Risparmio

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Economia

Rinuncia a consumare una parte del reddito netto, in natura o in moneta, e anche i beni non consumati o il loro equivalente monetario, indipendentemente dall’uso che ne intenda fare il risparmiatore. Nel linguaggio scientifico il termine è usato, a volte, con riferimento a tutta l’eccedenza del reddito netto sul consumo e, a volte, con riferimento soltanto a quella parte del reddito non consumata e reinvestita direttamente o indirettamente nella produzione. Nel primo caso il r. comprende tesoreggiamento e investimento, nel secondo caso coincide invece con quest’ultimo (➔ investimento).

Mercato e funzione del risparmio

Sul mercato del r. si incontrano naturalmente domanda e offerta, la richiesta cioè di prestiti e i r. disponibili ai vari saggi di interesse, ossia ai vari prezzi per l’uso del risparmio (➔ interesse). Va notato come, a differenza della domanda degli imprenditori, che è in genere assai elastica così da cambiare sensibilmente a ogni piccola variazione degli interessi passivi, buona parte dell’offerta sia rigida. Mentre infatti in alcuni casi si verifica una relazione diretta tra quantità del r. offerta sul mercato e rimunerazione offerta dai richiedenti (e alcuni ritengono addirittura che più è forte l’interesse più si risparmi) e in altri casi si ha una relazione inversa (eventualità che può realizzarsi quando il r. sia particolarmente penoso), molti redditieri sono assolutamente indifferenti alle variazioni del saggio dell’interesse. Preoccupati dell’avvenire, abituati ormai a risparmiare o incapaci per qualsiasi ragione di espandere i loro consumi, risparmierebbero anche se l’interesse fosse nullo o addirittura negativo; percependo un interesse da coloro cui cedono l’uso del loro r., questi risparmiatori godono di un particolare vantaggio di natura soggettiva che è detto rendita del risparmiatore. L’osservazione statistica mostra con sicurezza l’esistenza di una relazione diretta tra le variazioni della quota di r. (rapporto tra r. e reddito) e le variazioni del reddito individuale e come il r. sia alimentato soprattutto dai redditi elevati. La concentrazione dei redditi favorisce perciò il r., ma se essa giunge a essere troppo forte può accompagnarsi a un logorio di capitali umani per tutti coloro il cui reddito risulti insufficiente.

È detta funzione del r. la relazione funzionale tra la parte risparmiata e una serie di livelli di reddito nazionale, da cui risulta come il r. cresca più che proporzionalmente con il crescere del reddito. Il rapporto tra un dato r. globale e il corrispondente reddito nazionale è detto inclinazione, o propensione, media al r., mentre il rapporto tra un incremento del r. e un infinitesimale aumento di reddito è detto inclinazione, o propensione, marginale al risparmio.

R. individuale e r. sociale

R. libero. In un’economia basata sulle libere decisioni individuali, il r. risulta da un confronto di utilità, è cioè il frutto di una scelta tra desiderio di consumare oggi e desiderio di provvedere a bisogni futuri propri o della propria famiglia, scelta determinata da elementi oggettivi (quali l’altezza, la forma della curva e il grado di sicurezza del reddito individuale) e da elementi soggettivi (quali lo spirito di previdenza, il controllo su sé stessi, la durata presunta della vita, la premura per i propri discendenti). L’imprevidenza è propria dei primitivi e le prime forme di r. in natura consistevano soltanto in consumi differiti o in investimenti a breve scadenza. Il rafforzarsi dei vincoli familiari, l’ordine e la sicurezza della vita civile e la conseguente volontà e capacità di pensare al futuro hanno con il tempo fatto sorgere o accentuato lo stimolo al r., sempre che il reddito permetta di coprire ragionevolmente i bisogni attuali, e al r. in natura si è per lo più sostituito il r. in denaro. Il r. ritenuto molla del progresso tecnico e dello sviluppo economico è soltanto quello che tramite l’investimento si traduce in aumento dei beni strumentali disponibili (la cosiddetta ‘accumulazione del capitale attraverso il risparmio’).

