RICICLAGGIO E REIMPIEGO DI PROVENTI ILLECITI

XXI Secolo (2009)

Riciclaggio e reimpiego di proventi illeciti

Alfonso Maria Stile

Definizione

Il concetto di riciclaggio è tutt’altro che univoco. Anche se in questa sede è escluso ogni riferimento agli svariati oggetti connessi all’etimologia del termine, è lo stesso riciclaggio del prodotto, profitto o provento di attività illecite che si presta almeno a una duplice considerazione, giuridica e metagiuridica.

Esso designa in primo luogo un illecito penale che, in quanto tale, è oggetto della tipizzazione richiesta in funzione del principio di legalità (nullum crimen sine lege) che caratterizza qualsiasi Stato di diritto. Se ci si pone in quest’ottica, la nozione giuridica del delitto di riciclaggio può variare da Paese a Paese a seconda della strutturazione della relativa fattispecie e, in qualche ordinamento, può anche essere assente: si tratta del resto di un reato la cui espressa previsione è relativamente recente.

Emblematica è la storia di questo particolare crimen nell’evoluzione normativa italiana. Esso fu introdotto nel codice penale come figura autonoma (art. 648 bis) fin dal 1978 (art. 3 del d.l. 21 marzo 1978 n. 59, convertito in l. 18 maggio 1978 n. 191), in netto anticipo rispetto ad altri ordinamenti, come specificazione del tradizionale delitto di ricettazione (art. 648 c.p.), in quanto riferito alla sostituzione di banconote frutto dei delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione (il moltiplicarsi dei rapimenti costituì l’occasio legis), rapina aggravata ed estorsione aggravata. Dopo una modifica approvata dalla l. 19 marzo 1990 n. 55, che estendeva i ‘delitti presupposto’ (predicate crimes) a quelli concernenti la produzione e il traffico di stupefacenti, il delitto è pervenuto alla versione attuale con l’art. 4 della l. 9 ag. 1993 n. 328, che ratificava e dava esecuzione alla convenzione del Consiglio d’Europa 8 nov. 1990 n. 141, la quale estendeva ulteriormente i delitti presupposto del riciclaggio.

Il delitto di riciclaggio consiste oggi nella condotta di chi, non avendo partecipato al reato presupposto, «sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione a essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa» (art. 648 bis c.p., 1° co.). Le pene previste sono quelle della reclusione (da quattro a dodici anni) e della multa, aumentate se il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.

All’adempimento degli obblighi internazionali richiamati si ricollega anche l’art. 648 ter c.p. (introdotto con l’art. 5 della citata legge del 1993): nonostante il diverso nomen iuris – Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita –, questa norma prevede la medesima pena del riciclaggio per chi «impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto» (1° co.).

Nel sistema penale italiano il riciclaggio in senso tecnico-giuridico non attiene al solo trasferimento di denaro o di capitali, ma anche a «beni o altre utilità», sul presupposto non già di una loro origine genericamente illecita, bensì derivante da un (qualsiasi) delitto doloso (ossia non colposo, e con esclusione delle contravvenzioni, pure di natura penale, e degli illeciti amministrativi). Il delitto doloso presupposto (predicate crime) dev’essere stato commesso da altri, per cui, allo Stato, è escluso l’‘autoriciclaggio’, ossia la punibilità di chi direttamente provvede a occultare le tracce dei proventi del delitto da lui stesso realizzato in vista dell’eventuale reimpiego.

Se il diritto penale, in funzione dei principi cardine che lo caratterizzano, è costretto al rispetto delle regole della tassatività-determinatezza nella costruzione delle figure delittuose e nella loro interpretazione, analogo vincolo non vale certamente per chi valuta, studia e mira a combattere (in una prospettiva sociocriminologica) il riciclaggio quale fenomeno economico-finanziario patologico.

In questa diversa sfera concettuale, per es., per chi è deputato a scongiurare l’infiltrazione della criminalità economica nei mercati finanziari è del tutto indifferente che a riciclare e a reimpiegare denaro sporco sia lo stesso autore del delitto che ha prodotto l’utile o sia un terzo.

Ancora, il riciclaggio, come tipo di reato contemplato nel codice penale, riceve la principale connotazione negativa dal fatto che l’autore ostacola l’identificazione dell’origine delittuosa del denaro, dei beni ecc.: in funzione, perciò, delle difficoltà che determina nell’individuazione degli autori del delitto presupposto e nel recupero del provento. E così accade che in numerosi casi giurisprudenziali si riconosca il delitto di riciclaggio nell’attività di sostituzione del numero di telaio di autovetture rubate: fatto di modesta rilevanza, specie se rapportato alla pena prevista.

Ben diverso è l’interesse a evitare che, a seguito della ‘ripulitura’ (money laundering), capitali, beni o utilità inquinino o alterino il mercato economico-finanziario, il che può avvenire tanto a livelli circoscritti quanto assai estesi: è solo un riferimento quantitativo che distingue investimenti di limitati capitali di origine illecita nelle stesse località ove sono realizzati gli ingiusti profitti (acquisto di immobili, gestione di esercizi commerciali ecc.), e massicce operazioni finanziarie riferibili alla criminalità organizzata (acquisizione di pacchetti di controllo di grosse società, investimenti ingenti nei Paesi in via di sviluppo ecc.). Ciò che accomuna fatti di diverso impatto è la violazione di regole elementari di mercato: l’investimento di proventi illeciti pone chi lo effettua in una posizione di evidente vantaggio rispetto a chi deve procurarsi in maniera lecita i mezzi finanziari necessari. In questa prospettiva a essere minacciata è senza dubbio la concorrenza, come effetto certo, a monte, della violazione della par condicio, e come esito eventuale, a valle, del metodo criminale di gestione che penalizza e deprime l’imprenditore inserito nel circuito legale. Ciò a tutto beneficio di investitori criminali (ma anche di chi dispone di capitali di origine comunque illecita), la cui potenzialità offensiva è acuita in funzione di prevedibili fenomeni di corruzione, che possono raggiungere livelli elevati e pericolosi, specie in Paesi particolarmente sensibili al rischio.

Orbene, non è che siffatto fenomeno costituisca una novità tale da spiegare l’interesse e l’impegno profuso nei suoi riguardi, specie a livello sovranazionale, solo in epoca recente. La singolarità è data dal concorso di due fattori la cui sinergia ha determinato negli ultimi vent’anni un giustificato e profondo allarme e la conseguente reazione della comunità internazionale, per la loro capacità espansiva e invasiva: la globalizzazione dell’economia e dei mercati finanziari, e la sempre maggiore organizzazione della criminalità.

Globalizzazione dei mercati, criminalità organizzata e transnazionalità

La liberalizzazione dei mercati e la facilità di movimentazione dei capitali sono elementi significativi dello scenario economico contemporaneo: il generale processo di globalizzazione, caratterizzato dallo sviluppo di sempre maggiori possibilità di comunicazione, conseguenti alle sempre più rilevanti innovazioni tecnologiche e informatiche, ha infatti indotto una parallela espansione e internazionalizzazione dei mercati, in primo luogo di quelli finanziari, così da agevolare, anche grazie alla riduzione dei relativi costi, i trasferimenti di capitali connessi a qualsiasi tipo di transazione.

