RITRATTO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1965)

Vedi RITRATTO dell'anno: 1965 - 1996

RITRATTO

R. Bianchi Bandinelli
J. Auboyer
R. Bianchi Bandinelli

SOMMARIO. - 1. Premesse generali. - 2. Egitto. - 3. Mesopotamia. - 4. Periodo achemenide. - 5. Grecia: A) Premesse; B) Nascita del r. fisiognomico; C) Lisippo e l'ellenismo; D) Tipologia; E) Pittura. - 6. Italia antica, Etruria. - 7. Roma: A) Età repubblicana; B) Tipologia; C) Età imperiale; D) Pittura e miniatura. - 8. Civiltà periferiche. - 9. Estremo Oriente.

1. Premesse generali. - Col termine "ritratto" si intende correntemente la immagine di una determinata individuabile persona generalmente quale "figura cavata dal naturale", come suonava la definizione del Vocabolario toscano dell'Arte del Disegno di Filippo Baldinucci (Firenze 1681, p. 137): cioè, presa dal vero. Questo fatto, di essere opera legata ad un modello che viene determinato non dalla scelta dell'artista, ma da esteriori circostanze e che, almeno come petizione di principio, deve esser riprodotto nella sua realtà contingente, conferisce a questo prodotto artistico un carattere particolare che sembra limitarne, in teoria, la validità estetica. Infatti, secondo il formulario estetico idealistico, si potrebbe dire che il r. partecipa più dell'oratoria che della poesia, legato come è ad una celebrazione del contingente; e che questa celebrazione pone dei limiti alla libera intuizione fantastica dell'artista. In realtà, poi, tale libertà non si trova qui affatto condizionata in misura diversa, ma solo in modo diverso da quanto avviene per ogni altra opera connessa con una realtà concreta. La differenza sostanziale fra r. eseguito con mezzi meccanici (fotografia) e r. come opera d'arte sta appunto a dimostrare che la personalità dell'artista mantiene in pieno la sua funzione determinante entro le caratteristiche del proprio tempo. Senza dubbio vi sono stati artisti che non hanno voluto adattarsi a praticare il r. (per esempio, Michelangelo) e altri che lo hanno preferito e praticato in modo esclusivo, dimostrando forse con ciò minor potenza fantastica degli altri. Ma, e ciò più importa in questa sede, vi sono epoche e civiltà nelle quali il r., almeno inteso come "figura cavata dal naturale", non esiste. Questa circostanza conferisce un carattere particolare al problema storico relativo a tale produzione artistica; problema che dobbiamo chiarire per poterne intendere la storia entro l'àmbito delle varie civiltà, almeno sino al momento nel quale viene raggiunta la piena libertà rispetto al carattere e al significato del ritratto. Raggiunta tale libertà è ovvio che la storia del r. rientri nella storia generale dell'arte di un tempo o di un'area culturale e non possa avere trattazione storica e critica a sé stante.

L'impulso al r., nel senso di delineare una immagine riferibile ad una determinata persona, è spontaneo e primordiale. Esso si manifesta, nel modo più ingenuo, attribuendo un nome determinato o personale ad una immagine generica, come lo possiamo vedere nel disegno infantile, o anche, per esempio, nel noto graffito blasfemo nel quale un Timoteo è raffigurato caricaturalmente in atto di adorare il suo Dio (v. vol. iii, fig. 1278). Ma questa immagine generica non sarà un r. nel senso della definizione da noi data, sarà solamente un r. "intenzionale". Potremmo dirlo anche r. "simbolico", in quanto spesso connesso ad un rito, che ha come fine di fissare e legare sul luogo la potenza vitale del raffigurato attraverso la sua immagine (v.surkh-kotsl). Il r. intenzionale costituisce il primo e più diffuso stadio della definizione artistica di una personalità determinata. Un secondo stadio è costituito da quelle immagini che, pur non riproducendo le fattezze individuali, caratterizzano in qualche modo l'immagine generica, sicché divenga evidente l'appartenenza della persona raffigurata a una determinata categoria e, attraverso tale appartenenza, ne sia possibile la identificazione. A questo punto, tuttavia, divino ed umano non si distinguono in modo differenziato in quanto alla sostanza figurativa. La divinità potrà assumere aspetti fantastici rispetto alle forme della realtà, ma sarà riconoscibile per qualche suo attributo fisso o per qualche suo atteggiamento tipico; allo stesso modo la persona umana, nella sua appartenenza ad una determinata categoria, sarà riconoscibile attraverso un attributo o un atteggiamento: il re, il soldato, il cacciatore, ecc. Entro questo aspetto tipico di categoria, la determinazione del particolare individuo rimane ancora intenzionale; ma può essere espressa da un nome iscritto, o ulteriormente caratterizzata da un particolare attributo. Dobbiamo parlare dunque, a questo punto, di un r. "tipologico". Il fatto stesso, tuttavia, che si possano porre sopra uno stesso piano, in questo caso, immagini di divinità e di persone terrene, ci mostra due cose: che non si può ancora parlare, a questo punto, di vero e proprio r.; ma che il problema della rappresentazione delle essenze divine immaginate dall'uomo è in qualche maniera legato al problema del r.: sono entrambi un problema di caratterizzazione. La caratterizzazione "tipologica" sodisfa, in un certo momento, senza residuo. Per esempio, nell'arte arcaica greca, lo stesso tipo di figura maschile barbuta, serve per le immagini di Zeus, di Posidone, di Ares, di Diòniso, i quali saranno riconoscibili per lo scettro o il fulmine, per il tridente, la lancia, il tirso, cioè per l'attributo; analogamente si caratterizza nella sfera terrena, il re, il sacerdote, il guerriero, il sapiente; e, più largamente, il vecchio padre di famiglia, il giovane, la madre, la vergine. Ciascuno di questi "tipi" può servire a caratterizzare, con l'aggiunta di un attributo o con l'iscrizione di un nome, una persona determinata (v. più oltre, n. 5). Ampia, ma non infinita, è la sfera del r. tipologico, che rimane pur sempre sostanzialmente un r. "intenzionale".

Il vero e proprio r. si ha soltanto quando la individuazione è raggiunta in pieno con l'imitazione delle fattezze individuali. Queste si completeranno rapidamente con l'aggiungere alla raffigurazione dei tratti somatici della persona rappresentata, anche la ricerca dell'espressione psicologica giungendo così al pieno sviluppo del r. "fisiognomico". (Si tenga presente, per intendere il valore di questo termine, la diversità tra "fisiognomico" indicato anche nei lessici come equivalente a "fisiognomonico", e "fisionomico", che può essere equivalente a "realistico"). Soltanto il r. fisiognomico è vero e proprio ritratto.

A questo punto sorge anche il r. di "ricostruzione". Come Plinio il Vecchio (Nat. hist., xxxv, 9) si esprimeva a proposito del r. di Omero, pariunt desideria non traditos vultus: il nostro desiderio di contatto con le grandi personalità del passato dà forma a volti il cui reale aspetto non ci era stato tramandato. Il r. di ricostruzione può trovarsi in ogni stadio di svolgimento della ritrattistica: può essere puramente intenzionale oppure anche tipologico. Ma troverà la sua vera e completa manifestazione solo quando in esso osservazione fisionomica e intuizione psicologica si uniranno per dar vita a un'immagine tutta di invenzione, ma tale da esprimere in modo vivo il concetto che si è formato di una personalità determinata. Tale espressione, tuttavia, rimane variabile a seconda della maniera nella quale quella data personalità del passato sarà intesa e considerata nel tempo di attuazione artistica dell'immagine. Avremo così, di una stessa personalità storica, anche immagini diverse (v. per esempio alessandro III di macedonia; socrate; pseudoseneca). Il r. di ricostruzione dell'antichità presenta una problematica analoga a quella che si trova poi nell'arte cristiana per le immagini dei Santi e degli Apostoli (v. filosofi).

Le varie maniere con le quali si manifesta l'impulso verso il r., e che abbiamo classificato con i termini di r. intenzionale, r. tipologico, r. fisiognomico costituiscono, in realtà, altrettante fasi che le maggiori civiltà artistiche hanno incontrato nello sviluppo di questo particolare problema dell'espressione formale. Quando negli strati più antichi di Gerico (V millennio a. C., cfr. maschera, vol. iv, fig. 1069) si trova un teschio umano, il cui volto è stato rifatto in gesso, con gli occhi imitati con conchiglie inserite, questo uso può connettersi con analoghe pratiche di culto degli antenati riscontrate dall'etnologia presso popoli primitivi moderni. In tale pratica esiste certamente il desiderio di ricostituire la persona del defunto; ma si potrà parlare soltanto di un r. intenzionale giacché i tratti, nonostante l'ausilio della sottostante struttura ossea, rimangono del tutto generici. Volgarmente si ritiene che al r. fisiognomico si giunga per ultimo a causa di una iniziale insufficiente capacità di rappresentazione artistica della realtà. Ma che tale opinione sia errata, lo dimostra chiaramente il fatto che civiltà artistiche pienamente in possesso dei mezzi di espressione realistici, non conoscono il r. fisiognomico e che questo, una volta attuato, non viene praticato sempre, ma può venire poi abbandonato e, successivamente, ripreso in un'altra epoca. Vi debbono essere pertanto delle cause che impediscono, in determinati momenti, la creazione di ritratti fisiognomici, come ve ne debbono essere altre che, in altri momenti, ne favoriscono la diffusione. Tali cause non risiedono, però, nelle particolarità dell'espressione formale, cioè nella maggiore o minore attitudine artistica (o, per lo meno, non soltanto in essa); ma dipendono soprattutto da particolari disposizioni mentali, o ideologiche, le quali sono a loro volta l'espressione di determinati sviluppi e condizioni della società entro la quale si svolge quella particolare cultura artistica. Presenza o assenza del r. fisiognomico in una cultura artistica non sono, dunque, soltanto questioni di gusto.

La riproduzione artistica dell'immagine di un determinato essere vivente è sempre strettamente legata a un fondo rituale, che agisce sul comportamento umano tanto più fortemente quanto più è primitiva o condizionata da vincoli particolari la società entro la quale quel comportamento deve manifestarsi. Il concetto che l'immagine possa condizionare magicamente l'essere che viene raffigurato sta al fondo delle pitture o incisioni rupestri dei popoli cacciatori (v. preistorica arte). L'immagine serve a legare la preda, a predisporne la cattura e l'uccisione nel modo stesso che l'uccisione è raffigurata nella pittura. Analogamente, dal Neolitico alla I Età del Ferro, nel menhir (v.), pietra eretta con grave fatica nella stessa posizione verticale che distingue l'uomo dalla bestia, alberga una forza spirituale: lo spirito delle divinità o degli eroi defunti. Di conseguenza, la pietra eretta, dapprima grezza, assume poi anche gli attributi del sesso e sommaria forma di figura umana, ed è questo un primo passo nella direzione di una caratterizzazione tipologica. Analoghe espressioni si hanno ancora, per fare un esempio, sulle stele della Lunigiana nelle quali si distingue l'uomo, la donna, il guerriero (v. pag. 511). Più tardi la statua vera e propria parlerà, perciò, in prima persona attraverso l'iscrizione che l'accompagna: perché in essa alberga uno spirito. E tanto può ogni forma conferire spirito vitale alla cosa raffigurata, che anche gli oggetti parlano in prima persona: "io sono il bicchiere di Tharion" sta accuratamente e profondamente graffito sopra una coppa subgeometrica recante la più antica iscrizione greca di questo tipo.

Il primordiale sentimento che l'immagine aderisca alla cosa raffigurata è presente nei riti della defixio (deposizione in luogo funesto di immagini dell'avversario, trafitte), la cui ultima eco sussiste nel trafiggere con spillo gli occhi di una immagine, secondo una superstizione largamente diffusa in ambienti ove si conservino ancor oggi i retaggi di una chiusa civiltà contadina o pastorale. Negli stessi ambienti, conseguentemente, si incontrano tuttora riluttanze, per questo motivo, alla ripresa fotografica della persona.

L'intenzione ritrattistica è uno degli elementi dai quali nasce il ritratto. È l'elemento primordiale, più ovvio. Ma esso da solo non è sufficiente a creare il r. vero e proprio. Questo nasce quando a questa intenzione si uniscono altri elementi. Principalissimo e decisivo quello del giudizio valutativo dell'individuo; quando, cioè, si vuole fissare non solo il ricordo di una persona, ma esprimere ciò che essa vale: un giudizio morale, cioè, si accompagna all'intenzione ritrattistica. Questo giudizio morale viene espresso (ed è questo un ulteriore elemento) con l'atteggiamento che si dà alla persona ritratta; ma perché non vi possa essere dubbio, occorre che l'immagine riproduca i tratti fisionomici peculiari della persona. Su questa base si comprende anche come sia prossimo il confine tra r. e caricatura. Ma il r. fisiognomico non nasce dalla caricatura, la quale congela sempre l'immagine in uno schema tipologico al quale sono aggiunti i tratti più macroscopici della individualità specifica. Nasce, bensì, da un atteggiamento di interesse umano, razionale e in una società a carattere laico. Il r. fisiognomico nasce in ambiente di tipo "borghese", non in ambiente aulico (al quale giova l'immagine tipologica), ed è una espressione tipica del desiderio di affermare nell'uomo ciò che vi è di umano: l'uomo nella pienezza della propria esistenza terrestre. Appena si disperde questo fondamento umanistico e razionale e prevalgono elementi irrazionali, il r. fisiognomico svanisce. Esso scompare, infatti, con la religiosità medievale (v. citaz. di Paolino di Nola alla fine del n. 7, c).

2. Egitto. - L'arte egiziana ci fornisce forse il più grande esempio di una potente capacità plastica espressiva, costantemente dominata e regolata da una ideologia religiosopolitica che ne determina in ultima analisi la forma. La capacità di osservazione realistica si manifesta in pieno sino dalle origini nelle raffigurazioni di animali e di uomini (prigionieri o scene di lavoro), raffigurazioni che acquistano grande potere di liberazione e di affermazione. Il rapporto magico fra persona e immagine trovò in questa civiltà la sua piena estrinsecazione e fu elevato a propaganda, concezione di contenuto, espressa con una straordinaria concentrazione formale. L'immagine diviene qui segno eccelso di forza operante che si puntualizza attraverso l'indicazione epigrafica di un nome. Pertanto, nomi diversi possono essere dati alla stessa figura e questa può incarnare personalità diverse nel caso del "ritratto" del sovrano, poichè il nome ha valore di identificazione ben più valido dei tratti fisionomici. La personificazione del sovrano non consiste nella sua espressione individuale, nella riproduzione della sua carnale fisionomia: egli può essere raffigurato sotto forma di toro (il re Narmer su una tavoletta della I dinastia, circa 2800 a. C., al Cairo) o come leone (statua di Amenemḥēt III, al Cairo, della XII dinastia, 1840-1792 a. C.). Egli cammina allo stesso livello degli dèi, abbracciato da essi (Mykerinos con due dee, da Gīzah, Cairo, IV dinastia, circa 2500 a. C.). La sua immagine è, di preferenza, colossale perché l'immensità del sovrano non può esprimersi se non in forme molte volte al di sopra della realtà. Essa poteva essere ripetuta e collocata in serie, come le 10 statue di Sesostris I a Lisht.

Dai primi secoli del III millennio alla conquista da parte di Alessandro il Macedone (332 a. C.), questa concezione non subisce flessioni sostanziali, se si eccettua la parentesi ereticale di Akhenaton (Amenophis IV, circa 1377-1358 a. C.). Il r. è inteso quale segno di potenza ritualmente espressa; e tutto il rituale è fatto per conservare e accrescere la forza operante dell'immagine. Perciò inizialmente il "ritratto" era solo concesso al sovrano e sacerdote sommo, che unico aveva accesso agli dèi. Del resto, il problema del rapporto fra individuale e tipico è complesso anche per altre manifestazioni della civiltà egiziana come le stesse biografie, per esempio, del Medio Regno, nelle quali traspare sempre influenza dei vecchi fondi sapienziali.

L'immagine non era destinata ad esser vista e riconosciuta dagli uomini; essa era il tangibile abitante della camera sepolcrale, il mezzo (magico) per trattenere e condensare ciò che non è deperibile dell'uomo: il suo rango. Ma soltanto l'uomo senza rango alcuno può essere raffigurato nella sua cruda realtà contingente: da qui il realismo delle scene di vita quotidiana delle classi inferiori e l'intangibile e inafferrabile distanza dalla realtà dell'immagine regale espressa in forme che in modo esteriore e superficiale possono dirsi lontane dalla natura, ma che erano perciò veramente indicative della vera essenza del sovrano. Si vedano le immagini apparentemente più caratteristiche di alcuni grandi Faraoni (v. khephren; mykerinos; sesostris; anche della regina Ty [Teye] si ha la nota testa dei Musei di Berlino di stile amarniano mentre un altro r., al Cairo, non è già più così realistico). Le conclusioni alle quali si giunge nella loro più attenta considerazione ci conducono sempre allo stesso risultato: che si tratta di ritratti non fisiognomici appartenenti ad una categoria del tutto particolare di r. tipologico. Un esempio tipico è dato dall'immagine del faraone Tuthmosis III (v.), della XVIII dinastia, il cui aspetto è assai simile a quello della regina Hashepsowe sua zia e tutrice sino al momento della successione. Come si è potuto constatare dai ritrovamenti di "teste di riserva" (reserve heads) e modelli conservati nello studio degli scultori che dovevano eseguire l'immagine monumentale, l'artista egiziano partiva da una raffigurazione realistica, che in qualche caso si valeva, probabilmente, anche del calco (dal vivo o dal defunto), come sembra sia stato fatto, almeno in parte, nel caso delle "maschere" in gesso provenienti da Tell el῾Amārnah (Musei di Berlino) che tuttavia non sono calchi diretti, ma che possiamo certamente affermare derivate da immagini modellate in creta. Lo scultore di el-῾Amārnah, del quale è stata rinvenuta l'officina, Tuthmosis, appartiene al XIV sec. a. C.; ma già dal tempo della IV dinastia (circa 2600) si hanno "teste di riserva" in gesso (come quella del sovrano Snofru o quella della principessa Marytyetes), o immagini a grandezza naturale come il busto in calcare del principe Ankh-haf (Boston). Le modellature più delicate sono, in questo ultimo caso, eseguite nella sottile copertura di stucco colorito in rosso, che riveste la pietra. Questo busto è di poco posteriore al notissimo gruppo di Raḥotpe e Nofret (v. vol. iii, fig. 314), anch'esso in calcare, che può esser preso a confronto per intravedere come poteva svolgersi il passaggio dal busto di studio all'opera definitiva, in un caso nel quale la immediatezza realistica non venisse del tutto eliminata dalla tipizzazione definitiva. Resta acquisito, ad ogni modo, che nel periodo della IV dinastia (260o-2480 a. C.) la potenza ritrattistica fu particolarmente alta nell'arte egiziana (la famosa statua dello Scriba al Louvre potrebbe essere definita un magnifico r. tipologico, che esprime compiutamente la intensità d'attenzione che ne caratterizza l'attività abituale). Dopo il dissolversi dell'Antico Regno (circa 2258 a. C.) occorrono un paio di secoli prima che il Medio Regno raggiunga una ritrattistica adeguata. Ma sempre fondata sul medesimo concetto. Soltanto nel Nuovo Regno, e soltanto durante la parentesi dell'arte amarniana, il cui realismo si manifesta liberamente in seguito alla riforma religiosa del sovrano Amenophis IV (v. vol. iii, fig. 323 e tell el-῾amārnah), si ebbe anche in Egitto un vero e proprio r. fisiognomico con accentuatissima introspezione psicologica, che ci ha dato i numerosi ritratti di Akhnaton (tra i quali le statue colossali di Karnak) e della regina Nefertiti (busto in calcare a Berlino-Dahlem, testa in quarzite al Cairo, v. vol. iii, fig. 328; vol. v, fig. 516). Tuttavia le qualità della ritrattistica amarniana scaturiscono dalla svolta iniziata col XVI sec. all'inizio del Nuovo Regno; l'ebrezza mistica dei ritratti di Akhnaton ha i suoi precedenti nella colorita, quasi ilare presenza espressa nei ritratti, per esempio, di Tuthmosis IV e della madre Hashepsowe (v.). Ma la parentesi amarniana si chiude subito col ritorno alla tradizione, e il r. egiziano ritrova il suo aspetto essenziale, la sua espressione di concentrazione interiore che, proprio perché ha rinunciato alla notazione contingente e veristica, acquista valore di forze che irradiano dalla sua compattezza.

