Riserva di legge in materia penale e fonti sovranazionali

Libro dell'anno del Diritto 2012

Riserva di legge in materia penale e fonti sovranazionali

Francesco Viganò

Il monopolio della legge statale nella determinazione dei confini delle condotte punibili e del relativo trattamento sanzionatorio è sempre più eroso da fonti sovranazionali: in particolare, da norme dell’Unione europea e, in misura minore, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla sua interpretazione ad opera della Corte di Strasburgo. Importanti novità si segnalano su questo fronte tra il 2010 e il 2011, a cominciare dalla vicenda che ha interessato le incriminazioni di cui all’art. 14, co. 5 ter e quater, d.lgs. n. 286/1998 – norme chiave del nostro diritto penale dell’immigrazione – delle quali la Corte di giustizia dell’Unione europea ha imposto ai giudici italiani la disapplicazione, sulla base di una recente direttiva di cui era ormai inutilmente scaduto il termine di attuazione.

La ricognizione. Diritto penale e fonti internazionali e dell’Unione europea

Il capitolo delle fonti del diritto penale, dominato dal principio di legalità e dal suo corollario della riserva di legge di cui all’art. 25, co. 2, Cost., deve sempre più fare i conti con l’influsso di fonti sovranazionali nella determinazione dei fatti penalmente rilevanti e delle relative sanzioni1. Beninteso, la responsabilità penale di un individuo può discendere (ancora) sempre e soltanto, nel nostro ordinamento, da una legge o da un atto avente forza di legge nazionale. Tuttavia, da un lato il contenuto di tali atti – sul fronte della determinazione del precetto così come della sanzione – è ormai spesso determinato da fonti sovranazionali vincolanti per il nostro paese, che come tali si impongono allo stesso legislatore italiano, chiamato in sostanza a recepire scelte assunte altrove anche nella materia criminale, con correlativa possibilità per la Corte costituzionale – a determinate condizioni – di sanzionare, attraverso pronunce di illegittimità costituzionale, eventuali scelte legislative difformi; dall’altro, la concreta applicazione dei precetti penali nazionali ad opera del giudice deve tenere conto, in maniera sempre più incisiva, di tali fonti sovranazionali, che possono di volta in volta incidere semplicemente sulla interpretazione del precetto, o addirittura determinarne la disapplicazione o l’illegittimità costituzionale. Tra le fonti rilevanti in materia penale spiccano, naturalmente, le norme – primarie e derivate – del diritto dell’Unione europea (UE), così come interpretate dalla Corte di giustizia di Lussemburgo, le quali posseggono la massima capacità di penetrazione nell’ordinamento interno in forza della limitazione di sovranità cui lo Stato italiano si è volontariamente sottoposto, in ossequio all’art. 11 Cost., mediante la propria adesione ai trattati istitutivi delle comunità europee e, oggi, dell’Unione. Ma accanto ad esse, vi è una congerie di norme di diritto internazionale pattizio, adottate in seno a numerose istituzioni sovranazionali (a livello universale, come nel caso dell’ONU o dell’OCSE, ovvero regionale, come nel caso del Consiglio d’Europa); norme che ormai frequentemente dettano agli Stati parte prescrizioni incidenti sulla materia penale, imponendo loro – in particolare – la criminalizzazione e l’effettiva punizione di determinate condotte offensive di interessi rilevanti per la comunità internazionale. Tra tali norme, emergono per importanza la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e i relativi protocolli addizionali, così come interpretati dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, la cui rilevanza per il nostro diritto penale (processuale e sostanziale) è oggetto di attenzione crescente da parte della dottrina e della stessa giurisprudenza (ordinaria e costituzionale) italiana. Di recente la nostra giurisprudenza, ordinaria e costituzionale, ha avuto numerose occasioni per confrontarsi con questo spinoso capitolo della teoria delle fonti del diritto penale. Sul fronte del diritto dell’Unione europea, la Corte costituzionale ha anzitutto avuto modo, nel 2010, di affermare in almeno due distinte occasioni (nelle sentenze n. 28 e 227, la prima delle quali afferente alla materia del diritto penale sostanziale e la seconda concernente la cooperazione giudiziaria in materia penale) l’idoneità delle norme derivate dal diritto dell’Unione europea sprovviste di effetto diretto – rispettivamente, una direttiva e una decisione quadro – a costituire altrettanti parametri c.d. interposti di legittimità costituzionale di norme interne attuative degli obblighi europei, con conseguente illegittimità costituzionale – al duplice parametro rappresentato dagli artt. 11 e 117, co. 1, Cost. – delle pertinenti leggi interne di attuazione risultate in contrasto con tali obblighi. Nel corso dei primi mesi del 2011, la giurisprudenza ordinaria si è invece dovuta confrontare con una norma UE dotata di effetto diretto – la direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatri di cittadini di paesi terzi irregolarmente soggiornanti nell’Unione europea –, che si assumeva incompatibile con la norma incriminatrice di cui all’art. 14, co. 5 ter e quater, d.lgs. n. 286/1998: traendo da ciò la conseguenza – espressamente avallata dalla Corte di giustizia nella sentenza El Dridi del 28.4.2011 – dell’inapplicabilità della norma incriminatrice italiana nei confronti dell’imputato. Una vicenda, questa, di notevolissimo impatto pratico nella prassi della nostra giustizia penale (si calcola, in effetti, che ad almeno un terzo delle persone quotidianamente arrestate in flagranza in Italia sino alla fine del 2010 fosse contestato proprio uno dei delitti di cui all’art. 14 d.lgs. n. 286/98), che ha plasticamente mostrato quanto importante sia ormai divenuto il diritto dell’Unione europea anche in un settore dell’ordinamento tradizionalmente considerato come dominio esclusivo del legislatore nazionale. Parallelamente, la Corte costituzionale si è più volte misurata, nel corso del 2011, con gli obblighi derivanti dalla CEDU e dalle sentenze della Corte di Strasburgo, ritornando sugli insegnamenti delle fondamentali sentenze n. 348/2007 e n. 349/2007, la cui portata è stata ulteriormente precisata anche alla luce del fatto nuovo rappresentato dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona che, attribuendo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (e mediatamente alla stessa CEDU) lo stesso valore dei trattati istitutivi dell’Unione, aveva fatto a molti pensare ad una integrale «comunitarizzazione » della CEDU, con conseguente idoneità delle sue norme a determinare la disapplicazione delle norme interne contrastanti ad opera dello stesso giudice ordinario, senza necessità di passare per il vaglio della Corte costituzionale. In questa chiave, particolare significato assumono, nell’ottica del penalista, la sentenza n. 80/2011 – che, pur concernendo un profilo di diritto processuale penale, chiarisce per l’appunto quale sia oggi il rango della CEDU, alla luce del trattato di Lisbona – e la sentenza n. 236/2011, che invece rimedita un tema «classico» di diritto penale sostanziale – il principio della retroattività della lex mitius – confrontandosi con gli insegnamenti in materia della C. eur. dir. uomo.

