Rianimazione

Enciclopedia del Novecento (1982)

Rianimazione

Enrico Ciocatto

di Enrico Ciocatto

Rianimazione

sommario: 1. Introduzione: a) generalità e cenni storici; b) definizione; c) fini della rianimazione: ‛morte clinica' e ‛morte biologica'. 2. Organizzazione del centro di rianimazione: a) attrezzature e trasporto; b) personale specializzato. 3. Rianimazione respiratoria e cardiocircolatoria: a) concetti generali; b) basi della rianimazione respiratoria; c) basi della rianimazione cardiocircolatoria; d) l'insufficienza circolatoria periferica. 4. Il problema morale della rianimazione: a) valore umano e sociale della rianimazione; b) gli sconcertanti problemi prospettati dalla rianimazione; c) conclusione. □ Bibliografia.

1. Introduzione

a) Generalità e cenni storici

La rianimazione, come specializzazione medica, è un'istituzione recente, ma le sue origini sono certamente antichissime: si può dire che essa nacque nei tempi più remoti, quando per la prima volta la necessità di soccorrere un suo simile in condizioni di asfissia spinse l'uomo a improvvisare quelle manovre che l'esperienza avrebbe poi reso più abili e sicure.

Nella Bibbia, il libro secondo dei Re dà la prima notizia di un riuscito tentativo di rianimazione ‛bocca a bocca', eseguito intorno all'850 a. C.: ‟Intanto, il bambino divenne grande e arrivò il giorno in cui si recò presso suo padre, tra i mietitori. E disse a suo padre: ‛La mia testa, la mia testa'. Il padre, allora, ordinò al servo: ‛Portalo a sua madre'. Ed egli lo prese e lo portò a sua madre. Rimase sulle sue ginocchia fino a mezzogiorno, poi morì; [...] Eliseo, intanto, entrò in casa e veramente il fanciullo morto giaceva sul suo letto. Entrò, dunque, chiuse la porta dietro loro due e pregò il Signore. Poi salì e si adagiò sopra il bambino, pose la sua bocca sulla bocca di lui, i suoi occhi sopra gli occhi di lui, le sue mani sopra le mani di lui, stendendosi su di lui. La carne del fanciullo, allora, si riscaldò. Indi si ritiro e incominciò a camminare per la casa qua e là, poi salì e si ridistese su di lui. Allora il fanciullo starnutì sette volte e aprì gli occhi" (II Re, cap. IV, 18-35).

Il metodo bocca a bocca dovette essere frequentemente impiegato, fino a divenire una sicura pratica di pronto soccorso medico. La sua validità come mezzo rianimatorio era ben nota e ampiamente accettata già nella seconda metà del XVIII secolo: il medico veneziano F. Vicentini, nella sua Memoria intorno al metodo di soccorrere i sommersi, pubblicata nel 1768, scriveva infatti che il primo metodo per eseguire questa operazione, alla quale dava il nome di insufflazione, ‟consiste nell'applicare la propria bocca a quella del sommerso, e, chiuse le di lui narici, soffiar con quella alternativa con la quale respiriamo". Il 24 dicembre dello stesso anno i provveditori alla Sanità di Venezia pubblicarono una Terminazione, nella quale erano dettate le regole per soccorrere i sommersi, in primo luogo l'insufflazione polmonare eseguita sia direttamente per mezzo del metodo bocca a bocca, sia mediante l'interposizione di adatti strumenti. Pochi anni dopo, nel 1771, il dottor W. Tassach di Edinburgo pubblicò un rapporto sul salvataggio di un minatore asfissiato, da lui compiuto nel 1732, in cui narrava: ‟Applicai la mia bocca sulla sua e soffiai aria con quanta forza potetti, ma, avendo dimenticato di chiudere le narici, l'aria ne usciva. Perciò le chiusi con una mano e soffiai con forza, tenendo l'altra mano sull'emitorace sinistro e notai che il torace si sollevava. Presto apprezzai sei, sette battiti cardiaci e, mentre il torace continuava a muoversi, il polso ricomparve alle arterie".

Intanto, il 27 agosto 1767 era stata fondata ad Amsterdam una benemerita Società olandese per il salvataggio degli annegati, la prima organizzazione che s'interessò seriamente alla rianimazione degli annegati e distribuì a tutte le farmacie della città un'originale cassetta di rianimazione. Su questo modello nel 1774 il dottor Hawes fondò a Londra la Royal Humane Society, che concedeva ai rianimatori una medaglia di riconoscimento.

Più tardi, nel regolamento del Servizio sanitario della Regia Marina Sarda, emanato da Carlo Alberto il 29 gennaio 1839, nelle norme riguardanti il soccorso agli asfittici per annegamento si raccomandava: ‟Si chiuda una narice con le dita e si spinga dell'aria nei polmoni soffiando con la bocca".

A conclusione di questa rapida rassegna sulla conoscenza e sull'impiego del metodo bocca a bocca, ricorderemo che ancora ai nostri giorni esso è considerato il primo prezioso sussidio rianimatorio. Quando, nel 1956, Safar ed Elam in uno studio condotto per incarico dell'esercito americano stabilirono che il metodo in questione rappresenta in guerra il mezzo di rianimazione respiratoria più pratico ed efficace, ne sancirono l'introduzione ufficiale nelle tecniche della moderna rianimazione.

Anche l'altro grande cardine della moderna tecnica rianimatoria, il massaggio cardiaco esterno, è noto da molto tempo. Nel 1796, A. V. Zarda, professore all'Università di Praga ove teneva regolari corsi di rianimazione e di pronto soccorso, dette alle stampe un lavoro in cui erano descritti, oltre al metodo della respirazione artificiale bocca a bocca, anche il massaggio cardiaco esterno e la stimolazione elettrica del cuore. Il nome di Zarda è anche legato al primo vero istituto di rianimazione, da lui fondato a Praga nel 1792 e chiuso nel 1810 dopo la sua morte. Tuttavia, i vari trattati di rianimazione fissano al 1958 l'introduzione ufficiale nella pratica rianimatoria del massaggio cardiaco esterno, quando Jude, Kouwenhoven e Knickerbocker ne pubblicarono le modalità di esecuzione; si attribuisce anzi un significato storico al giorno 24 ottobre 1958, in cui per la prima volta fu eseguito con successo un massaggio cardiaco esterno su una donna, in arresto cardiaco dopo essere stata operata per un difetto atrioventricolare.

Altra data memorabile della storia della rianimazione è il 16 ottobre 1846, il famoso ether day, in cui W. Th. Morton praticò al Massachusetts General Hospital di Boston la prima anestesia eterea ‛ufficiale' (v. chirurgia). Quest'evento costituisce una vera pietra miliare del cammino percorso dalla specialità, perché sin dall'inizio della moderna anestesia il medico anestesista divenne, per antonomasia, il rianimatore. A renderlo tale fu inizialmente la necessità drammatica di soccorrere pazienti con arresto cardiaco causato dal cloroformio: il primo di questi casi si verificò in Inghilterra il 28 gennaio 1848, e si concluse con la morte di una ragazza quindicenne, Hannah Greene, sottoposta a narcosi, per asportazione di un'unghia incarnita, dall'anestesista Th. Maggison, contro il quale fu poi aperta un'inchiesta giudiziaria.

