Ricerca archeologica. Lo scavo subacqueo

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

Ricerca archeologica. Lo scavo subacqueo

Edoardo Tortorici

L'esigenza di estendere il campo di indagine al mondo subacqueo è presente già nella cultura erudita e antiquaria dei secoli XV e XVI. Fin dai primi avventurosi tentativi, la ricerca appare strettamente legata alla sperimentazione tecnica e alla realizzazione pratica di mezzi e strumenti adatti a consentire all'uomo la permanenza e il lavoro sott'acqua. Degni di nota, da questo punto di vista, sono i tentativi di recupero effettuati a più riprese sulle due grandi navi imperiali romane affondate nel Lago di Nemi, con l'impiego di grandi zattere munite di ingegnosi sistemi di sollevamento (L.B. Alberti, 1446) e con l'utilizzo delle prime campane batoscopiche (F. De Marchi, 1535). Nei secoli XVII e XVIII si deve proprio al perfezionamento della campana batoscopica (E. Halley) la felice conclusione di alcune imprese subacquee, come quella del recupero dei cannoni bronzei dal relitto della grande nave da guerra svedese Vasa, affondata nel 1628 nel porto di Stoccolma subito dopo il varo. Ulteriori sperimentazioni porteranno alla definitiva realizzazione delle prime attrezzature per palombari (inizi del XIX secolo), fornendo decisamente ai ricercatori la possibilità di operare sott'acqua con sufficiente efficacia: i recuperi effettuati dai palombari nelle navi di Nemi (oggetti dell'attrezzatura e della decorazione bronzea, 1895), nei relitti di Anticitera in Grecia (1900-1901) e di Mahdia in Tunisia (1908-13), le scoperte fortuite e i recuperi di pregevoli opere d'arte greca (Efebo di Maratona, 1925; Posidone e "fanciullo fantino" di Capo Artemisio, 1928) ebbero grande risonanza e misero in evidenza l'importanza della ricerca archeologica sottomarina. Tuttavia, quasi per paradosso, il primo scavo programmato in questo campo non venne condotto direttamente sott'acqua (e d'altronde il progresso tecnico e le conoscenze metodologiche di quegli anni non permettevano ancora di impostare e realizzare un vero e proprio cantiere archeologico subacqueo): tra il 1928 e il 1932 vennero infatti portate totalmente alla luce e studiate scientificamente le due navi imperiali del Lago di Nemi, recuperate prosciugando quasi completamente il lago. La risonanza dell'impresa fu enorme: per la prima volta era stato possibile analizzare due relitti antichi perfettamente conservati, ottenendo fondamentali contributi conoscitivi per la tecnica di costruzione navale romana e per la stessa ricca decorazione bronzea del rivestimento. La possibilità di effettuare ricerche archeologiche, scavi e prospezioni subacquee divenne concreta con l'invenzione dell'autorespiratore ad aria, progettato e realizzato nel 1942 da J. Cousteau ed E. Gagnan, che permetteva all'operatore in immersione una respirazione autonoma, non più dipendente dalla superficie: l'aria, compressa ad alta pressione (200 atm ca.) entro bombole poste sulle spalle del sommozzatore, veniva erogata alla stessa pressione ambientale (cioè in relazione alla profondità di esercizio), tramite un meccanismo (appunto l'erogatore) terminante in un boccaglio. Questo sistema, in seguito continuamente perfezionato, determinò un vero e proprio salto di qualità, permettendo ad un numero sempre maggiore di persone di immergersi in sicurezza con un'attrezzatura notevolmente semplificata (maschera, pinne, muta in neoprene, cintura di zavorra) rispetto a quella dei palombari. La prima sperimentazione archeologica dell'autorespiratore ad aria venne condotta nel 1948 sul relitto di Mahdia (J. Cousteau, Ph. Tailliez). Pressappoco negli stessi anni veniva definitivamente raggiunta la consapevolezza, per l'archeologia subacquea, che gli scavi e le ricerche dovevano rispondere agli stessi criteri di correttezza scientifica delle indagini condotte in terraferma. Il momento di svolta, a questo riguardo, è costituito dal non riuscito tentativo di effettuare lo scavo subacqueo di una nave oneraria romana rinvenuta al largo di Albenga con un carico di anfore vinarie, mediante l'impiego di palombari e di una draga montata sulla nave-recuperi Artiglio (N. Lamboglia). La draga, in particolare, arrecò notevoli danni al giacimento di anfore; tuttavia proprio questa negativa esperienza (peraltro onestamente e puntualmente