ROAD MOVIE

Enciclopedia del Cinema (2004)

Road Movie

Simone Emiliani

Genere cinematografico impostosi negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Sessanta, il cui tema principale è quello del viaggio senza una meta precisa, quasi un vagabondaggio in automobile o in motocicletta, e i cui protagonisti sono giovani ribelli o criminali in fuga che si rivoltano contro una società percepita come forza conformista e repressiva. Girato quasi esclusivamente in esterni, il r. m. utilizza come set privilegiato un paesaggio composto essenzialmente da strade statali, sterminate praterie, deserti, motel, pompe di benzina, ristoranti e bar, ma anche città ridotte a luogo di attraversamento provvisorio. Il genere è anche caratterizzato da un'illuminazione mutevole, soprattutto nei passaggi dal giorno alla notte, dal sereno alla pioggia, dall'alba al tramonto; nonché da una ricchissima colonna sonora che si avvale di brani rock e pop e da una narrazione incentrata su protagonisti che nella strada individuano il luogo per appagare il loro istinto di libertà, fare incontri, o confrontarsi con culture diverse. L'esperienza del viaggio su strada diventa così un modo per materializzare le proprie illusioni, ma anche per manifestare un rifiuto di legalità e fuggire dall'opprimente conformismo di certe norme sociali. Il r. m. ha rappresentato l'immaginario di una controcultura statunitense nella quale la New Hollywood si è identificata, contribuendo alla nascita di quel cinema di protesta che ha rappresentato una delle stagioni migliori della storia del cinema americano. Da un punto di vista tecnico in questi film, è frequente l'uso della camera-car (attrezzata con un sistema di sospensioni che permettono di ammortizzare i sobbalzi della strada nel corso dello spostamento) e dello zoom che consente di avvicinarsi e allontanarsi da personaggi e oggetti, collocati a una distanza anche considerevole, senza spostare la macchina da presa. Capostipite del r. m. è considerato Easy rider (1969; Easy rider ‒ Libertà e paura) di Dennis Hopper, ma già The wild angels (1966; I selvaggi) di Roger Corman possedeva tutti gli elementi propri del genere.

Le origini

A un primo approccio, più che il cinema, sembrerebbe essere stata la letteratura a fornire le basi essenziali per la nascita e lo sviluppo del genere. Nel 1957 J. Kerouac, uno degli scrittori più rappresentativi della beat generation, pubblicò On the road, un romanzo i cui protagonisti divennero il simbolo di un'intera generazione; le descrizioni di ambienti, personaggi, atmosfere e comportamenti sociali (in particolare, l'uso di alcol e droghe) del libro di Kerouac anticiparono in maniera determinante il r. m. quanto a visioni e forme.

Pur tuttavia, a un'analisi più approfondita, il r. m. mostra legami ben più forti con il cinema e, in special modo, con i generi cinematografici classici. Per molti aspetti si può dire che affondi le proprie radici nel western: gli enormi spazi all'aperto, il tema del viaggio, il movimento perpetuo, la strada vissuta come frontiera, la fuga dal proprio passato e da sé stessi, la funzione predominante dell'illuminazione costituiscono molteplici punti in comune tra il r. m. e il western. Del resto, il percorso della diligenza in Stagecoach (1939; Ombre rosse) di John Ford o lo spostamento delle mandrie dal Texas al Missouri in Red river (1948; Il fiume rosso) di Howard Hawks si possono già considerare forme germinali del genere. Ma una sorta di nomadismo, o movimento senza meta, caratterizza anche il genere drammatico (Grapes of wrath, 1940, Furore, di Ford), la commedia (It happened one night, 1934, Accadde una notte, di Frank Capra; The Palm Beach story, 1942, Ritrovarsi, di Preston Sturges) e il noir (Detour, 1945, di Edgar G. Ulmer; They live by night, 1949, La donna del bandito, di Nicholas Ray; Gun crazy, 1949, La sanguinaria, di Joseph H. Lewis; o l'inizio di Kiss me deadly, 1955, Un bacio e una pistola, di Robert Aldrich). Inoltre, già a partire dagli anni Cinquanta il cinema statunitense focalizzò la sua attenzione sulla rabbia delle giovani generazioni, sulle gesta dei 'ribelli senza causa' che avrebbero costituito un altro elemento fondativo del genere. Così, per es., nella banda di motociclisti con il giubbotto di pelle nera che si muovono come un branco in The wild one (1953; Il selvaggio) di Laslo Benedek c'è già il rifiuto delle regole sociali dei protagonisti di The wild angels e di Easy rider; mentre nella scena della 'corsa del coniglio' di Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata) di Ray è già presente il tema della continua sfida con sé stessi e con gli altri, da parte di eroi che nella strada e nell'automobile cercano sublimazione e morte.

