Riconoscimento delle sentenze straniere in materia familiare

Diritto on line (2019)

Francesco Pesce

Abstract

Le regole di diritto processuale civile internazionale che disciplinano, oggi, il regime di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni straniere incidenti sugli status ed i rapporti familiari si caratterizzano per una frammentazione normativa che risulta forse ancor più accentuata di quella relativa alla materia civile e commerciale in termini generali. Non soltanto, infatti, i riferimenti necessari si collocano in un contesto “multilivello” in cui diviene fondamentale sapersi orientare, cogliendo i precisi limiti applicativi di ciascun regime ed individuando quale di essi risulti prevalente in caso di stratificazione di norme astrattamente idonee a regolare la medesima fattispecie: nello specifico contesto familiare, lo stesso intervento a livello di Unione europea sta divenendo sempre più copioso e frammentato al suo interno, anche in ragione del recente ricorso all’istituto della cd. cooperazione rafforzata, volta a consentire un’integrazione sempre più intensa tra i soli Paesi membri che desiderino farne parte, ma, allo stesso tempo, passibile di creare un complesso sistema normativo a “geometrie variabili”, a seconda della specifica sotto-categoria del diritto di famiglia volta a volta interessata.

Il riconoscimento delle sentenze nella l. 218/1995

L’esame delle condizioni cui è sottoposto, in Italia, il riconoscimento delle sentenze straniere in materia familiare non può che muovere dalla normativa interna che rappresenta il punto di riferimento imprescindibile per quel che riguarda la materia del diritto processuale civile internazionale, ossia la legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato del 31.5.1995, n. 218.

Con la sua approvazione il legislatore nazionale conseguì l’obiettivo di abbandonare il previgente regime, caratterizzato da una limitata “apertura” all’ingresso delle decisioni straniere, non automatico ma soggetto alla previa instaurazione di un procedimento - la cd. delibazione - volto al controllo del rispetto di alcuni requisiti indefettibili e strettamente necessario tanto al fine del mero riconoscimento degli effetti dichiarativi e costitutivi della pronuncia resa in un altro ordinamento, quanto al fine di attribuirle il carattere dell’esecutività, al pari delle sentenze provenienti dal foro interno (artt. 797 ss. c.p.c., abrogati).

In prima battuta, è dunque possibile richiamarsi alla nuova disciplina sul riconoscimento delle sentenze civili straniere introdotta dalla legge 218/1995 anche per quanto attiene al più circoscritto novero delle sole decisioni adottate in materia familiare. Tuttavia in quest’ultimo ambito vengono altresì in rilievo ulteriori norme ad hoc, prevalentemente adottate dall’Unione europea ma in alcuni casi anche di fonte internazionale pattizia, che, restringendo l’ambito applicativo della normativa interna, pongono autonomi e differenziati regimi di circolazione transfrontaliera delle decisioni in tema di famiglia provenienti dai Paesi in cui tali regole uniformi trovano applicazione. Nel caso del diritto dell’UE, tali regole, ispirate ad un generale principio di reciproca fiducia tra ordinamenti, conducono talora a riconoscere alla sentenza straniera quello stesso carattere di esecutività di cui è normalmente dotata, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., la sola decisione resa dalle autorità giurisdizionali nazionali (v. infra § 3 ss.).