Da tali generali opportunità l’attività di riciclaggio è in grado di trarre notevoli vantaggi, grazie all’utilizzo dei medesimi canali che favoriscono e garantiscono le attività legittime di trasferimento di capitali. L’analisi diacronica del fenomeno evidenzia la rapidità e la radicalità della sua evoluzione: che sia perfino riduttivo segnalare la trasformazione delle tecniche del riciclaggio ‘dal bucato a mano alla lavanderia industriale’, risulta dalla ‘ipertrofia delle opportunità’ di cui dispone il riciclatore, specie se ‘professionale’.

La globalizzazione ha di sicuro indotto risultati positivi nello sviluppo economico mondiale, tuttavia a fianco a questi non possono essere sottaciuti i rischi connessi. Da un lato, infatti, essa ha favorito una straordinaria facilità negli scambi, annullando di fatto i limiti sia spaziali sia temporali, ma, dall’altro, si sono parallelamente diffusi i pericoli di instabilità, anche perché da tutte queste opportunità possono derivare abusi del sistema finanziario tra i quali spicca proprio il riciclaggio.

Contemporaneamente anche la criminalità si struttura in maniera sempre più razionale. Le attività criminali con scopo di lucro, se vengono realizzate in forme organizzate e quasi ‘imprenditoriali’, sono in grado di generare profitti illeciti rilevanti. Il traffico di stupefacenti, i reati di contrabbando di ogni genere, lo sfruttamento della prostituzione (oggi legato ai fenomeni migratori), il racket sistematico, le contraffazioni di prodotti sono rappresentativi dell’evoluzione di forme di criminalità preesistenti, ma oggi di dimensione ed estensione ben maggiori che nel passato. A questi crimini si aggiungono tipologie delittuose appartenenti alla criminalità economica e finanziaria pure in grado di realizzare ingenti profitti e quindi di dar luogo a grosse consistenze illecite.

L’infiltrazione criminale nell’economia costituisce un fenomeno diffuso da tempo. Le organizzazioni criminali che si trovano a gestire ingenti quantità di capitali illeciti sono, in qualche modo, obbligate a investire in parte anche nei circuiti economici e finanziari di carattere legale. Il riciclaggio diviene, pertanto, un passaggio necessitato per tutte le organizzazioni criminali che intendano riutilizzare i proventi delle attività criminose.

Si può dire che un’organizzazione criminale ha, almeno di regola, il precipuo fine di compiere reati che producano proventi economici idonei a mantenere in vita la stessa struttura organizzativa e a permettere, al contempo, il reinvestimento in altre attività, siano esse lecite o illecite. Ovviamente il fenomeno assume dimensioni tanto più ampie quanto maggiore è l’estensione delle organizzazioni criminali coinvolte, alcune delle quali sono ormai capaci di movimentare capitali enormi, di utilizzare intermediari di notevole capacità tecnica, a volte perfino inconsapevoli, di intervenire nelle dinamiche della globalizzazione e contemporaneamente di controllare vaste aree del tessuto produttivo.

Per quanto concerne i settori d’investimento dei proventi illeciti, non è agevole individuare precisi orientamenti. In via di approssimazione, si tratta di tipologie di business che, nel panorama dell’economia legale, consentono di realizzare un’ulteriore redditività e possono risultare – al contempo – al riparo da attenzioni o da specifiche campagne di monitoraggio a opera delle autorità. In base all’esperienza maturata sul campo dagli organi investigativi, oltre al comparto societario, paiono altresì prestarsi ad attività di riciclaggio il settore edilizio (specie mediante la costruzione di complessi immobiliari, di villaggi turistici ecc.), il settore agricolo (gestione di mercati ortofrutticoli, rilevamento di aziende agrarie), la grande distribuzione (ipermercati), il settore dei servizi (catene di alberghi, negozi, ristoranti, palestre ecc.), il gioco d’azzardo.

Se tra i rischi della globalizzazione vi sono quelli di instabilità, forieri di conseguenze sociali e politiche, la possibilità di orientare la destinazione di ingenti capitali di origine illecita acuisce tali rischi, perché non vi è alcuna ragione per ritenere che il riciclatore, spesso professionale, rifugga dalla speculazione.

Non è il caso di esasperare – come non di rado accade – l’incidenza del riciclaggio sull’economia globale, quasi che tutti i capitali inquinati – nel loro insieme di importo certamente elevatissimo – debbano muoversi all’unisono in una certa direzione. Peraltro, circa la reale consistenza del fenomeno, i numerosi e anche approfonditi tentativi di stima non hanno condotto a risultati attendibili. Ciò dipende dai diversi criteri metodologici adottati e fondamentalmente dall’oggettiva confusione tra il riciclaggio, come reimpiego di attività propriamente criminali, e fenomeni diversi, ma in qualche modo simili o collegati, come l’economia sommersa, il traffico di valuta e l’evasione fiscale. Una stima abbastanza realistica dell’entità dei capitali di origine delittuosa disponibile per il reimpiego può forse attestarsi su una misura di circa il 2% del PIL mondiale. E poiché la sempre crescente globalizzazione commerciale e finanziaria offre al riciclaggio occasioni notevoli e tali da potere incidere almeno in settori e in Paesi determinati, anche se si rifugge dall’enfatizzazione, il fenomeno resta di assoluto rilievo economico e non solo criminale: si deve condividere il risultato di uno studio del Fondo monetario internazionale secondo cui i flussi di denaro di origine illecita sono in grado di gravare sulle variabili economiche. Ciò è più che sufficiente a spiegare perché da tempo il riciclaggio sia oggetto dell’interessamento continuo anche di organi e di istituzioni sovranazionali deputati al rispetto di regole finanziarie idonee ad assicurare la correttezza e la trasparenza dei mercati.

Il concetto di riciclaggio, al di là della definizione penalistica, si riferisce al complesso delle operazioni volte a integrare nei circuiti finanziari capitali e beni di origine criminale, occultandone la provenienza; lo strumento per contenere questa forma di criminalità economica e i suoi effetti ulteriori è la capacità di controllare gli spostamenti di somme di denaro e le relative operazioni finanziarie, onde rendere difficili e rischiose quelle illecite e risalire agli autori dei delitti che hanno dato origine a quei proventi.

È evidente che i confini nazionali da tempo non costituiscono più una seria barriera alle operazioni di trasferimento dei capitali; per tale motivo il contrasto al riciclaggio richiede necessariamente una collaborazione internazionale quanto più estesa possibile: se si lasciano varchi è molto probabile che la criminalità, avvalendosi di operatori e consulenti capaci, riesca a sfruttarli. Sono infatti caratteristici della criminalità organizzata il grado notevole di flessibilità e la ‘capacità migratoria’, attraverso rapidi spostamenti con conseguente ricollocazione di risorse laddove le si prospettano occasioni propizie: non è improprio parlare di effetto moltiplicatore dei benefici della criminalità.

Finanziamento del terrorismo

Va ancora precisato che il controllo internazionale sul trasferimento di capitali ha ricevuto un forte impulso a seguito dei tragici eventi di New York dell’11 settembre 2001 e di ciò che ne è seguito, al fine di contrastare il finanziamento delle attività terroristiche.