La focalizzazione

In ragione del diverso status del diritto dell’Unione europea e delle altre fonti di diritto internazionale pattizio (tra cui la CEDU), converrà qui condurre analisi separate sulle novità concernenti i due fronti in parola.

2.1 Diritto penale e fonti UE

La Corte costituzionale ha avuto per la prima volta occasione di pronunciarsi, nel corso del 2010, su questioni incidentali di costituzionalità – concernenti in almeno un caso anche norme incriminatrici – incentrate sulla violazione di obblighi discendenti da fonti dell’Unione europea di diritto derivato sprovviste di effetto diretto, e come tali non sottoposte al regime stabilito dalla storica sentenza Granital (n. 170/1984). Come noto, in tale sentenza la Corte aveva affermato che, nel caso di contrasto tra una norma di legge italiana e una norma comunitaria dotata di effetto diretto, il giudice ordinario ha l’obbligo di non applicare la norma di legge, riconoscendo così direttamente la priorità del diritto comunitario nell’ordinamento italiano, nei settori di propria competenza, senza dover sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna avanti alla Corte – tale questione risultando, anzi, inammissibile. Quando una norma comunitaria possegga effetto diretto è stabilito, d’altra parte, dalla costante giurisprudenza della Corte di giustizia, a partire dallo storico caso Van Gend & Loos del 19632: in particolare per ciò che riguarda le direttive, esse saranno idonee a spiegare effetto diretto alla triplice condizione a) che sia inutilmente scaduto il termine entro il quale lo Stato membro è tenuto a dare attuazione alle disposizioni della singola direttiva, b) che le loro previsioni siano chiare, precise e incondizionate (ossia suscettibili di essere applicate senza la necessaria mediazione di norme di diritto interno), e c) che le previsioni medesime attribuiscano all’individuo una posizione giuridica favorevole nei confronti della pubblica autorità. Tali principi vigono anche nella materia penale: il giudice italiano è, dunque, tenuto a non applicare incriminazioni incompatibili con gli obblighi scaturenti da una norma dell’Unione europea dotata di effetto diretto, e a mandare assolti conseguentemente gli imputati. Restava aperto, tuttavia, il problema dello status delle norme europee sprovviste di effetto diretto, dalle quali pure discendano obblighi a carico dello Stato membro. Tale problema è stato affrontato nella sentenza n. 28/2010 (sulla quale v. anche Nuovi sviluppi in materia di retroattività della legge penale più favorevole, 3.1.), concernente una questione di legittimità costituzionale relativa ad una norma del testo unico ambientale (d.lgs. n. 152/2006) che sottraeva le ceneri di pirite alla disciplina generale in materia di rifiuti, penalmente sanzionata: e cioè una particolare categoria di sottoprodotti che, in virtù della direttiva 2006/12/CE e dell’interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia, avrebbe invece dovuto esservi assoggettata. Ora, le disposizioni pertinenti della direttiva comunitaria in questione, che impongono agli Stati membri di presidiare le proprie disposizioni a mezzo di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, erano certamente sprovviste di effetto diretto: è, infatti, principio consolidato nel diritto europeo che dalle norme di una direttiva di per sé considerate può discendere soltanto un effetto giuridico favorevole per l’individuo, e che pertanto da esse non può derivare l’effetto di determinare o aggravare la responsabilità penale di un individuo, in assenza di una norma incriminatrice interna che preveda il fatto come reato3. L’inadempimento dell’obbligo imposto dalla direttiva allo Stato di sanzionare efficacemente il fatto, eventualmente anche a mezzo del diritto penale, determina tuttavia – secondo la prospettiva accolta dalla sentenza n. 28/2010 della Corte costituzionale – il contrasto della norma interna che sottragga il fatto medesimo ad una generale fattispecie di reato (nella specie, quella che sanziona l’illecito trattamento dei rifiuti) con la Costituzione italiana, ed in particolare con l’art. 11 e 117, co. 1, Cost.: norme costituzionali dal cui combinato disposto si evince l’obbligo per il legislatore (anche penale) di rispettare gli obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario, ai cui vincoli l’ordinamento italiano si è volontariamente sottoposto mediante la ratifica dei relativi trattati istitutivi, rinunciando correlativamente a una quota della propria sovranità. Il giudice ordinario dovrà pertanto, in simili ipotesi, rimettere la questione alla Corte costituzionale, affinché essa provveda ad accertare ed eventualmente eliminare il denunciato contrasto, mediante la via della dichiarazione di illegittimità della norma di legge comunitariamente illegittima: anche qualora ciò comporti, come nel caso di specie sottoposto alla Corte, un ampliamento dell’area del penalmente rilevante rispetto alle scelte del legislatore italiano. Tale soluzione è stata ripresa dalla Corte nella successiva sentenza n. 227/2010, in cui si discuteva del contrasto tra una disposizione della legge italiana di attuazione della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo e le pertinenti disposizioni della decisione quadro. Anche qui, la norma europea di riferimento era pacificamente sprovvista di effetto diretto, per esplicito disposto dell’allora vigente art. 34 TUE, sulla cui base l’atto era stato adottato: il che escludeva che il giudice ordinario potesse direttamente rimuovere il contrasto, attraverso la disapplicazione della norma interna. Il contrasto viene allora rimosso, ancora una volta, dalla Corte costituzionale, con una decisione che estende agli strumenti cd. di terzo pilastro – numerosi tra i quali impongono obblighi di criminalizzazione a carico degli Stati membri, e sono dunque rilevanti nella materia del diritto penale sostanziale – come le decisioni quadro la soluzione elaborata della sentenza n. 28/2010: e dunque attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma interna, in relazione al duplice parametro rappresentato dagli articoli 11 e 