Vale però la pena di soffermarsi anzitutto sulle peculiari previsioni che la l. n. 218/1995 ha introdotto con specifico riferimento alle decisioni straniere in materia di status familiari, in relazione alle quali viene in rilievo, in senso integrativo rispetto a quanto sancito in via generale dal precedente art. 64, l’art. 65, espressamente dedicato ai «provvedimenti stranieri in materia di stato e di capacità delle persone». Facendo ricorso alla tecnica del cd. riconoscimento sulla base delle norme di conflitto, la norma prevede che le sentenze relative ai rapporti di famiglia godano di un percorso privilegiato ai fini dell’esplicazione dei propri effetti nell’ordinamento italiano, nel particolare caso in cui esse provengano dall’ordinamento la cui legge risulterebbe applicabile al rapporto considerato in base alle norme di conflitto contenute nella medesima l. n. 218/1995 (sicché ne sono escluse le norme di conflitto uniformi introdotte dal legislatore dell’Unione europea, ad esempio, con il reg. UE n. 1259/2010, cd. Roma III), o comunque siano idonee a produrre effetti in quello Stato. Al ricorrere di tale condizione, idealmente tesa ad individuare l’ordinamento con cui la fattispecie presenta un collegamento più stretto di quello esistente con l’ordinamento italiano, il riconoscimento del provvedimento straniero – non necessariamente, infatti, l’atto in questione deve assumere la veste formale di “sentenza” – può essere escluso soltanto per contrarietà con l’ordine pubblico o in caso di avvenuta violazione dei «diritti essenziali della difesa» nel corso del procedimento svoltosi nello Stato a quo, circostanza che può tipicamente verificarsi nel caso, ad esempio, di mancata integrazione del contradditorio a causa di mancata od inesatta comunicazione dell’atto introduttivo del giudizio; ossia in un novero di casi ben più limitato rispetto a quelli contemplati dall’art. 64 l. n. 218/1995.

Occorre altresì evidenziare che tale regime “agevolato” di riconoscimento dei provvedimenti stranieri per il tramite delle norme di conflitto risulta meramente complementare, anziché derogatorio ratione materiae, rispetto a quello ordinario fondato sull’assenza dei motivi ostativi di cui all’art. 64 (in tal senso v. anche Cass., 17.7.2013, n. 17463).

Infine, con specifico riguardo alla sola adozione, viene in rilievo l’art. 41, co. 2, della stessa l. n. 218/1995, a tenor del quale «[r]estano ferme le disposizioni delle leggi speciali» incidenti sul riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di adozione. Tale precisazione deve intendersi essenzialmente riferita alla l. 4.5.1983, n. 184, come novellata, in particolare, dalla l. 31.12.1998, n. 476, con cui si è autorizzata la ratifica ed ordinata l’esecuzione della Convenzione dell’Aja del 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale. Questo complesso quadro normativo fa sì che il riconoscimento di un provvedimento straniero per mezzo del quale si sia instaurato un simile vincolo familiare debba passare attraverso percorsi differenti a seconda del fatto che si ricada, o meno, nell’ipotesi della cd. adozione internazionale di cui alla Convenzione dell’Aja. Sicché, proprio per comprendere la portata della nozione di “adozione internazionale”, è necessario far riferimento alle previsioni dello strumento pattizio e, così facendo, è altresì possibile individuare a contrario quelle circostanze al ricorrere delle quali ci si trova innanzi ad un procedimento che fuoriesce dall’ambito di applicazione della Convenzione (ad esempio perché esclusivamente collegato con un unico ordinamento straniero).

In altri termini, al di fuori dei casi di adozioni “totalmente interne ad altro ordinamento” (con ciò riferendosi all’ipotesi di adozione all’estero di minore straniero da parte di cittadini stranieri), cui si aggiungono le decisioni straniere con cui venga disposta un’adozione semplice o un’adozione all’estero di minori italiani, per far sì che l’adozione pronunciata all’estero esplichi pienamente i propri effetti nell’ordinamento nazionale, occorre che il competente Tribunale per i minorenni verifichi l’avvenuto rispetto delle condizioni previste per le adozioni internazionali dall’art. 4 della Convenzione dell’Aja (e dall’art. 36, co. 2, l. n. 183/1984 per il solo caso di provvedimenti provenienti da un Paese non aderente alla Convenzione né vincolato da specifici accordi bilaterali) nonché, previo vaglio della Commissione per le adozioni internazionali richiesto dall’art. 39, che l’adozione de qua non appaia contraria ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori, valutati in relazione al superiore interesse del minore.