Beninteso, fatto salvo il trasferimento di capitali, riciclaggio e finanziamento del terrorismo hanno ben poco in comune. Anzi, in linea di massima, si tratta di processi inversi: il riciclaggio mira a legalizzare capitali sporchi, il finanziamento del terrorismo non presuppone capitali di origine illecita, ma la tendenza ad accumulare mezzi economici in funzione delle specifiche attività criminose. Anche sotto il profilo quantitativo i fenomeni sono incomparabili.

Tuttavia, dopo l’11 settembre ci si rese conto, specialmente negli Stati Uniti, che gli strumenti di contrasto fino ad allora elaborati potevano essere utilizzati anche nei riguardi del finanziamento del terrorismo: da quel momento il sistema complessivo di controllo sui trasferimenti di capitali è stato molto rafforzato.

La cooperazione internazionale quale presupposto del contrasto al riciclaggio

Se il riciclaggio costituisce uno dei fenomeni nei quali maggiormente si evidenziano i caratteri della transnazionalità, anche l’attività di contrasto deve assumere un corrispondente carattere sistematico e globale. La cooperazione internazionale nella prevenzione e nella repressione del fenomeno richiede peraltro una propedeutica uniformizzazione di massima delle legislazioni nazionali, a partire da una comune individuazione, se non anche da una precisa definizione, di ciò che si vuole combattere.

È in rapporto a questa prospettiva che vanno segnalati due importanti momenti di avvio, quasi concomitanti, del processo di coordinamento: la Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope (Vienna, 19 dic. 1988, ratificata in Italia con la l. 5 nov. 1990 n. 328) e la Dichiarazione di principi (in calce al documento Prevenzione dell’utilizzo ai fini criminosi del sistema bancario per il riciclaggio di fondi di provenienza illecita) adottata dal Comitato di Basilea (Basel committee on banking supervision) il 12 dic. 1988.

Mentre la Convenzione di Vienna fondava per la prima volta l’obbligo di criminalizzare il riciclaggio – ed è questa la sua rilevanza storica – sia pure con riferimento ai proventi dei soli reati relativi alla produzione, trasporto e commercio di stupefacenti, la Dichiarazione di Basilea, sebbene priva di forza giuridicamente vincolante, ha avuto il merito di segnalare alcune linee guida che hanno costituito il cardine di una politica criminale sovrastatuale di contrasto al riciclaggio. Invero il Comitato di Basilea è costituito dai rappresentanti delle banche centrali dei più importanti Paesi dell’Occidente, in grado pertanto di valutare il fenomeno con riferimento al settore più esposto – quello, appunto, degli istituti bancari – e di orientare altri organismi internazionali corrispondenti. Nella Premessa del documento di Basilea si prendeva atto che il sistema bancario si presta a operazioni relative a fondi di origine criminale; si evidenziava la necessità sia di un’ampia cooperazione internazionale, sia del coinvolgimento delle banche nella prevenzione; si dava atto che alle autorità di vigilanza nazionali competesse il controllo sulla corretta gestione da parte degli istituti, anche in funzione della fiducia del pubblico nel sistema bancario. Le indicazioni che ne seguivano attenevano ai doveri delle banche di identificazione della clientela, di rifiuto di operazioni sospette, di collaborazione con le autorità giudiziarie e di polizia, di adozione di procedure di controllo efficaci.

Successivamente, tali principi, ampiamente convalidati, sono stati ulteriormente affinati a cura dello stesso Comitato di Basilea; ma intanto l’impegno della comunità internazionale andava assumendo una portata più ampia, non limitando l’attenzione al solo settore bancario, né al solo traffico di stupefacenti.

Nei due ultimi decenni si è registrata un’intensa attività internazionale diretta all’approfondimento sempre maggiore delle caratteristiche e delle dinamiche del fenomeno, nonché dell’integrazione degli strumenti di contrasto, compresi ovviamente i presupposti giuridici.

Fondamentale è stato l’impulso fornito dalla FATF (Financial Action Task Force), o GAFI (Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale), costituita nel 1989 a Parigi su iniziativa dei ministri finanziari del G7, con il compito di coordinare l’attività di contrasto al riciclaggio. Come si vedrà meglio nel prosieguo (v. La strategia di contrasto del riciclaggio: il GAFI), le indicazioni del GAFI, seppur prive di diretta efficacia giuridica, sono state in gran parte recepite in atti internazionali per poi transitare nel diritto interno degli Stati. Così esse hanno ispirato, per es., le direttive 2005/60/CE (concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo) e 2006/70/CE (che ne reca misure di esecuzione), che a loro volta hanno trovato attuazione in Italia nel d. legisl. 21 nov. 2007 n. 231, il quale compendia il sistema di prevenzione in maniera molto articolata. L’art. 2 di questo decreto, per assicurare l’uniformità del concetto, fornisce una definizione analitica del riciclaggio.

«1. Ai soli fini del presente decreto, le seguenti azioni, se commesse intenzionalmente, costituiscono riciclaggio:

a) la conversione o il trasferimento di beni effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni;

b) l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movimento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività;

c) l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività;

d) la partecipazione ad uno degli atti di cui alle lettere precedenti, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto di agevolarne l’esecuzione.

2. Il riciclaggio è considerato tale anche se le attività che hanno generato i beni da riciclare si sono svolte nel territorio di un altro Stato comunitario o di un Paese terzo.

3. La conoscenza, l’intenzione o la finalità, che debbono costituire un elemento degli atti di cui al comma 1, possono essere dedotte da circostanze di fatto obiettive».

Collocamento, stratificazione, integrazione

Circoscritto il comune concetto giuridico di riciclaggio, quantomeno a livello europeo, senza trascurarne le persistenti ambiguità, occorre di seguito focalizzarne la fenomenologia.Il processo attraverso cui si svolge l’attività di riciclaggio può distinguersi sinteticamente nella ripulitura del denaro o degli altri beni, onde ostacolare l’identificazione dell’origine illecita (money laundering), e nell’impiego dei beni ripuliti in attività economiche o finanziarie legali (recycling).

Tuttavia l’analisi più recente del fenomeno, che tiene conto della crescita esponenziale delle opportunità di cui dispone il moderno riciclatore e della maggiore complessità delle operazioni, ha suggerito la sostituzione del tradizionale modello bifasico con uno trifasico.

La prima fase è costituita dal ‘piazzamento’ o ‘collocamento’ (placement) dei proventi illeciti nel mercato interno o internazionale. Si tratta di allontanare il denaro o i beni di origine delittuosa dallo scenario del crimine, fornendo loro una collocazione provvisoria che renda difficoltoso individuarne l’origine e ne consenta la successiva pulitura. Tra le operazioni funzionali allo scopo si possono annoverare lo stesso trasporto fisico, magari all’estero, utilizzando i tradizionali ‘spalloni’, così com’è possibile il ricorso a sistemi di pagamento elettronici, a depositi (magari frazionati) presso banche, all’acquisto di opere d’arte o di preziosi. È ovvio che già le operazioni relative a questa fase possono essere favorite da banche, intermediari finanziari, commercianti o professionisti.