Un nuovo tipo di r. si ha nell'età tarda della dinastia saitica (663-525 a. C.). Il r. di questo periodo, un'età posta tra l'invasione assira di Assurbanipal e quella persiana di Cambise, ha perduto quasi del tutto i valori della tradizione egiziana. Il suo verismo è tutto di superficie ed è frutto di una consumata abilità tecnica, non di una visione estetica o di un contenuto nuovo da esprimere; quando non è ripresa consapevole di forme remote. Dopo la conquista greca il r. egiziano non trova più un linguaggio proprio. Esso rispecchia le forme greche, ellenistiche, con un ritegno che è dovuto all'esperto mestiere dei suoi scultori e al materiale locale, generalmente durissimo, che viene impiegato e che suggerisce certi tagli e certe semplificazioni (v. vol. iii, figg. 338, 339). La supposizione di una influenza del r. egiziano tardo su quello romano dell'età di Cesare è da lasciarsi cadere; l'uno e l'altro sono recezioni e rielaborazioni locali del r. ellenistico (v. egiziana, arte, e vol. iii, figg. 308, 309).

3. Mesopotamia. - La civiltà artistica sumerica, uscita ai volgere dal IV al III millennio a. C. dalla fase iniziale della decorazione ceramica geometrizzante e delle sommarie, ma fortemente espressive, figurette in argilla, affronta la statuaria con figure di divinità e di cosiddetti adoranti, generalmente di modeste proporzioni. Le figure di adoranti esprimono la devozione di coloro che le offrivano al tempio, ma non intendono rappresentare l'immagine personale dell'offerente. Piuttosto vengono assimilate alle forme della divinità che adorano. Ma sovente la sacralità di questa si manifesta, invece, attraverso aspetti abnormi, lontani da quelli umani.

La plastica sumerica presenta un'apparenza di maggior libertà che non quella egiziana. Tale libertà ha piuttosto un carattere istintivo, primitivo, che non acquisito per intima eleborazione di forme e di visioni artistiche, ed è dovuta all'assenza pregiudiziale di quella rigida struttura ideologica che caratterizza la civiltà egiziana.

A partire dalla prima metà del III millennio si trovano statue maschili e femminili con chiara ed evidente caratterizzazione etnica semitica (teste della Diyala). Questa caratterizzazione è raggiunta sulla base dello stesso processo di semplificazione espressiva delle forme di natura, che aveva presieduto a tutta la costituzione dell'arte sumerica e che adesso esprime una sensibilità epidermica vibrante, ricca al tempo stesso di corporea sensualità e di spiritualità intensa e particolarmente serena. Entro gli schemi generali di tale caratterizzazione tipologica si hanno i primi "ritratti": cioè, immagini tipiche che vengono ad assumere una individuazione mediante il nome iscritto (statua del cosiddetto Kurlil al British Museum; statua del re Lamgi Mari, museo di Aleppo; statua del re Iku Shamagan, museo di Damasco; statua dell'intendente Ebikh-il, al Louvre). Si rimane però sempre nell'ambito del r. tipologico. Con l'impero accadico (2350-2150 a. C.) la tipologia perde di vivacità, si raggela nelle immagini regali in uno schematismo che serve a porre in primo piano la maestà del sovrano e la sua raffinatezza: la maestà si esprime nella posa solenne e nella costruzione della figura a grandi piani e a masse compatte; la raffinatezza nel carattere ornamentale che assumono la barba, le accurate chiome, le sopracciglia (testa in bronzo supposta di Sargon, a Bagdad, da Ninive; l'immagine di Naram Sin nella celebre stele). La ripresa neosumerica seguita alla invasione dei nomadi delle montagne, i Guti, che pose fine all'impero accadico, non produsse, riguardo all'affermazione artistica della immagine del sovrano, nessun sostanziale mutamento: le numerose statue che raffigurano Gudea, uno dei più celebrati "patesi" (ensi) di Lagash (XXI sec. a. C.), non fa che dare alle stesse concezioni fondamentali struttura più salda, impalcatura ossea più robusta e, non senza conoscenza dell'arte egiziana, maggior compattezza monumentale. Questa si esprime anche con l'abbandono della facile pietra calcarea o della steatite e nella scelta, invece, di materiali assai duri, passibili di politura e di incisione anziché di policromia.

Con la caduta della terza dinastia di Ur (2050-1950 a. C.) si chiude il periodo neosumerico. Si ha un ritorno di genti semite al controllo della Mesopotamia e l'egemonia babilonese sotto il re Hammurapi (1728-1686 a. C.). Di esso, oltre alla raffigurazione genericamente tipologica sulla stele contenente le sue leggi (v. vol. i, fig. 1195) si ha forse una immagine a tutto tondo in una testa del Louvre. Se si confronta questa testa alle altre di tipo generico, o alle immagini delle divinità, si nota una eccezionale plasticità nel volto; le guance afflosciate, la bocca piccola e volitiva, sono elementi che palesano un innegabile intento fisionomico, pur conservandosi il contorno ornamentale della barba e dell'acconciatura quali erano fissati dalla tradizione. L'eccezionale esperienza non trova riscontro in altre immagini (e perciò l'attribuzione alla eccezionale figura del re Hammurapi acquista probabilità). Purtroppo acefala è la grande statua in bronzo della regina Napir-Asu, consorte di Untash-Khuban (e non Untash-Gal, come l'iscrizione era stata letta prima) databile intorno al 1250 a. C., al Louvre, che reca nella iscrizione incisa un bell'esempio non tanto, come potrebbe apparire, della identificazione della immagine con la persona raffigurata, quanto della importanza data alla immagine stessa e al nome iscritto ("io sono la signora Napir-Asu... Io, ...[dico]: chi si impossessa della mia immagine, chi scancella il mio nome, sia maledetto, sia senza nome, senza progenie ecc."; G. Contenau, Manuel, ii, p. 915).

Nel successivo periodo della dura dominazione assira, che si estese dal Tigri al Nilo (1245-606 a. C.) con un regime autoritario accentrato nella potenza regale, non poteva certo sorgere il r. fisiognomico e tanto meno il r. privato. La stessa immagine del sovrano, assimilata interamente a quella della divinità, e congelata in un rigido protocollo, si fissa e si ripete senza la menoma variante (cfr. le statue di Assurnasirpal II, 883-859 a. C., al British Museum e quella di Salmanassar III, 858-824 a. C., al museo di Istanbul). Soltanto le iscrizioni, incise sul petto o su tutta la figura, indicano che si tratta di personaggi diversi. Qui non si è neppure più nel r. tipologico quanto nel r. intenzionale, mancando ogni attributo personale e distintivo. E ciò perdura anche quando nelle composizioni storiche con scene di combattimenti, di assedio, di deportazione, o nelle scene di caccia, come tutte quelle del palazzo di Ninive (Museo del Louvre e British Museum) del tempo di Assurbanipal (668-626 a. C.), si fa uso di una straordinaria capacità di osservazione e di rappresentazione della realtà, sia nelle figure umane, soldati e popolazioni sottomesse, che negli animali (v. anche paesaggio). Nulla varia, rispetto al r., nel periodo detto neo-babilonese, che culmina nella vittoria su Ninive riportata, con l'aiuto dei Medi e degli Sciti, da Nabopolassar nel 612 a. C. e nella conquista di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 a. C., mentre la città capitale, Babilonia, si ornava delle splendide costruzioni rivestite di ceramica smaltata (porta di Ishtar: Berlino, Musei).

4. Periodo achemènide. - Con Ciro II, il Grande (558-530 a. C.), la Persia abbatte Babilonia, istituendo il potere della dinastia achemènide il cui dominio si estenderà successivamente sino all'Egitto. Ma la potenza achemènide dovrà poi ritirarsi dinanzi alla resistenza della Grecia (480 a. C.) e saranno i Greci, con Alessandro il Macedone, a porre termine alla dinastia achemènide e alla civiltà mesopòtamica. Nei due secoli che corrono tra la morte di Ciro il Grande e la sconfitta di Dario III (331 a. C.), l'arte achemènide ha assorbito suggerimenti formali e tecnici da varie parti (v. achemenide, arte; iranica, arte, 2); ma pur avendo umanizzato, a contatto dell'arte greca e forse per opera di artisti greci della Ionia, le sue immagini regali, esse rimangono in gran parte fedeli allo schema assiro e nell'ambito del r. tipologico. Invece, su monete coniate da Satrapi del gran re per il soldo delle milizie che essi dovevano armare, e certamente per opera di artisti greci, a partire dalla fine del V sec., si trovano ritratti che sembrano precedere nel tempo la diffusione del r. fisiognomico nell'arte greca (v. satrapo).

Rimane tuttora in discussione se ci si trovi di fronte a veri e proprî ritratti fisiognomici o a un aspetto particolarmente espressivo del r. tipologico, essendo possibile di portare argomenti a favore sia dell'una che dell'altra tesi. Le teste, infatti, tutte coperte dal caratteristico copricapo (la tiara) con fasciatura sulle guance che può racchiudere anche il mento, pur nella uniformità sostanziale dei tipi, con forte naso, baffi spioventi e barba, presentano varianti sensibili tra di loro. Ma queste possono riportarsi sia a tratti individuali che a variazioni sullo stesso tema che si trova genericamente in altri conî (zecca di Mallos circa 385), dovute a diversi artisti operanti per l'una o per l'altra zecca, e non divergenti tra loro più di quanto lo fossero i ritratti degli strateghi greci sino alla metà del V sec. (v. più avanti). Mentre le più antiche di queste immagini (fra il 425 e il 410) sono senza dubbio puramente tipologiche, tra le prime che abbiano tratti caratteristici è da menzionare quella sulle monete di Farnabazo, il satrapo della Frigia che ospitò Alcibiade fuggiasco, coniata probabilmente a Cizico (circa 410 a. C.) nella Propontide. Tra le più individualistiche, quella coeva di Tissaferne, satrapo della Lidia, anch'esso amico di Alcibiade (cfr. Plutarco, Alcib., 24), coniata forse a Iasos. Il confronto di questo profilo con due diverse redazioni della testa sulle monete di Oronte (circa 362 a. C.), coniate a Lampsaco e a Colofone, mostra quanto vi sia ancora in essa di tipico e di generico. Ma resta il fatto che in questo ambiente di cultura achemènide permeato di cultura greca, nel quale più volte si rifugiarono di preferenza personalità eminenti della Grecia, la caratterizzazione individuale del r. si manifesta precocemente rispetto ai centri della Grecia propria, dove la resistenza contro la esaltazione dell'individuo singolo rimane sufficientemente forte sino oltre la fine del V secolo. Dalla zecca di Cizico, nota per varietà e singolarità di coni, talora riproducenti celebri opere d'arte, proviene, sopra uno statere di electron, una immagine monetale assai caratterizzata in senso individuale, raffigurante una robusta testa di vecchio calvo e coronato di alloro. Il forte realismo è alquanto sorprendente in un pezzo che si può affermare coniato nella prima metà del IV sec., e si avvicina infatti a quello di certi più tardi ritratti di ricostruzione. (La proposta di riconoscervi Timoteo figlio di Conone, al quale nel 376 era stata posta una statua onoraria in Atene e che dieci anni dopo andò in aiuto del satrapo ribelle Ariobarzane e liberò Cizico, è puramente ipotetica). Si può ricordare, in altro ambiente periferico, il r. molto realistico sulle monete dei re di Tracia Seuthes III (circa 323-311 a. C.) che conferma il rapido assorbimento del r. fisiognomico greco in altre culture.

5. Grecia. - A) Premesse. Le civiltà orientali (considerate nei paragrafi precedenti) avevano portato a grande forza espressiva, con forme elevatissime, il r. intenzionale e quello simbolico tipologico (v. n. 1) avente per oggetto l'immagine del sovrano e della sua cerchia immediata. La civiltà greca, ad un certo punto del suo svolgimento, darà vita per prima alla creazione del r. fisiognomico, confermando anche per questo aspetto la sua fondamentale essenza realistica e umanistica. Prima che venisse compiuto il passo per arrivare al r. fisiognomico, anche la civiltà greca aveva conosciuto il r. intenzionale e quello tipologico. Ma il preminente e talora esclusivo interesse della cultura europea per la civiltà greca, e la sua interpretazione ammirativa, quasi di "miracolo", hanno avuto per conseguenza che tale circostanza stentasse ad essere considerata nella sua realtà storica, quasi che alla civiltà greca il r. fisiognomico avesse dovuto essere connaturato fin dagli inizî; con la conseguenza che poi alla veramente eccezionale e novissima creazione del r. fisiognomico, che costituisce (insieme alla scoperta dello spazio pittorico) una delle grandi e culturalmente fondamentali conquiste dell'arte greca, non venisse dato quel risalto e quella valutazione che ad essa storicamente compete. Mentre da un lato si ritenne che il r. fisiognomico fosse connaturato alla civiltà greca, dall'altro ha infinito negativamente sulla inadeguata comprensione critica del r. greco il fatto che pochissimi sono i ritratti greci giunti sino a noi in originale, essendo stata soprattutto usata la ritrattistica in bronzo (e il bronzo essendo stato distrutto dalla fame di metalli successiva al crollo della economia ellenistico-romana). La grande massa dei ritratti greci ci è quindi giunta in copie di età romana, sovente di scadente qualità commerciale. Si consideri la distanza tra due originali in bronzo come il Satyros o il r. da Anticitera e le copie in marmo di analoghi ritratti barbuti (v. filosofi) e si avrà chiaro come non si possano prendere queste repliche a metro del r. greco. Occorre perciò porre una particolare attenzione nel seguire il processo del passaggio dal r. tipologico a quello fisiognomico e a stabilirne i tempi.

B) Nascita del r. fisiognomico. Il r. greco ha come punto di partenza, al pari del r. delle civiltà orientali, un'area religiosa. Ma questa non si condensa attorno ad una figura di re-sacerdote e tanto meno di divinità regale, né si chiude in una casta sacerdotale. Il rapporto religioso dell'uomo greco rimane diretto e umano: alla divinità si accosta, divenendo per ciò stesso degno di immagine, non il re-sacerdote e la sua corte, ma il cittadino e, soltanto come tale, il signore della comunità, il nobile o il "tiranno". Fin dall'inizio, dunque, il r. greco si muove in uno spazio concettuale profondamente diverso rispetto al r. egiziano o mesopotamico, pur restando nell'ambito del r. "intenzionale". Quando un fedele deponeva nei santuari più arcaici le modeste figurette di terracotta o di bronzo come propria offerta, egli doveva avere in qualche modo il sentimento che queste lo rappresentassero presso la divinità, pur non istituendo tra donatore e immagine nessun rapporto somatico. Quando, dopo la metà del VII sec., mutate condizioni economiche consentono di sostituire a quelle povere terrecotte e ai piccoli bronzi statue grandi al vero e anche più grandi del vero, in metallo e in pietra, tale rapporto ideale non è affatto mutato. La statua virile nuda, eretta e non impegnata in nessuna azione, sorta non senza conoscenza della tipologia egiziana, cioè il koùros (v.), e il suo corrispondente femminile, la kòre, servono a rappresentare il dedicante presso la divinità nel santuario o il defunto sulla tomba. Ma tale rappresentanza è concepita in modo così astratto, che una kòre può essere dedicata da un offerente maschile e un koùros funerario può essere sostituito da una colonna o dalla immagine di un leone giacente. Perciò è sostanzialmente errato dare valore di r. a immagini di koùroi come quelle, opera dell'argivo [Poly]medes (v.); erette nel santuario di Delfi, anche se esse erano ricordo della pietà di due fratelli dei quali si sapeva il nome tramandato dall'iscrizione, Cleobi e Bitone: ricordo della pietà, non immagini personali di essi (anche se come tali dovevano apparire ai tardi periegeti che ce ne hanno con servato la leggenda e che scrivevano, non bisogna dimenticarlo, quando da secoli era concetto ovvio quello del r. fisiognomico). In ogni modo, saremmo dinanzi a un caso di r. intenzionale e simbolico. E tali sono ancora talune immagini di offerenti e persino le immagini sulle stele (v.) funerarie, lungo tutto il periodo detto arcaico (anteriore al 480 a. C.: v. Greca, arte).

È seguendo la dizione delle iscrizioni che si giunge a comprendere meglio in qual modo si sia andato mutando il concetto che presiede alla creazione di queste immagini. All'inizio, la statua greca, attraverso l'iscrizione, parla in prima persona come nelle civiltà orientali (Χάρης εἰμὶ ὁ κλέσιος ... ἄγαλμα τοῦ ᾿Απολλωνος); il rapporto magico tra persona e immagine è ancora sensibile. Più tardi, circa la metà del VI. sec. a. C., l'iscrizione si completa con l'aggiunta del nome dell'artista: "Io sono X. Y.; Il tale mi fece". Ma subito dopo, la consapevolezza che l'immagine non è altro che un manufatto dovuto alla abilità di una mano di artista, fa porre il nome della persona al genitivo, il che sottintende appunto "immagine di ...., statua di ...., mnema (cioè ricQrdo) di", seguito o no dal nome dell'artista (῾Αριστίονος ἔργον ῾Αριστοκλέο[υ]ς). Un esempio intermedio si ha nel donario di statue dedicate nel santuario di Samo, opera di Gheneleos (v.), con i nomi di persona che distinguono ciascuna delle statue, mentre la firma dell'artista le accomuna: "ἡμᾶς ἐποίησε Γενέλεως".