Le convenzioni internazionali vigenti in materia: cenni

Resta da considerare il fatto che gli strumenti normativi adottati dall’Unione europea a partire dal 2000 non coprono ogni ipotesi di riconoscimento di sentenze straniere pur rientranti nei rispettivi ambiti di applicazione ratione materiae: ne sono infatti escluse le decisioni assunte da autorità giurisdizionali extra-europee.

A tal riguardo, prima ancora di guardare alle prescrizioni di diritto comune di cui agli artt. 64 ss. l. n. 218/1995 (v. supra § 1), occorre verificare se esistano convenzioni internazionali recanti norme uniformi in tema di riconoscimento ed esecuzione delle sentenze straniere, posto che a fronte di una simile eventualità è la stessa legge di riforma del diritto internazionale privato italiano a prescrivere, conformemente agli obblighi assunti dal nostro ordinamento sul piano internazionale, la prevalenza delle disciplina uniforme sulle previsioni nazionali (art. 2).

Con specifico riguardo al regime di circolazione transfrontaliera delle decisioni in materia familiare, è dunque opportuno ricordare gli strumenti pattizi attualmente in vigore per l’Italia, ossia: (i) la Convenzione dell’Aja del 1° giugno 1970, relativa al riconoscimento dei divorzi e delle separazioni personali; (ii) la Convenzione europea del 20 maggio 1980 sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e sulla ristabilimento dell’affidamento dei minori; (iii) la Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori; (iv) la Convenzione dell’Aja del 23 novembre 2007 sull’esazione internazionale di prestazioni alimentari nei confronti di figli e altri membri della famiglia nonché, sempre in tema di alimenti, le precedenti Convenzioni dell’Aja del 1973 e del 1958 e di New York del 1956, queste ultime limitatamente ai reciproci rapporti esistenti tra Paesi che, essendo parti contraenti dello strumento più risalente, non abbiano poi provveduto alla sua sostituzione tramite l’adesione a quelli successivamente sopravvenuti.

Ciascun testo introduce e disciplina uno specifico regime cui sono sottoposti il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni straniere rese dalle competenti autorità dei Paesi contraenti, e sarà dunque ad essi che bisognerà guardare per individuare la procedura da intraprendere a tal fine, così come i motivi ostativi che possono essere legittimamente invocati per impedire ad una sentenza proveniente da tali ordinamenti extra-europei di esplicare i propri effetti in Italia.

L’intervento del diritto dell’UE: il reg. CE n. 2201/2003

Al regime di circolazione delle decisioni straniere in materia familiare vigente in Italia e rinvenibile all’interno della l. n. 218/1995, artt. 64 ss., risultava già ab origine sottratto l’insieme delle pronunce rese, in materia civile e commerciale, dalle autorità giurisdizionali dei Paesi membri della Comunità economico europea (CEE), poi Comunità europea (CE), in forza di quanto previsto dalla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, poi sostituita e “comunitarizzata” dal reg. CE n. 44/2001. Tuttavia né la Convenzione né il regolamento includevano nel proprio ambito di applicazione oggettivo le materie degli status familiari, della capacità delle persone e dei regimi patrimoniali tra coniugi, poste anzi ad oggetto di specifica ed espressa esclusione (v. art. 1, par. 2, lett. a, reg. n. 44/2001, oggi rifuso, con pari numerazione ed analogo tenore letterale, nel reg. UE n. 1215/2012).