Affinando giornalmente le proprie qualità e perfezionando, con la pratica quotidiana in sala operatoria, le proprie conoscenze su problemi di fisiopatologia respiratoria, cardiocircolatoria e metabolica, il medico anestesista ha dato origine alla figura del rianimatore e ha determinato l'affermazione, nel corso degli ultimi vent'anni, della moderna rianimazione: è pertanto risultato logico che i centri di rianimazione venissero affidati ai cultori della anestesiologia. Bisogna sottolineare, a questo proposito, che l'Italia è stato il primo paese nel mondo in cui gli anestesisti sono riusciti a ottenere il riconoscimento legale dell'insegnamento della rianimazione e la direzione dei centri di rianimazione. In tutte le università italiane vi sono scuole di specializzazione in anestesiologia e rianimazione, il cui insegnamento è inserito al quinto anno del corso di laurea in medicina e chirurgia. Inoltre, il D.P.R. del 27 marzo 1969, n. 128, all'art. 18 specifica: ‟Gli ospedali devono essere dotati di un servizio di anestesia e di rianimazione. Negli ospedali regionali e provinciali detto servizio deve essere dotato di posti letto di degenza necessari per la rianimazione, per le cure intensive e le altre prestazioni di competenza, in numero pari ad almeno il due per cento del numero totale dei posti letto dell'ospedale". Il 5 giugno 1965 la Società Italiana di Anestesia, fondata nel 1934 da A. M. Dogliotti, si trasformò in Società Italiana di Anestesiologia e Rianimazione.

Tuttavia, proprio ora che la rianimazione, per merito precipuo degli anestesisti, si è sicuramente affermata, si tenta di frammentarla in branche superspecialistiche di cui sono un chiaro esempio le ‛unità coronariche' e i centri creati da pneumologi e neurochirurghi. Tale orientamento, in realtà, è più evidente all'estero che in Italia ove, peraltro, è già stata fondata una Società di Terapia Intensiva plurispecialistica. Alcuni cultori della disciplina, e soprattutto il russo V. A. Negovskj, pur considerando scienze ‛sorelle' l'anestesia e la rianimazione, ritengono che all'anestesista competa soltanto la pratica rianimatoria durante l'intervento chirurgico e la terapia intensiva del periodo postoperatorio, e mettono in particolare rilievo la necessità che la rianimatologia clinica rimanga una scienza autonoma, nettamente separata dall'anestesia.

In ogni modo tali discussioni rappresentano l'indice più sicuro della validità di questa branca della medicina in pochi anni così grandemente sviluppatasi che, anche se a nostro parere dev'essere affidata precipuamente agli anestesisti rianimatori per la loro preparazione specifica tecnica, fisiopatologica e medica e per la loro attitudine alle rapide decisioni diagnostiche e terapeutiche, anche cruente, si è indiscutibilmente trasformata in una disciplina polispecialistica: il cardiologo, il neurologo, il chirurgo, lo pneumologo, l'internista, il biologo debbono infatti strettamente collaborare con l'anestesista rianimatore per poter affrontare e risolvere nel migliore dei modi i più svariati problemi clinici.

b) Definizione

Finora una definizione completamente soddisfacente della rianimazione non è stata data, fors'anche perché non v'è accordo tra gli studiosi sui compiti specifici di questa disciplina: alcuni, infatti, li allargano in modo eccessivo, altri li limitano strettamente all'intervallo tra morte clinica e morte biologica. Secondo quest'ultima concezione, il campo della rianimazione dovrebbe quindi essere ridotto allo studio esclusivo dei problemi connessi con il cosiddetto ‛risveglio dalla morte'.

Allo stato attuale delle nostre conoscenze, sembra logico intendere per rianimazione quel complesso di procedimenti volti a mantenere le funzioni vitali di un organismo nel quale esse sono divenute, per le più varie cause, così gravemente deficitarie da far presagire, quando dovesse venir meno lo specifico soccorso sintomatico, l'ineluttabile verificarsi della morte a brevissima scadenza.

Ne consegue che la terapia rianimatoria si realizza in due tappe successive (critical care medicine e prolonged intensive medical and surgical care): 1) mediante interventi a carattere di estrema urgenza, volti a riportare all'equilibrio biologico o a un livello compatibile con la vita funzioni vitali profondamente alterate da una noxa patogena, o da un evento traumatico; tali interventi sono praticabili in ambiente ospedaliero o extraospedaliero, ad esempio sul luogo dell'incidente o sull'autoambulanza durante il trasporto; 2) mediante interventi di terapia intensiva, che costituiscono la continuazione e il perfezionamento del primo intervento di emergenza e debbono essere proseguiti fino alla ripresa totale dell'autonomia del paziente; la pratica di questi interventi è possibile solo in ospedale, nei centri o reparti di rianimazione.

È pertanto evidente che la terapia rianimatoria, che costituisce la parte più eroica della medicina di urgenza, è inizialmente sintomatica e secondariamente causale e che la rianimazione può essere distinta in respiratoria, cardiocircolatoria, neurologica, metabolica o renale, a seconda di quale sia la funzione che si riscontri essere la più acutamente deficitaria.

c) Fini della rianimazione: ‛morte clinica' e ‛morte biologica'

Per comprendere le reali possibilità della moderna rianimazione e i limiti della sua efficacia, è necessario soffermarci brevemente sui concetti rivoluzionari di ‛morte clinica' e ‛morte biologica', introdotti da Negovskj nel 1952.

Secondo questo studioso ‟tra la vita e la morte esiste un particolare stato di transizione che non è ancora morte, ma non può essere definito vita: si tratta della ‛morte clinica', una ‛vita minima' che ha una durata variabile da tre a sei minuti e rappresenta una tappa reversibile del processo di morte, tappa di passaggio dalla vita alla morte biologica, cioè al periodo in cui hanno inizio nei diversi organi e tessuti i processi di dissoluzione, allorché la reviviscenza dell'organismo come sistema integro è ormai impossibile". Negovskj, che ne ha studiato a fondo i processi fisiopatologici, sostiene che la ‛morte clinica' costituisce un evento ancora reversibile, purché l'intervento terapeutico giunga - e sia efficace - nel brevissimo intervallo che intercorre fra l'arresto del circolo e del respiro e l'instaurarsi di lesioni degenerative cellulari, soprattutto a livello del sistema nervoso centrale.

Attualmente la terapia rianimatoria è indispensabile per tentare di evitare la morte biologica. Si spera tuttavia che le immancabili, ulteriori conquiste consentano alla rianimazione, in un prossimo futuro, di prolungare il periodo di ‛morte clinica', portandolo dai pochi minuti odierni a una o due ore.

2. Organizzazione del centro di rianimazione

a) Attrezzature e trasporto

Nel complesso ospedaliero moderno, il centro o reparto di rianimazione è una divisione speciale nella quale confluiscono tutti i malati in gravi condizioni per deficienze acute di una o più funzioni vitali; in essa agisce ininterrottamente un'équipe medica polispecialistica e sono concentrate adeguate e costose attrezzature, non sempre di facile uso. Per migliorare la qualità dell'assistenza e per aumentare le possibilità di sorveglianza dei pazienti in condizioni critiche, un centro di rianimazione deve disporre, per ciascun degente, di un impianto di monitoraggio e di registrazione continua e automatica di alcune funzioni fisiologiche fondamentali, ad esempio quella cardiaca (elettrocardiogramma, frequenza cardiaca, pressione arteriosa e venosa), quella cerebrale (elettroencefalogramma) e quella respiratoria. In tal modo è possibile apprezzare rapidamente le eventuali deviazioni dalla norma e correggere tempestivamente le funzioni alterate, grazie alla permanente efficienza e al pronto impiego di tutte le apparecchiature idonee alla rianimazione respiratoria e cardiocircolatoria di cui il centro dispone.

Si comprende facilmente, quindi, la necessità dell'esistenza di una costellazione di centri e di unità di rianimazione periferici al fine di assicurare a tutti, con la massima rapidità, le cure più adeguate.