Se in questo mutare delle iscrizioni si può riconoscere un progressivo attenuarsi del rapporto magico tra immagine e persona raffigurata e un emergere del concetto della raffigurazione individuale come opera d'arte, perché si giunga al r. fisiognomico occorre che si dissolvano ancora altri vincoli di natura morale, codificati o no in disposizioni aventi valore imperativo. Queste impediscono che qualsiasi immagine venga collocata in luogo pubblico senza consenso dei reggitori della città; nello stesso tempo, - e siamo già in pieno V sec. - il r. di uso privato non esisteva, come del resto non esisteva il possesso privato, con gusto di arredamento domestico, di opere d'arte (sculture) al di fuori della forma artistica data alle suppellettili d'uso. Immagini pubbliche erano quelle degli strateghi (v.), delle quali ci è conservato il ricordo in copie romane su erme. Vediamo teste di tipo generico, con poche variazioni, caratterizzate dall'elmo corinzio e, secondo l'uso del tempo, dalla barba. Esse saranno state, probabilmente, distinte tra loro da qualche piccola variazione nella posa, ma erano individuate esclusivamente dall'iscrizione. Sono esempio eloquente e puntuale di r. tipologico. L'attento esame delle fonti letterarie ci persuade che a questo aspetto del r. tipologico si riferisse inizialmente anche quella definizione di immagine "iconica" che gli autori di età ellenistica e romana, quando il r. fisiognomico era cosa usuale, intesero come vero e proprio r. individuale, seguiti in ciò da gran parte dei moderni studiosi. Ma tale interpretazione risulta errata. Il passo fondamentale a questo proposito è quello di Plinio (Nat. hist., xxxiv, 16) nel quale prima è detto che "non si soleva rappresentare l'effigie umana se non di coloro i quali avessero meritato perpetua memoria per qualche illustre cagione" (e con ciò si esclude la esistenza del r. privato); e poi, che "di tutti i vincitori (delle gare olimpiche) era uso dedicare statue; ma di quelli poi che avevano vinto tre volte, le statue ripròducevano la somiglianza delle membra: e queste le chiamano iconiche" (ex membris ipsorum similitudine expressa, quas iconicas vocant). Questa "somiglianza delle membra" va intesa non solo nel senso di statue in grandezza naturale (v. ediz. pliniana di S. Ferri), ma anche nel senso che veniva riprodotta qualche caratteristica esteriore e, soprattutto di quelle che potevano indicare l'età più giovanile o più adulta. Tali infatti sono le notazioni che distinguono le statue atletiche di Policleto (v.): il Kiniskos dal Dorforo e questi, viriliter puer, dal Diadumeno, molliter iuvenis (Plin., Nat. hist., xxxiv, 55). Non sembra casuale che nel testo di Plinio a questo passo segua immediatamente la menzione delle statue erette in Atene ai Tirannicidi Armodio e Aristogitone (primo gruppo circa nel 506, opera di Antenor, secondo gruppo, del quale si conservano copie e altri documenti, nel 477, opera di Kritios, v.). Anch'esse sono statue "iconiche" e i due eroi sono individuabili solo per la barba del più anziano, e tanto poco personalizzati che l'iconografia di Armodio, il più giovane, si trova usata anche per immagini del mito (Eracle con l'Amazzone in una metopa di Selinunte, v.). Immagini "iconiche" erano anche (Plin., Nat. hist., XXXV, 57) quelle dei protagonisti della battaglia di Maratona, Milziade, Callimaco e Cynegiro per i Greci, Dati e Artaferne per i Persiani. La descrizione di queste pitture (attribuite dalle fonti a Panainos, a Mikon, a Polygnotos, ma comunque eseguite 30-40 anni dopo la battaglia) che ci ha lasciato Pausania (i, 15, 3, cfr. v, ii, 6) ci dice che alla battaglia presenziavano dèi ed eroi (il che già pone la composizione in ambiente non realistico), e che Milziade era raffigurato in atto di incoraggiare gli Ateniesi. Una tradizione narrava, inoltre (Aischyn., Ctesiph., 186, cfr. Corn. Nep., Miltiad., 6, 3), come Milziade avesse chiesto che il suo nome fosse scritto presso la sua immagine, ma che gli era stato concesso soltanto che la figura che lo rappresentava, fosse collocata, nella composizione, come la prima nella serie degli arconti ateniesi. L'aneddoto è certamente di invenzione, giacché Milziade non era più in vita quando fu eseguita la pittura; ma conferma indirettamente che non si trattava di una raffigurazione fisionomica, e che vi era ritegno a distinguere le persone col nome. Questo ritegno insorgeva soltanto quando si trattava di persona reale, mentre i nomi accompaguavano ogni figura del mito e della leggenda e talora anche gli oggetti raffigurati, come vediamo sulla coeva ceramica.

La resistenza alla individuazione sembra particolarmente viva ancora alla metà del V sec. a. C. Nell'àmbito del r. tipologico si muove ancora l'immagine di Anacreonte (v.), r. di ricostruzione, caratterizzato come poeta (che suona la lyra) e come "comaste" (cioè partecipante ad un gioioso banchetto tra uomini) leggermente ebbro; ma anche l'immagine del contemporaneo Pericle (v.) caratterizzato come stratega. Tuttavia fra tutte le immagini di strateghi, quella di Pericle è l'unica che dagli occhi dell'elmo appoggiato in alto sulla fronte, solitamente aperti sul vuoto, lasci intravedere la sommità della testa coperta di capelli ricciuti: accenno, questo, alla forma allungata del cranio di Pericle, forma che fu argomento di replicate facezie da parte degli scrittori di commedie. Di individuale, di "iconico" potremmo dire, vi è soltanto questo lieve particolare, che introduce un elemento personale, ma quasi caricaturale, nella olimpica compostezza del r. di Pericle, opera di Kresilas (v.), circa del 435 a. C.

Osservando questo elemento di individuazione, tratto dall'abnorme, può essere avanzato, a questo punto, il quesito se l'avvio al r. fisiognomico non sia avvenuto attraverso la caricatura (v.), così vivamente sentita prima in Egitto e poi, più ancora, in Grecia. La ricerca è stata compiuta anche in campo letterario (Pasquali). Ma (come è stato già detto nelle premesse generali) si deve concludere negativamente: perché la caricatura tende, sì, a rilevare le caratteristiche abnormi e a esteriorizzarle, ma anche a fissarle e a tipizzarle. Il r. fisiognomico nasce invece da una ricerca di approfondimento psicologico e di valutazione dei tratti individuali, anche abnormi, in senso positivo, proprio perché peculiari all'individuo. Esso sorge, in sostanza, da un apprezzamento della singolare individualità di ciascuno; e tale apprezzamento non poté diffondersi se non dopo la sofistica. A ragione è stato indicato in varî passi relativi all'insegnamento socratico (Xenoph., Sympos., ii, 19, e tutto il v; Plat., Sympos., 215 a-b) il germe di quel modo di pensare che è presupposto necessario al sorgere del r. fisiognomico (cioè la valutazione positiva, perchè individuale, anche dell'abnorme, purchè funzionale); e nelle metope S del Partenone (Centauromachia) il primo mutarsi dal tipo all'individuo, mediante notazioni psicologiche (Schweitzer). Notazioni psicologiche, si badi, che in un dialogo socratico (Xenoph., Memorabil., iii, 10) l'artista interlocutore dapprima nega e respinge, e la cui possibilità egli finisce di ammettere solo se persuaso dal ragionamento del filosofo: il che conferma l'origine non plastico-formale ma concettuale, del problema. Senza insistere sulla misura di storicità contenuta nei dialoghi socratici (lo svolgimento di quello testé citato avverrebbe nel 399), la loro redazione fra 393 e 347 mostra che tali problemi erano ancora vivi nella prima metà del IV secolo. Il r. stesso di Socrate (v.), nel suo primo tipo, probabilmente creato poco dopo la morte, si mantiene ancora entro un ambito tipologico. Valendosi del confronto che Socrate stesso fece tra sé e un Sileno, si ha il tipo "silenico", esteriormente caratterizzato come tale, senza nessun tentativo di fissare i tratti fisici reali, né di introspezione psicologica. Questa si avrà soltanto, ed esprimente in modo felicissimo la ilare serenità e umanità socratica, nel r. di ricostruzione, che è attribuibile a Lisippo, cioè probabilmente all'ultimo trentennio del IV sec. (Diog. Laert., ii, 43). Prima di allora, un r. che, pur non essendo realistico, ha già tutte le caratteristiche del r. fisiognomico, lo troviamo effettivamente, dunque, solamente col r. di Platone (v. vol. VI, fig. 247), del quale possediamo copie di età romana, derivanti quasi sicuramente dalla statua che fu opera di Silanion (v.) Questa era stata dedicata alle Muse da Mitridate, satrapo persiano. Si è discusso se ciò fosse avvenuto poco dopo la morte del filosofo, che è del 348-47, o se ne fosse stata possibile la dedica mentre era ancora in vita. La dedica alle Muse ha un carattere votivo, di consacrazione, che sembra più confacente ad un r. postumo; l'iniziativa di uno straniero conferma la resistenza dell'ambiente ateniese al r. individuale. Una conferma della persistente tendenza al tipico è data anche dal passo di Plinio (Nat. hist., xxxiv, 81), avere Silanion nel r. d'Apollodoros (uno scontroso scultore: v. apollodoros 3°), raffigurato, più che la persona, "l'immagine stessa dell'ira". (Non è da far seguito a un tentativo isolato di mutare le consuete attribuzioni, individuando Platone nel r. solitamente riconosciuto quale Aristotele, questo nel Menandro, mentre il Platone sarebbe Zenone: v. in bibliograf., K. Kraft).

Abbiamo qui esposto succintamente il cammino percorso dalla cultura greca per giungere al r. fisiognomico, quale è stato ricostruito da una serie di studiosi (Pfuhl, Schweitzer, Bianchi Bandinelli), le cui conclusioni portano a datare la creazione dei primi veri e proprî ritratti attorno alla metà del sec. IV. Altri studiosi (Studniczka, Schrader, Picard, Richter, Bielefeld) tuttavia non consentono a tale conclusione, e non seguono la differenziazione tra r. fisiognomico e r. comunque intenzionale, senza la quale, però, si rinunzia a dare al r. la sua posizione nello sviluppo storico di una civiltà e a comprenderne l'esatto valore e significato. Contro la linea di sviluppo qui sopra esposta vengono avanzati varî argomenti. Dimostratasi insostenibile, specialmente dopo gli studi del Raubitschek (particolarmente The Dedications from the Athenian Acropolis, Cambridge Mass., 1949), la tesi secondo la quale anche nelle immagini dei koùroi e delle kòrai si doveva riconoscere intento ritrattistico, principale testimonianza per la precocità del r. fisionomico si vuol riconoscere nel r. di Temistocle, quale ci è conservato in un'ernia rinvenuta ad Ostia nel 1939. Si ritiene, in questo caso, che esso sia copia di età romana di un originale contemporaneo al personaggio (circa 480-460 a. C.). Quel r. di Temistocle esce, tuttavia, completamente dalla tipologia delle immagini degli altri strateghi contemporanei. Inoltre, la statua dalla quale deriva, dovrebbe essere stata posta ad un personaggio caduto in disgrazia nell'ultima parte della sua esistenza (e la recente ipotesi, [Drerup] di una esecuzione durante l'esilio ad Argo non tiene conto delle particolari condizioni nelle quali una statua onoraria poteva venir posta). Appaiono perciò valide le argomentazioni addotte per ritenere che questo sia un r. di ricostruzione creato molto dopo l'età di Temistocle: o nel IV sec., quando la sua memoria fu riabilitata e fu esaltata, o addirittura in età neo-attica (si vedano le argomentazioni alla voce temistocle). Più vicino, effettivamente, allo stile d'attorno al 464-460 sembra essere l'immagine di Pausania (v.) re di Sparta, che si ha in varie copie romane. La singolarità rimane, tuttavia, nel fatto che anche in questo caso si tratterebbe di un personaggio condannato nell'ultimo tempo della sua vita e poi riabilitato.

È anche da considerare il caso dello scultore Demetrios di Alopece, la cui cronologia è incerta tra fine del V e prima metà del IV sec. a. C. A questo proposito Quintiliano (Instit. orat., xii, 10, 9) ci conserva l'eco di un giudizio che dovette sorgere nella letteratura artistica del tardo ellenismo: ad veritatem Lysippum et Praxitelem accessisse optime affirmant. nam Demetrius tamquam nimius in ea reprehenditur et fuit similitudinis quam pulchritudinis amantior. Il rimprovero di preferire la somiglianza al canone di bellezza è tipicamente classicistico e concorda con quanto altrove (Plin., Nat. hist., xxxv, 153) vien detto a proposito di Lysistratos fratello di Lisippo: hic et similitudines reddere instituit, ante eum quam pulcherrimas facere studebatur. La ipotesi di identificare una testa di vecchia conservata in copia di età romana con il r. della sacerdotessa Lisymache, che le fonti attestano opera di Demetrios e alla cui base circolare è stato attribuito un frammento di iscrizione (E. Loewy, I.G.B., 64) è tutt'altro che sicura. Se lo fosse, avremmo effettivamente un r. pienamente fisiognomico, giacché la sua tipizzazione va oltre la generica caratterizzazione delle forme senili, quale si ha in una delle figure aggiunte del frontone occidentale del tempio di Zeus ad Olimpia. Ma gli unici dati più sicuri dell'attività di Demetrios portano al pieno sec. IV. Anche il personaggio calvo che combatte contro le Amazzoni nelle copie che si hanno dello scudo della Parthènos di Fidia, e nel quale si è voluto vedere Fidia stesso nelle vesti di Dedalo, presenta tratti fisionomici caratterizzati, anche se questi possono essere accostati a quelli del centauro della metopa n. 9 del Partenone (Frei). La tradizione che ci tramanda l'accusa di offesa al rispetto sacrale sollevata contro Fidia per questa inserzione della propria immagine negli accessori della statua di culto, mostrerebbe in ogni caso la prevenzione dell'ambiente ateniese contro il r. individuale, seppure non fosse una determinazione della tarda aneddottica. Rimane comunque il fatto, nel suo duplice aspetto:

a) che la piena capacità di espressione realistica sviluppata nella civiltà artistica greca fino dalla seconda metà del sec. VI, attestata dalle immagini che si hanno, in scultura o in pittura, delle caratterizzazioni somatiche di popoli etnicamente diversi dai greci (v. negro) e dalle caricature (v.), o dalla caratterizzazione di esseri mitici quali i satiri (v. anche marsia) e i centauri, non la troviamo usata per il r. di persone storicamente esistenti durante tutto il V sec. a. C. (gli unici isolati casi di eccezione sono tutti di datazione assai discutibile) e la proposta datazione alta (fra 400 e 350) del r. di un africano, da Cirene (Londra, British Museum, Cat. Bronz., n. 268) rientra, se il pezzo non è in realtà classicistico, nella caratterizzazione etnica;

b) che, superate nella prima metà del sec. IV a. C. quelle remore ideologiche che avevano trattenuto la civiltà artistica greca dall'affrontare il r. fisiognomico, l'arte greca crea, prima tra tutte le civiltà artistiche contemporanee, il r. nel pieno senso della parola, quale sarà concepito nell'età ellenistica e romana e poi nella civiltà moderna di formazione europea.

Per quanto riguarda Silanion, il creatore del r. di Platone (v. silanion), la cronologia dell'artista contiene alcune incertezze: Plinio ne colloca l'attività tra il 328 e il 325, mentre altri dati la anticipano alla prima metà del secolo, e, come è stato detto, si discute se il r. di Platone sia stato dedicato durante la sua vita, in tal caso lo si vorrebbe datare intorno al 360, o dopo la sua morte 348-47. La tenacia con la quale si tiene ferma la prima opinione, anche da parte di coloro che riconoscono nel magnifico bronzo da Olimpia il r. dell'atleta Satyros, opera dello stesso artista, che non può essere anteriore al 335, non è sostenuta da altro che da un inespresso e forse inconsapevole desiderio di accrescere il prestigio dell'arte greca, tenendo più alta possibile la data di una conquista così importante quale la creazione del r. fisiognomico. Proseguendo, sappiamo (Plut., Vita X Orat., Lycurg., 10), che nel 340 a. C., per decreto di Licurgo, furono poste nel teatro di Dioniso ad Atene le statue in bronzo di Eschilo, Sofocle, Euripide (per l'identificazione dei tipi v. le singole voci). Erano tutti ritratti di ricostruzione, essendo morti, Eschilo nel 455 a. C., Sofocle ed Euripide nel 406 a. C., e presentano ritratti di tipo fisiognomico non molto più caratterizzati del r. di Platone, il che potrebbe essere argomento per porre tra questo e quelli meno di venti anni di distanza. Il r. di Eschine (v.) è per stile formale certamente posteriore al Platone, ma anche per esso (che ugualmente abbiamo soltanto in copie di età romana) si discute fra una datazione alta, attorno alla metà del secolo (Boehringer, Frel) e una più bassa, attorno al 320 a. C. (Laurenzi). Anche il r., noto in copia romana, supposto di Alcibiade o di Filippo II di Macedonia, ma in realtà ancora anonimo, il cui originale dovette esser creato da un maestro non secondario della metà del IV sec., ha ancora forti elementi di astrazione. Ma soltanto nel r. di Crisippo (morto nel 206 a. C.) si troverà per la prima volta rappresentata in un r. la decadenza fisica della vecchiaia e Plinio (Nat. hist., xxxv, 88) riecheggerà ancora le obiezioni contro le imagines similitudinis indiscretae, che dipingeva Apelle.

C) Lisippo e l'ellenismo. Comunque poi si voglia concludere su questo periodo di formazione del r. in Grecia, si deve riconoscere che alla stabilizzazione artistica del r. fisiognomico nel pieno senso del termine, un r. cioè che ponesse il suo intento nell'essere fedele ai particolari somatici quali si trovano nella realtà fisica, ma anche impegnato a rendere il contenuto spirituale e, al tempo stesso, a creare, con questi elementi, un'opera d'arte organica e formalmente valida in se stessa, fu dato l'impulso decisivo dalla grande personalità artistica di Lisippo. Fu Lisippo (v.) il creatore del r. nel pieno senso del termine, quale fu concepito in età ellenistica e in età moderna. Nel creare il r. di Alessandro di Macedonia (v.), Lisippo mostrò tra l'altro la propria genialità nel prender spunto da un difetto fisico che obbligava Alessandro a tener la testa sensibilmente reclinata verso una spalla (Plut., Alex. M., 4), per trarne un atteggiamento del volto e dell'occhio verso l'alto, esprimente una specie di rapimento, sotto l'ispirazione di un muto colloquio con la divinità. Fu creata in tal modo una tipologia del sovrano "ispirato", che ebbe enorme influenza sulla ritrattistica dei sovrani o dei condottieri anche oltre l'età ellenistica (come ha ben dimostrato il L'Orange).

Se non documentatamente a Lisippo, alla sua cerchia certamente si debbono i ritratti di Aristotele (v.), questo eseguito ancor vivente il filosofo, e quelli di ricostruzione di Socrate (v. socrate, 2° tipo), di Euripide (v. Euripide, tipo Farnese) nei quali le immagini create su dati biografici acquistano una evidenza di realtà e di profonda introspezione psicologica.

Dopo Lisippo, il r. fisiognomico greco toccò, durante tutto l'ellenismo (cioè nei secoli III-I a. C.), uno sviluppo amplissimo. Non più solo di sovrani e di uomini che si fossero resi meritevoli di perpetuo ricordo per qualche motivo illustre, secondo il ricordato passo di Plinio (Nat. hist., xxxiv, 16), ma anche di semplici privati si eseguirono ritratti, in conseguenza del mutato rapporto nella produzione artistica che caratterizza tutta l'età dell'ellenismo, dove l'arte è a disposizione del singolo e non più della collettività. Accanto al r. dei sovrani, conservatoci oltre che in copie romane, talora anche in originali, o riprodotto su monete (v. battriana; indo-greci, seleucidi; tolemei), si trova adesso il r. onorario privato e il r. funerario. (Nella raccolta di fonti del Laurenzi, Ritratti greci, sono nominati, a partire dalla metà del sec. V a. C., 132 artisti autori di ritratti, dei quali 90 cadono nell'età ellenistica). Le fonti letterarie ci dicono che il fratello di Lisippo, Lysistratos, applicò la tecnica del calco in gesso per trarre l'impronta dal volto, quale modello per il r. da eseguire. Ricavando dalla forma negativa di gesso un modello in cera che veniva ritoccato e completato (Plin., Nat. hist., xxxv, 153), questo poteva essere usato come presupposto della fusione del r. in bronzo. In bronzo erano, infatti, in grande maggioranza, i ritratti onorari greci. Come già notava Plinio, questa tecnica del calco prelude ad una tendenza veristica del r. che si sviluppa durante l'ellenismo, anche a scapito della correttezza formale e della piacevolezza compositiva. Tale tendenza, del resto, è pienamente sulla linea del gusto ellenistico, rivolto agli aspetti caratteristici o anche deformi della realtà (temi di genere con vecchi, contadini, pescatori; figure di pigmei o di personaggi comicamente grotteschi). In questa tendenza trovano posto le piccole terrecotte con teste caratterizzate, così frequenti nella produzione ellenistica e romana (Richter: spontaneous sketches "). Questo gusto dà vita a ritratti quali il r. di Demostene (v.) e quello di Ermarco (v.), certamente basati sui dati della realtà fisica dei personaggi, eseguiti tra il 280 e il 270, il r. di uomo anziano del museo di Atene n. 351, databile attorno al 200 a. C., il bronzo di Anticitera (Museo Naz., Atene n. 13400), un originale per il quale è stata proposta una datazione 180-170 a. C., il supposto Eutidemo di Battriana (v.), che possediamo in una copia, il fluido e patetico r. in bronzo di Delo (v. vol. iii, fig. 80) e finalmente il sacerdote isiaco dell'agorà di Atene (n. 5333), originale della prima metà del I sec. a. C. È da menzionare anche il verismo tutto di maniera di un r. di ricostruzione quale lo Pseudo-Seneca (v.), il cui originale era certamente ellenistico.