È però con l’entrata in vigore, il 1° marzo 2001, del reg. CE n. 1347/2000 (cd. Bruxelles II), che per la prima volta il diritto dell’Unione europea “erode” al legislatore nazionale quell’ulteriore aspetto del diritto processuale civile internazionale rappresentato dalle definizione del regime di riconoscimento delle decisioni straniere in materia di status familiari e responsabilità genitoriale: più precisamente, rientrano nell’ambito di applicazione della normativa uniforme le sentenze di separazione, divorzio ed annullamento del matrimonio, nonché le correlate pronunce relative all’affidamento dei figli di entrambi i coniugi. Le due materie, quella matrimoniale e quella della responsabilità genitoriale, vengono successivamente rese del tutto autonome e indipendenti (a prescindere, cioè, dal fatto che la seconda riguardi un figlio nato in costanza di matrimonio della coppia in via di scioglimento) con la successiva sostituzione del reg. n. 1347/2000 ad opera del reg. CE n. 2201/2003 (cd. Bruxelles II-bis), applicabile a partire dal 1° marzo 2005 (e fino al 2022, come si preciserà in conclusione del presente §).

Il sistema delineato dal regolamento Bruxelles II-bis si fonda su alcuni principi comuni cui si accostano previsioni distinte ratione materiae. Occorre anzitutto evidenziare che lo strumento introduce in via generale un regime di circolazioni delle decisioni nello spazio giudiziario europeo fondato sull’automatico riconoscimento, senza che sia necessario dar luogo ad alcun procedimento ad hoc (art. 21). Ciò significa che possono essere fatti valere direttamente gli effetti dichiarativi e costitutivi della pronuncia straniera, circostanza che può verificarsi, ad esempio, nel caso in cui essa venga incidentalmente invocata nell’ambito di un altro giudizio pendente nell’ordinamento richiesto o qualora si intenda far valere la stessa per dar luogo alla trascrizione di una separazione, di un divorzio o di un annullamento del matrimonio nei registri di stato civile. L’attivazione di un specifico procedimento di exequatur, rimesso per materia alla Corte d’appello territorialmente competente (con riferimento al luogo in cui è abitualmente residente la parte contro cui è chiesta l’esecuzione o il minore cui si riferisce l’istanza), è invece presupposto ineludibile affinché la sentenza sia munita di esecutività nell’ordinamento interno e possa, dunque, essere portata in esecuzione, nonché ogniqualvolta sorgano contestazioni in relazione al suo mero riconoscimento. Il procedimento – da introdursi con ricorso secondo quanto previsto dall’attuale disciplina del rito sommario di cognizione di cui al d.lgs. n. 150/2011 – prevede che il foro adito verifichi ex officio l’eventuale sussistenza dei (soli) motivi ostativi al riconoscimento rispettivamente individuati dagli artt. 22 e 23 per la materia matrimoniale e per quella della responsabilità genitoriale e, qualora non ne rilevi alcuno, concluda per la declaratoria di esecutività, fermo restando l’assoluto divieto di riesame del merito e del fondamento della competenza esercitata dall’autorità giurisdizionale a quo, persino nel caso in cui essa sia stata radicata in violazione del regole sulla contemporanea pendenza della medesima controversia innanzi alle autorità giurisdizionali di due o più Stati membri (secondo quanto recentemente chiarito dalla Corte di giustizia con sentenza del 16.1.2019, C-386/17, Liberato c. Grigorescu). In questa fase non si dà luogo all’integrazione del contraddittorio; la parte contro cui l’esecuzione è domandata ha, però, trenta giorni di tempo decorrenti dall’avvenuta notifica della decisione contenente la dichiarazione di esecutività per proporre opposizione innanzi al medesimo giudice pronunciatosi su di essa, introducendo così una seconda fase, eventuale, del procedimento di exequatur, celebrata nel pieno contraddittorio delle parti ed unicamente finalizzata a verificare l’eventuale sussistenza di un motivo ostativo al riconoscimento precedentemente non rilevato. L’ulteriore decisione resa al termine di questa seconda fase è unicamente ricorribile per Cassazione per motivi di diritto. Secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia, nel solo caso (invero non frequente) in cui venga introdotta una domanda di diniego del riconoscimento – ovviamente ad opera della parte interessata in quanto risultata soccombente nel giudizio di merito svoltosi all’estero – il procedimento di exequatur deve svolgersi fin dal principio nel pieno contraddittorio delle parti, posto che in tal caso l’istante è colui che vuol far valere un motivo di non riconoscimento transfrontaliero delle sentenze nello spazio UE (C. giust., 11.7.2008, C-195/08 PPU, Rinau).