117, co. 1, Cost. Come anticipato, l’attenzione della prassi penalistica italiana in materia di fonti dell’Unione europea è stata invece dominata nel 2011 da una direttiva, la 2008/115/CE, della quale si assumeva l’idoneità a spiegare effetti diretti nei giudizi penali ex art. 14, co. 5 ter e quater, d.lgs. n. 286/1998 a carico degli immigrati extracomunitari irregolari inottemperanti all’ordine di allontanamento loro intimato dal questore. Rinviando ad altra sede per un più dettagliato esame della questione (cfr. Diritto penale e governo dei flussi migratori), basterà qui osservare che la direttiva in questione, il cui termine di attuazione era scaduto il 24 dicembre 2010, disciplina analiticamente la procedura di rimpatrio dello straniero irregolarmente residente nei Paesi membri, prevedendo in via di ultima ratio e al ricorrere di tassative condizioni la misura del trattenimento dello straniero in appositi centri di permanenza temporanea per un periodo massimo di diciotto mesi, escludendo – salvi casi eccezionali – che tale trattenimento possa avere luogo in carcere. Recependo una indicazione emersa in dottrina, una parte della giurisprudenza di merito aveva ritenuto, già all’indomani dell’inutile scadenza del termine del 24.12.2010, che tale normativa stabilisse uno standard minimo di tutela della libertà personale dello straniero, attraverso la fissazione di regole precise e inderogabili da parte dello Stato membro, in grado di prevalere rispetto ad una legislazione nazionale che prevedesse la possibilità di limitazioni della libertà personali ulteriori, e a condizioni deteriori, rispetto a quelle tassativamente consentite dalla direttiva. La previsione, ad opera del citato art. 14 d.lgs. n. 286/1998, della reclusione fino a cinque anni a carico dello straniero non cooperante con la procedura espulsiva era così apparsa incompatibile con il meccanismo previsto dalla direttiva, e tale da comprimere illegittimamente la libertà personale dello straniero. A seguito di un rinvio pregiudiziale di interpretazione promosso da un giudice italiano, la Corte di giustizia – pronunciatasi in via di urgenza ai sensi dell’art. 104 ter del regolamento della Corte – ha in effetti accolto questa prospettazione, affermando l’incompatibilità della direttiva con una normativa che, come quella italiana, «preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo»4. Conseguentemente, la Corte ha chiarito che la normativa in questione – alla quale va riconosciuto effetto diretto nell’ordinamento interno5 – deve essere disapplicata dal giudice penale italiano, prevedendo essa una sanzione incompatibile con il diritto europeo. Imponenti, come si diceva nelle note introduttive, gli effetti prodotti nell’ordinamento italiano da questa sentenza, in parte già anticipati dalle numerose pronunce dei giudici di merito che avevano ritenuto il contrasto tra la norma interna e quella UE tanto evidente da non richiedere neppure l’intervento della Corte di giustizia: migliaia di imputati per il delitto censurato in sede europea sono stati assolti perché il fatto non è più previsto come reato, e numerose sentenze di condanna per questo titolo già passate in giudicato sono state revocate (cfr. più ampiamente, sul punto Retroattività della legge penale più favorevole) per effetto dell’impatto del diritto europeo sulla nostra legislazione penale. Un impatto che ha operato questa volta – a differenza di quanto accaduto in materia di rifiuti, per effetto della sopra esaminata sentenza n. 28/2010 – in senso riduttivo dell’area del penalmente rilevante. Rinviando al paragrafo successivo per l’analisi di una importante presa di posizione della Corte costituzionale (nella sentenza n. 80/2011) circa i limiti dell’effetto diretto delle norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cui il trattato di Lisbona attribuisce ora il medesimo rango giuridico dei trattati istitutivi, un’ultima menzione deve essere qui dedicata al ruolo giocato dall’obbligo di interpretazione conforme al diritto europeo gravante sul giudice italiano anche nelle materie di (ex) terzo pilastro – attinenti dunque alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale –, secondo quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella nota sentenza Pupino del 2005. Tale obbligo ha pratico significato in relazione alle fonti europee prive di effetto diretto (come, in particolare, le norme che impongono standard minimi sulla conformazione dei precetti penali e delle relative sanzioni), imponeva al giudice interno imponendogli di optare, tra due interpretazioni entrambe consentite dal dato letterale della norma interna da applicarsi nel caso concreto, quella che meglio consenta all’ordinamento italiano di adempiere agli obblighi discendenti dal diritto dell’Unione. Una recente interessante applicazione di questa tecnica ermeneutica concerne la nozione di «pornografia» infantile, non definita dalla legge penale italiana: la Cassazione ha, in proposito, utilizzato in chiave interpretativa della disciplina di cui all’art. 600 ter c.p. la relativa definizione contenuta nell’art. 1, lett. a), della decisione quadro 2004/68/GAI, a tenore della quale costituisce pornografia il materiale che «ritrae o rappresenta visivamente un bambino reale implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, fra cui l’esibizione lasciva dei genitali o della regione pubica», traendone la conseguenza dell’irrilevanza penale della (in sé certamente inquietante) condotta di un indagato che aveva scattato «diverse fotografie a minori in costume da bagno, chiedendo loro esplicitamente di voltarsi ritraendo la loro parte posteriore mentre [erano] chinati»6. In questa ipotesi, dunque, l’interpretazione conforme conduce il giudice a una riduzione dell’area del penalmente rilevante rispetto ad altre opzioni estensive astrattamente prospettabili. Non può peraltro di per sé escludersi, almeno ad avviso di chi scrive, che il riferimento in chiave interpretativa a norme europee possa condurre il giudice a optare per la soluzione più sfavorevole per l’imputato tra quelle compatibili con la lettera della norma incriminatrice7.

