RICORSO

Enciclopedia Italiana (1936)

RICORSO

Giovanni SALEMI
Piero CALAMANDREI

. La parola ricorso significa nel linguaggio giuridico, in genere, l'atto con cui il cittadino si rivolge all'autorità per chiedere un provvedimento o in certi casi per chiedere all'autorità superiore la modifica o l'annullamento di un provvedimento emanato da un'autorità inferiore.

Diritto amministrativo. - Sul ricorso prodotto avanti le giurisdizioni amministrative, v. giustizia, VII, p. 397; giurisdizione: Giurisdizioni speciali amministrative; processo: Processo amministrativo. Qui ci occupiamo del ricorso innanzi alle autorità amministrative e più precisamente del ricorso gerarchico e del ricorso straordinario al re. Per il ricorso in opposizione o rimostranza, v. opposizione.

Ricorso gerarchico. - Il ricorso gerarchico è l'istanza diretta a impugnare un atto amministrativo, davanti l'autorità superiore a quella che l'ha emanato, e a conseguire una pronuncia riparativa. È un ricorso amministrativo, per la natura dell'atto contro cui si ricorre e della decisione che si consegue, dell'autorità adita, del procedimento attraverso il quale si svolge, dei rapporti giuridici che tutela e degli effetti che produce.

È l'esercizio di un diritto pubblico civico di un soggetto interessato, di fronte al quale, a differenza di quanto si nota nella denuncia presentata da chicchessia, sta l'obbligo nell'amministrazione di provvedere. (Cfr. U. Forti, La rivocazione nei ricorsi amministrativi, in Giur. ital., 1908).

La sua denominazione non corrisponde con piena esattezza alla sua struttura, perché il ricorso, se d'ordinario si può sperimentare, anche nel silenzio della legge, quando il rapporto di gerarchia interceda fra l'inferiore e il superiore amministrativo, altre volte, invece, si può presentare a un'autorità amministrativa non legata all'inferiore da alcun rapporto di supremazia gerarchica. Quest'ultimo caso richiede, però, un'espressa norma di legge che lo ammetta, e che al contempo indichi l'autorità da adire; la quale, solo in seguito al ricorso dell'interessato, può decidere sull'atto dell'inferiore, a differenza dell'autorità gerarchicamente superiore, che può modificare o annullare l'atto dell'inferiore anche d'ufficio.

Consideriamo in primo luogo il ricorso fra organi legati dal rapporto di supremazia e subordinazione gerarchica, e che, generalmente, si dice ricorso gerarchico proprio. In linea generale è contemplato nell'art. 3, comma 2° della legge 20 marzo 1865 all. E sul contenzioso amministrativo e nell'art. 5 del testo unico com. e prov. 3 marzo 1934, n. 383; in linea particolare, e cioè a riguardo di speciali materie, in altre leggi dello stato.

L'art. 3 della legge del 1865 ha, letteralmente interpretato, una stretta portata; si riferisce agli affari non compresi nell'art. 2 della stessa legge, cioè agl'interessi subiettivi, concernenti le materie dell'antico ordinamento contenzioso, affidati, secondo il medesimo e al pari dei diritti subiettivi, alla tutela dei tribunali ordinarî del contenzioso amministrativo. Considera, inoltre, nel 1° comma, i ricorsi in opposizione contro gli atti dell'autorità amministrativa, da decidersi con decreti inotivati, previo parere dei consigli amministrativi, stabiliti dalle leggi; e nel 2° comma il ricorso in via gerarchica contro tali decreti. Tuttavia, l'interpretazione letterale è stata superata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali hanno compreso nello stesso articolo, oltre agli affari sulla materia dell'antico contenzioso, anche gli altri concernenti i rapporti amministrativi regolati dalla legislazione posteriore al 1865; hanno, inoltre, ammesso il ricorso gerarchico non solo contro gli atti che decidono sulle opposizioni degl'interessati, ma anche contro gli atti emessi dalle autorità amministrative inferiori senza una preventiva istanza dei singoli. L'altro articolo, nel quale è contemplato pure in linea generica il ricorso gerarchico contro gli atti delle autorità statali, è quello compreso nel recente testo unico comunale e provinciale, precisamente l'articolo 5, che dice "salvo che la legge non disponga altrimenti, contro i provvedimenti delle autorità governative inferiori è ammesso il ricorso in via gerarchica alle autorità superiori". Esso corrisponde sostanzialmente, non mai per la forma, all'art. 328 del testo unico com. e prov. del 1915. Sennonché, mentre questo ultimo dava adito alle più diverse interpretazioni, che ammettevano il ricorso gerarchico o contro gli atti delle sole autorità previste dalla legge comunale e provinciale aventi per oggetto le sole materie dalla stessa disciplinate, o anche quelle di altre leggi, ovvero, epperò senza valide giustificazioni, contro gli atti di ogni autorità amministrativa, l'art. 5 del nuovo testo unico si mostra, invece, apertamente di ordine generalissimo, dato che è compreso, non tra le "disposizioni comuni alle amministrazioni comunali, provinciali e consorziali" di cui al titolo VII del nuovo testo unico, né in alcun altro titolo del medesimo, bensì è collocato tra le "disposizioni preliminari" di quest'ultimo, le quali, salvo i riferimenti limitati in modo esplicito agli organi e alle materie di cui allo stesso testo unico, sono a nostro giudizio da considerarsi quali comprensive di norme generali di diritto amministrativo.