La peculiarità del regime di circolazione delle decisioni di cui al regolamento Bruxelles II-bis è però rappresentata dalle due ipotesi a fronte delle quali, per la prima volta nell’esperienza della disciplina di fonte UE su cui poggia lo costruzione del cd. spazio giudiziario europeo, si prevede, oltre al riconoscimento automatico, anche l’automatica esecutività della decisione straniera, senza che sia possibile opporsi al suo ingresso nell’ordinamento richiesto. Più precisamente, si tratta delle pronunce relative al diritto di visita (art. 41) ed al ritorno del minore (art. 42), queste ultime emesse dopo che la domanda di ritorno sia stata rigettata una prima volta invocando uno dei motivi codificati dall’art. 13 della Convenzione dell’Aja del 1980 sulla sottrazione internazionale di minori, tra cui rientrano il «fondato rischio», per il minore, di essere esposto a pericoli fisici o psichici, o ad un «situazione intollerabile», a seguito del rientro (art. 11, par. 8, e art. 42). In tutti questi casi l’eliminazione del procedimento di exequatur, e la conseguente possibilità di avviare l’esecuzione senza alcun filtro intermedio, sono rese possibili dalla previsione di un certificato che, rilasciato dall’autorità giurisdizionale a quo sulla base di modelli offerti da appositi allegati al regolamento, contenga ogni indicazione utile circa gli elementi essenziali della statuizione proveniente da un differente Paese membro.

Occorre infine ricordare che le azioni proposte a partire dal 1° agosto 2022, al pari degli atti pubblici e degli accordi formalmente redatti o registrati successivamente a tale data, saranno sottoposte all’applicazione del nuovo regolamento approvato dal Consiglio il 25 giugno 2019 e destinato a sostituire, a sua volta, il regolamento Bruxelles II-bis: si tratta del regolamento UE n. 2019/1111 (Bruxelles II-ter). In punto di circolazione transfrontaliera delle decisioni, la principale novità introdotta dalla futura disciplina è rappresentata dall’eliminazione del procedimento di exequatur con riguardo ad ogni pronuncia sulla responsabilità genitoriale: in altri termini, il regime fino ad oggi riservato alle statuizioni sul diritto di visita o sul ritorno del minore passerà a rappresentare la procedura ordinaria fissata dal regolamento per tutti i casi che coinvolgano l’affidamento di un minore. Al contrario, il nuovo strumento non interverrà, se non marginalmente, sulle norme dedicate al vincolo coniugale. Se dunque, per un verso, l’automatica esecutività delle sentenze sulla responsabilità genitoriale diverrà regola generale, per altro verso il regolamento Bruxelles II-ter consentirà, a differenza della disciplina attualmente in vigore, di sospendere o, addirittura, rifiutare l’esecuzione di una decisione straniera, in particolare qualora si ritenga che da essa deriverebbe l’esposizione del minore ad un grave rischio di pericoli fisici o psichici a causa di impedimenti temporanei emersi successivamente alla pronuncia della decisione, o in ragione di altri significativi mutamenti delle circostanze di fatto.

Tale limitazione, unitamente alla previsione (nuova anch’essa) del diniego di riconoscimento in caso di incompatibilità con una successiva pronuncia relativa allo stesso minore, resa nello Stato richiesto o – se riconoscibile – in uno Stato terzo, fa sì che quel principio di “automatica esecutività” che ha ispirato la stesura della nuova disciplina non trovi, all’interno di quest’ultima, un’espressione realmente piena e compiuta.