Accanto alla tendenza di gusto "verista", permane nel r. ellenistico, particolarmente là dove le tradizioni classiche erano più sentite, una tendenza a dare al r. una particolare dignità e nobiltà di forme, che si congiunge senza sforzo alla eleganza e talora raffinatezza di questa civiltà eminentemente urbana (ritratti di Antioco III di Siria, Tolemeo III, Berenice ii, Tolemeo VI, Mitridate VI, ecc.: si vedano le voci rispettive). In queste correnti si inseriscono ritratti come quello in bronzo supposto di Giuba ii, che in marmo trova riscontri in qualche r. alessandrino.

D) Tipologia. Particolare favore, alla fine dell'ellenismo, sembra aver goduto il monumento celebrativo che riuniva insieme, distribuiti di preferenza in un'esedra, un complesso omogeneo di ritratti statuarî: un esempio grandioso, che è in parte conservato, era quello dei monarchi di Commagene, eretto tra il 69 e il 34 a. C. sul Nemrud Dagh (v.); un altro era quello di Memfi, del quale rimangono soltanto miseri resti, e che riuniva le immagini di Demetrio del Falero, Protagora, Platone, e poi Talete, Eraclito, Omero e quella solennissima di Esiodo, tutti ritratti di ricostruzione (v. Saqqārah). In questo intento di riunire in serie personaggi omogenei si dovette ricorrere sempre più, appunto, al r. di ricostruzione, e Plinio ce lo conferma esplicitamente nel caso dei ritratti nelle biblioteche: etiam quae non sunt, finguntur, pariuntque desideria non traditos vultus, sicut in Homero evenit, quo maius, ut equidem arbitror, nullum est felicitatis specimen quam semper omnis scire cupere qualis fuerit aliquis. (Nat. hist., xxxv, 9-10): "Si raffigurano anche (ritratti) immaginari, e il desiderio dà forma a volti non tramandati, come è il caso di Omero. Penso invero che non ci sia altro esempio di felicità che il desiderare sempre ognuno di sapere di quale aspetto uno fosse (in vita)". Troviamo infatti, nel medio e ultimo ellenismo, tutto un nuovo rifacimento di ritratti di invenzione, in sostituzione di quelli più antichi: per esempio il Sofocle (v.) del tipo Arundel, accanto al quale sarà da porsi lo Pseudo-Seneca (v.), l'Omero (v.) del tipo Sans Souci, e il meno felice Socrate (v.) del tipo Albani. Con la fine dell'età ellenistica, però, avrà termine, nel mondo antico, la creazione di ritratti di tipo fisiognomico tutti di invenzione, dedicati alle grandi personalità dei poeti e dei pensatori di età classica e arcaica.

Sino agli ultimi tempi dell'ellenismo, il r. greco rappresentò la figura intera. Il senso dell'organicità della forma di natura era profondamente radicato nella mentalità greca, e ogni taglio arbitrariamente condotto su di essa, le repugnava. Nel tardo ellenismo si incontra, isolatamente e in centri periferici, la mezza figura esclusivamente con carattere funerario o votivo, entro nicchie o edicole (esempio: busto di divinità femminile a Rodi: Clara Rhodos, ii, 1932, n. 9, figg. 12-13), mai il busto o la testa isolata come sarà usuale nel r. italico e romano (v. più avanti). Una origine non chiarita, ma verisimilmente periferica, ha il r. su clipeo, cioè l'inserzione di una testa-ritratto al centro di uno scudo metallico, inteso come scudo militare (v. clipeate, immagini). Esempî ne sono stati trovati a Delo e a Kalydon (v.) e la tipologia si prosegue in età romana e fino in ambiente parthico (v.palmirena, arte, vol. v, figg. 1125, 1126).

Il r. greco, come r. onorario pubblico, poteva essere collocato più generalmente nell'agorà (Paus., 1, 16, 1), talora anche in un santuario o in un tempio (Paus., i, 24, 7). Sappiamo di ritratti collocati nel teatro (Paus., i, 21, i) e nelle biblioteche (Plin., Nat. hist., vii, 30; xxxv, 2, 9). Il r. pubblico sorgeva collocato sopra una base (che in età arcaica era più spesso formata da due o tre alti gradini), e questa recava l'iscrizione col nome della persona onorata, del dedicante e, quasi sempre, dell'artista che l'aveva eseguita. Per maggiore onore, la statua poteva essere collocata: sopra una colonna (per esempio statua del sofista Gorgia a Delfi (Ps. Dio Chrysost., Or., xxxvii, 28) o sopra un architrave sorretto da due colonne nel caso di complesso di più persone (monumento di Timarete e della sua famiglia, databile tra il 270 e il 225 a. C., a Delfi, posto all'altezza di circa m 9,50 dedicato ad Apollo), o sopra un alto basamento a pilastro (pilastro di re Prusia a Delfi presso il tempio di Apollo; Atene, base della prima metà del II sec. a. C. sulla quale fu posto poi il monumento di Agrippa, presso ai propilei dell'Acropoli).

Alla statua onoraria, raffigurata generalmente in piedi quando si tratta di uomini politici, di strateghi o di oratori fa riscontro, almeno dalla seconda metà del sec. IV a. C., la statua seduta quando si tratti di filosofi o scrittori (v. le singole voci sotto il nome dei personaggi). Ancora, in età classica (V e IV sec. a. C.), si trova il gruppo statuario di un uomo accanto ad un cavallo (Aristot., Athen. Polit., 4; Pollux, viii 131) che poi rimane tipico per la raffigurazione dei Dioscuri. Le statue equestri documentate negli ex voto dell'acropoli di Atene databili tra il 530 e il 510 non avevano intenti onorarî, bensì di offerta di un àgalma, opera "splendente" d'arte, priva di intento ritrattistico, come è detto sopra per i koùroi. La statua onoraria equestre vera e propria non appare documentata prima dell'età ellenistica, ed ha come presupposto l'Alessandro a cavallo di Lisippo (cfr. voi. I, fig. 357). Questa scultura doveva essere di dimensioni sensibilmente inferiori al naturale, e anche la base di statua equestre di Attalo ii, dedicata nel santuario di Delfi, anch'essa dunque, come attesta l'iscrizione (cfr. Klio, xvi, 1919-20, p. 109) più un'offerta che un monumento onorario e databile al 162-160 a. C., era di dimensioni di due terzi del vero. L'uso di onorare un cittadino col dedicargli una biga di bronzo, di ridotte dimensioni, che si trova ancora in età romana (per esempio nelle iscrizioni di Leptis Magna: Reynolds-Ward Perkins, n. 633) può considerarsi una continuazione di questo modo di concepire il r. equestre in formato ridotto, anche se non è documentato che tali bighe contenessero il r. della persona onorata (e varie considerazioni porterebbero a escluderlo). Di monumenti equestri in grandezza naturale non ci resta documentazione prima dell'età romana: forse la più antica testimonianza in un complesso decorativo di tipo tardo ellenistico, è la riproduzione di un monumento equestre nelle pitture delle stanze a fondo nero della Farnesina (Roma, Museo Naz. Romano) databili al 30-25 a. C.

I ritratti collocati nelle biblioteche, secondo un uso ellenistico (introdotto poi a Roma da Asinio Pollione nel 50 a. C.), dovevano anch'essi aver forma statuaria, almeno all'inizio. Nella villa ercolanese dei Pisoni, di età imperiale romana, i ritratti dei filosofi greci erano invece in piccoli busti da tavolino, eseguiti in bronzo, con base rotonda recante il nome del filosofo (v. epicuro; ermarco; ercolano, n. 9).

Non abbiamo documenti per stabilire il momento nel quale sorse il r. in forma di erma. Lo troviamo diffusissimo in età imperiale romana, sia in marmo che in bronzo. Ma i ritratti greci ripetuti sulle erme dai copisti di età romana derivano tutti da statue. La Grecia conosce la erma fin dalla fine dell'età arcaica (ultimo venticinquennio del VI sec. a. C.), ma sormontata esclusivamente dalla testa di Hermes e in funzione religiosa di segnacolo di una delimitazione territoriale. L'erma compare sempre e soltanto nella sfera religiosa, anche nelle trasformazioni che subisce dopo l'età arcaica (v. Erma). La trasformazione dell'erma greca in erma-ritratto deve essere, probabilmente, avvenuta attraverso l'assimilazione di Hermes, inteso anche quale psychopompòs, cioè funerario, con i tratti fisici del defunto (il cui recinto sepolcrale l'erma delimitava). Ê stato supposto che tale processo si sia svolto in tarda età ellenistica, o forse soltanto in età romana; ma non abbiamo testimonianze in proposito, mentre il cippo funerario sormontato da una testa col r., intenzionale o fisiognomico, del defunto si trova nell'ambiente italico e poi romano (v. più oltre).

E) Pittura. Nei paragrafi che precedono è stato considerato sempre il r. in scultura. Il r. prende le mosse infatti dalla statua onoraria, e da questa poi, in età ellenistica, i ritratti su monete, su gemme e camei (v. Glittica). Ma l'antichità conobbe anche il r. in pittura e il suo derivato in mosaico. Di quest'ultimo tuttavia si hanno testimonianze solo per l'età romana. Plinio (Nat. hist., xxxv, 4) ci dice che al suo tempo la pittura del r. era decaduta, mentre "in passato con. essa si tramandavano immagini al massimo grado somiglianti": anche troppo, come abbiamo indicato sopra, secondo il gusto classicistico. Abbiamo dunque un'attestazione di ritratti dipinti, di tipo fisiognomico, almeno da Apelle fino al tardo ellenismo (per l'età romana v. più avanti). E anche in pittura dovette piacere, ad un certo momento, riunire le immagini di più persone celebri, come ci è attestato dai mosaici con i Sette Sapienti (v.), che certamente derivano da pitture tardo-ellenistiche. Non abbiamo testimonianze, né indirette né, tanto meno, dirette, di ritratti fisiognomici in pittura prima di Protogenes (v. protogenes, 1°) e di Apelle (v.) e della esclusività a lui concessa da Alessandro il Macedone nel ritrarlo. Ma è evidente che anche il r. pittorico abbia seguito lo svolgimento che è stato esposto più sopra per il r. in scultura, giacché il problema è unico e non consiste nei mezzi dell'espressione artistica, ma nella concezione che si va affermando. Non ci sono attestati pìnakes (v.) votivi con ritratti; ma è da supporre che il r. dipinto sia stato prima votivo che onorario o familiare.

6. Italia antica. Etruria. - Il r. greco era stato concepito sempre, sia che fosse "intenzionale" o "fisiognomico" (v. sopra, n. i, n. 5 D), come statua intera. Appariva inconcepibile, nella cultura greca, frantumare quella unità organica, e non soltanto fisica, non soltanto formale, ma concettuale, che intendeva rappresentare la personalità umana come un tutto inscindibile, caratterizzandone l'essenza nella sua espressione somatica e in quella psicologica. Invece, nell'area italica (e celtica) si manifesta in vario modo la suggestione che la vitalità e la personalità si concentrino nella testa e che questa sia sufficiente a rappresentare l'intera individualità. Tale convinzione, certamente connessa con particolari credenze magiche e religiose, sta alla base di una particolarità tipologica che si riscontra nell'ambiente italico in genere e che assume importanza fondamentale in Etruria, e poi in Roma, nelle sue connessioni col ritratto. Infatti, ne troviamo una espressione evidente nella raffigurazione consueta delle immagini sui coperchi delle urne cinerarie etrusche, dove ad un corpo recumbente, di piccole dimensioni, è imposta una testa di proporzioni notevolmente più grandi. Da questa concezione sorgono anche quelle raffigurazioni funerarie che preludono al busto di età romana, inizialmente limitato alla testa con una piccola parte del collo: di tali busti rudimentali, sempre come ricordo funerario, si hanno esempî dalla necropoli di Tarquinia, sia sotto l'aspetto del cippo isolato (e si può supporre che in realtà si tratti di una testa sovrapposta ad un cippo funerario conico, più che ad un collo umano), sia come aggiunta di una seconda figura accanto alla figurazione di una intera figura distesa sul coperchio di un sarcofago. Questa forma italica del cippo-ritratto si conserva significativamente ancora in numerosi esempî della necropoli di Taranto (sostanzialmente inediti), che hanno forse inizio ai limiti della età repubblicana, ma certamente avanzano sensibilmente entro l'età romana imperiale. Con la stessa concezione vanno collegate le teste votive di terracotta, per lo più eseguite in serie e a stampo, che si trovano numerose nei santuarî della Campania, del Lazio e dell'Etruria, mentre in Grecia, e negli ambienti di influenza greca, si trovano con lo stesso intento votivo, esclusivamente o in prevalenza figurine intere.

Acquisita questa particolarità concettuale e tipologica, e senza disconoscere che una tale prevalente importanza data alla testa umana può precostituire un fondamento favorevole alla espressione ritrattistica, occorre rendersi conto quando tale espressione ritrattistica sia stata solamente intenzionale, quando si sia fatta tipologica e quando fisiognomica. L'aver trascurato tale indagine, ha fatto sì che taluni equivoci siano sorti e si siano affermati come luoghi comuni nelle trattazioni dell'arte italica, etrusca e romana. Tra questi, l'affermazione di una priorità italica, rispetto alla civiltà greca, nella creazione del r. fisiognomico e il designare come ritratti tutte le immagini su sarcofagi e su urne. In realtà, invece, se si conduce un esame accurato dal punto di vista artistico (formale), e dal punto di vista cronologico, si deve giungere alla conclusione che non vi è, nell'ambito italico-etrusco, e nemmeno in quello laziale-romano, nessun r. fisiognomico databile a prima della fine del sec. IV a. C. (quando il r. fisiognomico greco è riferibile almeno alla metà di quel secolo e, secondo alcuni studiosi, a molto prima, come è stato detto sopra, n. 5 B).

L'equivoco in proposito, ha come esplicito punto di partenza gli studî che intesero di scorgere nei coperchi degli ossuarî etruschi peculiari della regione di Chiusi e impropriamente detti canòpi (v.), una affermazione ritrattistica in senso individuale (A. Milani). Tali raffigurazioni, invece, debbono essere collocate nell'àmbito di analoghe tendenze ad animare l'ossuario fittile (o anche altro vasellame) con forme facciali umane, tendenze che si trovano anche in altre civiltà protostoriche in Oriente (v. troia) e in Occidente (Meklemburgo) e che si manifestano con vivacità nelle suggestioni antropomorfe proprie della civiltà villanoviana (v.), strettamente connessa con la cultura italico-etrusca. I canòpi chiusini, del resto, si esauriscono nel corso del sec. VI a. C., con forme sempre più generiche ed uniformi, che escludono veri intenti ritrattistici, (e lasciano in dubbio persino sulla intenzione che l'immagine espressa dal coperchio dell'ossuario possa voler ricordare il defunto stesso nella sua individualità). E allorché cessano i canòpi (destinati a rimanere invisibili entro le tombe a forma di dolio), essi vengono sostituiti, nelle tombe a camera, con statue-cinerarie dalle forme del tutto generiche, impersonali e dall'evidente significato di immagine di divinità.

Sui sarcofagi etruschi di età arcaica si trova, in taluni casi, (sarcofagi fittili di Cerveteri: Roma, Villa Giulia; Parigi, Louvre), la raffigurazione della coppia umana, rappresentata con generiche forme dello stile arcaico, che ci consentirebbero di interpretarle, tutt'al più, e non senza qualche riserva, come r. intenzionale. Posteriormente all'età arcaica, numerosi sono i sarcofagi con immagini di defunti nella necropoli di Tarquinia e del suo territorio, generalmente con figura distesa o recumbente, rare le urne; nel territorio di Chiusi si hanno alcuni sarcofagi e numerose urne; isolati sarcofagi provengono dal territorio di Vulci; quasi esclusivamente urne dalle necropoli di Perugia e specialmente di Volterra. La cronologia di tutti questi monumenti è ancora sottoposta a incertezze. Ma si possono indicare alcuni punti fermi. Dopo i citati esempî fittili arcaici, il gruppo più antico di sarcofagi, con figura distesa, è quello della necropoli della Banditaccia a Cerveteri, del quale l'esemplare migliore è conservato al Museo Gregoriano (Vaticano), e mostra un volto del tutto generico di uomo barbuto, senza baffi, con la testa cinta da una corona di foglie di aspetto metallico. La datazione (Herbig) è certamente da contenersi ancora nei limiti del sec. V a. C. Nella seconda metà del IV sec. a. C. dovrà essere datato il sarcofago di Vulci (Boston, Museum of Fine Arts) con coppia che giace abbracciata (dei due esemplari analoghi, quello con uomo barbuto), perchè i rilievi della cassa presuppongono i fregi del Mausoleo di Alicarnasso. Le due teste hanno tratti generici che possono, tutt'al più, rientrare nel r. tipologico. Nell'altro analogo sarcofago, con uomo senza barba, la cui cronologia non può discostarsi di molto dal precedente, (Herbig vuole collocarlo un poco prima, attorno alla metà del IV sec.) il r. tipologico mostra già la tendenza, che si accentuerà sempre più nell'arte etrusca, a rappresentare il benessere sociale del defunto mediante la sua corporatura massiccia, che giungerà sino all'obesità (l'obesus etruscus di Catullo, xxxix, ii, sarà appunto una caratteristica generica, non individuale). Ma quanto lontani si sia, ancora in età posteriore, dal voler dare un r. "realistico", cioè individuale e fisiognomico del defunto, lo mostra con evidenza il ben noto sarcofago detto del Magnate (Tarquinia, Museo Naz. inv. 9873), che appartiene alla grande famiglia dei Partunus, le cui epigrafi sepolcrali permettono di ricostruire una certa successione genealogica. Questa successione conferma una datazione del sarcofago a epoca non anteriore alla prima metà del sec. III. Il volto del recumbente, sostanzialmente generico, e di forme classiche, non corrisponde certamente al dato di fatto dell'iscrizione (C.I.E., ii, i, 3, n. 5425) che indica in 82 anni l'età del defunto. Dallo stesso sepolcro familiare proviene quello che è senza dubbio il più notevole esempio di scultura funeraria etrusca di questa età, nella figura dalle carni flaccide che riposa sopra un sarcofago in calcare breccioso con coperchio in marmo grigiastro (Tarquinia, Museo Naz. inv. 9875). Il volto potrebbe, in questo caso, essere considerato un vero r. di tipo ellenistico (si confrontino le monete di Eutidemo [v.] e il suo supposto r. databile a circa il 200 a. C.). Ma il ritrovarlo quasi identico sopra un'urna di Volterra (museo, n. 119; cronologicamente anteriore alla serie delle più note in alabastro) legittima il dubbio che si abbia ancora a che fare con una tipologia stilistica, piuttosto che con una fisionomia individuale.