Queste due fonti positive del ricorso gerarchico, l'art. 3 e l'art. 5, differiscono notevolmente nella disciplina del ricorso medesimo. L'art. 3 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo rinvia per tutti gli elementi formali e sostanziali alle leggi amministrative; l'art. 5 del recente testo unico, al contrario, indica, se non tutti, i requisiti necessarî per il ricorso in parola e molte norme per il procedimento relativo. Il secondo è, quindi, un complemento assai notevole del primo, là dove non esistano particolari disposizioni di legge. Esaminiamo tali requisiti, subiettivi e procedurali.

1. Possono ricorrere gl'individui e le persone giuridiche, che abbiano interesse alla modificazione o all'annullamento dell'atto amministrativo e che possiedano la capacità di agire. Le persone giuridiche devono deliberare e presentare il ricorso a mezzo degli organi rispettivamente competenti. Gli organi dello stato, invece, non essendo soggetti di diritto, né avendo proprî interessi, non possono ricorrere contro gli atti di altri organi statali, salva eccezione espressa di legge. Individui e persone giuridiche devono, inoltre, avere un interesse al ricorso, interesse processuale che nasce dalla lesione di una facoltà giuridica subiettiva operata dall'atto che s'impugna (art. 5, com. 2, testo unico 1934). Tale facoltà dev'essere personale, stante che eccezionalmente sono ammessi i ricorsi amministrativi popolari (ossia liberi a qualsiasi soggetto in difesa dell'interesse generale) e deve avere subito una lesione attuale e diretta, in quanto che, se la lesione materiale o morale non è ancora avvenuta e non tocca né il ricorrente, né il rappresentato dal ricorrente, manca la ragione del contendere. Inoltre, l'interesse subiettivo non può essere di quelli che la dottrina definisce interessi semplici, perché questi, compenetrandosi del tutto nell'interesse pubblico, sono affidati alla sola volontà dell'ente amministrativo. Può, invece, appartenere alla categoria degl'interessi legittimi, ovvero a quella dei diritti subiettivi. L'art. 3 della legge del 1865 si occupa, in verità, degli "affari non compresi nell'articolo precedente" lascerebbe, quindi, ritenere l'incompetenza dell'autorità amministrativa sul ricorso gerarchico presentato a difesa di un diritto subiettivo civile o politico. Tale interpretazione, però, urta contro la natura degli articoli 2 e 3 della stessa legge, che pongono dei limiti alla competenza dell'autorità giudiziaria, ed è pure contraria alle funzioni dell'autorità amministrativa, la quale, potendo di propria iniziativa rivedere, di regola, l'atto dell'inferiore, anche se lesivo del diritto del cittadino, può bene esplicare il suo intervento su queste materie, quando è richiesta dall'interessato. Naturalmente la decisione amministrativa non può pregiudicare l'azione davanti l'autorità giudiziaria.

2. I requisiti obiettivi che si richiedono per il ricorso gerarchico sono l'atto amministrativo e i vizî del medesimo. L'atto deve provenire da un'autorità amministrativa, che abbia esercitato una funzione amministrativa. Per gli atti amministrativi delle autorità giurisdizionali bisogna distinguere, se questi riguardino la cosiddetta giurisdizione volontaria, ovvero rapporti amministrativi, disciplinati con atti dei procuratori del re o dei presidenti delle corti, contro i quali la legge ammette espressamente il ricorso al ministro. Fuori del secondo caso, non si può parlare di ricorso gerarchico, in quanto che nel primo i rimedî contro gli atti di giurisdizione volontaria sono indicati dal codice di procedura civile. Gli stessi organi giudiziali si presentano nel secondo caso nella veste di organi dell'amministrazione dello stato. È, inoltre, da notare che la regola innanzi riferita non è assoluta, e che vi sono degli atti amministrativi per la forma e la sostanza non impugnabili a mezzo del ricorso gerarchico.

Ora l'atto amministrativo in senso formale e materiale deve presentare dei vizî inerenti alla legittimità o al merito, ovvero a entrambi. I primi implicano ch'esso è stato emanato da un organo, o incompetente, o che abbia violato delle norme giuridiche positive, o che abbia consumato un eccesso di potere. I secondi denotano che l'autorità amministrativa non ha provveduto nel modo più conveniente alla soddisfazione del pubblico interesse. Solo qualche volta, per un'espressa disposizione di legge, il ricorso gerarchico è limitato alla sola legittimità (testo unico 5 febbraio 1928, n. 377, art. 164, com. 4).