Esplosione del genere

Corman, quindi, con la banda di motociclisti sulle strade della California in The wild angels, fece da battistrada al r. m.; squarci riconducibili al genere si intravidero subito dopo anche in Bonnie and Clyde (1967; Gangster story) di Arthur Penn, con i due criminali in fuga nell'America della Grande depressione, nella commedia Two for the road (1966; Due per la strada) di Stanley Donen e nel finale di The graduate (1967; Il laureato) di Mike Nichols con la coppia di protagonisti in fuga su un autobus, diretta verso una destinazione ignota. Ma il film simbolo del r. m. è senza dubbio Easy rider, in cui si è identificata un'intera generazione. Il viaggio dei due motociclisti hippy attraverso l'America, caratterizzato da strani incontri e spinelli di marijuana, con una colonna sonora che include, tra gli altri, brani di Jimi Hendrix e Bob Dylan, mette in atto una serie di dispositivi narrativi e tecnici poi utilizzati da tutti i registi più importanti della New Hollywood che, dalla seconda metà degli anni Sessanta, si sono confrontati in maniera diretta con il genere. Così il film on the road diventa l'occasione per far emergere la fragilità e la solitudine di una casalinga in fuga con un ex giocatore di football in The rain people (1969; Non torno a casa stasera) di Francis Ford Coppola, o per tracciare il ritratto di un pianista fallito che solo momentaneamente lascia i suoi vagabondaggi per un ultimo saluto al capezzale del padre in Five easy pieces (1970; Cinque pezzi facili) di Bob Rafelson, o quello di una vedova in viaggio per tornare nella sua città natale con il figlio dodicenne in Alice doesn't live here anymore (1975; Alice non abita più qui) di Martin Scorsese. Ma la strada fornisce anche lo spunto per esasperare l'inseguimento, dai toni horror, tra l'auto di un commesso viaggiatore e un'autocisterna in Duel (1971), o per ridefinire la struttura di un poliziesco in cui le forze dell'ordine danno la caccia a una giovane coppia in The Sugarland Express (1974; Sugarland Express), entrambi di Steven Spielberg.

Il paesaggio deserto, l'auto, la strada, la sfida, caratterizzano altri importanti r. m. degli anni Settanta, come Vanishing point (1971; Punto zero) di Richard C. Sarafian, Two-lane blacktop (1971; Strada a doppia corsia) di Monte Hellman, The getaway (1972; Getaway!) di Sam Peckinpah (del quale è stato realizzato nel 1994 un fiacco remake da Roger Donaldson), e infine Electra Glide in blue (1973; Electra Glide) di James William Guercio. Ma il genere diventa anche pretesto per definire uno stile che privilegia gli spazi aperti e gli elementi naturali, come nel primo, straordinario lungometraggio di Terrence Malick, Badlands (1974; La rabbia giovane), di cui sono protagonisti due giovani, che, dopo aver ucciso il padre di lei, fuggono dal South Dakota verso il Canada. Ugualmente, in Paper Moon (1973) di Peter Bogdanovich l'America della Grande depressione, ripresa in bianco e nero dalla fotografia di László Kovács, costituisce lo sfondo per le vicende di una strana coppia di vagabondi, un imbroglione e una ragazzina orfana.

Questa prima fase risalente agli anni Settanta costituisce il periodo più significativo del r. m.; successivamente il genere è stato utilizzato contaminandolo con il western (si pensi allo sceriffo all'inseguimento di una banda di camionisti in Convoy, 1978, Convoy ‒ Trincea d'asfalto, di Peckinpah), con il film musicale (Roadie, 1980, Roadie ‒ La via del rock, di Alan Rudolph), con la commedia minimalista (Stranger than Paradise, 1984, Stranger than Paradise ‒ Più strano del Paradiso, di Jim Jarmusch), con nostalgici ritratti generazionali (per es., quello del gruppo di laureandi in viaggio attraverso il Texas all'inizio degli anni Settanta in Fandango, 1985, di Kevin Reynolds). In seguito, anche alcuni grandi cineasti statunitensi hanno utilizzato le caratteristiche proprie del r. m. lasciando il segno riconoscibile del proprio stile visivo: è stato il caso di David Lynch (in Wild at heart, 1990, Cuore selvaggio; nella parte iniziale di Lost highways 1997, Strade perdute; e in The straight story, 1999, Una storia vera), Ridley Scott (Thelma & Louise, 1991), Gus Van Sant (My own private Idaho, 1991, Belli e dannati), Oliver Stone (Natural born killers, 1994, Assassini nati), Michael Cimino (The sunchaser, 1996, Verso il sole) e Wayne Wang (Anywhere but here, 1999, La mia adorabile nemica). Tra gli altri esempi statunitensi del genere, possono essere segnalati anche Kiss or kill (1997) di Bill Bennett e, soprattutto, un caso di r. m. anomalo, quello costituito da Almost famous (2000; Quasi famosi ‒ Almost famous) di Cameron Crowe, storia di un giovanissimo aspirante critico musicale che, all'inizio degli anni Settanta, si trova a seguire il tour di una rock band.