L’automatica esecutività generalizzata nel reg. CE n. 4/2009

È tuttavia con l’approvazione del regolamento CE n. 4/2009, interamente dedicato ai vari aspetti della cooperazione giudiziaria civile in materia di obbligazioni alimentari nella famiglia, che il legislatore dell’UE giunge per la prima volta ad estendere ad un intero settore di rapporti giuridici transfrontalieri, in modo generalizzato (e fatte salve le due deroghe su cui si tornerà subito infra), il regime “snello” di circolazione intraeuropea delle decisioni (che si estende anche ad atti pubblici e transazioni giudiziarie) fondato sull’automatica esecutività.

Sulla scia del precedente rappresentato dal certificato previsto dal regolamento Bruxelles II-bis per le decisioni in materia di ritorno del minore e diritto di visita (v. § 3), il regolamento sulle obbligazioni alimentari, applicabile in tutti e ventotto i Paesi membri dell’UE a partire dal giugno 2011, prevede che, al fine di avviare la procedura esecutiva in uno Stato diverso da quello in cui è stata resa la decisione, quest’ultima debba essere prodotta in copia conforme all’originale innanzi all’autorità competente, unitamente ad un estratto, rilasciato dal giudice a quo sulla base del modello allegato al testo del regolamento, che ne riporti i contenuti essenziali, ed all’eventuale documento atto a dar conto dello stato degli arretrati. Una volta che tali condizioni siano state integrate, l’autorità preposta alla realizzazione della fase esecutiva nello Stato richiesto è tenuta a dar corso alla domanda, potendo unicamente esigere, se necessario e salvo i casi in cui di contestazioni insorte in merito alla fase esecutiva, una traduzione o traslitterazione del solo estratto (art. 20).

Residuano, peraltro, limitate ed eccezionali possibilità di ostacolare l’esecuzione delle decisioni straniere, nelle forme processuali previste dalla lex fori per l’opposizione all’esecuzione: si tratta infatti (i) del caso in cui il diritto risulti prescritto a norma della legislazione vigente nello Stato membro d’origine (o in quello richiesto, qualora il termine ivi previsto sia più lungo), nonché (ii) dell’ipotesi in cui si profili un contrasto di giudicati con una pronuncia resa nello Stato richiesto o in uno Stato terzo, ma in quest’ultimo caso dovranno essere altresì soddisfatti i requisiti per il riconoscimento di tale pronuncia nello stesso Stato richiesto. Nessun’altra possibilità di impedire l’esecuzione della sentenza straniera è ammissibile ai sensi del regolamento: anche l’eventuale censura relativa ad un’asserita lesione del diritto al contraddittorio, infatti, deve essere fatta valere in sede di riesame (art. 19) innanzi all’autorità giurisdizionale a quo, entro un termine massimo di 45 giorni decorrenti dal momento in cui il convenuto ha avuto conoscenza effettiva del contenuto della decisione ed è stato posto in condizione di agire o, al più tardi, dal giorno in cui viene posta in essere la prima misura di esecuzione avente l’effetto di privare il debitore, in tutto o in parte, della disponibilità dei propri beni.