Ai reparti di rianimazione devono fare capo anche le organizzazioni di trasporto dei pazienti, informate al concetto che, nella medicina moderna, è l'ospedale che va incontro all'infortunato: a tale scopo esistono oggi mezzi particolarmente adeguati, autoambulanze attrezzate come veri centri mobili di rianimazione e, in situazioni particolari, aerei ed elicotteri altrettanto attrezzati. Cardini di una tale organizzazione sono: a) la predisposizione di un rigoroso sistema d'allarme che faccia capo a una centrale d'ascolto telefonica; b) la possibilità per i primi soccorritori arrivati sul posto dell'incidente di dare l'allarme a mezzo telefono; c) la tempestività della diramazione dell'allarme dalla centrale al più vicino centro ospedaliero qualificato, il quale invierà sul posto un'ambulanza attrezzata di mezzi e di uomini.

b) Personale specializzato

Alla base di un completo ed efficiente funzionamento del reparto di rianimazione sta la consistenza e la qualificazione del personale medico e ausiliario.

I medici rianimatori devono possedere alcuni requisiti specifici: preparazione tecnica ed esperienza clinica della fisiopatologia respiratoria, cardiocircolatoria, metabolica e nervosa, attitudine alle rapide decisioni diagnostiche e terapeutiche, tenacia e disposizione al lavoro in collaborazione e a tempo pieno.

L'esperienza ormai decennale in Italia ha dimostrato che lo specialista che in maggior misura possiede tali requisiti è l'anestesista rianimatore: questi, che nell'estenuante attività delle camere operatorie ha potuto e dovuto affinare le proprie capacità, si è affermato come specialista polivalente, dotato di una profonda preparazione fisiopatologica e medica e di una valida mentalità chirurgica.

Appare pertanto indispensabile che nel centro di rianimazione, ove confluiscono tutti i pazienti in condizioni critiche, chirurghi, cardiologi, pneumologi, neurologi, internisti, radiologi e altri specialisti collaborino attivamente con l'anestesista rianimatore, cui spetta il compito di coordinare la conduzione diagnostica e terapeutica.

Eventuali sezioni di terapia intensiva specialistiche e indipendenti determinerebbero soltanto la dispersione di uomini qualificati e di mezzi idonei, con grave danno per i pazienti.

Accanto a quello medico è indispensabile che operi un personale infermieristico altamente qualificato, numericamente adeguato alle necessità: oggi si deve pretendere che i pazienti siano affidati a infermieri professionali e specializzati in rianimazione, secondo una proporzione ottimale di almeno un infermiere qualificato ogni tre degenti.

3. Rianimazione respiratoria e cardiocircolatoria

a) Concetti generali

L'applicazione tempestiva delle moderne tecniche di rianimazione cardiorespiratoria è in grado di prevenire la morte biologica e può essere praticata ovunque da individui preparati, senza bisogno di attrezzature particolari.

Le moderne tecniche di rianimazione urgente sono basate sulle seguenti acquisizioni: 1) la ventilazione con aria espirata, eseguita senza attrezzature, è più valida della respirazione manuale mediante compressione sul torace o con movimenti degli arti; 2) la ventilazione con aria espirata dall'operatore, nella quale la concentrazione dell'ossigeno è di circa il 16%, è fisiologicamente valida; 3) importanza delle parti molli delle vie aeree superiori nell'eziopatogenesi dell'ostruzione respiratoria e necessità di flettere la testa posteriormente e portare in avanti la mandibola nei pazienti incoscienti (coma); 4) maggior efficacia della ventilazione con aria espirata nei bambini; 5) ripresa e rivalorizzazione del massaggio cardiaco esterno; 6) riconosciuta utilità della ventilazione a pressione positiva associata al massaggio cardiaco esterno; 7) scoperta della defibrillazione elettrica del cuore in fibrillazione; 8) possibilità di eseguire la defibrillazione elettrica interna ed esterna; 9) importanza dell'insegnamento della rianimazione nella terapia clinica.

A scopo mnemonico, i vari momenti della rianimazione cardiorespiratoria vengono presentati nelle scuole anglosassoni come ABCD, in modo che le loro iniziali corrispondano alle prime lettere dell'alfabeto, a sottolineare l'ordine secondo il quale devono susseguirsi: A, mantenimento della pervietà delle vie respiratorie (airway opened); B, ventilazione polmonare e ventilazione adeguata (breathing restored); C, mantenimento della circolazione (circulation restored); D, terapia definitiva (definitive therapy), che comprende il ripristino di una circolazione spontanea (farmaci, liquidi, elettrocardiografia, defibrillazione) e la terapia intensiva.

b) Basi della rianimazione respiratoria

Cause. - L'asfissia è provocata di solito da ostruzione delle vie respiratorie, da ipoventilazione o da apnea, dovute a cause varie: annegamento, elettrocuzione, avvelenamento da CO, inalazione di fumo e di gas, sovradosaggio di farmaci, intossicazioni chimiche, ictus, traumi (del capo, del collo, del torace, dell'addome), convulsioni, anomalie anatomiche faringolaringee, ostruzione da parte di materiale estraneo, malattie polmonari di tipo ostruttivo scompensate (asma, enfisema).

Una ipossiemia inizialmente senza ipoventilazione e accumulo di anidride carbonica può essere causata da un'atmosfera povera di ossigeno, dall'ossido di carbonio e da alcune malattie polmonari. L'ostruzione bronchiale, l'edema polmonare e la polmonite causano inizialmente un aumento dello shunt destro-sinistro di sangue venoso attraverso alveoli non ventilati o uno squilibrio del rapporto ventilazione/perfusione in presenza di una relativa ipoventilazione.

L'ostruzione delle vie respiratorie può essere parziale o totale; è però necessario ricordare che un'ostruzione parziale con ipoventilazione, anche senza arresto del circolo, può provocare un danno ipossico cerebrale causa di gravi disturbi.

Durante lo stato di incoscienza patologica (coma) di qualsiasi natura, si instaura un'ostruzione delle vie respiratorie superiori per rilassamento dei muscoli masticatori e caduta posteriore della lingua: a tale ostruzione bisogna ovviare con l'estensione posteriore della testa che, determinando lo spostamento in avanti della mandibola, stira anteriormente la base della lingua e rende pertanto libera la glottide.

Frequenti casi di ostruzione delle vie respiratorie sono la presenza nell'ipofaringe di materiale estraneo, sangue o vomito che possono essere inalati, il laringospasmo e il broncospasmo.

Diagnosi. - Il sospetto diagnostico immediato è imperniato sui movimenti del torace e dell'addome, che possono essere assenti o alterati per ritmo, frequenza, profondità e accompagnati da respiro russante (ostruzione ipofaringea), stridore (laringospasmo), gorgoglio (inalazione di materiale estraneo), sibilo (broncospasmo).

Provvedimenti terapeutici. - La terapia d'emergenza si propone di ristabilire la pervietà delle vie respiratorie mettendo in atto, in successione rapida, le seguenti manovre: 1) collocazione del paziente in posizione supina con la testa estesa se deve essere rianimato, in decubito su un fianco e sempre con la testa estesa se respira spontaneamente, per facilitare il drenaggio della faringe, evitando sempre la posizione prona che aggrava l'ostruzione; 2) iperestensione della testa posteriormente; 3) insufflazione a pressione positiva, per vincere l'ostruzione; 4) spostamento in avanti della mandibola che, con la testa iperestesa, assicura la pervietà delle vie respiratorie; 5) pulizia della faringe con garza o mediante aspirazione; 6) applicazione di una cannula orofaringea, nel paziente rilasciato, allo scopo di impedire la caduta posteriore della base linguale; 7) intubazione tracheale e aspirazione tracheobronchiale, che rappresenta la manovra ideale per una respirazione fisiologica. Solo in casi eccezionali e disperati si può procedere alla tracheotomia.

I metodi manuali di respirazione artificiale Sylvester, Holger, Nielsen, Thangson sono basati sul principio che qualunque movimento, diretto o indiretto, che provochi una riduzione del volume toracico causa un flusso di gas dal polmone all'ambiente, mentre l'elasticità delle strutture osteomuscolari o particolari manovre che riportino la capacità toracica al livello iniziale producono uno spostamento d'aria in senso inverso, quindi una inspirazione.