R. forzato. In economia collettivistica la decisione di aumentare i capitali tecnici, destinando una maggior parte delle risorse esistenti alla loro produzione e riducendo corrispondentemente la produzione dei beni di consumo, spetta all’autorità pianificatrice e non ai singoli. Il processo di formazione del capitale è lo stesso, ma anziché di r. libero o volontario, si può parlare soltanto di r. forzato, o coattivo. Non è però da ritenere che nell’economia basata sull’iniziativa individuale il r. sia soltanto frutto di decisioni spontanee. La necessità di soddisfare i bisogni pubblici ha sempre obbligato gli Stati a riscuotere imposte o a sollecitare prestiti interni, ossia a imporre ai cittadini la cessione di una parte del loro reddito, e il gettito complessivo ricavatone va considerato r. coattivo (dipenderà poi dall’uso produttivo che ne farà lo Stato la possibilità o meno di considerarlo r. sociale, ossia aumento dei capitali tecnici), mentre il surplus delle entrate tributarie sulle spese correnti è detto r. pubblico. Accanto a questo tipo di r., che è detto anche ‘fiscale’, si è sviluppata anche un’altra forma di r. forzato, quella che si attua attraverso la limitazione dei dividendi e l’accumulazione da parte delle società di riserve destinate ad allargamento degli impianti, aumento di scorte ecc. (r. di impresa o r. forzato societario, ossia quella parte della differenza tra ricavi e costi che rimane all’impresa dopo il pagamento delle imposte e dei dividendi). Inoltre, specie durante le ultime guerre, l’inflazione attraverso l’aumento dei prezzi ha costretto la popolazione civile a ridurre notevolmente i consumi consentendo alla struttura produttiva di indirizzarsi soprattutto a lavorazioni belliche (r. forzato monetario). Imposte, autofinanziamento e inflazione (anche inflazione creditizia) sono le principali forme di r. forzato perfettamente compatibili con l’economia non accentrata o non totalmente accentrata. Natura pure di r. forzato ha il cosiddetto r. contrattuale, ossia il meccanismo attraverso il quale si vorrebbe che i lavoratori rinunciassero alla disponibilità di parte degli incrementi di salario ottenuti nella contrattazione collettiva per affidarli a un fondo che ne curi il reinvestimento; cadrebbe così l’obiezione alla redistribuzione di reddito a favore dei lavoratori basata sulla pregiudiziale che lo scarso o nullo r. dei lavoratori si tradurrebbe in un freno allo sviluppo.

Equilibrio tra r. e il suo impiego. Una crescente percentuale dei r. individuali è attuata sotto forma contrattuale (assicurazioni, fondi pensione, cooperative, mutue ecc.), molte volte in base a obblighi di legge. Tutte queste circostanze attenuano in conseguenza la sensibilità del r. alle variazioni dei redditi individuali, la possibilità di compensazione degli errori di investimento e l’importanza dell’interesse: problemi di particolare gravità, più facilmente affrontabili in base a decisioni concordate o a programmazioni a lunga scadenza che, non rimettendosi al libero gioco del mercato, possono presentarsi sia nei paesi sottosviluppati, caratterizzati da deficienza relativa di r., sia nei paesi ad alto livello di sviluppo, in cui l’eccesso di r. può tradursi in eccesso di investimento e determinare alti e bassi nell’andamento della produzione. La mancata utilizzazione di tutto il r. esistente, individuale e sociale, mette infatti in moto un processo di recessione e depressione, che finirà per diminuire il r. stesso, mentre se il sistema economico funziona al limite della sua capacità e l’investimento eccede l’offerta corrente di r., si metterà in moto un processo inflazionistico. È lo Stato, anche nei paesi a economia non centralizzata, che con il suo potere di prelievo e di spesa pubblica può assicurare quell’equilibrio tra r. e impiego dello stesso che il sistema da solo non riesce più a realizzare. Dato che il r. è il fattore produttivo a più alto grado di trasferibilità internazionale, è possibile tuttavia compensare eventuali squilibri tra il r. esistente in un paese e gli altri fattori di produzione disponibili ricorrendo al mercato internazionale per prestiti passivi o attivi.

Per far sì che il r. si possa mantenere nel tempo occorrono condizioni di stabilità economico-sociale, garantite da politiche che evitino instabilità del potere d’acquisto delle monete nazionali in cui il r. si esprime, per evitare fughe verso i paesi le cui monete sono considerate più sicure, ma che impoveriscono il paese e creano pressioni speculative sui mercati finanziari e valutari internazionali.

Teorie del risparmio

Il r. per gli economisti classici. Gli economisti classici hanno visto il fenomeno del r. soprattutto in relazione ai processi di formazione, conservazione e rinnovo del capitale (tanto che spesso usarono una parola sola, ‘accumulazione’, per indicare sia il r., sia la formazione di capitale) e ne hanno esaltato in grande maggioranza la funzione creatrice di ricchezza senza preoccuparsi di crisi di sovrapproduzione (legge di Say ➔ Say, Jean-Baptiste). Dato il carattere oggettivo delle loro principali costruzioni, gli economisti classici si sono occupati più degli effetti che dei motivi del r., mentre i moventi psicologici del r. sono stati prevalentemente considerati dagli economisti successivi, i quali hanno posto al centro della scienza economica l’analisi dei bisogni individuali, dell’utilità e delle scelte. Un contributo notevole fu pure apportato dagli economisti della scuola storica, né mancarono anche nel primo periodo anticipatori delle future correnti di pensiero, quali, per es., J. Rae, critico di A. Smith e iniziatore dell’orientamento che trova il suo punto d’arrivo negli studi sulla teoria dell’interesse di I. Fisher e W. Senior Nassau (che tentò di completare gli schemi classici concentrando la sua attenzione sull’offerta del r.) e a cui si ricollegano, in parte, le più corrette ricerche psicologiche successive.