dichiarata) spinse lo stesso Lamboglia all'impostazione di una metodologia di intervento che rimarrà fondamentale per il successivo sviluppo delle tecniche di scavo subacqueo. La seconda campagna sulla nave di Albenga, condotta con l'impiego esclusivo di sommozzatori, venne infatti quasi totalmente dedicata alla realizzazione di un sistema di quadrettatura del relitto, da porre come base per la documentazione grafica e fotografica e per l'individuazione, il posizionamento e la numerazione dei singoli reperti del carico. Grande impulso alle ricerche venne inoltre dall'utilizzo di strumenti particolarmente adatti agli scavi sottomarini: tra il 1950 e il 1952 i relitti di Anthéor/Chrétienne A e Grand Congloué, sulla costa meridionale francese, vennero infatti scavati impiegando per la prima volta la sorbona, ancora oggi in uso in tutti i cantieri. Si tratta di un sistema composto da un lungo tubo rigido o semirigido corrugato, nella cui parte iniziale, attraverso una manichetta, viene immessa aria in pressione che, risalendo violentemente verso la superficie, crea una forte aspirazione. Tale forza aspirante, che può essere regolata in intensità a seconda delle esigenze, viene sfruttata per rimuovere strati e materiali (sabbia, sedimenti, banchi di posidonia oceanica, ecc.) che ricoprono i resti archeologici. Ancora nello stesso periodo (tra il 1954 e il 1957, nel corso dello scavo del relitto del Titan) vennero sperimentati sistemi di documentazione fotografica subacquea, con la realizzazione di un mosaico fotografico dell'intera area di ricerca. Si può affermare che, in definitiva, sul finire degli anni Cinquanta erano ormai poste le basi metodologiche per il moderno scavo archeologico subacqueo. Ulteriori contributi innovativi vennero forniti nel decennio successivo da alcuni importanti scavi condotti da ricercatori anglosassoni (G.F. Bass, F.H. van Doorninck). In tali cantieri (Capo Gelidonya, 1960; Yassi Ada I, 1961-64) tutte le operazioni subacquee furono svolte per la prima volta direttamente da archeologi e ricercatori e non da sommozzatori professionisti, come era avvenuto fino ad allora, con difficoltà notevoli nella conduzione, nel controllo e nella documentazione dei dati scientifici. Il relitto di Yassi Ada I, inoltre, costituisce il primo esempio di scavo subacqueo integrale ed estensivo, con il rilievo totale del carico e dello scafo ligneo, mediante l'impiego sperimentale della fotogrammetria subacquea, cioè di un sistema che permette di abbreviare notevolmente i tempi di esecuzione della documentazione grafica, ottenendo rilievi planimetrici da riprese fotografiche. In questo stesso periodo vennero affrontati anche i problemi legati al prolungamento dei tempi di immersione e alla sicurezza degli operatori, mediante l'impiego, prima sperimentale, poi ulteriormente perfezionato e adottato su larga scala, di camere di decompressione immerse e di campane batoscopiche (ad es., negli scavi dei relitti di Yassi Ada II, Punta Scaletta, Albenga). Notevole rilievo inoltre assunsero anche le ricerche volte a sperimentare e codificare tecniche di restauro e conservazione del materiale bagnato, con particolare riferimento alle strutture lignee delle imbarcazioni, alle ceramiche e al contenuto delle anfore da trasporto (relitto di Kyrenia). A partire dagli anni Settanta, grazie alle conoscenze acquisite e ai risultati raggiunti, l'evoluzione delle tecniche di scavo subacqueo permise ormai di raccogliere dati e informazioni di assoluto rigore scientifico. Le iniziative di scavo di rilevante impegno logistico si moltiplicano, potendo ormai contare su strumenti di lavoro affidabili e collaudati (sorbona ad aria e ad acqua, lancia ad acqua), su condivise e generalizzate strategie di scavo (il sistema basato sulla quadrettatura e sui saggi regolari ripetuti), su avanzati sistemi di documentazione (grafica, fotografica, fotogrammetrica), su navi appositamente attrezzate per l'archeologia subacquea e su specialisti del settore di solida esperienza e di alta professionalità. In generale questo periodo è caratterizzato dall'introduzione di tecnologie e strumenti sempre più sofisticati, come l'impiego negli scavi di impianti a circuito chiuso per le riprese filmate, di telecamere e di cabine telefoniche sommerse per il collegamento continuo con la superficie, di sommergibili