Nell'ultimo dopoguerra tali metodi sono stati praticamente abbandonati e sostituiti da quelli insufflatori, il più semplice dei quali è rappresentato dalla respirazione artificiale bocca-bocca e bocca-naso. Per la sua esecuzione il soccorritore insuffla con forza l'aria espirata, con una frequenza di 12-14 atti respiratori al minuto, nelle vie respiratorie del paziente attraverso la bocca o il naso, ponendone la testa e la mandibola in posizione tale da assicurare la pervietà delle vie respiratorie. Con tale tecnica il volume ventilato in ciascuna insufflazione corrisponde a oltre 900 ml, con una concentrazione di ossigeno di circa il 16%; il metodo pertanto offre le migliori garanzie di successo, ed è il più largamente e facilmente applicabile da chiunque.

Una sua maggior diffusione permetterebbe di salvare un elevato numero di infortunati: annegati, folgorati, avvelenati, ecc., che hanno in comune paralisi o notevole depressione della funzione respiratoria. L'unico svantaggio di questa tecnica è rappresentato dalla riluttanza psichica nei confronti di un contatto così intimo con uno sconosciuto, che spesso presenta ferite al viso e secrezioni nella cavità orofaringea. L'esperienza dimostra però che tale riluttanza può essere superata da un'appropriata educazione e dalla coscienza di un utile dovere civico. Comunque, allo scopo di evitare durante la rianimazione il contatto diretto con la vittima, sono stati costruiti particolari dispositivi semplici e di costo limitato: tra questi ricordiamo i tubi orofaringei, tipo Dräger, tipo Safar, tipo Brook, che permettono di realizzare la respirazione bocca-bocca evitando il contatto diretto tra soccorritore e paziente, con la cosiddetta respirazione bocca-raccordo. Anche le comuni maschere facciali, in uso per la narcosi, possono essere utilizzate con tale finalità.

La respirazione artificiale può essere anche praticata con maschera e pallone. L'uso del pallone ad autorifornimento e maschera fu realizzato per la prima volta nel 1952 dal Rubens. Si tratta del pallone Ambu, di gomma, contenente uno strato di schiuma di materiale plastico che serve da supporto e lo fa riespandere dopo ogni compressione, durante la quale si ottiene la ventilazione forzata del paziente: una valvola di entrata ne permette il riempimento, durante la riespansione, con aria atmosferica oppure con ossigeno, per mezzo di apposito raccordo. Usando tale apparecchio si può ventilare con ogni compressione un volume d'aria o di ossigeno variabile tra 600 e i 500 ml.

I respiratori automatici che trovano la loro indicazione nella seconda fase della rianimazione, cioè nel corso della terapia intensiva, sono apparecchi più o meno complessi, provvisti nella loro struttura di forza motrice e capaci di provocare scambi gassosi tali da mantenere il più costante possibile l'ambiente alveolare, senza influenzare negativamente l'emodinamica sistemica e polmonare. Vengono distinti in respiratori per via esterna - che utilizzano variazioni di pressione su torace, addome e diaframma, o impiegano stimolazioni elettriche, quali il polmone d'acciaio, la corazza toraco-addominale, il lettino oscillante, la stimolazione elettrofrenica - e in respiratori per via interna o per insufflazione, che agiscono con variazioni di pressione attraverso le vie respiratorie. Questi ultimi sono a loro volta variamente classificabili (a tempo, a pressione, a volume), ma tutti sono costituiti dai seguenti elementi: a) un generatore di forza; b) un circuito con resistenze e capacità proprie; c) una curva di flusso tipica dipendente dalle resistenze interne. Ne risulta pertanto che il circuito pneumatico apparecchio-paziente è costituito da una serie di elementi capacitivi e di elementi resistivi, completati da un generatore di forza.

La decisione di applicare a un paziente in insufficienza respiratoria un respiratore automatico implica il possesso di un buon corredo di conoscenze e la capacità di affrontare una lunga serie di problemi tecnici e clinici, dalla soluzione dei quali dipenderà il buon esito dell'intervento. Per comprendere la complessità dei problemi respiratori che interessano medici e infermieri in un centro di rianimazione, ci limiteremo a elencarne alcuni: scelta del respiratore e sua regolazione in rapporto alle variabili esigenze del paziente; scelta della miscela gassosa da ventilare; sorveglianza clinica e biologica continua, 24 ore su 24, del malato; possibilità di insorgenza di turbe della ventilazione e cardiocircolatorie, di alterazioni metaboliche, di infezioni.

Ricordiamo ancora tra le misure di rianimazione respiratoria la ossigenoterapia isobarica e quella iperbarica; quest'ultima si ottiene aumentando la pressione parziale di ossigeno della miscela inspirata e permette di utilizzare l'ossigeno fisicamente disciolto nel plasma.

c) Basi della rianimazione cardiocircolatoria

La rianimazione cardiocircolatoria si propone il trattamento di particolari situazioni cliniche di emergenza, comprendenti forme di compromissione centrale (arresto circolatorio) e forme di compromissione periferica (shock).

Pertanto la rianimazione cardiocircolatoria si realizza in vari momenti: a) correzione del deficit circolatorio; b) correzione dell'ipossia; c) correzione dell'acidosi; d) protezione del parenchima renale e cerebrale.

Arresto cardiaco. - L'arresto cardiaco, primitivo o secondario, rappresenta il quadro clinico dell'improvvisa cessazione della circolazione e quindi un improvviso arresto dell'afflusso di ossigeno ai tessuti. Tra questi il più sensibile alla mancanza di ossigeno è il sistema nervoso centrale, che abbisogna di circa 50 ml di ossigeno al minuto. In seguito all'arresto cardiaco le prime a soffrire sono le cellule che hanno un metabolismo più rapido, ossia le corticali; seguono nell'ordine il diencefalo, il mesencefalo, il tronco encefalico e infine il midollo spinale. Contrariamente alla sensibilità estrema della maggior parte delle strutture nervose, i centri respiratori, cardioregolatori e vasomotori sono molto resistenti all'ipossia e possono riprendersi anche diversi minuti dopo l'arresto circolatorio. Insieme al sistema nervoso centrale, il fegato e il rene sono gli organi che vengono colpiti precocemente dalla mancanza di ossigeno.

Le recenti metodiche di monitoraggio della funzione elettrica del cuore hanno dimostrato che in un'alta percentuale di casi il cuore non è in asistole bensì fibrilla, si trova cioè in una condizione di contrazione incoordinata delle fibrocellule miocardiche, sì che ne risulta un effetto emodinamico nullo, analogamente a quanto si verifica nell'arresto cardiaco.

Si deve porre diagnosi di arresto cardiocircolatorio quando si constata perdita della coscienza, apnea o respiro irregolare, aspetto pallido o cianotico (facies cadaverica), mancanza del polso nelle arterie grandi e facilmente palpabili (carotide o femorale), midriasi. Si ricorda che le modificazioni del diametro pupillare, per quanto non precocissime, sono utili per controllare l'efficacia della circolazione artificiale e l'andamento della terapia rianimatoria. Le alterazioni rilevabili all'esame del fondo dell'occhio costituiscono un segno tardivo.

Il tracciato elettrocardiografico risulta decisivo per la diagnosi differenziale tra arresto cardiaco e fibrillazione ventricolare: comunque entrambe le evenienze possono riconoscere le stesse cause (asfissia, ipossia, attacchi cardiaci, elettrocuzione, farmaci, reazioni allergiche, emorragie massive) e richiedere la stessa terapia, almeno inizialmente.

La terapia di emergenza dev'essere praticata tempestivamente: il rianimatore deve agire entro 3-4 minuti dalla cessazione del circolo del paziente, affinché non sopravvenga la morte biologica. È doveroso ricordare che chi inizia le manovre di rianimazione urgente si assume la responsabilità di mantenere il paziente sospeso tra la morte clinica e quella biologica.