2.2 Diritto penale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo

Almeno due pronunce significative della Corte costituzionale si registrano anche sul fronte del rapporto tra diritto penale e il diritto di Strasburgo. Il quadro di riferimento è, invero, sempre quello già delineato dalle fondamentali sentenze n. 348/2007 e n. 349/2007: l’art. 117, co. 1, Cost. sottopone il legittimo esercizio della potestà normativa statale e regionale non solo al rispetto dei vincoli comunitari, ma anche al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali quelli discendenti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo; con la conseguenza che la violazione di tali obblighi da parte del legislatore determinerà, anche qui, l’illegittimità costituzionale del prodotto normativo, a meno che l’obbligo internazionale in questione non contrasti esso stesso con le norme, prevalenti, della Costituzione italiana. Il giudice ordinario il quale rilevi un’antinomia tra una norma interna e una norma internazionale non potrà, pertanto, risolvere l’antinomia medesima mediante la disapplicazione della prima; ma sarà tenuto, una volta sperimentata l’impossibilità di una sua interpretazione conforme agli obblighi sovranazionali, a rimettere la questione alla Corte costituzionale, assumendo il contrasto della norma interna con l’art. 117, co 1, Cost. e con la norma internazionale rilevante, assunta quest’ultima quale parametro cd. interposto di legittimità costituzionale. La sentenza n. 80/2011 della Corte costituzionale, cui già si faceva cenno poc’anzi, nel confermare integralmente questi principi chiarisce, altresì, che l’entrata in vigore del trattato di Lisbona non ha determinato alcuna modifica dello status della CEDU e dei suoi protocolli addizionali nell’ordinamento italiano. Il dubbio era sorto dal momento che, da un lato, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea richiama espressamente la CEDU (e i suoi protocolli), disponendo all’art. 52 che laddove i diritti riconosciuti dalla Carta siano corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, «il significato e la portata degli stessi» devono intendersi come identici; e che, dall’altro, il nuovo Trattato sull’Unione europea (TUE), come risultante dal Trattato di Lisbona, conferisce alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea lo «stesso valore giuridico dei trattati» (art. 6, co. 1, TUE), e cioè di norme idonee a produrre effetti diretti nell’ordinamento degli Stati membri. Da tali premesse taluno aveva dedotto che le stesse norme della CEDU (e la loro interpretazione ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo), in quanto richiamate e (implicitamente) incorporate in una Carta avente il medesimo valore giuridico dei Trattati UE, fossero ormai suscettibili di determinare, nel nostro ordinamento, la disapplicazione delle norme interne con esse contrastanti da parte dello stesso giudice ordinario, senza più passare per l’intervento necessario della Corte costituzionale secondo il meccanismo disegnato dalle citate sentenze gemelle del 2007. La Corte costituzionale ha tuttavia sciolto negativamente tale dubbio proprio con la sentenza n. 80/2011, sottolineando giustamente che la Carta dei diritti fondamentali si applica all’Unione e agli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», e che la Carta «non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione» (art. 52, co. 2, Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, nonché art. 6, co. 2, TUE). Conseguentemente, al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto UE le norme della CEDU e dei suoi protocolli continueranno a vincolare il legittimo esercizio della potestà legislativa statale e regionale italiana, con conseguente illegittimità costituzionale delle leggi con esse contrastanti, senza che – però – tale illegittimità possa essere rilevata e sanzionata direttamente dal giudice ordinario: il quale sarà piuttosto tenuto, oggi come ieri, a sollevare avanti alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale della legge interna inosservante di tali obblighi, ex art. 117, co. 1, Cost. Uno spazio per la disapplicazione, da parte del giudice ordinario, di norme di legge contrastanti con i diritti riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentale e dalla stessa CEDU (in quanto richiamata dal citato art. 52 della Carta) potrà, invece, essere individuato all’interno dei (sempre più numerosi): ambiti di applicazione del diritto europeo ambiti che interessano sempre più anche il diritto penale sostanziale (si pensi alla materia della tutela penale dell’ambiente, del diritto penale dell’immigrazione o della tratta di esseri umani, oggetto di altrettante direttive – le n. 2008/99/CE, n. 2009/123/CE, n. 2009/52/CE, n. 2011/36/UE – che sanciscono obblighi di incriminazione di determinate condotte a carico degli Stati