teleguidati per gli interventi e le ricognizioni ad alte profondità, di fotorestitutori per la traduzione grafica delle riprese stereoscopiche (Yassi Ada II, Planier III, Madrague de Giens). Di particolare rilievo è anche l'utilizzo sperimentale dell'informatica per l'archiviazione e la gestione dei dati di scavo (Planier III). Nel decennio successivo e ancora nei primi anni Novanta, pur aumentando considerevolmente il numero dei relitti e delle località sommerse scavati o in corso di scavo, non si sono registrate particolari novità nelle strategie, nelle tecniche e nei materiali impiegati, che sostanzialmente sono gli stessi sperimentati con successo negli anni Settanta. In questi ultimi anni l'interesse sembra rivolto alla messa a punto di metodologie di scavo subacqueo, in linea con le più moderne tecniche dello scavo stratigrafico terrestre, alla sperimentazione di mezzi e strumenti sempre più avanzati di documentazione (con particolare riguardo all'impiego della fotogrammetria e dell'informatica) e all'introduzione di condivise normative di intervento per i ritrovamenti ad alta profondità. Per quanto riguarda le tecniche di scavo, l'esigenza di un attento controllo della stratigrafia, in conformità con le esperienze acquisite negli scavi di terraferma, era già fortemente sentita negli anni Sessanta e Settanta. Su queste stesse basi e in rapporto alle odierne tendenze in questo campo (concetto di unità stratigrafica, analisi dei rapporti fisici tra gli strati, redazione del diagramma stratigrafico, documentazione imperniata sulle piante di strato, introduzione di un organico sistema di schedatura di strati e materiali, strategie di intervento per grandi aree, ecc.), e in riferimento alle necessità operative (ad es., negli scavi di Cala Culip e Grado), l'interesse verso gli aspetti metodologici sembra essere nuovamente di attualità. Le difficoltà relative all'ambiente di lavoro, alla conduzione delle operazioni di scavo e di documentazione e all'ordinata asportazione degli strati e dei materiali archeologici rendono ancora oggi insostituibile l'impiego della "quadrettatura". Si tratta in sostanza di suddividere l'area da scavare in una serie di quadrati uguali (per mezzo di un reticolo rigido o semirigido), singolarmente identificati con lettere e numeri. A tali quadrati si fa riferimento per programmare giornalmente i lavori di scavo in immersione, la documentazione grafica e fotografica, il controllo della provenienza dei materiali archeologici, ecc. Secondo tale sistema gli strati possono essere numerati e scavati uno alla volta ed un quadrato per volta, riconosciuti e asportati secondo superfici reali e seguendo l'ordine inverso a quello in cui si sono formati. Lo stesso ordine può essere seguito per lo svolgimento delle operazioni di documentazione grafica e fotografica. La redazione contestuale del diagramma stratigrafico (matrix) si rivela di estrema utilità per il controllo della sequenza stratigrafica. Il grande numero di dati scientifici prodotto giornalmente da un moderno scavo stratigrafico rende necessario l'allestimento e l'organizzazione coordinata e contemporanea di più cantieri, in mare e a terra. In mare aperto, ad esempio, il cantiere è organizzato in due settori tra di loro interdipendenti: l'imbarcazione appoggio in superficie e l'area di scavo vera e propria sott'acqua. Navi appositamente armate e attrezzate per la ricerca hanno fatto la storia dell'archeologia subacquea (basti pensare alle navi Daino, Cycnus e Cycnulus dell'Istituto Sperimentale di Archeologia Sottomarina e Archéonaute della Direction des Recherches Archéologiques Sous-marines). Spesso si tratta di veri e propri laboratori galleggianti con strumenti ad alto contenuto tecnologico per lo scavo, la ricerca e la sicurezza degli operatori (sorbona, compressori a bassa e alta pressione, telecamere e terminali di linee telefoniche a circuito chiuso, camere iperbariche pluriposto, attrezzature per la fotogrammetria e per la documentazione grafica informatizzata, ecc.), che costituiscono il punto di riferimento logistico di tutti i lavori che si svolgono sul fondo. La complessità di alcuni interventi rende necessaria la presenza, sulla terraferma, di un'ulteriore serie di supporti logistici per la gestione contestuale dei dati e dei materiali archeologici e per la manutenzione delle