In caso di arresto cardiocircolatorio, la funzione cardiaca deve essere riattivata al più presto: ogni terapia farmacologica risulta in questi casi inefficace e va pertanto differita, mentre la prima e più urgente misura è quella di mantenere la validità del circolo fornendo dall'esterno quel lavoro che il cuore non è più in grado di produrre.

Il metodo più rapido ed efficace per fornire questo lavoro è il massaggio cardiaco esterno a torace chiuso, reintrodotto nel 1960 da Kouwenhoven, Jude e Knickerbocker, i quali hanno dimostrato che in tal modo è possibile mantenere una pressione arteriosa sistolica periferica tra i 60 e i 100 mm di Hg.

Il massaggio cardiaco esterno è basato su alcuni presupposti anatomo-funzionali, la cui conoscenza spiega come la gabbia toracica consenta assai bene di esercitare una compressione esterna del cuore. Il suo diametro antero-posteriore, infatti, è più breve di quello trasversale, per cui è possibile deprimere selettivamente la parte bassa dello sterno; inoltre, l'elasticità delle coste, ma soprattutto la motilità delle articolazioni condrocostali e condrosternali, permettono un'ampia escursione dello sterno in senso antero-posteriore. A paziente supino il cuore si trova fra una placca rigida, rappresentata dalla parte inferiore dello sterno, anteriormente, e i corpi delle vertebre toraciche posteriormente. Esercitando una pressione sullo sterno, questo comprime il cuore contro la colonna vertebrale determinando lo svuotamento delle cavità cardiache nei grossi vasi; il cuore è d'altra parte tenuto saldamente in situ dal pericardio e dai vari legamenti che ancorano il pericardio stesso ai grossi vasi, al centro tendineo del diaframma e allo sterno, in modo tale che non sono possibili scivolamenti laterali. Quando si interrompe la pressione esercitata su di esso, per l'elasticità delle strutture costali lo sterno torna alla posizione di partenza: nel torace si stabilisce allora una pressione negativa che favorisce il ritorno del sangue al cuore, destro e sinistro, le cui valvole regolano la direzione della corrente ematica.

Affinché il massaggio cardiaco esterno sia efficace e onde evitare possibili lesioni, la pressione dev'essere esercitata esattamente sulla metà inferiore dello sterno. Il profano può facilmente riconoscere mediante la palpazione lo sterno, la cui consistenza dura è inconfondibilmente apprezzabile nella parte alta dell'addome. Il punto su cui si deve applicare la pressione si trova localizzando l'estremità inferiore dello sterno, il cosiddetto processo xifoide: ponendo due dita trasversalmente sulla base di tale formazione e accostando a queste la base della mano controlaterale, quest'ultima si troverà nella posizione idonea per poter esercitare la pressione in corrispondenza della metà inferiore dello sterno.

Tecnicamente si devono osservare i seguenti dettagli: a) la posizione del paziente, che dovrà essere adagiato supino su un piano rigido (può bastare un asse di legno o, in caso di necessità, anche un semplice vassoio sotto il torace); b) la posizione dell'operatore, che dovrà essere inginocchiato a fianco del paziente; c) la posizione delle mani dell'operatore, in quanto, come si è detto, la compressione deve venire esercitata solo sullo sterno e non sulle coste; d) la tecnica del massaggio, tale che sullo sterno siano impresse compressioni rapide e profonde ognuna della durata di circa 1/2 secondo e interrotta di scatto, con direzione della forza perpendicolare alla colonna vertebrale, ricordando che la pressione viene esercitata sfruttando in gran parte il peso della metà superiore del corpo dell'operatore e non la forza muscolare delle sue braccia, così che lo sterno venga abbassato di circa 3-5 cm a ogni atto compressivo. Nei bambini e nei neonati la compressione viene applicata sempre nella stessa sede, ma usando solo l'indice e il medio di una mano, mentre l'altra mano viene posta sotto il torace per la contropressione; alternativamente, specie se il bambino è molto piccolo, si potranno porre le due mani sul torace onde praticare il massaggio con i pollici appoggiati sulla regione mediana dello sterno.

Le compressioni devono susseguirsi con una frequenza di 60 al minuto primo nell'adulto e di 100-120 nei bambini e nei neonati. Per valutare l'efficacia del massaggio è utile controllare il polso carotideo.

Il massaggio cardiaco esterno da solo non produce ventilazione dei polmoni, per cui deve essere associato a una ventilazione a pressione positiva intermittente. Il rapporto tra la frequenza della ventilazione e quella delle compressioni sternali è un compromesso per ottenere con tecnica facile il miglior grado di ventilazione e di efficienza circolatoria (60 compressioni e 12 inspirazioni al minuto primo).

Se l'operatore è solo dovrà alternare 2-3 ventilazioni rapide del polmone (della durata totale non superiore ai 5 secondi) a 15 compresssioni cardiache, fino a che non potrà disporre di un secondo operatore. In tal caso il rapporto non sarà più di 2 : 15, ma di 1 : 5; un operatore comprime lo sterno a intervalli di un secondo, senza interruzioni, un altro insuffla profondamente i polmoni ogni 5 compressioni sternali. Se il paziente è intubato, le insufflazioni possono essere alternate o sovrapposte a piacere: ad esempio, una insuffiazione ogni 5 compressioni.

La rianimazione cardiopolmonare dev'essere continuata fino a quando ricompare il polso spontaneo e la ventilazione fino al ritorno del respiro spontaneo; comunque il paziente va poi trasferito al centro di rianimazione per la terapia intensiva.

Il massaggio cardiaco esterno può essere praticato anche con apparecchi, che tuttavia non presentano indicazioni tali da farli preferire ai metodi manuali.

La terapia rianimatoria d'urgenza, iniziata sul posto dell'incidente, dev'essere proseguita durante il trasporto e perfezionata poi in ospedale: pertanto per evitare che nelle tre diverse fasi successive si determini un peggioramento dello stato del malato è indispensabile disporre di un'organizzazione altamente efficiente, alla quale s'è già fatto cenno.

Terapia definitiva in reparto di rianimazione (terapia intensiva). - La terapia definitiva comprende il ripristino della circolazione spontanea, la rimozione delle varie cause dell'arresto cardiocircolatorio e l'adozione di un trattamento postrianimatorio: pertanto, dopo aver provveduto all'intubazione nasotracheale e all'applicazione della ventilazione controllata, è necessario assicurare il ripristino della circolazione spontanea mediante somministrazione di farmaci e terapia della fibrillazione, sotto costante controllo elettrocardiografico.

Controllo elettrocardiografico. - L'unico elemento valido per la diagnosi di arresto cardiaco o di fibrillazione è il tracciato elettrocardiografico. È pertanto indispensabile assicurare il costante controllo elettrocardiografico del paziente durante tutta questa fase della terapia rianimatoria.

Farmaci. - Dopo l'inizio del massaggio cardiaco riesce utile la somministrazione endovenosa di adrenalina, alla dose di 1 mg, da ripetersi ogni 2-5 minuti, o di vasopressori per favorire la ripresa dell'attività cardiaca; di alcalinizzanti (sodio bicarbonato o l'amminoalcool THAM o TRIS) per combattere l'acidosi, da ripetere ogni 5 minuti finché gli esami di laboratorio confermeranno il ritorno a valori fisiologici; di soluzioni di glucosio e del diuretico osmotico mannitolo.

Terapia della fibrillazione. - Terapia specifica della fibrillazione ventricolare è l'applicazione di una scarica elettrica a corrente continua: per la defibrillazione esterna si consigliano scariche di 200 watt/s negli adulti, 100 watt/s nei bambini, che vanno ripetute e associate, se inefficaci, alla somministrazione di procammide e xilocaina.