membri). All’interno di tali ambiti, dunque, il giudice ordinario italiano avrà in futuro la possibilità di dare diretta applicazione ai diritti riconosciuti dalla CEDU e dalla stessa Carta dei diritti fondamentali ed in particolare di quelli che concernono proprio la materia penale (ad es., art. 7 CEDU e art. 49 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). La successiva sentenza n. 236/2011 (sulla quale cfr. più ampiamente, Nuovi sviluppi in tema di retroattività della legge penale più favorevole) interviene invece a chiarire, con riferimento specifico alle questioni di legittimità costituzionale ex art. 117, co. 1, Cost. che assumano la contrarietà della legge interna agli obblighi discendenti dalla CEDU, la portata del vincolo della Corte costituzionale all’interpretazione che la giurisprudenza di Strasburgo dà alla norma della CEDU che viene nel caso concreto in considerazione: questione, ovviamente, di notevole interesse anche per la giurisprudenza (penale) ordinaria, che parimenti è tenuta ad orientare la propria attività interpretativa agli obblighi discendenti dalle norme della CEDU, così come interpretate dal ‘loro’ giudice – la Corte di Strasburgo, appunto8. Come il lettore rammenterà, le sentenze n. 348/2007 e n. 349/2007 avevano affermato perentoriamente che le norme della CEDU devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, riconoscendo così la vincolatività della giurisprudenza di quella Corte per il nostro giudice (ordinario e costituzionale). La successiva sentenza n. 317/2009 aveva peraltro parzialmente sfumato questa affermazione, sostenendo che spetta comunque alla Corte costituzionale «valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano»9, traendone l’ulteriore implicazione che al giudice delle leggi italiano «compete … di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi»10. Tali ultime affermazioni vengono ora testualmente riprese dalla sentenza n. 236/2011, in cui il giudice remittente aveva invocato un precedente della Corte europe dei diritti dell’uomo che aveva dedotto dal principio di legalità in materia penale di cui all’art. 7 CEDU il corollario della necessaria retroattività della legge penale più favorevole. Nel caso di specie, l’esercizio di un tale «margine di apprezzamento e di adeguamento» si impone dunque anche rispetto al precedente invocato dai giudici remittenti, rispetto al quale la Corte poco più innanzi sottolinea che, pur trattandosi di una sentenza che «tende ad assumere un valore generale e di principio», essa «resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la circostanza che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente valutate e prese in considerazione [dalla Corte costituzionale], nel momento in cui è chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di quello stesso principio»11. Sulla base di tali premesse, la Corte nega che il principio di retroattività della legge penale più favorevole, pur affermato in termini apparentemente assoluti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, valga senza eccezione alcuna, e riconosce così la legittimità costituzionale della norma impugnata (l’art. 10, co. 3, l. n. 251/2005, cd. legge ex Cirelli), che stabilisce la non retroattività delle più favorevoli norme in materia di prescrizione introdotte dalla legge medesima per i processi già pendenti in grado di appello o di cassazione: e ciò a fronte della sussistenza di valide ragioni giustificative della deroga introdotta dal legislatore ordinario al principio di retroattività della lex mitior. Se una soluzione siffatta sia effettivamente compatibile con gli obblighi discendenti dalla CEDU, e se più in generale la dottrina del «margine di apprezzamento» rispetto agli orientamenti di Strasburgo cui fa riferimento la Corte costituzionale sia effettivamente destinata a imporsi anche presso la futura giurisprudenza costituzionale e ordinaria, è questione che non può essere ulteriormente approfondita in questa sede12.

I profili problematici

Numerose sono, a tutt’oggi, i profili di frizione tra il diritto penale italiano e gli obblighi sovranazionali gravanti sul nostro ordinamento, che dovranno presto essere affrontati dalla nostra giurisprudenza ordinaria, attraverso a) la diretta applicazione delle pertinenti norme europee dotate di effetto diretto, previa disapplicazione della norma penale interna contrastante, ovvero b) l’interpretazione conforme alle norme sovranazionali (norme europee non dotate di effetto diretto e altre norme internazionali, tra cui la CEDU), o ancora – laddove una interpretazione conforme non sia possibile – c) il rinvio degli atti alla Corte costituzionale per contrasto della norma interna con l’art. 117, co. 1, Cost. (oltre che con l’art. 11 Cost., nel caso di norme europee). A titolo poco più che esemplificativo, di seguito qualche esempio in proposito.