La seconda fase, della ‘stratificazione’ (layering), consiste nell’assicurare alla ricchezza provvisoriamente collocata una copertura tale da legittimarne, in apparenza, la provenienza e l’appartenenza. Essa è particolarmente importante se il riciclaggio riguarda valori rilevanti. Le operazioni di layering sono spesso sofisticate e complesse: trasferimenti internazionali di fondi, operazioni societarie in Paesi off-shore, transazioni simulate eccetera. La stratificazione consiste nella scansione dei trasferimenti mediante una serie di operazioni commerciali e finanziarie volte a far perdere le residue tracce documentali che possano ricondurre all’origine illecita dei fondi (paper trail). È essenziale il ricorso a prestazioni fornite da professionisti specializzati, da istituti bancari o da altri tipi di intermediari, specie se situati in Paesi caratterizzati da una legislazione permissiva.

La terza fase, dell’‘integrazione’, consiste nel reimpiego dei proventi ripuliti, spesso aggregati a capitali di origine lecita (commingling), nei circuiti economico-finanziari legali; a titolo di esempio, acquisendo immobili, attività commerciali o industriali, azioni spesso intestate a prestanomi. Poiché le operazioni economiche svolte in quest’ultima fase avvengono con l’utilizzo di denaro e beni ormai dotati di apparente legittimazione, è estremamente difficile risalire all’originaria provenienza illecita.

Il trasferimento di capitali illeciti

Non v’è dubbio che l’aspetto di maggiore rilievo e che determina le più forti preoccupazioni per la tenuta del sistema economico-finanziario legale sia quello degli spostamenti di capitali e delle relative modalità. Le tecniche adottate sono le più varie e non si prestano ad alcuna precisa classificazione. Va solo messo in evidenza che le possibilità che oggi si aprono al trasferimento di capitali, e quindi al riciclaggio, si aggiungono a quelle tradizionali senza sostituirle.

Il settore è caratterizzato da esigenze collidenti: l’opportunità dei controlli sui capitali circolanti, proprio in funzione del contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, non deve costituire un intoppo eccessivo (e antistorico) alla libera circolazione dei beni oramai consolidata a livello globale. Tuttavia più ampie sono le possibilità tecniche emergenti, connotate da agilità e sicurezza, maggiore è la capacità di utilizzo delle stesse a opera dei riciclatori, specie professionali.

Deve anche considerarsi che tra i capitali di legittima provenienza e quelli oggetto di riciclaggio esiste un’estesissima zona grigia, costituita da tutti quelli derivanti dall’evasione fiscale o da attività in sé non illecite, ma svolte in nero. Si tratta di uno degli scogli più insidiosi nel contrasto al riciclaggio, specie con riferimento all’utilizzo dei paradisi fiscali, che costituiscono sì un rifugio all’eventuale eccessiva esosità del fisco nazionale (tax heaven), ma che si prestano, proprio per la legislazione permissiva e la scarsità dei controlli operati in determinati Paesi, anche a una strumentalizzazione assolutamente criminale.

Senza pretesa di completezza si possono classificare alcuni stadi che hanno caratterizzato il trasferimento dei capitali illeciti, specie se di origine criminale.

Lo stadio sorpassato del riciclaggio monetario, risalente agli anni Sessanta e Settanta del 20° sec., si caratterizzava per la movimentazione materiale del denaro liquido, in base alla massima pecunia non olet: in assenza di stringenti divieti, non risultava difficile depositare capitali presso banche, anche in un Paese diverso, e in tal modo renderne facile il reimpiego. Non a caso la prima diffusa risposta dei sistemi normativi statuali ebbe a oggetto il divieto di effettuare operazioni per contanti al di là di determinati importi. Oggi costituisce regola generale di contrasto al riciclaggio la drastica riduzione dell’uso di contanti per qualsiasi tipo di transazione di elevato rilievo economico. Ovviamente ciò ha reso più difficile, ma non ha certo impedito, la circolazione di liquidità monetaria di origine illecita, dato che non mancano circuiti caratterizzati dall’uso di contante, i quali vengono agevolmente utilizzati dai riciclatori.

Contraddistingue specialmente gli anni Ottanta il riciclaggio bancario agevolato dal segreto bancario, dalla riduzione delle misure restrittive alla circolazione dei capitali e dalla molteplicità degli strumenti disponibili. La risposta, sulla base della Dichiarazione di Basilea e delle indicazioni del GAFI, è stata la progressiva eliminazione del segreto bancario, l’introduzione del principio, inizialmente di soft law, della valutazione dei clienti (know your customer) e la regola, inizialmente deontologica, ma seguita da specifiche norme giuridiche e ora anche presidiata da sanzioni penali, della segnalazione di operazioni sospette. Sicché, oggi, a livello di istituzioni bancarie, il riciclatore in senso lato ha bisogno di collusioni.

La terza fase, quella del riciclaggio finanziario, si avvale dell’intermediazione societaria: società di intermediazione mobiliare, fiduciarie, holding e così via, vengono a costituire la sponda principale specie per il placement e il recycling. Le regole di contrasto già sperimentate in relazione alle istituzioni bancarie vengono estese, mutatis mutandis, agli altri intermediari, senza peraltro un’analoga capacità di impatto.

Segue, da ultimo, il riciclaggio extrafinanziario che richiede l’intervento di professionisti del settore forniti di adeguata conoscenza dei sistemi legali e in grado di eludere norme sempre più rigorose. Essi possono avvalersi di soggetti estranei alla categoria degli intermediari finanziari, come i fornitori di servizi di infrastrutture, che consentono di utilizzare sistemi di pagamento innovativi.

L’aumento del rischio e quindi del costo delle operazioni di riciclaggio ha fatto sì che sia emersa una figura di riciclatore professionale, un tipo d’autore appartenente per lo più alla categoria dei white collars, che può operare tanto come ‘libero professionista’ quanto come esponente di una criminalità economica organizzata e altamente specializzata.

La cancellazione del paper trail e la fittizia legittimazione dell’origine del denaro costituiscono l’attività del riciclatore, che si avvale, a seconda delle circostanze e delle occasioni, delle svariate possibilità che gli vengono offerte. È (anche) con questa figura che devono misurarsi le autorità deputate al contrasto del fenomeno del riciclaggio nella ricerca dei proventi delittuosi e nel tentativo di limitare l’inquinamento dei mercati.

I mezzi di pagamento

È opportuno segnalare alcune delle più comuni e delle più recenti modalità di spostamento di capitali, in sé lecite, nelle quali si inseriscono le attività illecite. Gli strumenti di pagamento più utilizzati (certamente in Italia) restano quelli tradizionali: contanti, assegni, bonifici e carte di pagamento.

A parte le operazioni in contante, vietate oltre determinati importi, gli assegni (bancari e circolari) sono i mezzi più comuni. Gli assegni, se superiori a certi importi, devono recare oggi l’indicazione del beneficiario e la clausola di intrasferibilità: l’omissione, attesa la possibilità di rifiuto del mezzo di pagamento irregolare, fa sorgere un obbligo di segnalazione da parte delle aziende di credito.