Abbiamo già detto che il massaggio cardiaco esterno e la defibrillazione esterna hanno sostituito le rispettive tecniche interne: tuttavia, fanno eccezione particolari situazioni, quali il sospetto di una condizione patologica intratoracica (pneumotorace, emorragia, fratture costali), il fallimento del massaggio cardiaco esterno come mezzo decisivo (persone anziane a torace rigido), l'inefficacia della defibrillazione esterna.

d) L'insufficienza circolatoria periferica

L'insufficienza circolatoria acuta caratterizzata da ipotensione - sintomo ben noto, al quale peraltro si attribuisce oggi un valore nettamente inferiore che non in passato - può essere causata da tre fattori: 1) un deficit della gettata cardiaca per cause intrinseche (scompenso cardiaco o infarto); 2) un deficit della massa circolante (ipovolemia emorragica); 3) un'alterazione del tono arteriolare con vasodilatazione (sindrome ipotonica vagale) o vasocostrizione arteriolare e apertura del vaso preferenziale (shock).

La correzione di queste alterazioni non dev'essere sintomatica, in quanto una tale condotta terapeutica può aggravare il deficit metabolico tessutale: qualsiasi insufficienza circolatoria, infatti, ha come caratteristica fondamentale uno stato di ipossia tessutale con acidosi metabolica secondaria. Occorre invece contrastare specificamente il fattore di volta in volta responsabile della pericolosa situazione.

Il deficit della gettata può essere corretto essenzialmente in due modi: a) mediante trattamento farmacologico con cardiocinetici o stimolanti alfa- o beta-adrenergici; b) mediante l'assistenza cardiaca con mezzi meccanici (circolazione extracorporea assistita), i cui problemi collaterali tuttavia sono ancora non del tutto risolti, per cui in pratica non è ancora entrata nell'uso clinico.

Il deficit della massa va corretto con la reintegrazione della volemia, mediante trasfusioni sia di sangue in toto (limitate comunque alle più gravi forme emorragiche in considerazione dei rischi connessi alle emotrasfusioni, veri e propri trapianti di tessuto) sia di frazioni ematiche isolate o di sostituti plasmatici (plasma expanders) derivati dalle gelatine o dal destrano.

Il tono arteriolare alterato va invece corretto con la somministrazione di simpaticomimetici (v. farmacologia) nel caso di una caduta delle resistenze arteriolari, mentre, nel caso dello shock in cui sono presenti alterazioni della circolazione periferica per aumento del tono arteriolare, con una terapia progressiva e intensiva volta a rimuovere le cause della sindrome e ad annullarne gli effetti a livello tessutale e parenchimale.

Per comprendere meglio i concetti sui quali si basa la terapia dello shock, è utile ricordare come inizialmente l'evento stressante e scatenante, attraverso uno stimolo delle surrenali e del sistema nervoso simpatico, inondi l'organismo di catecolammine responsabili della vasocostrizione a livello arteriolare, alla quale consegue la comparsa di quei fenomeni collaterali le cui complessità e progressività caratterizzano la sindrome circolatoria.

A questa fase di vasospasmo arteriolare segue immediatamente l'apertura del vaso preferenziale che isola dalla circolazione una determinata zona di parenchima, nella quale iniziano pertanto alcune modificazioni metaboliche connesse all'ipossia e consistenti essenzialmente in acidosi, blocco del metabolismo aerobico, modificazioni della parete capillare ed exemia secondaria con liberazione di proteasi cellulari e serotonina.

Quando il tasso di questi metaboliti patologici raggiunge valori tossici per i recettori adrenergici dell'arteriola, si verifica il rilasciamento dello sfintere precapillare e l'inondazione del parenchima con intrappolamento ematico, in quanto l'acidosi e l'increzione serotoninica hanno determinato lo spasmo dello sfintere venulare con impossibilità di fuoriuscita del sangue: ne consegue un ulteriore peggioramento della situazione ipossica e metabolica, con ulteriore alterazione della vitalità cellulare.

Sopraggiunge infine la morte della cellula, che segna l'instaurarsi dell'ultima fase dello shock, quella cioè dell'irreversibilità.

Scopi basilari della terapia sono quindi: 1) la correzione dell'ipovolemia primitiva o secondaria (exemia); 2) la rimozione dello spasmo arteriolare mediante somministrazione di alfalitici, betastimolanti o idrocortisone a dosaggio elevato (quest'ultimo farmaco ha anche la proprietà di diminuire l'exemia plasmatica capillare); 3) la correzione dell'ipossia e delle sue conseguenze mediante ripristino della circolazione e neutralizzazione dei metaboliti tossici di tipo proteasico con somministrazione dell'inibitore di Frey; 4) la correzione dell'acidosi mediante somministrazione di bicarbonato di sodio o meglio di THAM, che può diffondere all'interno della cellula ove l'acidosi è più grave e soprattutto più deleteria; 5) la correzione delle alterazioni della coagulazione con l'uso di farmaci disaggreganti o di anticoagulanti chiarificanti come l'eparina; 6) la protezione dei parenchimi lesi dal danno circolatorio, soprattutto del rene - la funzione renale è la più precocemente compromessa e necessita quindi di una terapia immediata, basata anzitutto sulla somministrazione di diuretici osmotici tipo mannitolo - del fegato e del cuore; 7) la correzione del deficit di diffusione polmonare indotto dalla tossina tessutale (PLF = pulmonary lesion factor); 8) la sterilizzazione del contenuto enterico per limitare l'assorbimento di tossine microbiche; 9) l'assicurazione di un sufficiente apporto energetico attraverso la somministrazione di glucosio e levulosio, onde sfruttare le due vie metaboliche dei glucidi.

Tutta la terapia va comunque seguita attentamente con il controllo continuo (monitoraggio) della pressione venosa centrale, della gettata cardiaca, dell'elettrocardiogramma e della situazione metabolica plasmatica, soprattutto per quanto concerne l'equilibrio acido-base e l'eccesso di lattati o piruvati. Pertanto si rende indispensabile per i pazienti affetti dalle forme più gravi il trattamento nei centri di rianimazione, onde poter loro offrire le maggiori probabilità di guarigione.

4. Il problema morale della rianimazione

a) Valore umano e sociale della rianimazione

Non sembra azzardato affermare che la possibilità di comprendere pienamente il significato della moderna terapia rianimatoria è data soltanto a quanti quotidianamente.prestano la propria opera in un centro di rianimazione, anestesisti rianimatori e membri del personale ausiliario: sono a questi, infatti, dolorosamente familiari le speranze, le angosce, le disperate situazioni di malati ridotti, il più delle volte, in allucinanti condizioni di pura vita vegetativa, privi di coscienza, dipendenti per il respiro e la circolazione da apparecchi di fredda complessità, nutriti e disintossicati dalla perfusione di una varietà di soluzioni. Chi li assiste è perfettamente conscio che questi miseri automi, collegati a una miriade di fili, sono pur sempre esseri umani, fino a poco tempo prima vigili e coscienti, ridotti a tal punto da una sventura o un improvviso squilibrio psichico; destinati in un recente passato a sicura morte, il loro recupero, una vera e propria resurrezione, è oggi possibile e così frequente da non destare più alcuna meraviglia: tale è il mirabile - o forse meglio sarebbe dire miracoloso - risultato ottenuto dalla moderna rianimazione, grazie alla quale è possibile operare la salvezza, talvolta ancora quasi incredibile, di individui avvelenati dal micidiale fungo Amanita phalloides o dal gas o dai barbiturici, oppure in condizioni di asfissia per annegamento o per gravissime crisi asmatiche o per insufficienza cardiorespiratoria.

Superfluo, quindi, appare qualsiasi richiamo all'elevato valore umano e sociale della rianimazione: è appena sufficiente ricordare che da indagini statistiche risulta che nel 1973, quando negli Stati Uniti ben 5.129 ospedali erano dotati di un reparto di terapia intensiva, nello Stato dell'Illinois la mortalità per incidenti stradali scese dal 10,2% o al 2%.