3. Gli elementi procedurali connessi al ricorso gerarchico non sono tutti posti dalle leggi, ma in gran parte dalla giurisprudenza e dalla dottrina, del resto incerte al riguardo. a) Il ricorso, infatti, deve contenere l'indicazione del nome e cognome, della residenza o domicilio del ricorrente, l'indicazione dell'atto amministrativo che si impugna, l'esposizione sommaria dei fatti e della lesione sofferta, la richiesta di un provvedimento riparativo, la sottoscrizione del ricorrente o del rappresentante legale del medesimo. Dev'essere indirizzato all'autorità superiore gerarchica, ossia a quella che può dare sulla stessa materia ordini e istruzioni all'inferiore, e che, di regola, in ultimo grado, è il ministro (art. 5, ult. com., testo unico 3 marzo 1934), di rado, nei casi indicati esplicitamente dalle leggi, il re. Il ricorso, inoltre, deve essere presentato entro il termine perentorio di legge. Decorso il termine legale, il ricorso non è più ammissibile; se avanzato, vale come denuncia. Ciò non può indurre a sostenere che, scaduto il termine pel ricorso, non si possano proporre nuovi motivi. Il ricorso amministrativo gerarchico è assai meno rigoroso e formalistico di quello giurisdizionale; tanto che l'autorità superiore può, alcune volte, di ufficio, far valere nell'interesse pubblico motivi non dedotti dall'interessato. Il termine, dunque, è perentorio per la presentazione del ricorso, non per i motivi del medesimo. Il ricorso non ha, di regola, effetto sospensivo. Gl'interessati, nel termine di venti giorni dalla notificazione del ricorso, possono presentare le loro deduzioni all'autorità (art. 5, com. 4, testo unico).

Questa decide se il ricorso debba ammettersi o meno, e, nel caso affermativo, passa a esaminarne il contenuto. Se trova l'atto amministrativo viziato d'incompetenza, lo annulla e rimette l'affare all'autorità amministrativa competente; se lo trova viziato di eccesso di potere o di violazione di legge, lo annulla; se lo trova viziato nel merito, lo annulla, sostituendolo con un atto proprio. Può darsi che l'autorità adita non provveda sull'istanza dell'interessato. La dottrina e la giurisprudenza sono giunti ad affermare che il persistente silenzio dell'amministrazione implica un rigetto del ricorso, quindi una manifestazione di volontà impugnabile presso gli ulteriori gradi gerarchici, se esistano, ovvero dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di stato, o al re in linea straordinaria. Siffatta interpretazione è divenuta norma positiva con l'art. 5, commi 5 e 6, del testo unico com. e prov. Se l'interessato ritiene la decisione nociva ai proprî interessi, può adire le superiori autorità amministrative, se ve ne siano, o quelle giurisdizionali, comuni o amministrative. L'autorità, contro il cui atto si è presentato il ricorso, può dopo la decisione del superiore tenere fermo o revocare il proprio atto se il ricorso sia stato respinto; può emanarne uno nuovo, invece, se il ricorso sia stato accolto e l'atto annullato; se, infine, l'atto sia stato sostituito da un altro, essa dovrà a questo conformarsi. Rispetto ai terzi estranei al ricorso, la decisione può produrre effetti, se l'oggetto deciso ne tocchi gl'interessi, ovvero se le conseguenze della decisione ricadano su di loro.

Veniamo adesso al ricorso gerarchico improprio, presentato, cioè, all'autorità superiore non legata a quella inferiore da alcun rapporto di gerarchia. Esso trova fondamento, nei singoli casi, in espresse norme di legge, e dà luogo a controlli sopra i più diversi organi, statali o autarchici, da parte dei più diversi organi dello stato. È, invero, rivolto a un organo semplice dello stato contro la deliberazione di un organo collegiale dello stato (ad esempio, al ministro dell'Interno contro le deliberazioni della Giunta provinciale amministrativa, articoli 104, 306, com. 7, testo unico com. e prov. 1934); a un organo collegiale dello stato contro l'atto di un organo semplice autarchico (alla Giunta provinciale amministrativa contro un atto del podestà - articoli 63, 306, com. 2); a un organo semplice dello stato contro l'atto di un organo collegiale di ente autarchico (al ministro dell'Interno contro un atto del rettorato provinciale - art. 306, com. 2); a un organo burocratico dello stato contro l'atto dell'organo semplice di un ente autarchico (al prefetto contro un atto del podestà - art. 209, com. 2). Per gli atti comunali e provinciali si può, in genere, affermare, in base al recente testo unico, che essi, se abbiano subito un controllo favorevole, cioè a dire, siano stati integrati col visto del prefetto o con l'approvazione della Giunta provinciale amministrativa, o siano comunque divenuti esecutivi, sono inimpugnabili col ricorso gerarchico, perché (art. 343, com. 1) definitivi; alla medesima stregua delle deliberazioni relative alla mera esecuzione dei provvedimenti già adottati e perfezionati con le approvazioni di legge (art. 97). Invece, se il controllo delle autorità governative è su di essi sfavorevole, se cioè la deliberazione dell'ente autarchico sia stata disapprovata o annullata, questa, essendo priva della definitività, è impugnabile gerarchicamente insieme con l'atto di controllo (art. 343 com. 2).