I bonifici sono andati acquistando sempre maggiore importanza come mezzo di pagamento seriale (retribuzioni, utenze ecc.) e, per ciò che qui interessa, per le transazioni con l’estero. Analogamente a quanto avviene per gli assegni, a questi ordini di accredito corrispondono obblighi di identificazione dei soggetti e di registrazione delle operazioni.

Un sistema fortemente diffuso in tutto il mondo, che consente il rapido spostamento di fondi da un Paese all’altro, e quindi anche in quelli dove i regimi di vigilanza sono meno rigidi, è costituito dai money transfers. Essi si articolano in una struttura costituita da una società centrale e da una serie di società satellite che operano nel territorio di diversi Paesi (agents); queste agenzie, a loro volta, si avvalgono di una rete di subagenti che coprono il territorio, assicurando l’invio e il ritiro dei fondi oggetto di trasferimento.

Il money transfer si serve di un sistema informatico che trasmette ordini di pagamento dalla località dove ha luogo il versamento alla centrale. Il beneficiario viene edotto dall’ordinante di un numero segreto che gli consente il ritiro dei fondi in qualsiasi agenzia. Non dappertutto il ritiro di somme in contanti è condizionato all’identificazione del prenditore. Periodicamente, tra le varie componenti della struttura, ha luogo il regolamento del saldo debitore e creditore attraverso normali canali bancari.

Com’è noto, questo sistema trova largo impiego tra gli emigrati che se ne avvalgono per inviare i risparmi nei Paesi d’origine in ragione della velocità del servizio offerto, dell’agevole accesso anche per chi non ha riferimenti bancari e della sua diffusione capillare. Il volume dei trasferimenti è particolarmente elevato, soprattutto se si considera che ha per oggetto operazioni transnazionali. Esso si presta ovviamente anche all’utilizzo da parte della criminalità individuale, organizzata e di natura terroristica. A questo rischio si può ovviare, almeno parzialmente, mediante la valutazione dei requisiti degli agenti, che sono considerati intermediari finanziari, nonché esigendo il rispetto degli obblighi di identificazione, registrazione e segnalazione.

Non appartenenti alla nostra tradizione, ma certamente diffusi oggi anche in Europa a seguito dell’ampiezza dei flussi migratori, sono i circuiti finanziari informali, fondati sulla segretezza e sulla fiducia personale tra l’operatore finanziario e il cliente, e caratterizzati dall’anonimato e dall’assenza di registrazioni. Il più noto, di origine orientale, è l’hawalah, termine che fa riferimento appunto alla fiducia. Esso riproduce, infatti, in maniera rudimentale i sistemi di money transfer internazionali. Sennonché gli operatori in tal caso sono del tutto clandestini – tanto che si parla di underground banking – e consentono di trasferire denaro o controvalore a un soggetto che si trova all’estero senza alcuna formalità e quindi senza alcuna possibilità di controllo da parte delle autorità dei Paesi coinvolti: chi desidera operare una rimessa deposita presso un hawaladar (o hawalador) la somma da trasferire, ricavandone un chit (una sorta di ricevuta), grazie al quale il beneficiario ritirerà il controvalore al netto della commissione presso l’agente-corrispondente del suo Paese. I rapporti di dare e avere vengono definiti periodicamente mediante compensazioni.

L’hawalah presuppone la capacità del banchiere underground di smaltire il denaro ricevuto grazie a false attività di import-export, all’uso di carte prepagate e così via. Questo sistema è ritenuto diffuso specialmente nell’ambito del finanziamento di attività terroristiche.

A fronte di architetture ancora primitive, tra gli strumenti di pagamento innovativi funzionali alla globalizzazione dei mercati e alle possibilità di utilizzo di tecnologie informatiche, va ricordata la ‘moneta elettronica’, definita dalla direttiva 2000/46/CE (art. 1, 2° co., lett. b), «valore monetario rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia: I) memorizzato su un dispositivo elettronico; II) emesso dietro ricezione di fondi il cui valore non sia inferiore al valore monetario emesso; III) accettato come mezzo di pagamento da imprese diverse dall’emittente».

Gli IMEL (Istituti di Moneta Elettronica) sono abilitati dalle direttive comunitarie a emettere moneta elettronica e sono soggetti alla vigilanza delle banche centrali. In Italia gli IMEL sono annoverati tra gli enti creditizi disciplinati nel Testo unico bancario e sono soggetti alla vigilanza della Banca d’Italia che ha dettato specifiche norme di comportamento.

Il rischio insito in questo strumento è costituito dal potenziale anonimato delle transazioni effettuate su reti aperte e con l’impiego di tecniche di criptazione che determinerebbero la non rintracciabilità delle transazioni stesse e, ai fini del riciclaggio, l’impossibilità di individuare sia il Paese da cui è partito l’ordine dell’operazione, sia quello destinatario del flusso monetario.

Le operazioni di copertura

Gli svariati sistemi di trasferimento di somme utilizzati per il riciclaggio si coniugano con altrettante operazioni che fittiziamente ne consentono un’apparente copertura.

È ben nota la tradizionale tecnica delle false fatture, che possono avere per oggetto operazioni del tutto inesistenti ovvero operazioni per importi superiori o inferiori a quelli effettivi (sovra o sottofatturazione). L’illecito tributario, che è la funzione tradizionale di tali attività, può essere altresì il mezzo attraverso il quale si fornisce copertura a ingenti spostamenti di denaro di origine delittuosa.

Il loan back è uno strumento analogo, ma più articolato: mediante una pratica di finanziamento, di per sé regolare, un soggetto giuridico si indebita e acquisisce liquidità, rilasciando le garanzie richieste grazie all’intervento di un terzo costituito da un’istituzione bancaria o finanziaria estera depositaria dei fondi di origine illecita. Quando il debito non viene onorato, l’erogatore del finanziamento escute la garanzia, ma la soluzione avviene mediante l’utilizzo dei fondi di provenienza illecita.

Si è già accennato al commingling, vale a dire alla confusione di fondi illeciti con fondi leciti: tali operazioni risultano agevolmente realizzabili nel caso in cui un’organizzazione criminale abbia il controllo di un’impresa che operi sul mercato e funga da copertura. Ovviamente tale tecnica si atteggia in maniera diversa a seconda del ramo di attività che l’impresa svolge e del Paese (o dei Paesi) in cui opera.

Come si è già fatto cenno, frequente è la costituzione di società di comodo, preferibilmente allocate in Paesi a legislazione permissiva (o off-shore), alle quali è più facile fare affluire denaro sporco. Grazie ai mezzi così ottenuti, le società possono acquisire direttamente beni immobili o partecipazioni che in tal modo risultano appartenenti a persone giuridiche di diritto estero. Tuttavia, atteso che le società che hanno sede in Paesi notoriamente qualificati come paradisi fiscali o finanziari sono intrinsecamente sospette, i riciclatori possono interporre ulteriori e distinte società, site in Paesi con migliori credenziali, che, finanziate dalle prime, effettuano gli investimenti.

Più in generale tutte le ‘compensazioni internazionali’ che evitano il transito monetario, rendono difficile risalire all’origine dei fondi utilizzati.

La strategia di contrasto del riciclaggio: il GAFI

La sintesi dell’attività di contrasto al riciclaggio e della sua evoluzione dal momento in cui la comunità internazionale ha avuto modo di focalizzare la rilevanza del fenomeno, trova il migliore riferimento nell’opera svolta dal già citato GAFI.