Le altre cinematografie

Fuori dagli Stati Uniti, è stato Wim Wenders l'autore che più si è avvicinato alle forme e al respiro dei r. m. statunitensi. Il percorso del fotografo tedesco che da New York torna in Germania assieme a una bambina affidatagli dalla madre in Alice in den Städten (1974; Alice nelle città), l'itinerario dell'aspirante scrittore in Falsche Bewegung (1975; Falso movimento), o il casuale incontro e il successivo errare di due giovani uomini in Im Lauf der Zeit (1976; Nel corso del tempo) compongono la cosiddetta 'trilogia del viaggio', in cui le strade della Germania diventano l'allegoria dei nuovi percorsi iniziatici di personaggi sempre alla ricerca di sé stessi. Nel 1984 Wenders si è confrontato nuovamente con il genere in uno dei suoi film più significativi (Paris, Texas), raccontando il vagabondare di un uomo che, dopo un lungo isolamento, si pone assieme al figlio alla ricerca della madre del bambino. E se in Francia Jean-Pierre Melville in L'aîné des Ferchaux (1963; Lo sciacallo), nel raccontare la fuga negli Stati Uniti, dopo un tracollo economico, di un banchiere francese che si lega a un ex pugile e viene da quest'ultimo derubato, aveva utilizzato spazi e tempi tipici del genere, in Italia, il tema del viaggio ha caratterizzato vari film ben prima della nascita ufficiale del r. m.; si pensi a Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini, o al viaggio di Zampanò e Gelsomina in La strada (1954) di Federico Fellini e soprattutto a quello di Bruno Cortona (Vittorio Gassman) che, insieme a uno studente timido (Jean-Louis Trintignant), corre su un'Aurelia Sport in Il sorpasso (1962) di Dino Risi; esempi questi che si presentano come forme iniziali del genere. Tra i film successivi che hanno affrontato il tema in maniera più diretta: Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, Bianco, rosso e Verdone (1981) di Carlo Verdone (in particolare nell'episodio dell'emigrato che, dalla Germania, torna in Italia, per votare), L'invitation au voyage (1983; Invito al viaggio) di Peter Del Monte, Turné (1990) di Gabriele Salvatores, Il ladro di bambini (1992) di Gianni Amelio e Alla rivoluzione sulla due cavalli (2001) di Maurizio Sciarra.

Vanno inoltre segnalati i film australiani Mad Max (1979; Interceptor) di George Miller, storia di un poliziotto in cerca dei motociclisti che gli hanno ucciso la moglie, e alcune opere di Abbas Kiarostami come Khāne-ye dust kojāst (1987; Dov'è la casa del mio amico) e Ta῾m-e gilāss (1997; Il sapore della ciliegia), nonché Viagem ao princípio do mundo (1997; Viaggio all'inizio del mondo) di Manoel de Oliveira; infine, The goddess of 1967 (2000; La dea del '67) della cineasta hongkonghese Clara Law, sul viaggio a bordo di una Citroën Ds gialla di un collezionista giapponese di auto e di una ragazza cieca.

Bibliografia

M. Videtta, La fuga impossibile: il mito del viaggio nel cinema americano. Da Huckleberry Finn a Easy rider, Roma 1980.

L'altrove perduto: il viaggio nel cinema e nei mass media, a cura di G. Simonelli, P. Taggi, Roma 1987.

G. Frasca, Road movie. Immaginario, genesi, struttura e forma del cinema americano on the road, Torino 2001.

D. Laderman, Driving visions: exploring the road movie, Austin (TX) 2002

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