I provvedimenti del governatore di Roma non sottostanno a ricorsi gerarchici. Solo per gli atti del governatore, ufficiale del governo, è ammissibile il ricorso gerarchico al ministro dell'Interno (art. 362).

Agli atti delle persone giuridiche pubbliche in genere è, di regola, attribuito il carattere definitivo. Se, però, essi sottostanno all'approvazione tutoria, e la legge ammette contro l'approvazione il ricorso gerarchico, si riconosce dalla dottrina e dalla giurisprudenza che questo ricorso si risolve necessariamente nell'impugnativa dell'atto dell'ente autarchico, che allora non è più definitivo.

Bibl.: F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano 1911, I, pp. 524-616; V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, 2ª ed., ivi 1923, in Trattato di diritto amministrativo, III, ii, pp. 61-78; O. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, ivi 1934, pp. 240-258; U. Borsi, La giustizia amministrativa, Padova 1934, pp. 61-77.

Ricorso straordinario al re. - È un tenue avanzo, sebbene trasformato, del largo potere di giustizia del sovrano assoluto sulle controversie di ogni natura, poi, con l'andar del tempo, ristretto a un'ultima istanza contro la legittimità delle sentenze e degli atti degli organi amministrativi, e, finalmente, con il passaggio della giurisdizione civile e penale ai giudici ordinarî, limitato alla legittimità dei soli atti amministrativi. Quest'ultimo potere, definito giustizia ritenuta, ed esistente a lato del diritto di grazia del sovrano, si distinse formalmente dalla giustizia delegata ai giudici, ma sostanzialmente rimase una vera giurisdizione. Solo in epoca recente, e nello stato costituzionale, mutò il suo carattere giurisdizionale in amministrativo, e si restrinse all'esame dei ricorsi straordinarî, stante che, separati dai medesimi, sorsero in ultimo i ricorsi gerarchici al re, o, diversamente detti, al governo del re, per impugnare anche nel merito gli atti amministrativi.

In Italia sono decisive al riguardo le leggi del 1859: quella sul Consiglio di stato (30 ottobre, n. 3707) che, all'art. 15, n. 4, contemplò il ricorso, detto straordinario, al re, e l'altra comunale e provinciale (23 ottobre, n. 3702) che, agli articoli 137 e 182, introdusse il ricorso gerarchico al re contro gli atti della deputazione provinciale e del ministro. Il ricorso, di cui al n. 4 dell'art. 15, fu posto in modo accidentale e determinato con pochi elementi, accresciuti, in seguito, con le ulteriori leggi sul Consiglio di stato, le quali, malgrado l'introduzione del ricorso giurisdizionale alla IV e alla V sezione, conservarono sempre il ricorso straordinario, in quanto ritenuto semplice, comodo, e di poca spesa. Oggi il ricorso in parola, quantunque sopravvivenza di un ordinamento politico e giuridico tramontato, ha la sua disciplina nel testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, agli articoli 16, n. 4, 34, commi 2, 3, e nel regolamento 26 giugno 1924, n. 1055, agli articoli 23, n. 3; 30; 36; 37. È detto straordinario in analogia al rimedio del ricorso in cassazione per illegittimità della sentenza, non mai per la necessità di una norma speciale che lo ammetta nei singoli casi; anzi, e di natura generale, proponibile, cioè, di fronte a tutti i provvedimenti amministrativi definitivi. Solo per la sua esclusione è necessaria una norma particolare. Richiede un atto amministrativo, da impugnare dinnanzi a un'autorità amministrativa, un procedinento amministrativo e una decisione amministrativa. In tutti i varî elementi è, quindi, amministrativo, sebbene, qualche volta, il Consiglio di stato in sede consultiva ne abbia affermato l'indole giurisdizionale.