Nato quasi informalmente, con finalità e obiettivi temporanei e limitati, il GAFI si è conquistato sul campo un ruolo quasi istituzionale di contrasto al riciclaggio; ha sede presso l’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development), di cui utilizza le strutture. Il mandato in origine decennale è stato più volte rinnovato (per ora fino al 2012).

In esecuzione del primo mandato, il GAFI emise 40 raccomandazioni, pubblicate per la prima volta nel febbraio 1990 e successivamente aggiornate nel 1996 e ancor più nel 2003. Le raccomandazioni, pur in assenza di una legittimazione formale del GAFI, hanno avuto un’incidenza fondamentale nell’evoluzione normativa internazionale, tradottasi in misura notevole in quella dei singoli Stati relativamente alla prevenzione e repressione del riciclaggio. Come si è avuto modo di anticipare, le raccomandazioni hanno ispirato la terza direttiva antiriciclaggio 2005/60/CE.

A seguito degli attentati terroristici del settembre 2001, il GAFI ha visto ampliare la sfera delle proprie competenze con riferimento al contrasto del finanziamento del terrorismo: di qui 9 nuove raccomandazioni, volte alla rilevazione, prevenzione e repressione degli atti terroristici e del loro finanziamento.

Il GAFI verifica inoltre i sistemi di controllo dei trasferimenti di capitali e di beni nei Paesi aderenti (attualmente 34 tra Stati membri dell’OECD e altri). A esso, in qualità di osservatori, aderiscono inoltre numerosi organismi internazionali, tra i quali il Consiglio d’Europa, il Fondo monetario internazionale, la Banca dei regolamenti internazionali, la Banca mondiale, l’Interpol.

La ragione del rilievo dell’azione del GAFI deriva, oltre che dalla validità delle metodologie di valutazione adottate, anche dalla struttura informale che gli consente di affrontare, senza pastoie burocratico-internazionali, il problema del riciclaggio nella sua effettiva dimensione globale: paradossalmente il GAFI si è potuto impegnare a promuovere in piena libertà d’azione tutte le iniziative opportune senza confini e quindi ad architettare una rete antiriciclaggio globale, anche con riferimento ai Paesi non aderenti e perfino ai Paesi non cooperativi.

Le periodiche approvazioni da parte di governi e di organizzazioni internazionali autorevoli conferiscono a posteriori un importante fondamento politico-giuridico alle sue determinazioni. Si può affermare, pertanto, che le linee giuridiche e operative della politica antiriciclaggio a livello mondiale sono quelle segnate, aggiornate e portate avanti dal GAFI. Ne costituisce esempio significativo la convenzione del Consiglio d’Europa 16 maggio 2005 n. 198, che aggiorna nei contenuti la citata convenzione 8 nov. 1990 n. 141.

Le prime 40 raccomandazioni del GAFI compendiano le misure atte a prevenire e reprimere il riciclaggio che tutti i Paesi sono espressamente invitati ad adottare. Esse riconoscono realisticamente l’impossibilità che gli Stati possano avvalersi di misure identiche, attese le profonde differenze giuridiche, economiche e finanziarie che connotano ciascuno di essi. Perciò tendono a porre dei principi ai quali ogni Stato possa poi uniformarsi in armonia con le proprie caratteristiche. Le linee guida attengono a tutti i settori interessati: giuridico, finanziario, amministrativo, di polizia e di cooperazione internazionale.

Senza pretesa di completezza, è opportuno evidenziare i principali contenuti delle raccomandazioni.

Preliminarmente è segnalata la necessità che ogni Paese consideri reato il riciclaggio, limitando al massimo l’esclusione dei reati-presupposto (predicate crimes). Viene invocata l’effettività delle risposte sanzionatorie, fornendo indicazioni, addirittura, sulle modalità di accertamento (nello Stato di diritto, peraltro, sono inderogabili alcuni principi fondamentali, quali la presunzione di non colpevolezza e l’onere della prova).

Accanto alla responsabilità individuale delle persone fisiche è assai caldeggiata anche la responsabilità delle persone giuridiche.

La confisca del provento del riciclaggio, anticipata in via cautelare dal sequestro, salvi i diritti dei terzi in buona fede, deve essere considerata sanzione ineludibile per questo reato.

Un altro gruppo di raccomandazioni ha come destinatarie le istituzioni finanziarie: si parte dal principio che le disposizioni di legge sul segreto bancario non devono impedire l’applicazione delle raccomandazioni stesse. In primo luogo non possono essere consentiti conti anonimi o palesemente intestati a prestanome. L’onere di identificazione del vero titolare del rapporto diventa maggiormente pressante quando vi sia sospetto circa l’origine illecita dei fondi o la loro destinazione ad attività terroristiche. L’identificazione della clientela (committente) deve avvenire mediante l’utilizzo di un’adeguata documentazione; si richiede inoltre l’individuazione dei beneficiari delle transazioni e della natura del rapporto sottostante. Se l’istituto finanziario non è in grado di effettuare tale accertamento deve astenersi dalle relative operazioni.

Particolare attenzione devono prestare le banche a soggetti determinati («personaggi politicamente esposti») e ai rapporti transfrontalieri, essendo richiesta la verifica dell’affidabilità dell’istituto corrispondente circa il rispetto delle medesime regole (identificazione, valutazione ecc.). Un ulteriore onere, a carico degli istituti, concerne l’aggiornamento circa le tecniche del riciclaggio e lo sviluppo di procedure in grado di individuare specifici rischi: le transazioni inusuali, prive di un’evidente causale economica, devono essere attentamente valutate. Infine gli elementi riconoscitivi di clienti e transazioni devono essere conservati per almeno cinque anni.

Gli oneri gravanti sulle istituzioni finanziarie sono stati poi estesi ad altri soggetti – gestori di casinò, agenti immobiliari, commercianti di metalli e pietre preziose, liberi professionisti – in rapporto a determinate attività, anche non propriamente finanziarie.

Se la sezione delle raccomandazioni da ultimo esaminata, nel caricare a soggetti privati determinati oneri può dar luogo a qualche (sopportabile) difficoltà, quella relativa alla «comunicazione delle transazioni sospette» è certamente la più complessa e problematica.

La raccomandazione 13 prevede che qualora un istituto finanziario sospetti o abbia ragione di sospettare l’origine illecita di capitali (o la loro destinazione al finanziamento del terrorismo) sia tenuto a rapportare i sospetti alle FIU (Financial Intelligence Units; in italiano UIF, Unità di Informazione Finanziaria).

Le UIF sono strutture regolamentate in Europa a livello comunitario e come tali introdotte negli Stati membri in funzione di ‘unità nazionale centrale’, responsabile per la raccolta e l’elaborazione dei dati necessari alla lotta contro il riciclaggio. È stata proprio la raccomandazione del GAFI a imporre questo organismo statuale centralizzato, prima a livello di convenzioni internazionali, poi di decisioni del Consiglio dell’Unione Europea e infine con l’adozione della già citata terza direttiva antiriciclaggio. In Italia il d. legisl. 21 nov. 2007 n. 231 definisce l’UIF «l’unità di informazione finanziaria cioè la struttura nazionale incaricata di ricevere dai soggetti obbligati, di richiedere, ai medesimi, di analizzare e di comunicare alle autorità competenti le informazioni che riguardano ipotesi di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo» (art. 1, lett. z).