Teorie su r. e fluttuazioni economiche. Progressi sostanziali nella teoria del r. furono soprattutto dovuti a W.S. Jevons, E. von Böhm-Bawerk e L. Walras. L’interesse per il r. si ridestò successivamente in connessione con il fiorire degli studi sulle cause delle fluttuazioni economiche; tale analisi è stata ripresa con vigore in particolare da A. Spiethoff, F. von Hayek, J.M. Keynes, D. Robertson ecc. Anziché come funzione diretta e immediata dell’interesse (o addirittura come funzione inversa, secondo il cosiddetto paradosso di F. Child) la formazione del r. è considerata fenomeno più o meno indipendente dall’interesse – tanto che la sua offerta risulta estremamente rigida – e dipendente invece da fattori sociologici e psicologici oltre che dall’altezza del reddito, dal costo della vita ecc.; alle variazioni del tasso d’interesse è invece sempre assai sensibile la destinazione del r., ossia la scelta tra i suoi vari possibili impieghi.

R. e formazione del capitale, che erano stati sempre considerati come due facce dello stesso fenomeno, hanno cominciato ad apparire atti economici distinti effettuati da persone diverse che si incontrano sul mercato del r. ed è sorto quindi il problema del rapporto tra r. e investimento che per i classici non esisteva. Prima di Keynes r. e investimento erano infatti unanimemente considerati funzioni di una stessa variabile (il saggio di interesse) e tendenti a coincidere spontaneamente tra loro, qualora non vi fossero ostacoli al variare del saggio stesso che ne è l’anello di congiunzione. Keynes ha messo invece in dubbio proprio l’esistenza di un meccanismo di mercato che assicuri sempre, quale che sia il r., l’uguaglianza tra r. e investimento; ha insistito sul fatto che non tutto il r. monetario viene investito (preferenza per la liquidità) e ha sostenuto che per superare fasi di squilibrio occorre puntare su variazioni del reddito e della distribuzione del reddito anziché su variazioni del saggio d’interesse.

Notevole attenzione va rivolta anche alle teorie di Robertson e degli economisti svedesi secondo i quali il r. sarebbe la differenza fra reddito del periodo precedente e consumo del periodo corrente, e l’investimento andrebbe quindi posto in relazione non con il r. ma con i fondi mutuabili o investibili (risultanti, oltre che dal r., dai mezzi monetari addizionali creati nel periodo corrente e dai fondi inattivi già esistenti offerti nel periodo corrente). Va ricordato pure che J.A. Schumpeter, nella sua analisi dello sviluppo economico, ha sostenuto che il r. sia fenomeno proprio dello sviluppo, di cui nello stato stazionario non possono riscontrarsi né le fonti né i motivi, e che le banche, fornendo crediti agli imprenditori volenterosi di fare innovazioni, creino reddito e quindi r. con un processo inverso a quello tradizionale.

Teorie sulla natura del risparmio. A partire dalla seconda metà degli anni 1960, la teoria del r. si è sviluppata, parallelamente alla teoria del consumo, seguendo tre linee di interpretazione (macroeconomica, microeconomica, finanziaria e monetaria) in base alla diversa natura attribuita al risparmio. La prima linea di ricerca prende le mosse dalla teoria di Keynes, il quale afferma che il r. cresce in misura più che proporzionale al crescere del reddito corrente. Questa teoria della propensione al r. crescente ha sollevato diverse perplessità. Si deve alla teoria del ciclo vitale (F. Modigliani e R. Brumberg) l’ampliamento delle variabili influenti sul risparmio. Con l’inserimento della ricchezza e dell’arco relativo alla vita di un individuo, si giunge a mettere in luce come il desiderio degli individui di mantenere un tenore di vita il più possibile costante in tutto l’arco della loro vita li porti a risparmiare di più quando sono giovani e di meno quando giungono all’età della pensione. In tal senso la propensione media al r. risulterà pressoché costante, ipotizzando la certezza degli individui sull’entità del reddito percepito nel periodo lavorativo e sulla possibilità di mantenere lo stesso livello di consumo durante l’età della pensione.