Riguardo agli elementi subiettivi, si possono ripetere le osservazioni che si fanno a proposito dei ricorsi amministrativi in genere (v. sopra). Gli elementi obiettivi consistono nell'esistenza di un atto formalmente e sostanzialmente amministrativo, illegittimo e definitivo. L'art. 16, n. 4, del testo unico si riferisce, infatti, ai "ricorsi fatti al re contro la legittimità dei provvedimenti amministrativi, sui quali siano esaurite o non possano proporsi domande di riparazione in via gerarchica". Sui requisiti formali e sostanziali, necessarî all'atto amministrativo che si impugna, v. sopra: Ricorso gerarchico. Qui è da notare, piuttosto, che nel caso del ricorso straordinario al, re, il vizio di merito (che implica una questione di opportunità amministrativa) non può essere mai addotto. Inoltre, il ricorso straordinario, a differenza di quanto avviene per il ricorso gerarchico, può essere proposto soltanto contro un provvedimento definitivo, che sia, cioè, tale perché già esaurita contro il medesimo ogni impugnativa dinnanzi alle autorità gerarchiche, o perché la legge lo riconosca, in modo esplicito o implicito, definitivo. Pertanto, il ricorso gerarchico vale, là dov'è possibile adire la gerarchia, come un presupposto necessario del ricorso straordinario. Se è decorso il termine per sperimentarlo, non si può ricorrere al re in linea straordinaria, citando a fondamento l'ultima parte del n. 4 dell'art. 16, riferentesi all'impossibilità di proporre le domande di riparazione in via gerarchica, perché, attraverso una siffatta applicazione del citato articolo, si negherebbe l'efficacia perentoria del termine pel ricorso gerarchico. Malgrado l'esistenza di un atto amministrativo illegittimo e definitivo, il ricorso straordinario è, in alcuni casi, improponibile. Anzitutto, se v'è un espresso divieto di legge. La giurisprudenza ha, però, interpretato in senso restrittivo tale divieto e, riferendolo all'uso anziché all'usurpazione dei poteri, ha ammesso il ricorso contro gli atti viziati d'incompetenza. In secondo luogo (ma è opinione controversa), se contro lo stesso atto amministrativo sia stato presentato ricorso alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di stato.

In terzo luogo l'inammissibilità del ricorso straordinario si verifica pure quando, riferendosi l'atto amministrativo direttamente a più interessati, non siano decorsi i termini per impugnare il provvedimento stesso in sede giurisdizionale; ovvero, se notificato il ricorso entro i detti termini agl'interessati, questi abbiano; entro quindici giorni dalla ricevuta comunicazione del ricorso al re, dichiarato di voler fare opposizione, ricorrendo al Consiglio di stato (art. 34, ult. com.). Il ricorso straordinario è ammissibile anche contro gli atti amministrativi riguardanti materie di esclusiva competenza del Consiglio di stato; ma questo criterio non è stato seguito nei casi in cui la legge attribuisce a una giurisdizione speciale, diversa dagli organi della giustizia amministrativa, la conoscenza dei ricorsi contro certi atti amministrativi definitivi.

Forme, termini e modi, richiesti per il ricorso in questione e relativo procedimento, sono considerati in speciali disposizioni di legge, in gran parte introdotte con la legge 7 marzo 1907, n. 62, sul Consiglio di stato. Il ricorso non sospende l'esecutorietà dell'atto impugnato (salvo che, per giustificati motivi, l'autorità adita ne ordini la sospensione); lascia sempre libera l'autorità, il cui atto s'impugna, di modificarlo e di revocarlo; impedisce, inoltre, di adire, come abbiamo già visto, le sezioni giurisdizionali del Consiglio di stato. Ultimata l'istruzione, il ministro rimette l'affare, per il parere obbligatorio, al Consiglio di stato in adunanza generale, e se non crede, poi, di conformarsi a tale parere, deve richiedere il parere del Consiglio dei ministri. La decisione, che può essere confermativa del provvedimento impugnato, ovvero di annullamento del medesimo, è compresa in un regio decreto; dev'essere motivata e deve indicare che il Consiglio di stato e, eventualmente, il Consiglio dei ministri, siano stati uditi. Quando riguarda materie di controllo della Corte dei conti, va sottoposta al visto e alla registrazione della stessa Corte. Sui rimedî contro di essa, il Consiglio di stato ha una giurisprudenza molto favorevole e anche innovativa, in quanto che ha ammesso il rimedio della revocazione e, in certi casi, il ricorso alle Sezioni giurisdizionali dello stesso Consiglio.

Bibl.: F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano 1911, I, pp. 616-47; V. E. Orlando, La giustizia amministrativa, 2ª ed., Milano 1923, in Trattato di diritto amministrativo da lui diretto, III, ii, pp. 78-111; L. Ragnisco, Il ricorso straordinario al re e la giurisprudenza del Consiglio di stato, in Il Consiglio di stato. Studi in occasione del centenario, Roma 1932, II, p. 3 segg.; O. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano 1934, pp. 258-275; U. Borsi, La giustizia amministrativa, 4ª ed., Padova 1934, pp. 77-89.

Diritto processuale.