Permane, invece, la necessità di ricorrere alla procedura di exequatur per ottenere la dichiarazione di esecutività – o dirimere eventuali contestazioni relative al mero riconoscimento – delle sole pronunce provenienti dalla Danimarca o dal Regno Unito (quanto meno fino a quando il recesso di quest’ultimo Paese dall’UE non sarà completato), in ragione della loro mancata adesione al protocollo dell’Aja del 2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni alimentari, da cui è dipesa un’uniformazione delle norme sui conflitti di leggi che, a livello di UE, riguarda attualmente ventisei Stati membri sul totale di ventotto. Tale differente regime di circolazione delle decisioni, pedissequamente ricalcato sul modello del reg. CE n. 44/2001 (cd. Bruxelles I), si fonda sul riconoscimento automatico ma, allo stesso tempo, prevede che, per poter munire di esecutività la sentenza straniera, sia necessario avviare un procedimento ad hoc innanzi all’autorità giurisdizionale designata a tal fine da ciascuno Stato membro tramite apposita notifica alla Commissione: per l’Italia, si tratta della Corte d’appello del luogo in cui la parte contro cui è chiesta l’esecuzione ha la propria residenza abituale o, alternativamente, del luogo in cui la decisione deve essere eseguita, in accordo con la scelta già operata nel contesto della l. n. 218/1995 (v. supra § 1). Tale organo, innanzi al quale deve essere prodotta la stessa documentazione già indicata dall’art. 20 con riguardo al differente regime “snello” operante per le pronunce rese in tutti gli altri Stati dell’UE, è tenuto a dichiarare l’esecutività della decisione straniera all’esito di una mera constatazione circa la sussistenza dei requisiti formali del provvedimento in questione e senza che sia possibile né instaurare il contraddittorio tra le parti, né verificare l’eventuale ricorrere di uno dei motivi ostativi previsti dall’art. 24. Quest’ultimo controllo è, semmai, l’unico possibile oggetto della successiva fase del procedimento, avente carattere eventuale poiché subordinata all’instaurazione di un giudizio a contraddittorio pieno da parte del soggetto contro cui l’esecuzione deve avere luogo ed al quale deve essere notificata la declaratoria di esecutività resa all’esito del controllo formale. I motivi di rifiuto del riconoscimento indicati all’art. 24 (anche in questo caso rappresentati dalla contrarietà con l’ordine pubblico, dalla violazione dei diritti di difesa e dal contrasto di giudicati) hanno carattere tassativo, sicché non è ammissibile il diniego del riconoscimento sulla scorta di censure differenti rispetto a quelle così predeterminate, né è in alcun caso possibile il riesame del merito o della competenza esercitata dall’autorità straniera.

Il “passo indietro” dei reg. UE nn. 2016/1103 e 2016/1104

Il quadro d’insieme relativo all’intervento del diritto dell’Unione in tema di riconoscimento delle sentenze straniere in materia familiare si è da ultimo completato con l’approvazione dei reg. UE nn. 2016/1103 e 2016/1104, rispettivamente dedicati ai regimi patrimoniali fra coniugi ed agli effetti patrimoniali delle unioni registrate. Frutto di una procedura di cd. cooperazione rafforzata che vede la partecipazione di diciotto Paesi membri su ventotto (tra cui l’Italia), essi possono essere esaminati congiuntamente in quanto i rispettivi articolati normativi sono strutturati in modo speculare e – per larga parte – coincidente nella sostanza, al netto dei necessari adattamenti. Ciò è vero in particolar modo per quel che concerne il regime di circolazione delle decisioni, degli atti pubblici e delle transazioni giudiziarie, per il quale non si è raggiunto l’accordo circa l’estensione di quel principio di automatica esecutività che il regolamento sulle obbligazioni alimentari aveva introdotto in termini quasi generalizzati. Al contrario, nella predisposizione dei due regolamenti del 2016 il legislatore dell’Unione europea si è ispirato ancora una volta al modello del reg. Bruxelles I, ed ha quindi subordinato la dichiarazione di esecutività della sentenza proveniente da un altro Paese membro (con ciò intendendosi uno dei diciotto Paesi indicati dal considerando n. 11 di entrambi gli strumenti) alla previa instaurazione di un procedimento di exequatur in tutto e per tutto analogo a quello che il reg. CE n. 4/2009 appronta per la sola dichiarazione di esecutività delle decisioni rese in Danimarca e nel Regno Unito.

Il rilievo dei diritti umani fondamentali

La più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo mostra con tutta evidenza come il tema del riconoscimento delle sentenze in materia familiare sia oggi strettamente connesso a quello della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, sia in termini espressi che in via indiretta.