3.1 Limiti garantistici all’applicazione della confisca

Un primo settore problematico è rappresentato dalla confisca: misura sanzionatoria da sempre in bilico tra la qualificazione in termini di misura di sicurezza o di vera e propria pena, con rilevanti conseguenze pratiche in tema – ad es. – di applicabilità retroattiva della stessa: consentita nell’ordinamento italiano per le misure di sicurezza (art. 200 c.p.), esclusa nel caso delle pene anche per esplicito vincolo costituzionale (art. 25, co. 2, Cost.). Con due decisioni parallele, praticamente coeve, le Sezioni unite della Cassazione13 e la Corte costituzionale14 hanno escluso nel 2010 l’applicazione retroattiva della confisca obbligatoria del veicolo, introdotta nel nostro ordinamento dal «pacchetto sicurezza» del 2008, argomentando proprio dalla natura di sanzione punitiva di tale sanzione e traendo per tale qualificazione decisivi argomenti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di art. 7 CEDU: una giurisprudenza che, come è noto, adotta una propria nozione autonoma di «pena», indipendentemente dalla qualificazione fornita dalla legislazione interna alla misura che di volta in volta viene in considerazione, allo scopo di impedire agli Stati di sottrarsi alle garanzie che la Convenzione appresta per la materia penale (tra le quali, appunto, il divieto di applicare una pena a fatti per i quali essa non era prevista al momento della loro commissione) semplicemente etichettando la misura come di natura non penale (su tali sentenze, cfr. più ampiamente Nuova disciplina della confisca dei veicoli nel codice della strada, § 1.3). In un caso, dunque, la CEDU e la sua interpretazione ad opera della Corte di Strasburgo è stata invocata a fondamento di una interpretazione conforme della norma penale interna; nell’altro, essa ha costituito parametro interposto di una questione di legittimità costituzionale della norma stessa, sollevata ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost., e sfociata poi in una sentenza di accoglimento con la quale si è raggiunto, in definitiva, il medesimo risultato cui già erano pervenute le Sezioni Unite della Cassazione in via interpretativa. La sentenza Sud Fondi c. Italia della Corte di Strasburgo15, che ha condannato il nostro paese per la violazione dell’art. 7 CEDU e dell’art. 1 del primo protocollo addizionale, che tutela il diritto di proprietà, per la nota vicenda del cd. ecomostro di Punta Perrotti, ha d’altra parte condotto recentemente la giurisprudenza italiana ad abbandonare la propria vecchia giurisprudenza in materia di confisca dei terreni abusivamente lottizzati di cui all’art. 44, co. 2, d.P.R. n. 380/2001, e a riconoscerne l’inapplicabilità ai soggetti estranei al reato, nonché agli imputati assolti per difetto di elemento soggettivo. Conseguentemente, la confisca disposta nel caso di specie che aveva dato luogo alla pronuncia della Corte europea (il noto caso del cd. ecomostro di Punta Perrotti) nonostante l’avvenuta assoluzione degli imputati per errore inevitabile sulla legge penale è stata revocata nel 2010 dai giudici di merito in sede di incidente di esecuzione16. Molti altri fronti restano, peraltro, ancora aperti in materia di adeguamento della disciplina italiana della confisca agli standard convenzionali: ad es. in relazione alla confisca c.d. allargata di cui all’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992 (come conv. dalla l. n. 356/1992), ancora recentemente oggetto di modifiche legislative che ne hanno ampliato significativamente il raggio di applicazione: una sanzione che continua pervicacemente ad essere qualificata come misura di sicurezza dalla nostra giurisprudenza con lo scopo evidente di sottrarla al divieto di applicazione retroattiva, e la cui complessiva compatibilità con le garanzie dei diritti dell’imputato e del condannato sanciti in sede europea è, ci pare, ancora tutta da vagliare.

3.2 Espulsione dello straniero disposta dal giudice penale e diritti garantiti dalla CEDU

Altro settore nel quale sono stati avvertiti dai giudici italiani i vincoli derivanti dall’adesione alla CEDU del nostro paese concerne l’espulsione dello straniero: in particolare, per quanto in questa sede rileva, allorché tale misura sia disposta o eseguita dal giudice penale o, rispettivamente, dal giudice di sorveglianza quale misura di sicurezza, pena sostitutiva o misura alternativa alla detenzione. La sentenza della Grande camera nel caso Saadi c. Italia del 200817 e una serie di sentenze successive delle camere semplici (nonché numerosi provvedimenti ad interim adottati in base alla Rule 39 del regolamento della Corte, in seguito a ricorsi urgenti dello straniero18) hanno sancito un inequivoco divieto, a carico degli Stati parte della Convenzione e discende dall’art. 3 CEDU, di espellere lo straniero in uno Stato dove questi sia esposto al rischio sostanziale di essere esposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, specie ad opera della polizia di quello Stato; il che regolarmente accade, sulla base delle informazioni raccolte e diffuse dagli organismi internazionali di tutela dei diritti umani, nel caso di espulsione di condannati (o di sospettati) per delitti di terrorismo internazionale. Proprio per evitare la violazione di tale divieto, la magistratura italiana di sorveglianza ha – ad es. – disposto a fine pena la conversione dell’espulsione nella misura di sicurezza della libertà vigilata a carico di un condannato per delitti di terrorismo internazionale, nei cui confronti la sentenza di condanna aveva applicato la misura di sicurezza dell’espulsione di cui all’art. 312 c.p. verso il paese di origine (Tunisia), nel quale vi sarebbe stato un rischio concreto di sottoposizione a pratiche di tortura da parte delle locali forze dell’ordine19.