Con la parola ricorso, s'indica nel diritto processuale una delle forme con cui si propone in scritto all'autorità giudiziaria la domanda che inizia e costituisce il processo civile, ovvero una fase di esso, in sede d'impugnativa (per es., il ricorso per cassazione).

Il ricorso, che, essendo nel processo ordinario una forma eccezionale di domanda, può essere adoperato soltanto nei casi in cui la legge espressamente lo permette, si differenzia dalla forma normale di domanda, che è la citazione (art. 37 cod. proc. civ.; v. domanda giudiziale), per la mancanza in esso di quell'invito, indirizzato al convenuto, a comparire in giudizio in una determinata udienza, che è requisito essenziale della citazione (art. 134, n. 6, cod. proc. civ.); esso contiene dunque soltanto una parte degli elementi che si trovano nella citazione, cioè l'indicazione degli elementi soggettivi e oggettivi che stanno a base della domanda e l'invocazione del provvedimento giudiziale. Non colpirebbe esattamente la differenza che passa tra la citazione e il ricorso chi dicesse che la prima è indirizzata alla parte avversaria, mentre il secondo è indirizzato al giudice: in realtà anche la citazione, in quanto è proposizione di domanda, è diretta all'autorità giudiziaria di cui mira a ottenere il provvedimento. Ma nella citazione c'è in più, oltre questa invocazione, un invito, rivolto all'avversario, a far valere le sue difese in contraddittorio, che non si trova nel ricorso.

Il ricorso costituisce pertanto la forma tipica da adoperarsi per chiedere quei provvedimenti che non sono destinati a valere contro un avversario, e per i quali quindi non esiste la possibilità di un preventivo contraddittorio (provvedimenti di volontaria giurisdizione: art. 778 cod. proc. civ.). Ma anche quando, in materia contenziosa, esiste un avversario che potrebbe, se chiamato in giudizio, aver ragioni per opporsi alla emanazione del provvedimento, si adopera il ricorso invece della citazione tutte le volte in cui, per motivi di urgenza o di semplicità (come avviene nei procedimenti cautelari, e in alcuni procedimenti di cognizione sommaria), il provvedimento è emanato inaudita altera parte, con posticipazione del contraddittorio in una fase processuale successiva, che viene provocata o dalla stessa parte che ha ottenuto il provvedimento (per es., il giudizio di convalida del sequestro conservativo, art. 931 cod. proc. civ.), o, in via di opposizione, con inversione dell'onere dell'iniziativa, dalla parte contro la quale il provvedimento è stato provvisoriamente emanato (per es., il procedimento per ingiunzione, r. decr. 24 luglio 1922, n. 1036: v. ingiunzione).

La forma del ricorso come atto introduttivo del giudizio non è peraltro necessariamente limitata ai casi di provvedimenti da emanarsi senza previo contraddittorio: il ricorso si adopera anche in quei procedimenti di cognizione in cui, pur rispettandosi il principio del contraddittorio (art. 38 cod. proc. civ.), l'udienza di comparizione. non è fissata dall'attore, ma dalla stessa autorità giudiziaria, che, in seguito alla presentazione del ricorso, fissa l'udienza e provvede poi per la notificazione al convenuto del ricorso così integrato: questo sistema, seguito dalle legislazioni processuali più moderne, è adottato anche dall'Italia nel processo del lavoro, ed è probabile che tenda a diventar generale nella prossima riforma del processo civile. Vi sono poi casi (come avviene nel ricorso per cassazione e nei procedimenti dinnanzi alla Giunta provinciale amministrativa e alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di stato) in cui il ricorso deve essere notificato all'avversario prima di esser presentato all'autorità giudiziaria; ma anche in questi casi esso si distingue dalla citazione, perché l'udienza di comparizione viene stabilita in un moment0 successivo dalla stessa autorità a cui il ricorso è stato presentato.