La mancata istituzione dell’UIF in un determinato Paese rappresenta un indice di non cooperazione nella lotta al riciclaggio: dal 2003 la presenza delle UIF è uno degli standard di valutazione dei singoli Stati. A livello internazionale la diffusione di tali unità ha dato luogo a una collaborazione inizialmente spontanea che nel 1995 ha portato alla nascita di un’ulteriore organizzazione denominata Gruppo Egmont (dal nome del palazzo di Bruxelles dove si è svolto l’incontro che ha deciso la sua creazione).

L’obbligo di segnalare le operazioni sospette, che si estende anche agli altri soggetti destinatari dei doveri di accertamento e verifica, esime da qualsiasi responsabilità per violazione del segreto di ufficio (fatto salvo il segreto professionale) e inibisce dall’informare i clienti delle segnalazioni che li riguardano.

Un ulteriore gruppo di raccomandazioni si rivolge agli Stati, i quali sono tenuti ad assicurare mediante strumenti sanzionatori che le direttive vengano rispettate dai destinatari, a fornire di mezzi adeguati l’agenzia centrale (cioè l’UIF), a incoraggiare tecniche moderne di gestione dei capitali meno vulnerabili al rischio di riciclaggio (per es., transazioni con assegni, carte di credito, accrediti diretti ecc.).

Particolare importanza rivestono le misure da adottare verso quei Paesi che non hanno recepito adeguatamente le raccomandazioni: un rifugio, altrimenti, quasi sicuro per gli addetti alle attività di riciclaggio, specie professionali, e una falla nel sistema di contrasto. Quest’ultimo deve reagire imponendo una tecnica di accerchiamento tale da rendere molto difficile l’attività che transita per simili siti. Le operazioni, gli istituti finanziari e le persone collegate con questi Paesi sono considerati sospetti in sé; le transazioni richiedono una causale scritta; gli Stati possono adottare contromisure adeguate; gli istituti finanziari devono pretendere dalle consociate di cui hanno il controllo e che operano in quei Paesi il rispetto delle raccomandazioni GAFI, e se l’ordinamento interno non lo consente devono darne comunicazione.

La formazione di una black list si è successivamente rivelata uno strumento molto efficace per contenere il numero di Paesi inosservanti.

Altre raccomandazioni, rivolte agli Stati, concernono i doveri di vigilanza nei confronti degli istituti finanziari e dei loro regolamenti, nonché l’adozione di misure idonee a impedire che criminali o loro associati assumano il controllo delle holding o dei soggetti posti ai vertici degli istituti. Analoghe misure di controllo vengono raccomandate per i casinò.

Ancora, più in generale, le autorità competenti dovrebbero predisporre linee guida per gli istituti finanziari e per gli altri operatori al fine precipuo di combattere il fenomeno del riciclaggio e del finanziamento al terrorismo.

Un’ulteriore serie di raccomandazioni è di natura pratica: dalla costituzione delle UIF, in grado di ottenere un quadro complessivo e aggiornato della situazione, alla necessità di tecniche investigative penetranti, all’adeguatezza delle risorse, al coordinamento delle autorità nazionali deputate a combattere il fenomeno; infine, allo sviluppo di statistiche relative alle indagini, ai procedimenti, ai sequestri e alle confische, da rendere disponibili anche sul piano della collaborazione internazionale.

Ed è proprio alla cooperazione internazionale che sono dedicate le ultime raccomandazioni, dando per acquisita la transnazionalità del fenomeno. Richiamate le convenzioni internazionali di Vienna sugli stupefacenti, di Palermo sul crimine organizzato, delle Nazioni Unite sulla lotta al finanziamento del terrorismo, si propugnano l’implemento della collaborazione sia nella fase investigativa sia in quella processuale, la garanzia di reciproca assistenza, anche ove manchi la ‘doppia incriminazione’ della condotta, la rapidità delle risposte alle richieste di assistenza, l’estradabilità del cittadino autore di riciclaggio all’estero. Più sintetiche, ma analoghe le 9 raccomandazioni speciali relative alla lotta al fenomeno del terrorismo.

L’evoluzione delle 40 raccomandazioni del GAFI evidenzia alcune caratteristiche, dovute certamente al riconoscimento ampiamente ottenuto fin dalla prima versione e al progressivo consolidarsi delle conoscenze acquisite sul campo grazie alla sempre più estesa ed efficace organizzazione promossa. La legittimazione ricevuta e una raggiunta consapevolezza e comunanza di strategie, non solo all’interno dei Paesi aderenti al GAFI, hanno determinato una caratterizzazione più marcatamente precettiva, nonché una maggiore specificità nella segnalazione degli obblighi che gli Stati sono tenuti a rispettare.

Inoltre sono da sottolineare i già menzionati obblighi di prevenzione, posti a carico di un’ampia serie di soggetti non finanziari sulla base del riscontro di un frequente coinvolgimento di costoro nelle attuali tipologie di riciclaggio. Queste prescrizioni, coinvolgendo categorie professionali non (necessariamente) in possesso di adeguati strumenti di valutazione del rischio, diversamente dagli operatori finanziari, possono dare luogo a non pochi inconvenienti che la dottrina penalistica non ha mancato di evidenziare.

Si è accennato alla formazione del Gruppo Egmont, nato spontaneamente come punto d’incontro delle UIF nazionali. La sua competenza è di natura prettamente finanziaria, quindi più specifica rispetto a quella del GAFI. Pur essendo un organismo internazionale di natura informale, anche il Gruppo Egmont ha ottenuto riconoscimenti di cui resta traccia nelle fonti di rilevanza internazionale; sono oltre un centinaio i Paesi che hanno istituito le UIF conformandosi agli standard suggeriti. Del resto la rilevanza transna-zionale del riciclaggio finanziario spiega come sia indispensabile la cooperazione tra le unità nazionali nell’ottica del reciproco scambio di informazioni e di esperienze.

La struttura organizzativa del Gruppo Egmont è costituita dall’assemblea plenaria annuale (plenary meeting), cui partecipano non solo le UIF membri, ma anche le unità che si propongono per l’adesione e altri organismi impegnati nel contrasto al riciclaggio; dalla parallela assemblea dei direttori delle UIF, che prende le decisioni (come la cooptazione di nuove UIF); dal comitato direttivo (Egmont committee); dai gruppi di lavoro permanenti con competenza sull’area giuridica, sulla formazione del personale delle UIF, sul supporto alle nuove UIF, sulla cooperazione operativa e sull’informazione tecnologica.

Se le singole UIF sono indispensabili per l’analisi e la valutazione delle operazioni finanziarie sospette, in una posizione diversa rispetto alle autorità di vigilanza e agli organi investigativi, il Gruppo Egmont, valorizzando la collaborazione tra le UIF, anche sotto il profilo metodologico, ricercando e segnalando regole comuni per lo scambio di informazioni, svolge un ruolo ritenuto a ragione fondamentale, perché tende a superare l’altrimenti inevitabile fragilità e frammentarietà delle conoscenze che lascia ampi spazi all’attività dei riciclatori professionali.