Il r. sull'urna di Larth Sentinate Caesa, dalla Tomba della Pellegrina (Chiusi, museo), sia che la si voglia datare all'ultimo venticinquennio del III sec. a. C. (come appare dal tipo della tomba e dalla ricostruzione della successione di almeno quattro generazioni che la usarono) o alla seconda metà del II (come sembrerebbe preferibile dal punto di vista stilistico), si palesa in sostanza di un freddo carattere generico: ad un tipo giovanile, efebico, si è voluto aggiungere una caratteristica di età avanzata, segnandovi una accentuata calvizie. Ancora per il sarcofago fittile e grossolanamente policromato di Larthia Seianti, da Chiusi (Firenze, Museo Arch.), che monete romane rinvenute nel suo interno datano alla prima metà del II sec. a. C., si rimane assai incerti se si possa ritenere un r. individuale, o non piuttosto un generico tipo, quello della figura femminile pomposamente recumbente sui ricchi cuscini. Assai scarsa è la caratterizzazione del volto e notevole l'identità con quello dell'altro sarcofago analogo di Seianti Thanunia, al British Museum. Eppure la circostanza che le iscrizioni siano incise nella creta fresca, prima della cottura, testimonia del fatto che questi monumenti funerarî furono eseguiti espressamente per quelle defunte (forse già in vita). E quando nel museo di Volterra si incontrano sui coperchi delle urne ripetizioni frequenti del tipo della testa maschile del noto coperchio modellato in terracotta con l'immagine di una vecchia coppia (vol. iii, fig. 595), spesso citato come massimo esempio di ritrattistica etrusca, e tale tipo si ripete su altre urne a Volterra e anche su sarcofagi tarquiniesi (per esempio Herbig, tav. 100, n. 122; tav. 103, n. 56 c) si dovrebbe concludere che il porre il vero r. del defunto sull'urna cineraria o sul sarcofago, deve essere avvenuto solo in casi del tutto eccezionali nell'ambito etrusco, prima della completa romanizzazione di esso, e che la grande massa delle teste, così espressive, che troviamo sulle urne, è da considerarsi quale appartenente a una tipologia generica: il vecchio, il giovane, la matrona. Sarà dunque più esatto parlare dell'influenza del r. romano sull'ambiente etrusco, che non, come generalmente si è fatto, di derivazione del r. romano da quello etrusco. Questo è, del resto, il punto di vista condiviso già da molti studiosi (Karo, Kaschnitz, Bianchi Bandinelli, Herbig, Mansuelli).

Con ciò non si toglie nessun riconoscimento alla forza espressiva e alla vivacità plastica di queste opere dell'artigianato artistico. Tutta l'arte italica ed etrusca (v.) ha la particolare qualità della estrosa improvvisazione e della vivace caratterizzazione: tanto che immagini generiche possono apparire individualizzate come se fossero veri e proprî ritratti. (È un fatto stilistico e culturale; e non razziale, come ancora una volta credeva di spiegare lo Herbig, Steinsarkophage, p. 113).

Una riprova di quanto si è detto, la si ha dalle teste votive in terracotta, dove da tempo è stato posto in evidenza il fatto della loro esecuzione in serie (Kaschnitz, 1924-25, tavv. 21, 22): immagini tratte dallo stesso stampo vengono diversificate con l'aggiunta di capigliature diverse e con ritocchi eseguiti sull'argilla ancora fresca, aggiungendo segni di stecca o modellature plastiche.

Ammesso il riflesso del r. romano nell'ambiente tardoetrusco, vediamo collocarsi in questo àmbito la nota statua in bronzo detta l'Arringatore (v.) (Firenze, Museo Arch.) trovata nel 1573 presso il lago Trasimeno. In questo r. di Avle Metils, essa ci conserva la statua onoraria di un Aulo Metello, tipologicamente e stilisticamente appartenente al riflesso italico-romano del realismo ellenistico, databile entro il primo trentennio del I sec. a. C. Di etrusco non vi è che l'iscrizione sul bordo inferiore della toga (ma il fatto che ancora venticinque anni fa si potesse seriamente discutere una sua datazione al IV sec. a. C. dimostra come la storia del r. etrusco e romano si vada solo adesso chiarendo). Nello stesso ambiente è da collocarsi un busto fittile di Civita Castellana (Villa Giulia). Nel quadro del verismo romano di età sillana rientra un noto busto in terracotta proveniente da Cerveteri (Roma, Villa Giulia, v. tav. a colori).

Dalla esposizione qui fatta sono tuttavia rimasti esclusi alcuni ritratti in bronzo, uniche testimonianze superstiti di qualità più elevata, accanto a tante opere di artigianato corrente: una testa di giovanetto, (Firenze Museo Arch.) il cosiddetto Bruto (v.) dei Conservatori, una testa inesattamente indicata come proveniente da Bovianum (v.) al Cabinet des Médailles (Parigi, Bibliothèque Nationale n. 857), una testa proveniente da Fiesole (v.), al Louvre. Tutte queste teste hanno in comune di essere frammenti provenienti da statue. Esse rientrano dunque nella tipologia del r. onorario, che va tenuta distinta da quella del r. funerario (v. avanti, Roma). Hanno anche in comune di essere state a lungo considerate di epoca e di arte romana (nessuna di esse è riprodotta nella grande Storia dell'arte etrusca, di P. Ducati, pubblicata nel 1927), di essere state solo successivamente riconosciute come appartenenti alla produzione medio-italica (italico-etrusca), e di essere ancor oggi, in attesa di nuovi studî, di oscillante attribuzione cronologica. Sono esempî mirabili di arte del r., ma non possono certo essere considerati testimonianze dell'insorgere di un r. fisiognomico nell'area italica, indipendentemente dalla suggestione della ritrattistica greca. Tutte queste opere oscillano come datazione fra il III e il I sec. a. C. La testa fiesolana sarà da collocarsi alla metà del I sec. a. C. (con i gruppi E ed F dello Schweitzer, nei quali trova notevoli assonanze). Il Bruto è probabilmente il più antico, ma non va posto indietro oltre la metà del III sec. a. C. A causa dello sguardo volto in basso, è stato ritenuto appartenente ad una statua equestre, il che forse ne abbasserebbe la data; ma tale induzione non è necessaria né stringente. La testa del Cabinet des Médailles non può allontanarsi troppo da taluni ritratti di sovrani ellenistici della prima metà del II sec. a. C.

Un richiamo, pur nella sua qualità scadente, all'arte di questi grandi ritratti in bronzo, lo abbiamo anche in opere di artigianato campano, dove per immagini di carattere votivo e funerario, si adotta una tipologia intermedia tra la mezza figura tardo-ellenistica e il busto romano.

Pittura: nella pittura tombale etrusca, campana e pestana, si hanno immagini dei defunti, maschili e femminili, anche indicate, con l'apposizione del nome, come ritratti per lo meno intenzionali. Il più antico esempio, databile tra fine del IV e l'inizio del III sec. a. C., è quello di Velia, moglie di Arnth Velcha, nella parte meno recente della Tomba dell'Orco a Tarquinia, e ci mostra una bellissima testa dai tratti genericamente classici, anche se soffusi di particolare intensità e melanconia, di maniera in sostanza non dissimile da ciò che si trova già sulle lèkythoi funerarie attiche del V sec., dove non si hanno certamente ritratti, ma generiche immagini di defunti. Appena più individuale è la testa del defunto nella Tomba degli Scudi (circa 280-150 a. C.), anch'esso appartenente alla famiglia Velcha; ma quella della sua donna è soltanto génericamente graziosa (vol. III, figg. 590, 593).

7. Roma. - A) Età repubblicana. La ritrattistica romana fu così sovente esaltata che si è quasi costituita l'opinione che soltanto a partire dall'età romana si siano avuti nell'antichità ritratti di alta qualità artistica e di potente espressione individuale. Quanto è stato esposto nei paragrafi precedenti ha già chiarito la effettiva portata di questo luogo comune. Resta il fatto che dell'età romana ci rimangono in gran numero ritratti di impressionante intensità, giunti a noi spesso nella loro redazione originale, cosa che abbiamo visto avvenire solo in casi isolati per i ritratti dell'arte greca. Il Winckelmann (v.) nella sua Storia delle Arti del disegno presso gli Antichi (1764), non poneva in nessun risalto particolare la ritrattistica romana; ma questa riscosse sempre più ammirazione nel secolo successivo, via via che il gusto europeo si andò liberando, nella seconda metà del sec. XIX, dalle convenzioni accademiche. Le tendenze veriste e realiste che si andarono affermando nell'arte contemporanea ne fecero scoprire assonanze nel r. romano. Il Wickhoff (v.), che nel suo saggio del 1895 rivendicò l'autonomia dell'arte romana, vide nel r. una espressione del tutto originale della civiltà romana. Ma l'indagine critica sulla storia del r. romano, allora appena iniziata, fu poi distorta quando, procedendo grossolanamente sulla via aperta dal Wickhoff, si arrivò alla esaltazione nazionalistica del r. romano, e alla sua contrapposizione al r. greco (R. Paribeni), e si manifestò la tendenza a riconoscergli una origine del tutto autoctona e indipendente o, tutt'al più, una discendenza dal r. etrusco. Abbiamo visto che è vero il contrario. In tempi, poi, nei quali si ritenne di poter assumere il concetto di razza quale base all'indagine storica (annullando in realtà ogni storicismo), si vide il r. romano come prodotto dell'incontro di due supposte tendenze fondamentali, quella "mediterranea", rivolta alla conservazione del defunto nel suo aspetto somatico, e quella "nordica", tesa a renderne esemplare, ammonitore ed eterno il ricordo (Technau). Sicché soltanto negli anni posteriori alla seconda guerra mondiale si è andato avviando un più adeguato studio critico e storico della formazione e dello svolgimento del r. romano, anche se in non pochi studiosi permangono relitti di posizioni critiche superate.

Occorre innanzi tutto distinguere, nell'arte romana, il r. onorario pubblico, da quello privato, ancestrale. Il primo segue nettamente lo svolgimento del r. greco, espressione di un pubblico riconoscimento di merito; il secondo ha origini e contenuto diversi. Naturalmente, i due concetti finiscono talora per confluire. Una delle due radici del r. romano è di natura del tutto privata che si affonda nel culto degli antenati, ed è regolata da una norma giuridica, il ius imaginum. Secondo tale norma, soltanto i discendenti di famiglie patrizie avevano il diritto di esporre le immagini degli antenati nel cortile interno della casa (atrium). Le imagines erano collocate entro armadietti a sportelli, che si aprivano soltanto in determinate occasioni. Da Plinio (Nat. hist., xxxv, 6-8) si ha la conferma che quelle immagini erano in cera (altre fonti: Suet., Ner., 37; Sen., De Ben., iii, 28; Tac., Annal., iii, 76; iv, 9; xvi, 7; oltre al passo di Polibio citato più avanti). Sembra poter dedurre dai varî passi, che dall'una all'altra immagine scorressero nastri o linee dipinte che le collegavano in modo da formare un albero genealogico, e che ogni immagine fosse munita di una iscrizione col nome e col titolo del defunto. Plinio ci dice anche di incidenti e di proteste per l'inserzione dell'immagine di un estraneo nella serie di una famiglia e sappiamo da Tacito che le immagini dei condannati venivano escluse dalla serie. Il ius imaginum rimase esclusivamente patrizio fino a che solo i patrizi furono ammessi alle magistrature ordinarie; poi fu esteso a quelle famiglie plebee che si ritenevano derivate da ceppi familiari patrizi e infine ai discendenti di tutti coloro che avevano ricoperto magistrature curuli (Mommsen, Staatsrecht, i, p. 358 ss.). Lo stretto rapporto tra magistratura e nobilitas e tra questa e il r., è chiaramente espresso nel discorso che Sallustio (Bell. Iug., 85-25, cfr. anche 29) pone in bocca a Mario, contro i patrizî romani, quando dice che lo disprezzano perché "non ha immagini [di antenati] e la sua è una nobiltà nuova" (Nunc videte quam iniqui sint. Quod ex aliena virtute sibi arrogant id mihi ex mea non concedunt scilicet quia imagines non habeo et quia mihi nova nobilitas est, ecc.) I magistrati che non discendono da famiglia patrizia, non sono nobili essi stessi, essi sono gli homines novi che fondano la nobilitas dei loro discendenti. Perciò, a riscontro, era segno di vecchia nobiltà avere l'atrio "pieno di immagini affumicate" (Sen., Epist., 44, 5). Le immagini degli antenati seguivano i varî discendenti (la moglie porta le immagini dei proprî antenati nella casa del marito, dove vengono inserite nella serie di quelle della famiglia). Da questo fatto deriva che delle immagini dovevano farsi molte repliche in tempi diversi. Ciò deve essere avvenuto anche quando alle immagini in cera furono sostituiti ritratti in bronzo e in marmo. Di conseguenza, molti ritratti di età repubblicana ci debbono essere giunti in redazioni più tarde, di età imperiale, con qualche alterazione stilistica (come ha giustamente veduto B. Schweitzer, 1948). Da quanto sopra risulta evidente la particolare importanza del r. privato, di famiglia e patrizio, per la formazione di un aspetto almeno del r. romano. Ma da queste considerazioni è derivata e si è diffusa anche l'opinione che nella maschera ottenuta colando la cera nella forma di gesso ricavata dal calco diretto del volto del defunto, si debba riconoscere la matrice del r. romano e quindi la sua genesi autonoma e remota. Questa opinione continuamente ripetuta e perciò non facile a sradicarsi, si dimostrò errata ad un più attento esame sia delle circostanze di fatto che della forma stilistica. Anche se fosse accertato che taluni ritratti derivino dal calco eseguito sul volto del defunto, questo sarebbe solo un espediente (che anche in età moderna è stato ripetutamente usato); si tratterebbe sempre di un mezzo tecnico e non di un elemento di fondo della formazione stilistica del r. romano. Ma in realtà non abbiamo elementi per ritenere generalizzato l'uso del calco, che nessuna fonte specifica per le imagines romane.

Il più antico personaggio romano del quale abbiamo una immagine fisiognomica realistica è il console Marco Claudio Marcello, l'espugnatore di Siracusa, morto nel 208 a. C. Il suo r. si trova però su una moneta coniata da un suo discendente (P. Cornelio Lentulo Marcellino) nel 42 a. C. circa. Stilisticamente questo r. rientra perfettamente nell'età della coniazione della moneta; l'affermazione che esso derivi da una maschera funeraria, a causa della sporgenza delle ossa sugli zigomi, e in conseguenza da una imago maiorum, è puramente ipotetica. Ma anche l'affermazione stessa che l'uso della maschera tratta dal calco del volto del defunto sia un uso italico antichissimo, si basa sopra un equivoco. Abbiamo visto nel paragrafo precedente che nella ritrattistica etrusca e italica non vi è alcuna traccia di tale uso. Le maschere in lamina di bronzo che si trovano connesse con tombe a incinerazione etrusche (v. canopo), databili forse al VII, certamente al VI sec. a. C., sono tutt'altra cosa dalla imago e si riconnettono con la maschera funeraria attestata anche altrove (Micene: v. minoico-micenea, civiltà; Siberia: v. maschera). Anzi quelle maschere etrusche sono particolarmente prive di caratterizzazione individuale. Se, come sembra, la statua di guerriero trovata a Capestrano (v.), d'arte italico-picena del VI-V sec. a. C., porta una maschera, anch'essa è una maschera funeraria metallica non individualizzata (v. esempio analogo da Hirschlanden, alla voce stoccarda). La più antica menzione della maschera riproducente il volto del defunto la troviamo nel passo di Polibio nel quale è descritto un funerale patrizio romano (Polyb., Hist., vi, 53). Polibio (v.) era venuto a Roma nel 166 a. C. e vi era rimasto 17 anni; la sua esperienza ci riporta dunque alla metà del II sec. a. C.; Polibio riferisce che, quando muore un illustre personaggio di famiglia patrizia, la sua salma viene esposta nel Foro, presso i rostri, quasi sempre diritta (v. capestrano, guerriero di) e ben visibile, raramente supina, mentre il figlio o altro stretto congiunto ne pronuncia l'elogio. Poi si procede alla sepoltura e la sua immagine viene portata nel luogo più visibile della casa e chiusa in un tabernacolo di legno. "Questa immagine (prosegue il passo di Polibio) è una maschera di cera che raffigura con notevole fedeltà la fisionomia e il colorito del defunto. In occasione di pubblici sacrifici espongono queste immagini e le onorano con ogni cura; e quando muore qualche illustre parente le portano in processione nei funerali, applicandole a persone che sembrano maggiormente somiglianti agli originali per statura e aspetto esteriore. Costoro, se il morto è stato console o pretore, indossano le toghe preteste, se censore toghe di porpora, e ricamate in oro, se ha ottenuto il trionfo o qualche altra onorificenza del genere. Tutti costoro si avanzano su carri, preceduti dai fasci, dai littori e dalle altre distinzioni alle quali ciascuno aveva diritto secondo le cariche ricoperte in vita e, quando giungono ai rostri, tutti seggono in fila sulle sedie curuli". Il passo di Polibio prosegue dilungandosi sull'effetto morale, educativo, di questo spettacolo, tale da incitare le giovani generazioni a conseguire gloria nel servizio della Repubblica. In realtà, questo rituale legato al culto degli antenati, era un mezzo efficace per esaltare la potenza politica patrizia. Troviamo tracce dell'uso di imagines maiorum ancora in età tarda (Hist. Aug., Sev. Alex., xxix, 2), ma non abbiamo elementi per stabilire quando essa avesse avuto inizio. È stato osservato (Brommer) che il fatto che le maschere delle quali parla Polibio fossero policrome e potessero essere indossate da persone viventi, rende probabile che esse non fossero ricavate direttamente dal calco del volto, giacché in tal caso sarebbero risultate troppo anguste; ma che, usufruendo del calco, fossero state modellate liberamente e in misura più grande. La pratica del calco preso sul volto, della quale nessuna delle fonti fa esplicita menzione, sarà poi stata difficilmente anteriore alla sua diffusione in Grecia per opera di Lysistratos alla fine del IV sec. a. C. (v. sopra, 5B). Le uniche imagines superstiti sono quelle trovate nella Casa del Menandro a Pompei, e, per quanto deteriorate e in parte disciolte dal calore, vediamo che si trattava di piccoli busti a tutto tondo, limitati ad una porzione del collo, di formato forse un terzo del vero. Non derivate, dunque, dal calco. Ma la prova più evidente che il r. romano non deriva dalla maschera funeraria è dato dalla statua di togato che regge con le mani due busti di antenati (Roma, Palazzo dei Conservatori, già Collezione Barberini). A parte l'osservazione che i busti per essere tenuti così facilmente in mano dovevano essere pensati di materia leggera, e per conseguenza di cera, essi vanno intesi come vere e proprie imagines maiorum. È da osservare che il togato ha la testa modellata in quello stile realistico, che si era voluto spiegare appunto con la derivazione dalla maschera funeraria; ma i due busti degli antenati sono trattati in uno stile diverso, che si collega direttamente con il naturalismo ellenistico (per esempio il r. da Rodi, Londra, British Museum 1965, anche se questo è più sensibile). Lo stesso naturalismo freddo, oggettivo, lo troviamo in terrecotte laziali del II-I sec. a. C. (testa femminile di Berlino). Ciò prova che il realismo veristico che si era ritenuto tipica e remota caratteristica del r. romano, e che si sarebbe affermato per l'uso del calco sul volto del defunto, è invece un fenomeno stilistico che appare soltanto a partire da un certo momento e non rappresenta un carattere primordiale e costitutivo del r. romano. Si tratta dunque di stabilire quando ebbe inizio questo stile.