Ricorso per cassazione (cod. proc. civ., articoli 517-552; cod. proc. pen., articoli 524-552; r. decr. 21 maggio 1934, n. 1073, art. 28). Bisogna distinguere le condizioni del diritto di cassazione, che è un'azione d'impugnativa consistente nel potere che spetta alla parte soccombente di ottenere dalla Corte di cassazione l'annullamento di una sentenza viziata da determinati difetti (errores in procedendo ovvero errores in iudicando che abbiano avuto efficacia causale sul dispositivo), dalle condizioni formali del ricorso per cassazione, che è la domanda con cui si fa valere quel diritto. Per le prime (specialmente per quanto attiene alle sentenze impugnabili in cassazione e ai motivi di ricorso), v. corte: La Corte di cassazione; mentre sotto la voce appello civile fu spiegata la differenza razionale che passa in civile tra i mezzi d'impugnativa ordinarî (appello e opposizione contumaciale, art. 465 cod. proc. civ.) e quelli straordinarî (ricorso in cassazione, revocazione, opposizione di terzo), i quali ultimi, a differenza dei primi, non dànno luogo senz'altro, per il solo fatto che la parte soccombente invochi il riesame della controversia, a un novum iudicium della stessa ampiezza del primo, ma dànno luogo prima di tutto, senza effetto sospensivo (art. 520: cfr. però, per il penale, l'art. 528 cod. proc. pen.), a un esame preliminare (iudicium rescindens) sull'esistenza del vizio denunciato, e, solo se questo è riconosciuto tale da portare all'annullamento totale o parziale della sentenza, dànno luogo a un riesame del merito (iudicium rescissorium) nei limiti dell'annullamento. Sotto quest'aspetto sono evidenti le somiglianze tra il ricorso in cassazione e la revocazione: con la differenza che, mentre in questa il giudizio rescissorio si svolge immediatamente, se l'impugnativa è accolta, dinnanzi allo stesso giudice del rescindente (art. 508 cod. proc. civ.: v. revocazione), per il ricorso in cassazione il rescindente si svolge dinnanzi alla Corte di cassazione, e, in caso di accoglimento del ricorso, il rescissorio segue in una fase separata dinnanzi al giudice di rinvio (art. 544 cod. proc. civ.).

Le condizioni formali del ricorso per cassazione civile (in mancanza delle quali il ricorso è dichiarato inammissibile, senza esaminare la sua fondatezza: art. 528 cod. proc. civ.), riguardano:

a) il contenuto del ricorso (art. 523 cod. proc. civ.; particolarmente importante l'indicazione dei motivi di cassazione, che devono essere specifici e determinati, e che non possono, come nell'appello, essere precisati o modificati in seguito, perché ciascuno di essi costituisce la causa petendi di un separato diritto d'impugnativa);

b) la sottoscrizione di un avvocato ammesso a patrocinare dinnanzi alla Corte di cassazione, munito di mandato speciale da parte del ricorrente (art. 522 cod. proc. civ.);

c) il deposito, da effettuarsi prima della notificazione del ricorso, di una somma, che si perde in caso di rigetto del ricorso (multa temeritatis, art. 541), di lire seicento se la sentenza denunciata è di Corte d'appello, di lire trecento se è di tribunale (art. 521, modif. dalla legge 22 dic. 1932, n. 1704); tale deposito non è richiesto per i ricorsi nell'interesse dello stato, per quelli nell'interesse delle persone ammesse al beneficio del gratuito patrocinio e negli altri casi eccettuati dalla legge (controversie del lavoro, infortunî, ecc.).

Il ricorso, col certificato di deposito, col mandato speciale e con l'elenco delle carte che lo corredano, deve, a cura del ricorrente, essere notificato all'altra parte (è discusso se al domicilio reale o a quello eletto nel giudizio d'appello) nel termine di novanta giorni (trenta nelle cause del lavoro) a partire dalla notificazione della sentenza che s'impugna; e l'originale, con la relazione dell'avvenuta notificazione, deve essere depositato, insieme con gli atti e documenti annessi (tra i quali la copia autentica della sentenza denunciata), nella cancelleria della Corte di cassazione (art. 527) nel termine di trenta giorni dall'avvenuta notificazione (art. 526). Nei successivi trenta giorni decorrenti dalla scadenza di questo termine, la parte a cui il ricorso fu intimato può far notificare al ricorrente un controricorso, depositandone in cancelleria l'originale nei cinque giorni successivi; ma, a differenza di quelli stabiliti per il ricorso, l'inosservanza dei termini stabiliti per il controricorso non importa decadenza; inoltre la parte intimata, anche se non presenta controricorso, è sempre ammessa a resistere al ricorso, depositando memorie defensionali in cancelleria fino a tre giorni (liberi) prima dell'udienza e facendosi rappresentare alla discussione orale da un avvocato ammesso a patrocinare in cassazione. La legge conosce il ricorso adesivo (art. 529), ma non il ricorso incidentale: per supplire alla mancanza del quale, non potendo la parte intimata servirsi del controricorso per denunciare a sua volta la sentenza sui capi in cui le è stata sfavorevole, la pratica ha escogitato il ricorso principale condizionato.

Il ricorso (dove non vi sia rinunzia: articoli 550-552) è discusso oralmente in contraddittorio nell'udienza fissata dal presidente, di cui è data alle parti comunicazione almeno dieci giorni prima; dopo la relazione del consigliere a ciò delegato, parlano gli avvocati e infine conclude il ministero pubblico (articoli 536-538). Tutto il procedimento è mosso dall'impulso d'ufficio e per questo non soffre perenzione né si arresta o si modifica per contumacia delle parti.