Altro prezioso contributo offerto dalla rianimazione, ma forse meno noto, è la possibilità di mantenere in perfette condizioni la struttura e la funzione di organi destinati al trapianto, appartenenti a individui il cui recupero è impossibile.

Un altro esempio è rappresentato dal trattamento rianimatorio, che per la legge italiana deve durare 12 ore, praticato a un soggetto in coma dépassé a cui debbono essere prelevati i reni a scopo di trapianto. Per consentire il ritorno a una vita normale mediante il trapianto di un rene a due pazienti in emodialisi periodica, l'anestesista rianimatore deve, per 12 ore, far sì che in un individuo privo di respiro e con elettroencefalogramma completamente piatto la funzione cardiocircolatoria sia così ben mantenuta ed equilibrata che i reni da espiantare continuino a funzionare perfettamente.

b) Gli sconcertanti problemi prospettati dalla rianimazione

Tuttavia, nonostante queste premesse, la pratica della rianimazione ha posto e pone numerosi importanti problemi, non ancora del tutto risolti, di ordine filosofico, teologico e morale. Di questi, il primo può essere espresso con un quesito in apparenza semplice: in quali casi si deve intervenire con la rianimazione? Illuminante, a tale proposito, appare la concezione di M. L. Bozza e O. Damia: ‟È ovvio che ogni tentativo di rianimazione è vano, e non deve neppure essere tentato, nei casi che giungono al cedimento delle funzioni vitali alla fine di un iter patologico, acuto o cronico, ma per una prognosi infausta: neoplasie, malattie cardiovascolari e/o polmonari progressive, insufficienze globali di origine degenerativa o infiammatoria di parenchimi nobili quali il fegato o il rene, e via dicendo".

Secondo Negovskj, che pure è il più interventista di tutti i rianimatori, ‟la rianimazione è opportuna e ha un fondamento solo quando è possibile un completo ristabilimento delle principali funzioni vitali dell'organismo nel suo insieme, cioè il ritorno alla vita dell'uomo come persona. Se l'interruzione della circolazione è stata prolungata, soprattutto se è stata preceduta da un logorante processo di estinzione, le modificazioni degenerative che si sviluppano nei tessuti più differenziati e vulnerabili, come la corteccia cerebrale, riducono praticamente a zero tutti gli sforzi del rianimatologo".

Il Comitato speciale per la rianimazione dell'Accademia Nazionale delle Scienze statunitense ha raccomandato di ‟non dare inizio al ristabilimento dell'attività cardiaca e della respirazione se è noto, o può essere accertato con sufficiente grado di attendibilità, che l'arresto del cuore è durato più di 5-6 minuti".

Bisogna dunque saper rinunziare ai tentativi di rianimazione nei casi in cui è già nota, in partenza, l'inutilità delle manovre da porre in atto.

Nessuno mette in dubbio la moralità e l'etica di ogni possibile intervento rianimatorio nei pazienti in pericolo di morte quando esso sia utile. È invece molto discussa la pratica di tenere in vita il paziente a ogni costo, con una ‟aggressiva, quasi paranoica mentalità propria di molti medici" (sono parole del teologo J. Fletcher) che giustificano tale ‛vitalismo radicale' con l'affermazione che la vita vada preservata con ogni e qualsiasi mezzo il più a lungo possibile, perché qualcosa potrebbe sempre accadere, una nuova scoperta scientifica o un miracolo.

Indubbiamente i progressi compiuti dalla medicina moderna nel prolungare la durata della vita hanno, di per sé, aumentato, in maniera diretta, l'incidenza di decisioni concernenti il controllo della morte. Molti filosofi e teologi che seguono un'etica situazionale, soprattutto protestanti ed ebrei progressisti, si sono pronunciati a favore dell'eutanasia (o, meglio, della ‛morte elettiva'), prendendo in considerazione il singolo caso nel contesto delle circostanze reali. Infatti, indipendentemente da qualsiasi retorica e da qualunque dottrina, è ormai chiaro che, dal punto di vista pratico, esistono delle situazioni che richiedono una decisione responsabile.

Un editoriale apparso su ‟Lancet" nel dicembre 1962 (p. 1205), proprio agli albori della rianimazione, rappresentò il primo segno di una nuova ‛moralità statistica': ‟Se la durata media di ricovero in un ospedale è di due settimane, un letto occupato per un intero anno da un malato avrebbe potuto essere utilizzato da altre ventisei persone. Può accadere quindi che in un paese che non disponga di un surplus di letti di degenza, un paziente in stato di incoscienza irreversibile sia tenuto in vita a prezzo della vita di altre persone". Diverso è il caso in cui l'arresto cardiorespiratorio si è verificato per un evento accidentale in un soggetto sano e le lesioni sono compatibili con la vita. Se la condizione patologica è insorta repentinamente durante un'anestesia o dopo traumi, asfissia di diversa origine, annegamento, folgorazioni, intossicazione acuta, infarto miocardico, processi infiammatori acuti, in tutti questi casi la rianimazione deve essere sempre intrapresa con tutti i mezzi possibili. Secondo Bozza e Damia ‟l'evento può essere dovuto a fattori transitori e correggibili e in non pochi casi un trattamento appropriato e tempestivo può consentire una ripresa totale e definitiva, o quanto meno permettere di trasportare l'infortunato ancora in condizioni di recuperabilità fino a un ambiente attrezzato per una rianimazione di lunga durata o molto complessa. Basti l'esempio dell'infarto miocardico acuto che si verifichi in ambiente extraospedaliero: buona parte di questi pazienti può avere una zona di ischemia miocardica limitata, ma in sede tale da dare nelle prime ore gravi turbe del ritmo fino al blocco atrioventricolare completo o alla fibrillazione ventricolare. L'esperienza ha dimostrato che se si riesce a far superare al paziente questa fase critica, ovviamente mortale in assenza di rianimazione, la lesione miocardica può successivamente cicatrizzarsi con recupero funzionale soddisfacente. Se il medico che si trova da solo ad assistere un soggetto in queste condizioni riesce a mantenere con mezzi artificiali, che non richiedono strumenti particolari, un minimo di perfusione e di ossigenazione almeno a livello del circolo cerebrale, il paziente può giungere ancora in condizioni di recuperabilità al reparto attrezzato per l'impianto di un pace-maker artificiale o per la defibrillazione elettrica. Se, per contro, il primo soccorritore si abbandona a un atteggiamento fatalistico, ovvero provvede con mezzi inadeguati (analettici banali per via intramuscolare, ossigenoterapia con mezzi antiquati o simili atti ut aliquid fieri videatur), l'autolettiga che anche viaggi a sirene spiegate consegnerà al pronto soccorso soltanto un cadavere o, nella migliore delle ipotesi, un portatore di lesioni cerebrali irreversibili per il quale nessun intervento è più utile".

Il secondo grosso problema di coscienza, di morale, di carità è rappresentato dall'eventuale sospensione volontaria di un trattamento rianimatorio.

Come è noto, il francese Mollaret coniò, all'inizio degli anni sessanta, il termine di ‟coma dépassé"", sottolineando come tale stato rappresenti ‟la massima pena per l'attuale imperfetta tecnica della rianimazione". Il coma dépassé, caratterizzato da assenza completa della coscienza, della sensibilità e della reattività, da mancanza totale dei riflessi, midriasi paralitica, arresto del respiro ed elettroencefalogramma isoelettrico, ha indotto a definire i soggetti colpiti come ‛statue con il cuore che batte' o ‛defunti con il polso conservato' o ‛mostri della rianimazione'.