L'indagine è stata condotta sulle immagini monetali e la conclusione che se ne può trarre (Schweitzer) è che lo stile esasperatamente realistico ha inizio con l'età di Silla (99-80 a. C.) e si sviluppa sino al tempo del II triumvirato (43-32 a. C.). Questa constatazione consente di riconoscere la creazione del tipico r. veristico repubblicano quale fenomeno peculiarmente gentilizio urbano (cioè legato al centro politico di Roma stessa) e di porlo in stretta connessione con l'esaltazione delle tradizioni e delle "virtù" patrizie, con la difesa dei privilegi contro l'avanzare delle forze plebee e contro il sommovimento che, promosso dall'epoca dei Gracchi (133-121 a. C.) era continuato fino alla guerra sociale (91-88 a. C.). Nel quadro di questa reazione aristocratica, che annullò con la costituzione sillana molte delle conquiste politiche delle forze plebee e che culminò con feroci repressioni, si pone anche una presa di coscienza del valore della gens, un auspicato ritorno alla antica società familiare agraria e patrizia dei primi tempi della Repubblica. Tutto ciò è ben rappresentato nei migliori ritratti di questo tempo, nei quali con uno stile secco e descrittivo dei minimi particolari dell'epidermide, si esprime una determinata esaltazione degli aspetti di rozzezza contadina, di altezzosa e scontrosa durezza (forse in nessuno espressa così compiutamente come nel r. del Museo Torlonia n. 535), in voluta opposizione alla eleganza, alla disinvoltura mondana, alla scioltezza dei ritratti ellenistici. Proprio perché era stato il r. tipico dei gruppi patrizi, il gusto per questo r. veristico si continuerà poi nei monumenti sepolcrali dei liberti e nel r. provinciale, quando a Roma le classi superiori lo avevano già abbandonato per preferire il r. influenzato dal classicismo neoattico. Il r. veristico dell'età sillana sorge dunque da una precisa situazione culturale e non farebbe meraviglia, ricordando gli aspetti del realismo tardo ellenistico (documentati per esempio dal citato r. del sacerdote isiaco dell'agorà di Atene) se, a dar vita a questa corrente di stile, fosse stato un artista greco. La violenta distruzione della situazione economica, sia nella provincia dell'Asia Minore che in Atene, avvenuta sotto Silla, ebbe per conseguenza la documentabile emigrazione di artisti e di artigiani usi a lavorare per una clientela di lusso. Come per l'ambiente italico ed etrusco, nessun r. fisiognomico è, dunque, databile ad età anteriore a quella del r. fisiognomico greco; anche il r. romano sorge da una suggestione formale decisiva venuta dalla cultura greca, ma adattata ai presupposti delle consuetudini e delle convinzioni della società locale, profondamente diversa da quella greca. Il tipico r. "repubblicano", fortemente verista, sorge dunque in una precisa situazione storica e si esaurisce con essa.

Sulla formazione del r. romano erano state avanzate, da diversi studiosi e in diversi tempi tre ipotesi: a) origine autonoma dalla maschera funeraria in uso per le imagines maiorum; b) influenza della ritrattistica etrusca e sostanzialmente sviluppo da essa; c) influenza del r. egiziano e tardo-ellenistico (voluta riconoscere in base ai confronti fatti con il r. di Giulio Cesare [v.]). Tutte queste ipotesi appaiono esattamente superate dall'indagine più approfondita condotta in senso storicistico dagli studî degli ultimi vent'anni, che portano a concludere per una formazione avvenuta in diretto contatto con la forma artistica ellenistica, ricevuta da una spontanea capacità espressiva ed elaborata variamente secondo le esigenze delle concezioni religiose e giuridiche particolari della società romana in determinabili momenti della sua formazione politica e del suo sviluppo economico.

Se l'espressivo r. di T. Quinzio Flaminino (v.), console nel 198 a. C. e vincitore di Filippo V di Macedonia, conservatoci su alcuni stateri di coniazione attica, rientra interamente nell'ambito dell'arte ellenistica, all'ellenismo italico appartiene il r. di Pompeo Magno (v.), che la sorte ci ha conservato in una buona replica di età adrianea (Copenaghen, Ny Carlsberg n. 597) e che possiamo confrontare con l'immagine sulle monete coniate in Sicilia dal figlio Sesto sotto il monetiere Q. Nasidio, che era stato comandante della flotta sia al tempo di Pompeo che del figlio. È probabile che il r. di Pompeo derivi dalla statua onoraria che si trovava nella curia facente parte del complesso costruito dallo stesso Pompeo (Plutar., Brutus, 14), e che questa fosse opera dello scultore Pasiteles (v.). Da questa statua derivano probabilmente anche le monete di Sesto. La statua, menzionata da Plutarco, risulta databile al 53-52 a. C. Attorno a questo altri ritratti si possono raggruppare, databili tra il 60 e il 50 a. C., che si distinguono per un modellato morbido, pittorico e un'espressione in qualche modo patetica. Alla stessa corrente appartiene il r. di Marco Bruto sulle monete coniate tra il 44 e il 42 a. C. e il r. di Cicerone (v.). Sono ritratti nei quali il principio formale ellenistico prevale nella costruzione della massa plastica animata da una dinamica interna che ne regola gli equilibri. Invece, nei ritratti della corrente veristica, più propriamente tipici del gusto romano del vecchio patriziato, la costruzione di insieme non ha nessuna dinamica: le forme generali sono piuttosto inerti e generiche; ma su queste, esteriormente, sono segnati quei particolari caratteristici ed incisivi che determinano l'espressione e, senza dubbio, la somiglianza. In questa corrente l'esasperazione veristica investe anche il r. femminile.

Nelle immagini monetali di Ottaviano, coniate nel 29 a. C. (due anni prima che egli assumesse l'appellativo di Augusto), si scorge riflessa una ulteriore corrente artistica. Si tratta di un riflesso del classicismo neoattico, sopra un fondo di naturalismo sobrio e oggettivo, quale si trova sovente in teste votive di terracotta, databili anche a qualche generazione prima e perciò di tradizione locale. Questo filone artistico rappresenta il primo avvio al pieno neo-classicismo augusteo; ma il suo gusto non andrà, neppure dopo, completamente smarrito.

B) Tipologia. Richiamandoci a quanto è stato detto a proposito del r. italico e etrusco (medio italico), l'elemento tradizionale locale del r. romano si può riconoscere nella tendenza a limitare il r. alla sola testa, mentre la statua ritratto intera è una assunzione dalla cultura greca. L'arte romana dà sviluppo all'erma ritratto e al busto; questo però si amplia sempre più quanto maggiormente ci si allontana dalla tradizione repubblicana. Il busto tardo-repubblicano era limitato al collo; a partire dall'età di Adriano, il busto giungerà a metà corpo e comprenderà talora le spalle e l'attacco delle braccia. Come già notava Plinio (Nat. hist., xxxiv, 18: Graeca res nihil velare, at contra Romana ac militaris thoraces addere), la statua nuda, di tipo eroico, rappresenta una concessione al gusto greco (e la troveremo preferita in età imperiale); la statua onoraria romana rappresenta il cittadino togato o con la corazza. La statua coperta di corazza ha precedenti ellenistici. Nessun esempio di statua togata ci è giunto che risalga a prima dell'età sillana. Se si eccettua l'Arringatore (v.), Avie Metils, e se è esatta l'attribuzione fra l'80 e il 70 a. C. dell'originale della testa velata del Museo Chiaramonti n. 135, conservatoci in replica più tarda (prima età augustea), avremmo qui uno degli esempî più antichi rintracciabili. Ma certamente ve ne erano di più antiche, anche se quelle citate da Plinio come antichissime, non saranno poi state anteriori alla fine del IV sec. a. C. Non prima del secondo triumvirato, forse non prima dell'età augustea (dal 27 a. C.), compare la statua loricata, adattamento della statua eroica greca al costume militare romano (la statua di Augusto di Prima Porta non è che il Doriforo di Policleto, rivestito di corazza e completato da una testa ritratto). La statua di un comandante di età repubblicana, scoperta a Tivoli attorno al 1925 (Roma, Museo Naz. Romano), datata da varî studiosi tra il 100 e il 75 a. C., è di tipo ellenistico nella sua nudità drappeggiata e nella plasticità delle forme, mentre la corazza collocatagli accanto serve da puntello per la stabilità della composizione e quasi di insegna del personaggio. La statua seduta per i poeti e i pensatori, prosegue la tipologia greca. La statua equestre, sorta in Grecia, trova nella civiltà romana una più larga applicazione e più ampie dimensioni, generalmente al vero. Anche qui ci soccorre Plinio (Nat. hist., xxxiv, 19, e ibid., 28): "Incontrano il favore dei romani anche le statue equestri, di derivazione greca senza dubbio"; e dopo aver detto che dai monumenti posti ai vincitori nelle corse dei cavalli nei sacri agoni greci derivano i monumenti ai trionfatori, su quadriga, aggiunge che questo fu un uso tardo (Plinio termina la sua opera nel 77 d. C.), e che i carri a sei cavalli o le quadrighe di elefanti datano solo dall'epoca di Augusto. I più antichi personaggi onorati con statua equestre nel Foro, ci risultano essere Furio Camillo e i consoli dell'anno 338 a. C. che posero termine alla rivolta della Lega Latina (Liv., viii, 13, 9), e con statua togata Quinto Marcio Tremulo, vincitore dei Sanniti nel 306 (Plin., Nat. hist., xxxiv, 23). Ma non è affatto certo che tale onoranza fosse contemporanea agli avvenimenti storici. Più antica sembra l'altra statua eretta allo stesso Camillo sui rostri, "colla sola toga senza tunica". Certamente non contemporanee agli avvenimenti erano le statue di Orazio Coclite e di Clelia, l'ostaggio di Porsenna (Plin., Nat. hist., xxxiv, 28 29).

Le statue onorarie su colonne, derivate anch'esse dalla Grecia "il cui scopo era di essere innalzati al di sopra degli altri mortali" (Plin., Nat. hist., xxxiv, 27), sono da Plinio equiparate, nel significato, agli archi onorarî, e questi vengono dichiarati invenzione recente, cioè romana.

Anche il tipo di r. onorario noto come imago clipeata, cioè una testa o un busto posto al centro di uno scudo metallico (o imitante il metallo), entrò in uso nell'ambiente romano, documentatamente (Plin, Nat. hist., xxxv, 14; Liv., xxv, 39), sino dal tempo della seconda guerra punica (e dopo il 212 a. C.); il primo privato che ne dedicò una serie con l'immagine dei suoi antenati in un luogo sacro e pubblico sembra che fosse Appio Claudio Pulcro console nel 79 a. C. (Per la correzione necessaria al passo pliniano v. bibliogr.). La genesi di tale tipo di immagini non è ancora del tutto chiara (v. clipeate, immagini).

I frequenti ritratti di personaggi della cultura greca su gemme-sigillo, le gemme e i camei con ritratti imperiali, non portano nessun nuovo elemento alla problematica del r. come tale, e mostrano, anche in questo campo, la diffusione nella borghesia romana di un uso che nell'ellenismo era ancora riservato ai principi.

C) Età imperiale. 1) Chiarito nel paragrafo precedente il problema della formazione del r. nell'ambito della civiltà urbana di Roma, non rimane che da constatare come a partire dall'età augustea, il r. segua le vicende formali dell'arte imperiale romana. Tuttavia esso forma un "genere" (e gli antichi tenevano distinti i "generi"), che ebbe sempre una particolare predilezione da parte dei committenti e degli artisti. Le premesse poste dal r. ellenistico trovarono un magnifico sviluppo a Roma, dove profondi legami di carattere giuridico, oltre che religioso, continuarono a dare al r. una particolare importanza sociale e per il carattere "storico", cioè di attualità e di celebrazione inerente all'arte romana. Uno dei primi atti del princeps nell'assumere il potere era di far inviare la propria effigie alle zecche monetarie provinciali (oltre, naturalmente a quella di Roma). Tuttavia, anche nel r. imperiale, sino a Traiano (imp. 98-117 d. C.), si continua la distinzione tra r. privato e r. onorario, cioè pubblico e ufficiale. Il classicismo dell'età di Augusto, e la particolare situazione personale di questo principe, avevano portato a fondere i due aspetti del r. in un naturalismo oggettivo, che una sobria idealizzazione in senso neo classico sollevava dalla sfera della realtà quotidiana. Ma con l'esaurirsi del classicismo, la dualità del r. riprende. L'esempio più clamoroso ci è dato dai ritratti di Vespasiano (v.) che ci mostrano ora l'uomo nella sua espressiva volgarità (Copenaghen, Ny Carlsberg, n. 659 a), ora l'imperatore nella sua aristocratica intellettualità (Roma, Museo Naz. n. 330 = Felletti Maj, 141). L'ultimo periodo della dinastia Flavia ha dato ritratti di particolare finezza ed eleganza (si ricordi, per tutte, la dama dal collo lungo del Museo Capitolino, Stanza degli Imperatori, n. 23). La torsione laterale della testa diviene una formula preferita per dar spirito al r., in questo scorcio del I secolo.

Con Traiano si ha una svolta fondamentale nello svolgimento dell'arte romana (v. romana, arte); essa investe anche il r. dell'imperatore che si presenta non più sotto due aspetti, quello privato e quello pubblico. Le due istanze coincidono, da ora in poi, in un aspetto unitario nel quale si crea per la prima volta nella cultura romana l'equivalente a ciò che era stato il r. del dinasta nell'ellenismo. In conformità alla diversa origine del potere rispetto a quello del dinasta ellenistico, viene qui accentuata l'espressione dell'uomo abituato al comando militare, la sua energia e la sua decisione. La creazione di questo tipo di r. dovrà riferirsi al decennale di Traiano nel 107-108, ma prosegue anche dopo, come mostra il solenne r. di Ostia, di età adrianea. Esso fissa l'immagine profondamente umana, ma anche indiscutibilmente autorevole, dell'imperatore Traiano (v.), che si ripete in molte varianti sulla sua colonna onoraria.

L'elemento di accentuazione psicologica, favorito dal plasticismo pittorico dell'arte flavia, continua ad animare i ritratti anche durante il prevalere del neo-ellenismo adrianeo e durante l'età antonina, quando si accentueranno le preferenze per il colorismo manieristico nella forma scultorea. Se il gusto lievemente impressionistico manifestatosi nell'età flavia aveva portato a rendere con leggere incisioni o lievissimi rilievi taluni particolari che prima erano stati espressi con la policromia, come le sopracciglia, adesso anche per la pupilla non ci si accontenta più del colore, ma si preferisce fissare lo sguardo incidendo plasticamente iride e pupilla, come nelle terrecotte si faceva già nell'arte medio-italica e repubblicana.

A partire dal periodo di Adriano e poi sotto gli Antonini e i Severi, scultori greci non solo dell'Attica, ma particolarmente delle officine asiane, nelle quali si era sviluppata una straordinaria capacità tecnica, debbono aver svolto la loro attività in Roma, specialmente per i ritratti dei personaggi della corte imperiale. Ritratti eseguiti certamente in Atene e nella cerchia di Erode Attico, il ricchissimo ispiratore della cultura del tempo (come il r. di uno dei suoi allievi, probabilmente il preferito Polydeukes, del quale esistono varie repliche, o il r. del British Museum n. 1949), indicano chiaramente da dove muove questa tendenza del gusto. Ora il r. urbano, in Roma, non si distingue sostanzialmente più dai ritratti che troviamo nei centri ellenizzati del Mediterraneo orientale.

Se nel periodo antonino, e particolarmente a partire dal decennio 18o 190, l'arte romana entra in una fase stilistica nuova, una vera e propria svolta si ha all'inizio del sec. III, durante l'impero dei Severi. Le osservazioni che si possono fare sul materiale databile inducono a riconoscere che il r. viene investito da questo nuovo modo di concepire la forma plastica con qualche ritardo e non certo prima degli anni venti. I ritratti di Alessandro Severo (222 235) e di Gordiano III (238 244), mostrano già alcune di quelle novità formali. Queste consistono essenzialmente in un abbandono del plasticismo ellenistico, che viene sostituito da una struttura fondamentale molto semplificata, in modo da porre in evidenza i volumi che costruiscono stereometricamente la testa e il volto. In queste superfici semplificate, i particolari dei capelli e della barba, generalmente tagliata a stoppia con le forbici, sono inseriti a incisione, con brevi colpi a punta di scalpello e quasi di bulino; le rughe stesse sono piuttosto incise che modellate. Ma il r. di Pupieno (v.), imperatore senatorio per pochi mesi del 238, di famiglia patrizia e tradizionale, mostra ancora una forma di derivazione dallo stile degli Antonini.

La svolta iniziata negli anni venti, fa parte di quel movimento artistico che condurrà l'arte del III sec. alla rottura della tradizione formale ellenistica, del suo naturalismo, della sua forma plastica legata alla coerenza organica. Una rottura che segna l'inizio del periodo della "tarda antichità" e che crea un linguaggio formale nuovo; questo troverà il suo sviluppo coerente sino all'età medievale. Nell'arte del r. questa nuova visione formale produrrà alcuni dei maggiori capolavori della scultura antica, perchè le forme, non più organicamente connesse tra loro, rendono con straordinaria vivezza la labilità del mutevole aspetto di un volto e, soprattutto, l'espressione del tormento interiore di un'epoca fra le più angosciate e contradittorie della storia. I ritratti degli imperatori romani e quelli dei magistrati ateniesi detti Kosmeti, facilitano la costruzione di una serie cronologica sicura. Il r. dell'imperatore Decio (v.) (autunno 249-estate 251) conservatoci in un busto del Museo Capitolino (Sala degli Imperatori, n. 70) testimonia con piena evidenza questo nuovo stile del r., che sostanzialmente arriva sino a Diocleziano (r. di Villa Doria: v. vol. iii, fig. 132). Anche il r. infantile di questo tempo partecipa di questa espressione di angoscia.

Il r. femminile, invece, mantiene più spesso la tradizione sostanzialmente classicistica, limitandosi a rendere con freschezza le complicate acconciature dei capelli dalle quali, per confronto con le immagini delle Auguste sulle monete, è possibile avanzare datazioni e talvolta identificazioni.

Il r. di Gallieno (v.) (imp. 253-268) riacquista una maggiore solidità di forme, che si muterà in una certa brutalità di espressione e in una talvolta estrema semplificazione nei ritratti della tetrarchia (Diocleziano, Massimiano, Costanzo e Galerio, 285-305). Non sono tanto le tendenze artistiche provinciali, come talvolta è stato detto, a reagire in questo senso sul r., anche ufficiale, quanto il profondo mutamento sociale, che ha condotto al potere, affidando ad essi tutta la struttura statale, i ceti già subalterni dei coloni e dei militari, che provengono dalle famiglie dei coloni e dei veterani, provinciali e no. E questi ceti portano con loro alla sfera ufficiale la tradizione artistica subalterna, plebea, che era sempre esistita nella cultura romana accanto alla corrente ufficiale ellenizzante. Ma accanto al prevalere di questa corrente artistica plebea, ci sono anche influenze, non tanto formali, quanto ideologiche, venute dalla parte orientale dell' Impero, accolte come valido appoggio alla politica dinastica degli imperatori, le quali portano il r. imperiale a una fissità formale con la quale si vuole esprimere la essenza divina del regnante e la sua intangibile sacralità. Con questo, il r. torna sostanzialmente a farsi tipologico: immagine assoluta del sovrano, allontanandosi da quelle caratteristicbe fisiognomiche, le quali avevano espresso l'autonomia individuale dell'uomo all'interno di una concezione positivamente umanistica.

Le successive vicende formali del r. nell'arte dell'Impero Romano si identificano con quanto si può dire della arte romana in generale; tanto più che il r. può costituire un filo conduttore dell'indagine storico-artistica, più ancora della stessa architettura e pittura, per intendere il succedersi delle tendenze artistiche dei secoli IV-V, sino al costituirsi della nuova immagine bizantina (v. romana, arte).