attrezzature (magazzino/laboratorio per i primi interventi di restauro e per la documentazione dei materiali archeologici; magazzino/officina per il deposito e la manutenzione di strumenti e materiali; centrale operativa di raccolta ed elaborazione dei dati provenienti giornalmente dallo scavo e di preparazione di materiali e programmi per la prosecuzione dell'intervento). Un intervento archeologico condotto correttamente non può presentare carenze, approssimazioni o lacune nella documentazione, sia generale che di dettaglio. Per questo motivo è attualmente adottato un articolato sistema, comprendente un'analitica documentazione per schede di strati e materiali, oltre alla tradizionale documentazione grafica e fotografica. Riguardo alla documentazione grafica, l'utilizzo di moderni programmi di grafica automatizzata CAD (Computer Aided Design) ha permesso che i rilievi effettuati venissero immediatamente trasferiti su computer, ottenendo planimetrie aggiornate generali e di dettaglio rielaborabili e stampabili, relative alle situazioni stratigrafiche e allo stato di fatto delle varie fasi dello scavo (l'impiego dei supporti indeformabili in poliestere consente ormai agli operatori subacquei di disegnare direttamente sott'acqua con gli stessi livelli qualitativi della documentazione di uno scavo terrestre). Le tradizionali riprese con macchine fotografiche subacquee, o poste entro custodie stagne, sono ancora oggi strumento fondamentale della documentazione. Ad esempio, l'unione delle riprese di ogni singolo quadrato di scavo consente la realizzazione di un mosaico fotografico dell'intera area. Ugualmente le foto di dettaglio in cui è evidenziata la stratigrafia sono di estrema utilità per la comprensione delle vicende stratigrafiche del relitto o del sito sommerso in corso di scavo. Lo sviluppo dei sistemi informatici di questi ultimi anni ha inoltre aperto nuove possibilità di gestione, elaborazione e archiviazione delle immagini. Di grande importanza è l'impiego, introdotto e sperimentato già a partire dagli anni Settanta, di un sistema di rilevamento indiretto basato sulla fotogrammetria. Si tratta, in sostanza, di utilizzare coppie di foto stereoscopiche (effettuate con fotocamere metriche che riprendono la stessa porzione di scavo da due punti differenti, posti su uno stesso asse e alla medesima quota) per ottenere, tramite apposite sofisticate apparecchiature di restituzione analitica e analogica, rilievi quotati. Sono attualmente in corso di sperimentazione per l'archeologia subacquea sistemi volti a semplificare ulteriormente le operazioni di ripresa, impiegando fotografie scattate da macchine non metriche e restituite da avanzati strumenti analitici. Di grande utilità, infine, risulta l'utilizzo della documentazione filmata, effettuata con telecamere fisse o mobili. La necessità, largamente condivisa, di fare riferimento a comuni metodi di lavoro si fa particolarmente stringente nel campo degli interventi ad alta profondità, sempre più frequenti ormai, anche in considerazione dello sviluppo di mezzi e tecnologie, che consente agli archeologi subacquei nuove possibilità di indagine. Si notano a questo proposito difformità evidenti, dal punto di vista dell'approccio culturale, nelle finalità e nei metodi di indagine. Ad esempio, un recente intervento (1997) di un gruppo di ricercatori statunitensi nel Canale di Sicilia, effettuato a quote operative di 800 m di profondità, ha evidenziato come, a fronte di un imponente dispiego di mezzi e tecnologie (è stato addirittura impiegato un sommergibile a propulsione nucleare), non sempre corrispondano risultati scientificamente apprezzabili e metodologicamente corretti: da alcuni relitti individuati sono stati indiscriminatamente prelevati anfore e altri oggetti senza alcuna attenzione verso i contesti stratigrafici. Viceversa, in alcuni interventi altrettanto recenti da parte di ricercatori francesi nel Golfo del Leone (relitto Arles 4, a 600 m di profondità), si sono privilegiate le indagini non distruttive nel rispetto dell'integrità dei giacimenti, concentrando l'interesse sugli aspetti della documentazione, mediante l'impiego della restituzione fotogrammetrica assistita dal computer e con interessanti esperimenti di ricostruzione virtuale in tre dimensioni.

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