Lo studio del coma dépassé ha permesso di chiarire che in questa condizione si determinano: 1) una morte ‛iniziale' definitiva, irreversibile dell'encefalo e una morte ‛successiva' dei visceri irrimediabilmente separati dai centri superiori, morte certa in un termine molto prossimo e secondo una cronologia ben definita; 2) la perdita irrevocabile della vita di relazione, con persistenza della vita vegetativa in taluni settori viscerali.

È moralmente valido continuare a far sopravvivere un individuo privo di qualsiasi vita di relazione, sicuramente non recuperabile, ridotto a un semplice preparato cuore-polmoni e il cui tessuto cerebrale, come risulta dalle autopsie di pazienti in coma dépassé sottoposti a prolungato trattamento rianimatorio, è già in fase di colliquazione?

Il dovere supremo di ogni medico, rianimatore e non, è il rispetto della vita umana; egli deve pertanto assicurare al paziente non solo la salvaguardia delle sue funzioni organiche, ma anche l'integrità della sua personalità.

I moralisti cattolici, così come la maggior parte degli ebrei ortodossi e dei protestanti ortodossi, si oppongono decisamente all'eutanasia, considerano cioè immorale ogni metodo diretto che, allo scopo di porre termine a sofferenze e a inutili sprechi, determini la fine di una vita. Tuttavia, ammettono, come vedremo, il ricorso a metodi indiretti.

Il 27 novembre 1957 Pio XII, considerando già l'anestesista come rianimatore, diceva: ‟Se la lesione cerebrale è tanto grave che è molto probabile e praticamente certo che il malato non potrà sopravvivere, all'anestesista si pone l'angosciosa questione del valore e del senso delle manovre di rianimazione", e proseguiva affermando che la soluzione del problema, già difficile di per sé, diviene ancora più ardua quando la famiglia chiede all'anestesista di staccare l'apparecchio di ventilazione artificiale per permettere al paziente, già virtualmente morto, di andarsene in pace. Il problema fondamentale dal punto di vista religioso e filosofico è quello di determinare con certezza il momento in cui si verifica la morte di un paziente sottoposto a trattamento rianimatono. Pio XII riteneva che solo l'anestesista può dare una definizione chiara e precisa di ‛morte' e di ‛momento della morte' per un paziente in stato di incoscienza, sulla base del concetto usuale di separazione completa e definitiva dell'anima dal corpo, tenendo però conto, in pratica, dell'imprecisione dei termini ‛corpo' e ‛separazione'.

Questa dottrina cattolica, che non rifiuta il diritto all'arresto della rianimazione, a condizione che sia deciso dall'anestesista rianimatore, che ne è il solo responsabile, con piena conoscenza tecnica e con assoluta coscienza morale, non è mai stata modificata in seguito, anzi è stata confermata dall'insigne teologo e moralista M. Lambruschini (1969): ‟In contrasto con la dottrina semplicistica secondo cui val meglio vivere deforme che non esistere, preferiamo attenerci al principio che, se non si deve far nulla per abbreviare direttamente una vita umana, si possono omettere delle cure eccezionali per prolungare la vita in condizioni particolarmente penose. Non si tratta di cinismo, ma di un sano realismo ispirato alla saggezza. I trattamenti eroici meritano sempre l'ammirazione, ma non si può sempre imporli".

Gli stessi concetti si sono venuti puntualizzando in ambito scientifico. Röttgen nel 1966 sosteneva: ‟Una vita non corticale contraddice l'essenza stessa dell'esistenza umana" e due anni dopo K. Simpson scriveva: ‟Si possono mantenere in vita i tessuti all'interno di un organismo, come lo si può fare in una coltura in vitro, ma ciò non significa che l'individuo sia vivo". Oggi possiamo ritenere pienamente valido ciò che già nel 1971, con profonda onestà scientifica, affermava Negovskj: ‟La rianimazione di un adulto che ha superato una prolungata morte clinica dopo un lungo periodo di logorante estinzione, porta soltanto al ristabilimento dell'attività cardiaca e della respirazione. L'individuo rianimato rimane decorticato; la rianimazione perde, quindi, il suo significato. La medicina moderna non persegue affatto il fine di moltiplicare il numero di preparati cuore-polmoni decerebrati".

Il punto di vista giuridico coincide oggi con quello religioso per quanto riguarda la determinazione della morte, la cui responsabilità è addossata completamente alla scienza e alla coscienza del medico. Ricorderemo la recente sentenza di un giudice americano (R. Muir) relativa alla richiesta dei genitori di una ragazza in coma traumatico da sette mesi, di staccare il respiratore artificiale contro il parere dei medici curanti. Il giudice, pur riconoscendo le ragioni dei genitori, ha sostenuto che la decisione compete ‟esclusivamente ai medici che la curano, non ai tribunali, né alla Chiesa e nemmeno ai suoi genitori".

È quanto, in pratica, ribadisce la cosiddetta ‛dichiarazione di Sidney', adottata all'unanimità dalla XXII Assemblea Medica Mondiale (9 giugno 1967): ‟La determinazione del momento della morte, nella maggior parte dei paesi è e deve rimanere sotto la responsabilità legale del medico. Non esiste, allo stato attuale delle conoscenze mediche, un criterio unico che dia completa soddisfazione e nessuna procedura tecnica attuale può sostituire il giudizio del medico".

Il moderno pensiero medico, che si fonda sul metodo scientifico, non considera più la vita e la morte come eventi, ma come momenti propri di un continuum biologico. La morte viene vista come un ‛processo': ciò pone fine alla discussione sul ‛quando si verifichi' e il nocciolo del problema non consiste più nel riscontro di una sensibilità corporea oppure di un minimo, arbitrario, di funzioni vitali, ma è rappresentato dal persistere della personalità e della funzione mentale. Quando, nel corso del processo degenerativo, la mente non risponde più e nello stesso tempo l'omeostasi dell'organismo segue la stessa sorte, allora la vita se n'è andata, è sopraggiunta la morte.

c) Conclusione

La rianimazione, tra le diverse branche della medicina moderna, è la punta avanzata nella lotta contro la morte. Scienza nel senso più puro e profondo del termine, ricca di successi e di nuove importanti acquisizioni concettuali, si trova ad affrontare oggi problemi estremamente ardui che impongono al medico rianimatore di operare costantemente secondo scienza e coscienza.

Il continuo perfezionamento dei mezzi tecnici, la possibilità di intervenire con sempre maggiore tempestività, la migliore conoscenza della complessità dell'organismo vivente, già consentono di risolvere situazioni ritenute disperate sino a pochi anni or sono; tuttavia, proprio per il costante progresso della rianimazione, sarà forse necessario, un giorno, rivedere a fondo i nostri sistemi di valori e il nostro punto di vista riguardo all'uomo.

bibliografia

Baker, A. B., Artificial respiration, the history of an idea, in ‟Medical history", 1971, pp. 337-351.

Ciocatto, E. e altri, Trattato di rianimazione, Torino 1969.

Filley, G. F., Pulmonary insufficiency and respiratory failure, Philadelphia 1968.

Foti, F., Rianimazione, Padova 1972.

Hawkins, L. H., The experimental development of modern resuscitation, in ‟Resuscitation", 1972, I, pp. 9-24.

Lungarotti, R., Storia della rianimazione, Roma 1973.

Safar, P., Respiratory theory, Philadelphia 1968.

Safar, P., Cardiopulmonary resuscitation, in ‟Excerpta medica", sect. 24, 1969, IV, p. 146.

Stephenson, H. E. Jr., Cardiac arrest and resuscitation, Saint Louis 1964.

Sykes, M. K., McNicol, M. W., Campbell, E. J. M., Respiratory failure, Oxford 1969 (tr. it.: L'insufficienza respiratoria, Padova 1972).

Zaffiri, O., Principi di rianimazione metabolica, Torino 1979.

CATEGORIE
TAG

Rianimazione cardiopolmonare

Sistema nervoso simpatico

Sistema nervoso centrale

Ventilazione artificiale

Malattie cardiovascolari