Anche nel corso della tarda antichità si può constatare come il prevalere o il regredire del r. fisiognomico non sia regolato soltanto da questioni di gusto formale e quanto queste stesse siano legate alla sovrastruttura ideologica che di volta in volta prevale a seconda delle situazioni storiche. Prevale in questo tempo, nel r. privato, l'ideale dell'homo spiritualis, ed è seguendo questo ideale che vediamo affievolirsi l'elemento di verisimiglianza fisica, dissolversi la organicità anatomica e accentuarsi, nelle emaciate parvenze, l'elemento espressivo degli occhi. Troviamo una chiara motivazione allo scomparire del r. fisiognomico, al riaffermarsi del suo aspetto tipologico e, infine, alla rinuncia al r. e alla scomparsa del r. anche puramente intenzionale, in un passo di Paolino da Nola (Migne, Patrol. Lat., vol. 61, p. 322): "Arrossisco di farmi dipingere così come sono" (nel mio reale aspetto di Adamo terrestre e peccatore) "non oso di farmi dipingere come non sono" (idealizzato in quell'aspetto di homo spiritualis che solo può avere validità di essere espresso). Siamo agli inizî del secolo V (Paolino muore nel 431).

D) Pittura e miniatura. Successivamente al periodo di formazione del r. fisiognomico, sarebbe assurdo di parlare del r. come di una manifestazione dell'arte indipendente dal corso generale di una civiltà artistica, qualunque essa sia. Perciò anche il r. dipinto rientra in pieno nella storia dell'arte pittorica di età romana.

Nella grande rovina della pittura antica, gli esempî conservatici sono ben pochi e tutti appartenenti alla sfera dell'artigianato piuttosto che a quella delle grandi personalità artistiche. Quel pochissimo che ci rimane testimonia, tuttavia, che anche nella pittura di ritratti si possono riscontrare correnti diverse, una più classicistica e generica, l'altra più realistica e più viva: basterà ricordare i leziosi ritratti di dame della borghesia pompeiana, con lo stilo per scrivere portato in atto riflessivo alla bocca, atteggiate a Muse o almeno a "intellettuali", e quello tanto più fresco e immediato del fornaio Paquius Proculus e sua moglie (Napoli, inv. n. 9058), ma anch'essi raffigurati, lui col rotulo e lei con tavoletta e stilo, secondo uno schema evidentemente tradizionale risalente a qualche esempio che doveva essere famoso, ma in questo caso ravvivato nei volti da un diretto contatto con il vero e da una pennellata ricca di impasto e al tempo stesso leggera di tocco, anche se pur sempre tutta di maniera. Un altro frammentario superstite della pittura pompeiana ci mostra che anche il "ritratto di famiglia" doveva essere in uso (Napoli, Museo Naz. inv. 9881). E questo tipo di r. lo ritroviamo ancora nel mediocre tondo con la famiglia di Settimio Severo, dal quale fu cancellata, dopo il 212, la testa di Geta e che proviene dall'Egitto. Questo tondo aveva certamente un carattere ufficiale corrente, come sempre hanno i ritratti ufficiali ripetuti nei luoghi di amministrazione pubblica. Accanto ad esso la qualità dei contemporanei ritratti che dovevano soddisfare l'esigenza dei privati committenti, si palesa nettamente superiore, come vediamo da un r. su mummia, da Hawarah (al museo di Berlino), forse un mulatto, con barba alla Caracalla.

Soltanto la serie dei ritratti che gli abitanti dell'Egitto di età romana collocarono sulle loro mummie, ma che erano sicuramente stati eseguiti in vita e tenuti esposti nelle case, ci ha conservato una testimonianza adeguata del r. dipinto di tradizione ellenistica in età romana. Qui, assai meglio che nelle rapide decorazioni murali delle città campane, abbiamo la sopravvivenza della pittura su tavola, così come in tutta la parte orientale dell'Impero la tradizione ellenistica perdura più a lungo. Le particolari condizioni climatiche e il particolare rituale funebre (che comportava anche la conservazione delle mummie nella casa di abitazione, allineate in posizione verticale entro speciali armadi), ci hanno conservato qui ciò che anche altrove certamente esisteva. Gli esempî più antichi, in qualche caso forse del I, per lo più certamente del II sec. d. C., sono ancora pienamente nella tradizione della pittura ellenistica. Ne possiamo seguire i mutamenti verso uno stile più lineare, nel quale affiorano elementi del gusto periferico locale che poi avranno il sopravvento nell'arte copta. Si discute se questi ritratti proseguano nel IV sec. (v. Fayyūm, vol. iii, p. 6o6 s.). Ritratti analoghi si trovano anche talora sulle tele che avvolgevano il defunto (v. sudario).

Nell'Occidente la tradizione pittorica ellenistica si perde più presto e vi prevale lo stile sommario della corrente artistica plebea, popolare, anche quando l'impostazione generale della composizione riecheggi modelli aulici, come nell'ipogeo di Trebio Giusto a Roma (metà sec. IV) o nelle pitture della tomba di Silistra (v.) (datata alla fine del IV sec.). Su questa via si costituirà poi nel VI sec. un tipo di r. dipinto, che nella sua semplificazione essenziale a vantaggio di un'astratta intensività espressiva, già prelude la forma bizantina: il r. della vedova Turtura che i santi Felice e Adactus raccomandano alla madre di Dio in una pittura delle catacombe di Commodilla e che una lastra iscritta, ritenuta pertinente, daterebbe per la menzione del console Mavortius al 528, già è prossima formalmente al r. di Teodora (v.) nel musaico di S. Vitale a Ravenna.

Debbono essere menzionati qui anche i r. su sfoglia d'oro applicata al vetro, vere e proprie miniature, nelle quali, forse proprio a causa della estrema specializzazione tecnica, si conservò più a lungo la tradizione del realismo romano di discendenza ellenistica. Basterà ricordare qui il pezzo del museo di Arezzo, quello di un Eusebio al Vaticano e lo straordinario gruppo familiare inserito nella croce detta di Desiderio del Museo Cristiano di Brescia, la cui iscrizione Boynnepi Kepami (non spiegata in modo soddisfacente), ha nelle lettere le forme inconfondibili della epigrafia damasiana, che ne indicherebbero la data entro il ventennio posteriore all'anno 366.

Una menzione va fatta anche dei r. che ornavano, già nella forma del rotulo e poi nella forma del codice, le opere letterarie. Un riflesso di questo uso è giunto sino ai codici rimastici. Nel Virgilio Romano (Cod. Lat. 3867, inizio del V sec. d. C.), si conserva la testimonianza che nel rotulo si trovava ripetuto il r. dell'autore all'inizio di ogni opera: qui è ripetuto tre volte. Un problema particolare, la cui soluzione non è del tutto chiarita, ci è proposto dalla notizia che Varrone (116-27 a. C.) in un'opera intitolata Imagines o Hebdomades, aveva raccolto 700 ritratti di uomini illustri, raggruppati per categorie e disposti in gruppi di sette; ogni r. era accompagnato da un elogium in versi e dalle notizie storiche relative (Plin, Nat. hist., xxxv, ii). Un numero così alto di ritratti può meravigliare, specialmente in un'opera diffusa ancora nella forma del rotulo: ma la tradizione dei codici sembra univoca. Nello stesso passo di Plinio si parla anche di un libro di Attico, l'amico di Cicerone, sui ritratti degli uomini celebri. La notizia di queste opere influì sul sorgere degli studî iconografici nel tardo Rinascimento, dei quali il più antico è di Achille Stazio, Inlustrium virorum ut exstant in urbe expressi vultus, edito a Roma nel 1569, subito superato dalla raccolta di Fulvius Ursinus, Imagines et elogia virorum illustrium, edito nel 1570 (v. bibl.).

8. Civiltà periferiche. - Come è già stato detto, esaurito il problema della formazione del r. fisiognomico, l'arte del r. rientra nella storia generale dell'arte e non può essere trattata come a sè stante. Tuttavia, rimane inerente a questa particolare produzione artistica la problematica interna sulla rappresentabilità della persona umana nel suo reale aspetto, nella sua momentanea contingenza e sono fondamentalmente motivi ideologici legati a particolari strutture sociali quelli che determinano l'affermazione del r. fisiognomico o la preferenza data al mantenersi o al risorgere del r. tipologico o addirittura del r. intenzionale, e non motivi di capacità o incapacità artistica, come volgarmente si crede.

In base a queste considerazioni, vedremo nei ricchi monumenti sepolcrali di Palmira (v.) il r. funerario irrigidirsi in una composizione frontale, esprimente un contenuto religioso, che lascia solo eccezionalmente trasparire qualche elemento individuale. A tale frontalità si unisce il gusto per la forma lineare e per la minuta descrizione degli ornamenti sovrapposti a forme sostanzialmente ferme e generiche, gusto nel quale si esprime il carattere popolaresco di questa arte periferica (v. parthica, arte). Lungo la via colonnata di Palmira, le mensole inserite nelle colonne dovevano sostenere statue onorarie: in bronzo giacchè non ne è stato rinvenuto nessun frammento. Un'idea del possibile aspetto di queste statue la possiamo avere sia dalle statue in pietra rinvenute nel santuario di Bell a Hatra (v.) e raffiguranti personaggi della famiglia reale (v. vol. iv, figg. 1427-1443), conservate al museo di Bagdad, sia dalla statua in bronzo proveniente dal tempio di Shami, conservata nel museo di Teheran. Tutte queste opere non sono posteriori al II sec. d. C. Nell'arte sassanide (v.) che soppianta nel corso del III sec. quella parthica, il r. privato scompare. Rimane soltanto il r. del sovrano. Se le monete di Ardashir I (224-241) fondatore della dinastia Sassanide mostrano ancora tratti individuali, già col successore Shapur (v.) si stabilisce un'immagine del sovrano dai tratti severi, ma generici, dalla lunga barba e dai capelli ampiamente spioventi e arricciati, che rimarrà sostanzialmente fissa sino al VII sec., caratterizzata soltanto dalla variazione nel tipo del copricapo, dove diadema e corona fusi insieme e sormontati da una calotta, si arricchiranno di simboli divini, di ornamenti metallici a forma vegetale, di corna, di uccelli, di ali, di stelle e della falce lunare sulla fronte. Soltanto dalla corona si potranno distinguere, l'una dall'altra, le immagini dei sovrani, entità "per grazia di Dio" immutabili.

(R. Bianchi Bandinelli)

9. Estremo oriente. - L'arte del r. in Asia non può essere paragonata a quella dell'Occidente, retta com'è da principî estetici molto lontani dal naturalismo. Essa intende di rappresentare meno il modello stesso che un tipo (r. "tipologico": cfr. sopra, n. 1) le cui qualità fisiche corrispondono ad un insieme di tratti definiti dalla tradizione, senza tener conto dei caratteri più personali. Forse c'è, alla base d'un tale principio, una reminiscenza, cosciente o no, delle credenze "magiche" che stimano pericoloso il fissare sulla tela, la seta, la carta o la parete murale, la figura di un personaggio che, munito di tutti i suoi attributi, sarà dotato di una potenza vitale temibile oppure benefica, secondo che sia o no conforme ai canoni sacri.

Ma in tale sua forma tipizzata il r. ebbe nel corso dei secoli immensa fortuna in tutta l'Asia. È attestato in una epoca antica nell' India, dai testi letterarî, dove del resto si attribuisce una origine divina al primo r.: sarebbe stato, secondo alcuni, il dio Brahma stesso, che avrebbe inventato la pittura ritraendo un giovane morto per ridargli col soffio la vita (e qui è evidente il legame magico fra persona e immagine); secondo altri, sarebbe Vishnu che, per primo, avrebbe disegnato il r. di Urvashī, la più bella delle ninfe celesti. Ovvero, secondo la tradizione buddista, il re Ajatashatru, desiderando avere un r. del Buddha allora vivente, si fece proiettare la sua ombra su un pezzo di stoffa che fu miracolosamente impressa dal profilo del Maestro. Già in antico si scambiavano ritratti tra principi, tra amici ecc.: erano eseguiti in tela e, molto deperibili, non sono giunti fino a noi.

La concezione del r. in Cina e in Giappone fu ancora più astratta; essa dovette il suo sviluppo in parte al culto degli antenati. Spesso il r. era eseguito dopo la morte del personaggio e la rassomiglianza del viso non poteva essere ricercata: importavano più i particolari del suo costume che ne indicavano il rango, del suo atteggiamento che ne manifestava la dignità, cioè quanto riguardava la sua posizione sociale e doveva servire di esempio ai suoi discendenti. Nondimeno, il pittore cercava di esprimere anche i caratteri morali del modello, rinunciando a ciò che sul viso poteva tradurre uno stato fuggitivo o accidentale; e la sua attenzione si concentrava sul disegno della bocca e l'espressione degli occhi, cercando di accordare l'uno e l'altra, come la curva del viso, le sopracciglia, la forma del naso e delle mani in un insieme ritmico. A differenza dei pittori indiani, i ritrattisti cinesi rappresentavano raramente un personaggio di profilo; preferivano ritrarre di tre quarti per far risultare meglio i tratti caratteristici. Evitando l'instabile e accidentale, non indicavano alcuna ombra sul viso e sulle mani del loro modello, contentandosi d'accentuare questa o quella frattura lineare per attrarne l'attenzione del riguardante.

Diviso in due categorie, il r. cinese era sia religioso che laico. Il primo è del tutto convenzionale; il secondo è molto più interessante. I migliori esempî cinesi dell'epoca antica sono conservati in Giappone; alcuni risalgono alla dinastia dei T'ang (VII - X sec. d. C.) ed hanno profondamente influito sull'arte del r. giapponese dall'VIII al XIII secolo. Ma i testi fanno allusione a molti ritratti importanti dell'epoca Han (220 a. C. - 202 d. C.), che non sono giunti sino a noi. Furono eseguite da pittori celebri molte copie di ritratti antichi, ma sarebbe vano cercarvi una somiglianza con l'originale, poichè queste copie sembrano in realtà non altro che variazioni lineari e pittoriche sul tema del perduto originale, avendo di solito il copista lasciato trapelare la propria personalità nell'esecuzione. Pertanto l'attribuzione di ritratti antichi e la loro datazione sono sempre soggette a dubbi. Il r. cinese ufficiale rimane perfettamente frontale sino all'età moderna.

Fra i ritrattisti celebri della Cina antica va citato Yen Li-pen (VII sec.) che, sembra, aveva largamente con tribuito (con altri pittori del secolo seguente) a introdurre nel r. dell'epoca T'ang nozioni nuove e un ritmo particolare. A questo artista è attribuito il Rotolo dei 13 Imperatori conservato nel museo di Boston. Cinque ritratti originali cinesi di epoca T'ang sono conservati in Giappone nel Tempio Tôji (Kyôtô); rappresentano patriarchi della setta Shingon e furono eseguiti da Li-tchen secondo una composizione ben ponderata a linee finissime e senza accenti grafici. Il più antico r. giapponese conservatoci sembra che sia quello del Principe Shotoku Taiti con i figli, della collezione imperiale di Nara, degli inizî del VII secolo.

(J. Auboyer*)

Monumenti considerati. - 1.- Stele della Lunigiana: E. A.A., vi, fig. 551.

2. - Tavoletta di Narmer, Il Cairo: E. A.A., iii, fig. 312; iv, figg. 30-31. Statua di Amenemhet III, Il Cairo: K. Lange-M. Hirmer, L'Egitto, Firenze (tr. it.), s. d., tav. 108-109; W. Stevenson Smith, The Art and Architecture of Ancient Egypt, Harmondsworth 1958, tav. 68 a. Statua di Mykerinos con due dee, Il Cairo: E.A.A., v, fig. 411. Statue di Sesostrîs I da Lisht, Il Cairo e New York: Stevenson Smith, op. cit., tav. 64 b. Maschere in gesso da el-῾Amarnah, Berlino: E.A.A., v, fig. 167. "Testa di riserva" di Snofru e di Marytyetes: Stevenson Smith, op. cit., tavv. 36-37. Busto di Ankh-haef, Boston: E.A.A., ii, fig. 341. Statue di Rahotpe e Nofret, Il Cairo: E.A.A., iii, fig. 314. Lo Scriba del Louvre: Lange-Hirmer, op. cit., tav. 60. Ritratti di Akhnaton (Amenophis IV): E.A.A., iii, fig. 323. Ritratti di Nefertiti, Il Cairo e Berlino: E.A.A., iii, fig. 328; E.A.A., v, fig. 516. Tuthmosis IV, Il Cairo: Lange-Hirmer, op. cit., tav. 149. Hashepsowe: Lange-Hirmer, op. cit., tav. 127 (New York); tav. 130 (Karnak); Stevenson Smith, op. cit., tav. 95 a e b, tav. 124, 125 (Il Cairo).

3. - Teste sumeriche della Diyala: A. Parrot, I Sumeri (tr. it.), Milano 1960, fig. 105; 143. Statua di "Kurlil", Londra: A. Parrot, op. cit., fig. 144. Statua del re Lamgi Mari, Aleppo: A. Parrot, op. cit., fig. 145. Statua di Iku Shamagan, Damasco: A. Parrot, op. cit., fig. 147. Statua dell'intendente Ebikh-il, Louvre: A. Parrot, op. cit., figg. '47 b. Testa di bronzo (Sargon?) da Ninive, Bagdad: E.A.A., i, fig. 924. Stele di Naram-Sin, Louvre: E A A., I, fig. 23-24. Statue di Gudea: E.A.A., iii, fig. 1364-1366. Stele di Hammurapi: A. Parrot, op. cit., fig. 373. Hammurapi (?): testa, Louvre: A. Parrot, op. cit., fig. 375. Statua di Napirasu, Louvre: E.A.A., iii, fig. 350. Statua di Assurnasirpal II, British Museum: A. Parrot, Gli Assiri (tr. it.), Milano 1961, figg. 22-23 (cfr. anche E. A. A., i, fig. 927, forse lo stesso sovrano) Statua di Salmanassar III, Istanbul: A. Parrot, op. cit., fig. 20-21. Scene di caccia, Ninive e di Assurbanipal, Louvre e Brit. Mus.: E.A.A., iv, fig. 1272; E.A.A., v, fig. 661; A. Parrot, op. cit., fig. 65. Porta di Ishtar da Babilonia, Berlino: E.A.A., i, fig. 1199.

4. - Satrapi achemènidi: monete di Farnabazo, Tissaferne e moneta di Cizico (Timotheos ?): K. Lange, Herrscherköpfe des Altertums, Berlino 1938, pp. 32-33; 34-35; 36-37. Moneta di Seuthes III: Ch. Picard, Manuel, iv, 2, p. 1111, p. 438.

5. - Oltre ai richiami nel testo: Lisimache: E.A.A., iii, fig. 47. Scudo dell'Atena Parthènos di Fidia: ibid., iii, figg. 796-797. Testa in bronzo di africano, da Cirene, Londra: ibid., ii, fig. 913. Ritratto maschile, Atene, Museo Naz., n. 351: L. Laurenzi, op. cit. in bibl., n. 75. Satyros: ritratto maschile in bronzo, da Anticitera, Atene: E. A. A., iii, fig. 837. Cosiddetto Alcibiade: V. Poulsen, Les Portraits grecs, tav. 6, n. 5; Röm. Mitt., 68, 1961, tavv. 78-79. Statue di cavalieri dall'acropoli di Atene: H. Payne, Archaic Marble Sculpture from the Acropolis, Londra 19502, tavv. 134-138.