Sotto il primo profilo, infatti, si è posto il problema del rilievo dei diritti umani in relazione alla circolazione degli status familiari, anche per il tramite del riconoscimento delle decisioni straniere costitutive o meramente ricognitive degli stessi: tale è stato il caso, ad esempio, delle note statuizioni con cui la Corte europea ha sancito che il diniego di riconoscimento dello status filiationis, da parte dello Stato che non consenta di valorizzare neppure il legame genetico ai fini dello stabilimento di vincolo giuridico tra padre e figli (nati da surrogazione di maternità), determina una violazione dell’art. 8 CEDU sub specie di lesione del diritto al rispetto della vita privata dei minori coinvolti, i quali patiscono inevitabilmente gravi ricadute sull’affermazione della propria identità personale nel contesto dell’ordinamento giuridico in cui è contestualizzata la rispettiva vita di relazione (C. eur. dir. uomo, 26.6.2014, Mennesson c. Francia e Labassée c. Francia). Analoghe considerazioni erano già state svolte, peraltro, a proposito del riconoscimento di adozioni perfezionatesi all’estero in sede giudiziale (C. eur. dir. uomo, 3.5.2011, Negrepontis-Giannisis c. Grecia; C. eur. dir. uomo, 28.6.2007, Wagner e J.M.W.L. c. Lussemburgo). Le stesse corti interne, d’altronde, si stanno pacificamente orientando verso la valorizzazione del tema della tutela dei diritti fondamentali dei membri della famiglia – e dei minori in particolare – alla luce dei principi enunciati tanto dalla Costituzione quanto dalle Carte dei diritti adottate a livello sovranazionale (tra le quali la CEDU riveste un ruolo di assoluto primo piano) al fine di garantire riconoscimento degli status legittimamente acquisiti all’estero, in particolar modo per quanto attiene allo status filiationis (Trib. min. Firenze, 8.3.2017, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 996 ss.; v. invece Cass., 14.2.2011, n. 3572, per quanto riguarda la soluzione “intermedia” del riconoscimento subordinato al cd. downgrade).

Vale poi la pena di ricordare che il regime di riconoscimento transfrontaliero delle sentenze, ivi incluse quelle in materia di famiglia (sebbene il discorso sia più ampio e non si riferisca strettamente ed esclusivamente ad esse), è stato oggetto di esame da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo anche sotto altri profili. A tal riguardo desta particolare interesse, specialmente dall’angolo visuale dell’ordinamento italiano, il tema relativo all’impatto sulle posizioni individuali delle tempistiche necessarie al fine di ottenere l’ingresso della decisione straniera nell’ordinamento richiesto: tale è stato, ad esempio, il caso del periodo di ben dieci anni trascorso in Italia per ottenere il mero riconoscimento di una decisione straniera di condanna al pagamento di una prestazione alimentare, giudicato dalla Corte lesivo del principio di ragionevole durata dei procedimenti giudiziari sancito dall’art. 6, par. 1, CEDU (C. eur. dir. uomo, 15.7.2014, Panetta c. Italia).

Fonti normative

Protocollo dell’Aja del 23 novembre 2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni alimentari; Convenzione dell’Aja del 23 novembre 2007 sull’esazione internazionale di prestazioni alimentari nei confronti di figli e altri membri della famiglia; Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori; Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione; Convenzione europea del 20 maggio 1980 sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e sulla ristabilimento dell’affidamento dei minori; Convenzione dell’Aja del 1° giugno 1970 relativa al riconoscimento dei divorzi e delle separazioni personali; Convenzione europea del 4 novembre 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU); reg. UE n. 2016/1104; reg. UE n. 2016/1103; reg. CE n. 4/2009; reg. CE n. 2201/2003; l. 31.5.1995, n. 218, artt. 41 e 64 ss.; l. 4.5.1983, n. 184.

Bibliografia essenziale

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