3.3 Decadenza perpetua dal diritto di voto per i condannati all’ergastolo

Con la sentenza Scoppola c. Italia (n. 3), del gennaio 2011, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro paese in relazione al meccanismo di privazione perpetua (e automatica) del diritto di voto in conseguenza di condanne all’ergastolo o a pena detentiva non inferiore a cinque anni ai sensi dell’art. 29 c.p., meccanismo che determina – secondo la Corte – la violazione dell’art. 3 del primo protocollo addizionale, che sancisce il diritto a libere elezioni20. Oggetto delle censure dei giudici europei è, in particolare, l’automatismo della sanzione imposto dalla normativa vigente, che impedisce al giudice una valutazione caso per caso della proporzione di tale condanna rispetto alla gravità del fatto commesso. Dal momento che, in questo caso, una interpretazione conforme della vigente normativa del codice penale non sembra praticabile, stante lo sbarramento imposto dai suoi inequivoci dati testuali, la sola via per eliminare l’antinomia evidenziata a Strasburgo sembra essere quella della denuncia della illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. – e mediatamente con l’art. 3 prot. 1 CEDU – di tale normativa21: una strada che verosimilmente sarà presto percorsa nel nostro paese, in sede di incidente di esecuzione o nell’ambito di processi ancora in corso, per adeguare il diritto penale italiano ai limiti garantistici imposti in sede europea.

3.4 Spinte espansive della potestà punitiva statale provenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo

Anche dal diritto di Strasburgo (così come dal diritto europeo, e dal diritto internazionale pattizio in genere) provengono spinte all’espansione della potestà punitiva statale. Se ormai numerosissime convenzioni (regolarmente ratificate anche dal nostro paese) impongono agli Stati parte obblighi di incriminazione del tutto analoghi a quelli previsti dall’Unione europea, in precedenza esaminati, un fenomeno su cui soltanto recentemente la dottrina italiana ha cominciato a dedicare attenzione concerne gli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, desunti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (pur in assenza di specifici fondamenti testuali) dalle esigenze di tutela effettiva dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e dai suoi protocolli addizionali22. Il generale obbligo a carico degli Stati membri di garantire e riconoscere, all’interno delle rispettive giurisdizioni, i diritti fondamentali degli individui comporta infatti, secondo la Corte, l’obbligo (cd. positivo) di tutelare efficacemente gli individui contro le aggressioni provenienti non solo dagli stessi organi dello Stato, ma anche da altri privati individui; e tale obbligo positivo di tutela, a sua volta, comporta l’obbligo per lo Stato di attivarsi non solo per prevenire le violazioni, ma anche per sanzionare le medesime con la necessaria energia, in modo da assicurare la necessaria deterrenza contro i malintenzionati e, al tempo stesso, da assicurare un adeguato ristoro alle vittime dell’avvenuta violazione. Rispetto a tali scopi, una giurisprudenza ormai consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo afferma l’esistenza di veri e propri obblighi di tutela penale dei più fondamentali tra i diritti convenzionali, tra i quali la vita, il diritto a non essere sottoposti a tortura e a trattamenti inumani o degradanti, il diritto a non essere sottoposti a schiavitù, oltre a un nucleo minimo del diritto alla vita privata coincidente (quanto meno) con il diritto alla propria intangibilità sessuale; obbligo di tutela penale che comporta non solo il dovere dello Stato parte di criminalizzare le condotte intenzionalmente lesive di tali diritti, ma anche il dovere di attivare indagini ex officio idonee a pervenire alla identificazione e alla effettiva punizione dei responsabili. Il difetto di tale punizione (quale che ne sia la ragione: previsione di una norma incriminatrice dai confini troppo angusti o di una scriminante dai confini troppo estesi; inefficienza delle indagini; operatività di una causa di esclusione della pena come l’amnistia, la prescrizione o la grazia), ovvero una punizione manifestamente troppo debole in rapporto alla gravità del fatto, determineranno allora una violazione, da parte dello Stato, dei diritti convenzionali della vittima della violazione. Possibili ricadute pratiche di questa giurisprudenza concernono, ad es., la spinosa materia dell’uso legittimo delle armi da parte della forza pubblica. Se nel notissimo caso Giuliani c. Italia, relativo all’uccisione di un manifestante in occasione delle proteste che accompagnarono il vertice del G8 di Genova nel 2001, la Grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha nel 2011 escluso – in parziale riforma della sentenza di primo grado – la violazione dell’art. 2 CEDU da parte dello Stato italiano23, ad un esito diametralmente opposto è pervenuta la seconda sezione in un caso pressoché coevo, Alikaj c. Italia, relativo all’uccisione di un giovane albanese da parte della polizia italiana durante un inseguimento. In quest’ultima occasione, la Corte ha fondato la violazione del diritto alla vita di cui all’art. 2 CEDU – tra l’altro – sulla considerazione che l’art. 53 c.p. non disciplina con la necessaria precisione, e in maniera adeguatamente rigorosa, la facoltà di uso della forza letale da parte delle forze di polizia, esponendo così i possibili destinatari al rischio di violazioni illegittime del proprio diritto alla vita; e ha censurato, altresì, lo Stato italiano in relazione alla pronuncia di prescrizione del delitto di omicidio colposo contestato – sub specie di eccesso in uso legittimo delle armi – all’autore del fatto24. Da questa sentenza sembra lecito trarre, quanto meno, un duplice insegnamento. Da un lato, emerge l’inadeguatezza rispetto agli standard convenzionali di tutela del diritto alla vita dell’art. 53 c.p., e a fortiori delle altre norme – sparse in varie parti dell’ordinamento – che disciplinano l’uso delle armi da parte della forza pubblica: norme tutte che non disciplinano in maniera tassativa le ipotesi in cui tale uso deve considerarsi lecito, e che soprattutto non contemplano il limite generale della proporzione, essenziale invece nell’ottica convenzionale secondo la giurisprudenza di Strasburgo. A tale lacuna potrebbe alternativamente porre rimedio la giurisprudenza ordinaria, in via di interpretazione conforme dell’art. 53 c.p. – che dovrebbe quindi essere letto, in conformità a quanto del resto già sostenuto dalla dottrina prevalente in esito ad altri itinerari ermeneutici, come contemplante implicitamente il limite della proporzione –; ovvero la stessa Corte costituzionale, attraverso una pronuncia additiva che avrebbe, naturalmente, effetto riduttivo dell’ambito di applicazione dell’esimente e, correlativamente, espansivo della possibile responsabilità penale degli agenti della forza pubblica. Dall’altro lato, la sentenza Alikaj c. Italia evidenzia come l’attuale meccanismo della prescrizione del reato possa condurre a risultati contrari agli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali discendenti dalla CEDU, consentendo che violazioni anche molto gravi restino impunite; con il rischio, puntualmente evidenziato dai giudici di Strasburgo in casi siffatti, che l’ordinamento lanci un messaggio di sostanziale tolleranza, quando non addirittura di complicità, con l’autore della violazione, destinato a fomentare (o quanto meno a non dissuadere) ulteriori violazioni in casi analoghi. Casi come quelli delle torture e trattamenti inumani e degradanti avvenuti in Italia proprio nei giorni del G8 del 2001, e sfociati nei processi di Genova della scuola Diaz e del carcere di Bolzaneto – conclusisi in grado d’appello con gli accertamenti della responsabilità di varie decine di imputati appartenenti alle forze dell’ordine, accompagnati però dal riscontro dell’avvenuta prescrizione di quasi tutti i reati contestati – rivelano plasticamente quanto sia profondo il distacco tra l’ordinamento penale italiano e gli standard convenzionali in materia di tutela dei diritti fondamentali, e pongono in discussione la stessa legittimità costituzionale, ex art. 117, co. 1, Cost., della disciplina positiva della prescrizione, nella misura in cui essa consente che violazioni così come gravi come quelle verificatesi nei casi ora menzionati possano beneficiare della prescrizione, in contrasto con le obbligazioni scaturenti dal nostro paese alla CEDU25.

