moderna teoria dello scarto, secondo la quale il parlante, attraverso le figure, evidenzia la propria volontà espressiva (connotazione) operando trasformazioni del linguaggio comune per sua natura meramente informativo (denotazione). Secondo Jakobson ogni discorso si articola secondo le due figure semantiche della metafora e della metonimia alle quali è demandato ogni atto di selezione e combinazione linguistica. La diffusione dello strutturalismo ha restituito vigore a forme di analisi dei testi che ne sottolineano il carattere di costruzione complessa la quale, indipendentemente dalle consapevoli intenzioni dell’autore, ricorre largamente a tropi, figure di parola e di pensiero. Negli USA la New Rhetoric (C.J. Hovland, I. Richards), in cui si fondono correnti provenienti da diverse discipline (linguistica, sociologia, psicologia ecc.), ha influito particolarmente sulla teoria dei mezzi di comunicazione di massa. Anche le teorie cognitiviste puntano a un recupero della r., soprattutto delle figure, come analisi dei meccanismi dell’uso traslato nel linguaggio quotidiano (D. Sperber, G. Lakoff). Tentativi di estensione della r. al di là delle lingue naturali sono stati condotti da K. Burke che tratta in chiave retorica della comunicazione non verbale e delle sensazioni. In vari campi (psicanalisi, critica d’arte, pubblicità) è esteso l’impiego di strumenti retorici per analizzare gesti, immagini, oggetti non linguistici.

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