6. - Cippo con testa, Tarquinia: E.A.A., ii, fig. 343. Cippo - r. da Taranto: R. Bianchi Bandinelli, Archeologia e Cultura, Milano 1961, tav. ii a. Sarcofago fittile da Cerveteri, Roma, Museo di Villa Giulia: E.A.A., iii, fig. 579. Sarcofago fittile, Parigi, Louvre: G. Q. Giglioli, L'arte etrusca, Milano 1935, tav. cxvi. Sarcofagi da Cerveteri, Banditaccia: R. Herbig, Steinsarkophage, cit. in bibl., tavv. 1-4. Sarcofagi da Vulci (Bomarzo), Boston: id., op. cit., tav. 37 a e tav. 40 a. Sarcofago del "Magnate": E.A.A., iii, fig. 581; R. Herbig, op. cit., tav. 94 c-d (part. della testa). Sarcofago, Tarquinia, museo, n. 9875: E.A.A., iii, fig. 585. Urna, Volterra, museo, n. 119: O. Vessberg, Röm. Republik, cit. in bibl., tav. lxxxvii, i e 2. Ritratto di Larth Sentinate Caesa, dalla Tomba della Pellegrina in Chiusi: D. Levi, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, iv, 1932-3, tavv. iii-v. Sarcofago di Larthia Seianti, Firenze, Museo Arch.: G. Q. Giglioli, op. cit., tav. cccxciv. Sarcofago di Seianti Thanunia, Londra: L. Banti, Il mondo degli Etruschi, Roma 1960, tav. 107. Teste votive a stampo, con ritocchi: G. Kaschnitz-Weinberg, in Rend. Pont. Acc., iii, 1924-5, tavv. 21-22. Busto fittile da Civita Castellana: P. Ducati, Storia dell'arte etrusca, Firenze 1927, tav. 268, fig. 653. Testa in bronzo di giovanetto, Firenze: E.A.A., iii, fig. 856. Busti fittili campani: R. Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica, Firenze 19502, tav. 64. Pittura dalla Tomba dell'Orco, Tarquinia, con il ritratto di Velia: P. Ducati, op. cit., tav. 187, fig. 471. Pittura della Tomba degli Scudi, Tarquinia: id., op. cit., tav. 224, figg. 547-8; E.A.A., iii, figg. 590, 593.

7. - Moneta di M. Claudio Marcello: E.A.A., ii, fig. 939; K. Lange, op. cit., pp. 88-89. Imagines della Casa del Menandro, Pompei: E.A.A., iv, fig. 146. Statua del Togato Barberini: E.A.A., iv, fig. 147. Ritratti repubblicani di liberti: Q. Vessberg, op. cit., tavv. xxxviil-xlv. Moneta di T. Quinzio Flaminino: E. A. A., vi, fig. 689. Moneta di M. Bruto: E.A.A., ii, fig. 288; K. Lange, op. cit., p. 94. Ritratto femminile veristico: O. Vessberg, op. cit., tav. xcix. Moneta di Ottaviano: O. Vessberg, op. cit., tav. xi. Teste votive in terracotta di tipo analogo: es. E.A.A., vol. iv, fig. 855. Togato Museo Chiaramonti n. 135 (Vaticano): B. Schweitzer, Die Bildniskunst d. röm. Republik,Weimar 1948, D. 7, W. Amelung, Katal. Vatic., i, 397; O. Vessberg, op. cit., tav. xci, S. Statua di Augusto, da Prima Porta: E.A.A., vol. i, fig. 1158. Imagines clipeatae: E.A.A., vol. ii, fig. 953-955. Vespasiano: Ny Carlsberg, n. 659 a: R. West, Römische Porträt-Plastik, ii, Monaco 1941, tav. i, fig. S. Roma, Museo Naz. Romano, n. 330: B.M. Felletti Maj, I ritratti (Museo Naz. Rom.), Roma 1953, n. 141. Ritratto femminile flavio, Roma, Capitolino, n. 23: R. Paribeni, Il ritratto nell'arte antica, Milano 1934, tav. clxxxiv. R. di Polydeukes: K. A. Neugebauer, in Arndt-Lippold, Griech. u. Räm. Porträts, Monaco 1938, tavv. 1198-1199. R. Brit. Mus., n. 1949: R. Hinks, Greek a. Roman Portrait-Sculpture, 1935, p. 40. Ritratti di Kosmeti: P. Graindor, in Bull. Corr. Hell., xxxix, 1915, p. 241 ss.; H.P. L'Orange, Studien z. Gesch. d. Spätantiken Porträts, Oslo 1933, pp. 9-13. R. femminile e infantile del III sec.: B. M. Felletti Maj, Iconografia Rom. Imperiale, Roma 1958, passim. Come esempio del tipo homo spiritualis: E. A. A., iii, fig. 846. Dipinti pompeiani con busti di donne-muse: M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, pp. 264 e 265.

R. di mummia da Hawarah, Berlino: A. Rumpf, Malerei u. Zeichnung, in Handb. d. Arch., iv, Monaco 1953, tav. 68, 2. R. dalla Tomba di Trebio Giusto: M. Borda, op. cit., pp. 344-345. R. di Turtura, catacomba di Domitilla: R. Delbrück, Antike Porträts, Bonn 1912, tav. 57. Vetro dorato, Roma, Musei Vaticani: Ch. R. Morey, The Gold-glass Collection of the Vatican Library, Roma 1959, tav. i, 3, 8. Statua in bronzo da Sliami, Mossul: R. Ghirshman, Arte persiana, tr. it., Milano 1963, p. 99. Moneta di Ardashir i: id., op. cit., p. 245, fig. 304. Moneta di Shapur I: id., op. cit., p. 245, fig. 305.

Bibl.: 1. - Il problema del ritratto: W. Waetzold, Die Kunst des Portrâts, Lipsia 1908; H. Schrader, Drei Bildnisse aus dem 5 Jahrh. v. Chr., in Die Antike, II, 1926, p. 115 ss.; E. Pfuhl, Die Anfänge d. griech. Bildniskunst, Monaco 1927; F. Studniczka, Die Anfänge d. griech. Bildniskunst, Monaco 1927; F. Studniczka, Die Anfänge d. griech. Bildniskunst, in Zeitschr. f. bild. Kunst, , LXII, 1927-8, p. 121 ss.; B. Schweitzer, Die Darstellung des Seelischen i. d. griech. Kunst, in Neue Jahrbb., x, 1934 (ripubblicato in Ausgewählte Schriften: Zur Kunst d. Antike, I, Tubinga 1963, p. 316 ss.); id., Studien z. Entstehung des Porträts bei den Griechen, in Abhandl. d. Sächsischen Akademie, 91, 1939 (Lipsia 1940), (ora in Ausgewählte, cit., II, Tubinga 1963, p. 115 ss.); cfr. recensione, in Gnomon, 17, 1941, p. 337, a cura di G. Kaschnitz-Weinberg; E. Bethe, Ahnenbild u. Familiengeschichte bei Römern u. Griechen, Monaco 1935; C. Watzinger, Betrachtungen über Griech. u. Römische Bildniskunst, in celt als Geschichte, 2, 1936, p. 187 ss.; G. Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, in La Critica d'Arte, V, 1940, p. 25 ss.; L. Breglia, Correnti d'arte e riflessi di ambienti su monete greche, ibid., p. 58 ss.; F. Poulsen, Probleme der Datierung frührömischer Porträts, in Acta Archaeologica, 13, 1942, p. 178 ss.; J. H. Kern, Antieke portretkoppen (Egypte, Babylonie-Assyrie, Griechenland en Rome), L'Ajas 1947; H. P. L'Orange, Apotheosis in Ancient Portraiture, Oslo 1947; id., Studies in the Iconography of the Cosmic Kingship, Oslo 1953; B. Schweitzer, Griechische Porträtkunst. Probleme und Forschungsstand, in Acta Congressus Madvigiani, III, 1957 (ora in Ausgewählte, cit., II, p. 168 ss.); id., Bedeutung und Geburt d. Porträts bei den Griechen, ibid., III, 1957 (ora in Ausgewählte, cit., II, p. 189 ss.); J. Frel, Les origines du portrait en Grèce, in Eirene, I, 1959, p. 68 ss.; id., Reflexions sur le portrait à l'époque romaine, in Acta Univ. Carolinae, Philosoph. et Hist., 4, Praga 1960; V. Poulsen, Oldtids Mennesker. Blade af den antieke portretkunst historie, Copenaghen 1959; E. Buschor, Das Porträt, Monaco 1960; L. Malten, Die Sprache d. menschlichen Antlitzes im frühen Griechentum, Berlino 1961; Enc. Univ. dell'Arte, XI, 1964, c. 569 ss., s. v. Ritratto; Plinio il Vecchio (tr. e ed. ital. a cura di S. Ferri), Roma 1946.

2, 3, 4. - Vicino Oriente. Egitto: H. Schäfer, Das altägypt. Bildnis (Leipziger Archäol. Studien, 5), Lipsia 1936; W. Stevenson Smith, Art and Architecture of Ancient Egypt, Harmondsworth 1958; AS. Scharff, Typus und Persönlichkeit i. d. aegypt. Kunst, in Archiv. f. Kulturgesch., 29, 1959, p. 1 ss. Per le maschere di Tell el-‛Amarnah: G. Roeder, Lebensgrosse Tonmodelle aus einer altägypt. Bildhauerwerkstatt, in Jahrbuch Preuss. Kunstsamml., 62, 1941, p. 145 ss.; E. Biele-De Mot, in Chronique d'Égypte, 35, 1943, p. 101 ss.; H. R. Hall, A 3000 years old Egyptian portrait Gallery: casts of the living and the dead fromt "the House of the sculptor" at Tell-el-Amarna, in Ill. London News, 19, 3, 1927, p. 470 s.

Mesopotamia: H. Frankfort, The Art and Architcture of the Ancient Orient, Harmonsdworth 1954; A. Parrot, I Sumeri (tr. it.), Milano 1960; id., Gli Assiri (tr. it.), Milano 1961.

5, 6, 7 (I). - R. greco, italico e romano. a) Raccolte di ritratti: F. Imhoof-Blumer, Porträtköpfe auf Römischen Münzen, ia ed., 1892; H. Brunn-P. Arndt, Griech. u. Röm. Porträts, Monaco 1891 ss.; R. Delbrück, Antike Porträts (tabulae in usum scholarum, 6), Bonn 1912; A. Hekler, Bildnisk. d. Griech. u. Römer, Stoccarda 1912; H. P. L'Orange, Studien z. Gesch. d. Spätantiken Porträts, Oslo 1933; R. West, Römische Porträtplastik, Monaco 1933; R. Paribeni, Il ritratto nell'arte antica, Milano 1934; K. Lange, Herrscherköpfe d. Altertums, Berlino-Zurigo 1938; L. Laurenzi, Ritratti greci (Quaderni di Archeologia 3-5), Firenze 1941; L. Goldscheider, Roman Portraits, Londra 1945; R. Herbig, Die jüngeretrusk. Steinsarkophage, Berlino 1952 (in particolare cap. 7); J. Roubier-J. Babelon, Dauernder als Erz, Vienna-Monaco 1958.

b) Cataloghi: R. P. Hinks, Greek and Roman Portrait Sculpture in the British Museum, Londra 1935; C. Blümel, Katalog d. antiken Skulpturen im Berliner Museum: Römische Bildnisse, Berlino 1933; G. M. A. Richter, Roman Portraits (The Metropolitan Museum of Art), New York 1948; B. M. Felletti Maj, I ritratti (Museo Naz. Romano), Roma 1953; E. B. Harrison, Portrait Sculpture, in The Athenian Agorà, I, Princeton 1953; A. Giuliano, Catalogo dei ritratti romani del Museo Profano Lateranense, Città del Vaticano 1957; V. Poulsen, Les Portraits grecs (Glyptothèque Ny Carlsberg, n. 5), Copenaghen 1954; id., Les Portraits romains, I: République et dynastie julienne (Glyptothèque Ny Carlsberg, n. 7), Copenaghen 1962; E. Rosenbaum, A Catalogue of Cyrenaican Portrait-sculpture, Oxford 1960; . A. Mansuellim I ritratti (Galleria degli Uffizi. Le sculture, II), Roma 1961.

5, 6, 7 (II). - R. greco, italico e romano. Studi iconografici. a) Grecia: E. Q. Visconti, Iconographie ancienne,1° ed., Parigi 1811-1826; F. Imhoof-Blumer, Porträtköpfe auf antiken Münzen hellenischer und hellenisierter Völker, Lipsia 1885; J. J. Bernoulli, Greichische Ikonographie, I-II, Monaco 1901 ss.; Ch. Hülsen, Die Hermeninschriften berühmten Greichen u. die ikonograph. Sammlungen des XVI. Jahr., in Röm. Mitt., XVI, 1901, p. 123 ss.; E. G. Suhr, Sculptured Portraits of Greek Statesmen, Baltimora 1931; A. Hekler, Bildnisse berühmten Griechen, Berlino, ia ed., 1940; 3a ed., Lipsia 1962; K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker, Basilea 1943.

b) Etruria e Roma: J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie, I-III, Stoccarda 1882-1886; L. Curtius, Ikonogrpahische Beiträge zum Porträt der röm. Republik und der julisch-claudischen Familie, in Röm. Mitt., XLVII e LIV, 1932 e 1939; F. Poulsen, Probleme d. röm. Ikonographie, Copenaghen 1937; B. M. Felletti Maj, Iconografia romana imperiale da Severo Alessandro a M. Aurelio Carino (Quaderni di Archeologia, 2), Roma 1958; H. v. Heintze, Zum ‛Alkibiades', in Röm. Mitt., 68, 1961, p. 182 ss.

Si veda inoltre la bibl. alle singoli voci iconografiche sotto gli esponenti dei personaggi storici.

5, 6, 7 (III). - R. greco, italico e romano. Studi particolari. a) Grecia: G. Lippold, Griechische Porträtstatuen, Monaco 1912; W. Deonna, Le portrait de Phidias sur le bouclier de l'Athena Parthenos, in Rev. Et. Gr., XXXIII, 1920, p. 291 ss.; A. Hekler, Beiträge z. Aesthetik d. Griech. Porträtskunst, in Wiener Jahrb. f. Kunstgesch., IV, 1926, p. 52 ss.; F. Poulsen, Greek and Roman Portraits in English Country House, Oxford 1923; id., Porträtstudien in Nord-italienischen Provinzmuseen, Copenaghen 1928; id., Sculptures antiques de Musées de province Espagnols, Copenaghen 1933; E. Bethe, Ahnenbild u. Familiengeschichte bei Römern u. Griechen, Monaco 1935; Ch. Picard, Manuel d'archéologie grecque. La sculpture, I-IV, Parigi 1935-1963; E. Buschor, Das hellenistische Bildnis, Monaco 1949; J. Babelon, Le portrait dans l'antiquité d'après les monnaies, Parigi 1950; G. M. A. Richter, Greek Portraits, in Latomus, I, 1955; II, 1959; III, 1960; IV, 1962; M. Bieber, The Sculpture of the Hellenistic Age, New York 1955; K. Kraft, Über die Bildnisse des Aristoteles u. des Platon, in Jahrb. f. Numismatik u. Geldeschichte, XIII, 1963. Per le erme: R. Lullies, Die Typen der Griech. Herme, Königsberg 1931; J. Charbonneaux, in Mem. Soc. Nat. Antiquaires de France, 1960, p. 187.

b) Etruria e Roma: A. Riegl, Zur spätrömischen Porträtskulptur, in Strena Helbigiana, Lipsia 1900, p. 250 ss.; G. v. Kaschnitz-Weinberg, Ritratti femminili etruschi e romani dal III al I sec. a. C., in Rend. Pont. Acc., III, 1924-25, p. 325 ss.; id., Studien zur etruskischen und frührömischen Porträtkunst, in Röm. Mitt., XLI, 1926, p. 133 ss.; G. Karo, Etruskisch-röm. Bildniskunst, in Festschrift Amelung, Berlino 1928, p. 1110 ss.; D. Levi, in Not. Scavi, 1931, p. 475 ss.; id., La tomba della Pellegrina in Chiusi, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, IV, 1932-3, tavv. III-V: id., L'arte etrusca e il ritratto, in Dedalo, XII, 1933, p. 193 ss.; B. Schweitzer, in Forsch. u. Fortschr., 1934, p. 190 ss.; A. N. Zadoks, Ancestral Portraiture in Rome and the Art of the last Century of the Republic (Allard Pierson Stichting), Amsterdam 1932; F. Poulsen, Römische Privatporträts u. Prinzenbildnisse, Copenaghen 1939; Das Römische Herrscherbild: M. Wegner, Die Herrscherbildnisse in antoninischer Zeit, II, 3, Berlino 1939; id., Plotina, Marciana, Matidia, Sabina, II, 4, Berlino 1956; R. Dëlbruck, Die Münzbildnisse von Maximinus bei Carinus, III, Berlino 1940; W. O. Gross, Bildnisse Traians, Berlino 1940; O. Vessberg, studien, 2. Kunstgeschichte d. Röm. Republik, Lund-Lipsia 1941; B. Schweitzer, Die Bildniskunst d. Röm. Republik, Lipsia-Weimar 1948; H. F. Bouchery, Beshouwingen over de Romeinse Portreplastiek, in Gentse Bijdragen tot de Kunstgeschiedenis, III, 1949-50, p. 197 ss.; P. H. v. Blanckenhagen, Das Bild des Menschen in der röm. Kunst, in Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft, 15, 19459-50, p. 115 ss.; G. M. A. Richter, Who made the Roman Portrait Statues: Greeks or Romans?, in Proceedings of the American Philosophical Society, XCV, 1951, p. 184 ss.; A. De Franciscis, Il ritratto romano a Pompei, Napoli 1951; F. Brommer, Zu den römischen Ähnenbilder, in Röm. Mitt., LX-LXI, 1953-4, p. 163 ss.; G. Hafner, Späthellenistische Bildnisplastik, Berlino 1954; B. Schweitzer, Altrömische Traditionselemente in der Bildniskunst des 3. Jhs. n. Chr., in Festschrift A. W. Byvanck (Nederlands Kunsthist. Jaarboek, 5), 1954, (ora in Ausgewählte, cit., II, p. 265 ss.); R. Bianchi Bandinelli, Sulla formazione del ritratto romano, in Società, XIII, 1957, p. 18 ss. (ora in Archeologia e Cultura, Milano-Napoli 1961, p. 172 ss.); K. Parlsca, Z. Entstehung der Mumienporträts, in Zeitschrift des Deutschen Morgenländischen Gsellschaft, II, 1961, p. 381 ss. (in aggiunta alla bibliografia data s. v. Fayyum); H. Drerup, Das Themistoklesporträt in Ostia, in Marburger Winckelmann-Programm, 1961, p. 31 ss.; A. Grabar, Sculptures byzantines de Costantinople (IV-X sec.), Parigi 1963, p. 9-16 ("Quatre imagines clipeatae des évangélistes et le portrait byzantin sculpté"); G. Zinserling, Altrömische Traditionselemente in Porträt-kunst u. Historienmalerei d. dritten Jahrh. u. Z.?, in Klio, 41, 1963, p. 196 ss.

8. - Civiltà periferiche. Iran: R. Ghirshman, Persia. Proto iraniani. Medî. Achemenidi. Indî (tr. it.), Milano 1964; id., Arte Persiana. Parthi e sassanidi (tr. it.), Milano 1962.

9. - Estremo Oriente: B. Rowlands, Art and Architecture of India, Harmondsworth 1953; L. Sickman-A. Soper, Art and Architecture of China, Harmondsworth 1956; R. T. Paine-A. Soper, The Art and Architecture of Japan, Harmondsworth 1955. Si veda inoltre la bibliografia alle voci: cinese, arte; giapponese, arte; indiana, arte.

(R. Bianchi Bandinelli)