Lo stato attuale della legislazione italiana

La recente evoluzione della normativa italiana è caratterizzata dal citato d. legisl. 21 nov. 2007 n. 231.

Questo testo, alquanto complesso e che consta di ben 68 articoli, sostituisce, abrogandolo, il precedente e più frammentario sistema normativo, e mira ad adeguare l’ordinamento italiano ai principi comuni di prevenzione dei fenomeni del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo. Come si è accennato, esso non tocca, almeno in via diretta, le figure tipiche di delitto previste dal codice penale agli artt. 648 (ricettazione), 648 bis (riciclaggio) e 648 ter (impiego), ma mira a quella ‘omogeneizzazione’ a livello europeo, ma non solo, del sistema di prevenzione, ritenuta indispensabile ai fini del contenimento del fenomeno. Ciò è comprovato da una lunga serie di definizioni contenute nell’art. 1, e, come anticipato, addirittura da una definizione ad hoc del riciclaggio.

Ai fini indicati, dunque, il legislatore ha introdotto una figura con caratteristiche di tipo casistico, proprio per impedire che fatti (di ricettazione o di favoreggiamento) non qualificabili tecnicamente come riciclaggio potessero essere esclusi dal sistema preventivo. Sembra inoltre affievolita in questo testo normativo l’esclusione dell’autoriciclaggio.

Il sistema è impostato sul concetto di customer due diligence. Alle definizioni segue un’elencazione molto analitica dei soggetti destinatari degli obblighi che ciascuna categoria deve rispettare e delle modalità di adempimento. Particolarmente problematico è il contenuto dell’art. 20 (Approccio basato sul rischio) che richiede ai soggetti obbligati una verifica della clientela commisurata «al rischio associato al tipo di cliente, rapporto continuativo, prestazione professionale, operazione, prodotto o transazione». A ciò si aggiunge l’onere di dimostrare alle autorità competenti che «la portata delle misure adottate è adeguata all’entità del rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo» sulla base di parametri generali e specifici.

Viene sancito l’obbligo di astensione per gli operatori che non siano in grado di rispettare gli obblighi di verifica della clientela, che possono essere, a seconda dei casi, semplificati o rafforzati. Sono previsti obblighi di registrazione e di segnalazione dai quali discende la disciplina della circolazione dei flussi informativi tra le autorità interessate al fenomeno.

Gli organi di controllo delle società sono a loro volta tenuti a comunicare alle autorità di vigilanza le violazioni di cui siano venuti a conoscenza.

Da rimarcare che la violazione degli obblighi contemplati dal citato decreto legislativo è sanzionata penalmente.

La Banca d’Italia, al pari delle altre banche centrali, ha la responsabilità della vigilanza sull’attività degli intermediari bancari e finanziari e promuove il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento. In questo quadro ha il compito di prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario per scopi di riciclaggio. Dal 1° gennaio 2008 l’UIF è istituita presso la Banca d’Italia, succedendo all’Ufficio italiano cambi quanto ai poteri e alle competenze. È alla Banca d’Italia, oltre che alla legge, che compete il potere regolamentare per la risoluzione della tensione tra i diversi interessi in gioco.

Infine va segnalato che, seguendo le raccomandazioni del GAFI, l’art. 63, 3° co., ha esteso la responsabilità (amministrativa) da reato degli enti in riferimento ai delitti di ricettazione e riciclaggio. La responsabilità delle persone giuridiche (introdotta con il d. legisl. 8 giugno 2001 n. 231) richiede che il reato sia commesso da soggetti apicali o subordinati nell’interesse o a vantaggio dell’ente che rappresentano o per il quale operano. L’ente può vedere esclusa la propria responsabilità se dimostra di aver adottato dei modelli organizzativi (compliance programs) adeguati a prevenire la commissione dei reati e se si è dotato di un organismo di vigilanza sul rispetto dei modelli.

L’accertamento della responsabilità dell’ente dà luogo a sanzioni pecuniarie e interdittive e alla confisca del prezzo o del profitto del reato.

La previsione della responsabilità dell’ente per i delitti di cui ci interessiamo è trasfusa nell’art. 25 octies del d. legisl. 8 giugno 2001 n. 231.

Infine l’art. 63, 4° co., del d. legisl. 21 nov. 2007 n. 231, ottemperando ad altro specifico contenuto delle direttive europee, ha integrato il codice penale con l’art. 648 quater, che prevede la confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il prodotto o il profitto dei delitti di riciclaggio (art. 648 bis) e di impiego di denaro o utilità di provenienza illecita (art. 648 ter), salvo che appartengano a persone che risultino estranee al reato. Se non è possibile apprendere i beni costituenti l’oggetto specifico dell’attività di riciclaggio, viene disposta la confisca «per equivalente» di altri beni nella disponibilità del reo.

Aspetti problematici

Una volta preso atto della ‘naturale’ transnazionalità del riciclaggio nell’era della globalizzazione, risulta ovvio che la regolamentazione internazionale degli strumenti di contrasto tenda a imporsi sul diritto interno dei singoli Stati. L’adeguamento delle legislazioni nazionali, anche ai fini della collaborazione, è quindi indispensabile e dà luogo a una classificazione positiva e negativa di ciascuno in rapporto al livello di osservanza dei principi, con conseguenze sul piano delle relazioni economico-finanziarie.

La politica criminale internazionale ha indotto la diffusione di un’analitica disciplina preventiva relativa al controllo delle operazioni di trasferimento di capitali, orientata al contrasto globale, e che indubbiamente aumenta i rischi e i costi delle attività di riciclaggio. Ma, pur nella consapevolezza che a livello nazionale non possono assumersi atteggiamenti contrastanti con le linee guida, non manca chi esprime perplessità circa un sistema preventivo così penetrante, segnalandone i relativi costi e i limiti.

Il rilievo di fondo concerne l’opportunità di assegnare a qualsiasi operatore economico-finanziario un ruolo di detective con il compito di scoprire il riciclatore. A parte coloro che sono integrati nel sistema bancario, dai quali si può prevedere una sensibilità professionale sulla base di un adeguato addestramento, appare eccessivo esigere da soggetti privati, autonomi, una sorta di specializzazione tale da consentire di individuare fatti di riciclaggio solo per un’occasionale partecipazione a un’operazione, senza dimenticare la possibile collisione degli obblighi di segnalazione con principi rilevanti come il segreto professionale, e senza trascurare i rischi di errori a danno del cliente, di svantaggi economici e di ritorsioni.

A ciò si aggiunge che se la politica di coinvolgimento sortisse i risultati sperati, vale a dire un numero rilevante di segnalazioni, ciò comporterebbe più adeguate strutture per la sollecita valutazione dei dati: se questa non ha luogo in tempi stretti, al riciclatore sarà concesso il tempo di operare tutta una serie di ulteriori passaggi.

La preoccupazione di un’ineffettività, peraltro co-stosa, trova un suo fondamento sui rapporti numerici tra le segnalazioni, le indagini, i processi e le condanne, le quali risultano in numero davvero modesto, attesa la diffusione del fenomeno.

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