Note

1 Per un quadro recente, sia consentito il rinvio a Viganò, Fonti europee e ordinamento italiano, in Viganò-Mazza (a cura di), Europa e diritto penale, numero speciale di Dir. pen. e proc., 2011, 4 ss., nonché Viganò, Il diritto penale sostanziale, ibidem, 22 ss.

2 C. giust. CE, 5.2.1963, causa C- 26/62, Van Gend e Loos c. Amministrazione olandese delle imposte.

3 C. giust. CE, 8.10.1987,Kolpinghuis Nijmegen (causa 80/86); 9.7.2005, Berlusconi (cause C-387, 391 e 403/02).

4 C. giust. UE, El Dridi, 28.4.2011 (causa C-61/11 PPU).

5 C. giust. UE, El Dridi, cit. § 46-47.

6 Cass., 4.5.2010, n. 10981.

7 Più ampiamente, sul punto, Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle norme sovranazionali, in Corso-Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, II, 2010, 668 ss. e ivi ult. rif.

8 Sul tema, ampiamente, Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle norme sovranazionali, in Corso-Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, II, 2010, 634 ss.

9 C. cost., n. 317/2009, «considerato in diritto» n. 7.

10 C. cost., n. 236/2011, «considerato in diritto» n. 9. Il criterio del rispetto della «sostanza» della giurisprudenza europea è testualmente ripreso dalla sentenza Corte. cost. n. 311/2009, «considerato in diritto» n. 6.

11 C. cost., n. 236/2011, «considerato in diritto» n. 12.

12 Per una più distesa analisi di questi profili, cfr. Viganò, Sullo statuto costituzionale della legge più favorevole, in www.penalecontemporaneo.it.

13 Cass., S.U., 25.2.2010, n. 23428, in Cass. pen., 2011, 49.

14 C. cost., n. 196/2010.

15 C. eur. dir. uomo, Sud Fondi c. Italia, 20.1.2009, ric. n. 75909.

16Trib. Bari, 4.11.2010, in www.penalecontemporaneo. it.

17 C. eur. dir. uomo, Saadi c. Italia, 28.2.2008, ric. n. 37201/06.

18 Cfr. i rif. puntuali in Colella, Rassegna ragionata delle pronunce in tema di art. 3 Cedu, in www.penalecontemporaneo. it.

19 Uff. Sorveglianza Trib. Livorno, ord. 18.5.2009, in Corr. merito, 2010, 548 con nota di Beduschi, Espulsione e divieto di tortura tra tutela della sicurezza e rispetto dei diritti dell’uomo.

20 C. eur. dir. uomo, Scoppola c. Italia (n. 3), 18.1.2011, ric. n. 126/05.

21 Così Colella, Terza condanna dell’Italia a Strasburgo in relazione all’affaire Scoppola: la privazione automatica del diritto di voto in caso di condanna a pena detentiva contrasta con l’art. 3 Prot. 1 CEDU, in www.penalecontemporaneo.it.

22 Ampiamente sul punto Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, IV, 2011, 2645 ss.

23 C. eur. dir. uomo (Grande camera), 24.3.2011, Giuliani e Gaggio c. Italia, ric. n. 23458/02, con nota di Colella, Con una decisione presa a maggioranza, la grande camera esclude la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione all’uccisione di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova del 2001, in www.penalecontemporaneo.it.

24 C. eur. dir. uomo, 29.3.2011, Alikaj e altri c. Italia, ric. n. 47357/08, con nota di Colella, La Corte «condanna» l’Italia per la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione all’uccisione di un diciannovenne albanese ad opera di un agente di polizia, in www.penalecontemporaneo.it.

25 Più ampiamente, sul punto, Viganò, L’arbitrio del non punire, cit., 2680 ss.

CATEGORIE