Studi degli anni 1980, sottolineando l’ipotesi di incertezza sul reddito percepito, attribuiscono al r. soprattutto natura precauzionale, contrariamente a quanto affermato dalla teoria neoclassica che lo considerava come condizionato dal tasso di interesse. In quest’ultima direzione si è mosso invece A.S. Deaton, che indica nel tasso di interesse la determinante del tasso di preferenza intertemporale del consumo (in ogni caso il r. rappresenta una potenzialità di consumo futuro). Il ruolo del tasso di interesse sul r. è stato analizzato dalla teoria del ciclo reale, secondo la quale alti tassi di interesse stimolano l’offerta di lavoro: se il r. è rimunerato positivamente gli individui sono spinti a lavorare e a produrre di più (R.E. Lucas).

Il r. in finanza

Sulla liceità della tassazione del r. furono sollevate obiezioni già da J.S. Mill e, in seguito, da L. Einaudi, il quale sostenne che l’ammontare del reddito risparmiato e il reddito che si ricaverà da questo r. sono in realtà due facce dello stesso fenomeno e che quindi, a evitare una doppia imposizione, le imposte dovrebbero applicarsi soltanto alla parte del reddito che viene consumata. Alla tesi della doppia tassazione del r. si rifanno anche coloro che, partendo dalla constatazione della temporaneità dei redditi di lavoro e della perpetuità di quelli di capitale, sostengono l’opportunità di non colpire soltanto la parte consumata del reddito di lavoro oppure di colpire tutto il reddito stesso più lievemente di quello di capitale, in modo da consentire ai lavoratori di risparmiare e accumulare capitali capaci di fornire loro una rendita quando verrà meno la capacità lavorativa. In generale, si può affermare che lo Stato, in Italia, ha sempre tentato di incoraggiare il r. attraverso il fisco. Per es., nel caso delle assicurazioni sulla vita, è possibile dedurre fino a un certo limite l’ammontare dei premi versati dal reddito imponibile e un trattamento fiscale agevolato è previsto anche per le forme collettive di r. previdenziale che traggono origine da un rapporto di lavoro dipendente.

Oltre alle famiglie, anche le società di capitali realizzano r. (influenzato dalle disposizioni relative all’imposta sul reddito delle società) sotto forma di utili non distribuiti. Soggetto al fisco è anche il reddito da capitale, cioè il rendimento del r. investito in attività finanziarie (azioni, obbligazioni, depositi finanziari e postali ecc.) che produce reddito in tre forme: interessi, dividendi e guadagni di capitale; da tempo è stato espresso il timore che la tassazione di questo tipo di reddito abbia un effetto negativo sull’assunzione del rischio imprenditoriale (gli individui assumono rischi se compensati da un rendimento atteso soddisfacente e, tassando il rendimento, si tassa la remunerazione del rischio).

Si cerca dunque di proteggere il r. perché normalmente si ritiene che la sua diminuzione provochi un rallentamento dell’accumulazione del capitale e, nel lungo periodo, una diminuzione del reddito pro capite. Ciò può essere controbilanciato con diversi canali. Innanzitutto, non tutto il r. viene investito in capitale fisico: una parte è destinata all’acquisto di titoli pubblici e un’altra all’investimento nella terra. Ma, se tra la terra e il capitale intercorre un rapporto di complementarità, la riduzione dello stock di capitale provocherà una diminuzione della rendita fondiaria e, conseguentemente, del valore di mercato della terra (il decremento del r. assume quindi la forma di una diminuzione del valore terriero). Inoltre, è possibile che lo Stato, riducendo l’indebitamento pubblico, faccia diminuire la quota di r. totale destinata all’acquisto dei titoli pubblici, aumentando la quota di r. che finanzia gli investimenti reali del settore privato. Infine, lo Stato può incentivare il r., per es., con una riduzione delle prestazioni della previdenza pubblica che può indurre gli individui ad aumentare il r. per il pensionamento. È tuttavia da sottolineare che, in un’economia aperta, incentivare il r. non equivale necessariamente a incentivare l’investimento (l’effetto dell’incentivazione del r. è quello di ridurre l’indebitamento con l’estero, ma nel caso limite di un’offerta di fondi dal resto del mondo perfettamente elastica non si ha alcun effetto sull’investimento).

La non uniformità del trattamento fiscale del r. dà luogo a inefficienze e iniquità: il r., e le risorse, vengono attratti dai settori con trattamento fiscale favorevole, che possono anche essere i meno produttivi. In genere, traggono vantaggio dal trattamento fiscale favorevole coloro che possiedono i beni nel momento in cui viene concessa l’agevolazione.

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