La sentenza della Corte di cassazione, che è deliberata in fine di udienza, ma pubblicata molti giorni dopo, può dichiarare inammissibile il ricorso, ovvero rigettarlo come infondato (art. 541 cod. proc. civ.), con la conseguenza che la sentenza denunciata rimane ferma (talvolta peraltro integrata o modificata nella motivazione, dalle osservazioni critiche con cui la Corte di cassazione, nella stessa sentenza di rigetto, viene a esercitare in pratica un vero e proprio potere positivo di rettifica sulle decisioni di merito: cfr. art. 538 cod. proc. pen.), oppure può accogliere il ricorso, nel qual caso la sentenza denunciata non viene riformata come in appello (cioè sostituita da una nuove sentenza sul merito), ma semplicemente, in tutto o in parte cassata. Quando la sentenza sia cassata "per il motivo che l'autorità giudiziaria non poteva pronunciare" o per altro motivo che renda inutile o improcedibile il rescissorio (art. 544), il processo ha termine con la cassazione (cassazione senza rinvio: cfr. articoli 539-540 cod. proc. pen.); ma di regola, quando all'annullamento deve seguire un nuovo giudizio sul merito allo scopo di sostituire con una nuova sentenza quella cassata, la corte di cassazione (art. 544) "rimanda la causa ad altra autorità giudiziaria uguale in grado a quella che pronunciò la sentenza cassata, e che sia più vicina alla medesima" (giudice di rinvio, foro commissorio). Dinnanzi al giudice di rinvio (la cui competenza si estende anche alle controversie di cui al capoverso dell'art. 571), la causa viene nuovamente trattata nel merito, in diritto e in fatto, negli stessi limiti in cui avrebbe potuto esser trattata nel primo giudizio d'appello; ma con queste due limitazioni: 1. che nel giudizio di rinvio si deve tener conto delle preclusioni già verificatesi nella fase precedente di merito; 2. che non possono esser rimessi in discussione dinnanzi al giudice di rinvio né i capi non colpiti da cassazione (art. 543) né le questioni di diritto che, già decise nel precedente giudizio d'appello, non abbiano formato oggetto dei motivi del ricorso.

Ove l'annullamento sia avvenuto per error in iudicando (non quando sia avvenuto per error in procedendo, nel qual caso la pronuncia della corte ha sempre efficacia di statuizione positiva: cfr. art. 544) il giudice di rinvio può non conformarsi, o, come si dice nella pratica forense, può "ribellarsi", alla decisione della Corte di cassazione sul punto di diritto. In tal caso la parte soccombente può di nuovo ricorrere in cassazione "per gli stessi motivi" alle sezioni unite della Corte: e contro la decisione data da esse alla quaestio iuris, il nuovo giudice di rinvio non può più "ribellarsi". Questo complicato e anacronistico istituto della facoltà di "ribellione" consentita al primo giudice di rinvio è scomparso dal processo del lavoro e dal processo penale (art. 546 cod. proc. pen.), nei quali l'opinione di diritto espressa dalla Corte di cassazione con la sentenza che accoglie il ricorso è sempre vincolativa per il giudice di rinvio, con un fenomeno di preclusione (non di giudicato) che fa apparire la sentenza del giudice di rinvio come una sentenza soggettivamente complessa.

Il procedimento e le condizioni di ammissibilità del ricorso in cassazione penale si differenziano naturalmente nei particolari da quelli, sopra descritti, del ricorso civile; ma sostanzialmente la struttura e gli effetti del ricorso sono identici nei due processi. Si ricordi che secondo il sistema adottato dal vigente codice proc. pen., il ricorso in cassazione penale si considera come un rimedio ordinario, che assume carattere di rimedio straordinario solo quando è proposto contro sentenze di giudici speciali nel caso previsto dall'art. 528 cod. proc. pen.; ma la contrapposizione non ha lo stesso significato che ha nel sistema dei mezzi d'impugnativa del processo civile.

Bibl.: Oltre quella citata sotto le voci domanda giudiziale; corte; La Corte di cassazione, cfr., per il ricorso in cassazione civile, specialmente P. Calamandrei, La cassazione civile, Torino 1920, II, cap. 7-11; id., Studi sul processo civile, Padova 1930, I, p. 168 segg.; II, pp. 159, 211, 257 segg.; III, ivi 1934, p. 267; M. D'Amelio, La corte di cassazione e la "rettifica" delle sentenze di merito, in Mon. Trib., 1933, p. 88; F. Carnelutti, Interpretazione autentica della sentenza, in Riv. dir. proc., 1933, I, p. 53; A. Lucarelli, e B. Barbera, Il procedimento nei giudizi civili innanzi alla Corte di cassazione, Roma 1933; G. Chiovenda, Istituzioni di dir. processuale, Napoli 1934, II, par. 80. Per il ricorso penale, cfr. V. Manzini, Trattato di dir. processuale penale, Torino 1932, IV, n. 499 segg.; A. Del Giudice, Nuovi aspetti della cassazione in materia penale, in Annali di dir. e proc. pen., 1932; G. Augenti, Natura e limiti del giudizio penale di rinvio, Roma 1934.

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