ROBERTO d’Altavilla, detto il Guiscardo, duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

ROBERTO d'Altavilla, detto il Guiscardo, duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia

Vito Loré

ROBERTO d’Altavilla, detto il Guiscardo, duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia. – Primo dei figli di Tancredi, signore di Hauteville (Normandia occidentale) e della sua seconda moglie, Fressenda, nacque probabilmente nel 1015. Nulla si sa del periodo trascorso in Normandia, né della data della sua venuta nell’Italia meridionale (al più presto, fine degli anni Quaranta dell’XI secolo).

La prima, faticosa fase della sua carriera nel Sud è nota solo a grandi linee. Roberto passò un breve periodo al servizio del principe di Capua Pandolfo IV (o V?), con il quale ruppe per un disaccordo relativo al suo compenso.

Probabilmente nello stesso periodo sposò Alberada, zia (evidentemente di giovane età) del normanno Gerardo, divenuto conte di Buonalbergo probabilmente all’inizio degli anni Cinquanta.

Gerardo, che di Roberto rimase fedelissimo alleato per tutta la vita, è in Amato di Montecassino (Storia de’ Normanni..., a cura di V. De Bartholomaeis, 1935, III, 11) il primo a rivolgersi a lui con il soprannome di Guiscardo, «l’Astuto». Al contrario, Roberto non fu particolarmente aiutato dal fratello Drogone, figlio di Tancredi e della sua prima moglie, Muriella. Drogone lo aveva preceduto nell’Italia meridionale e aveva già guadagnato una posizione di preminenza tra le bande normanne attive in Puglia, ereditata dal maggiore dei fratelli Altavilla, Guglielmo.

Roberto fu insediato nella Calabria settentrionale, probabilmente non a caso lontano dal principale teatro di azione del fratello; era alla testa di un manipolo di cavalieri che facevano base presso la rocca di Scribla. In questo difficile e non breve periodo calabrese – da collocare prima della battaglia di Civitate (1053) secondo Amato di Montecassino, e dopo di essa secondo Goffredo Malaterra – l’attività del Guiscardo ebbe un carattere spiccatamente predatorio: sequestri di persona a scopo di riscatto e furto di bestiame furono attività frequenti del gruppo, povero di risorse ed evidentemente non ancora capace di esercitare un dominio strutturato sull’area circostante. La cattura di un notabile del posto, Pietro di Bisignano, e la successiva alleanza con lui segnarono però un primo legame del Guiscardo con le società locali.

Secondo i citati cronisti, a Civitate Roberto avrebbe ricoperto un ruolo importante, comandando un’ala delle truppe normanne nello scontro con il papa Leone IX. Ma la battaglia non fu probabilmente uno snodo significativo nella vicenda di Roberto: negli anni successivi, infatti, egli espanse la sua area di azione in Calabria, ma senza cambiare radicalmente la qualità della sua presenza. È vero che dal 1056 in effetti non solo Bisignano, ma anche Martirano e Cosenza (molto più a Sud) gli versavano tributo e gli davano aiuti militari, ma ciò non esprimeva un potere strutturato in forma stabile, di un vero e proprio controllo signorile, bensì una pressione esercitata su quei centri dall’esterno.

Il vero salto di qualità nella carriera del Guiscardo avvenne nei primi mesi del 1057. Egli ereditò il ruolo e il titolo comitale dal defunto fratello Umfredo, succeduto a Drogone a capo dei Normanni di Puglia, senza tener conto dei diritti di Abelardo, figlio minore di Umfredo, poi suo avversario tenace. Roberto si trovò così, subito dopo, proiettato in uno scenario assai ampio, e assunse un rilievo cruciale nelle vicende complessive dei Normanni, anche se la dorsale appenninica tra Calabria e Lucania – in specie, Melfi e Venosa – rimase per diversi anni l’area di sua più forte presenza, come già per Drogone, Umfredo e il loro clan. Assumendo l’egemonia sul gruppo, il Guiscardo tuttavia ridefinì la prospettiva, probabilmente con consapevole calcolo politico, dedicandosi più alla conquista della Calabria che all’area pugliese, popolata da un numero maggiore di capi e con ogni probabilità più difficile da controllare.

In effetti, anche negli anni successivi la Puglia fu teatro di una conquista non del tutto scoordinata, ma condotta su un piano ancora sostanzialmente paritario dal gruppo raccoltosi attorno ai primi Altavilla, insofferente dell’egemonia nuova che il duca tendeva a imporre. Non a caso la regione adriatica fu anche lo scenario di tutte le maggiori rivolte nei confronti del Guiscardo, fino ai suoi ultimi anni.

Con le nuove risorse a sua disposizione, fra la primavera e l’estate del 1057 Roberto intraprese dunque una campagna di conquista della Calabria meridionale, prendendo subito Squillace, Nicastro e Maida. Nei primi mesi del 1058 ebbe il primo contrasto con Ruggero, il fratello minore, futuro conte di Sicilia, che avendolo affiancato nell’impresa calabrese pretendeva un compenso; e ottenne la metà della Calabria ancora da assoggettare, con Mileto come base. In un paio d’anni la conquista della regione fu completata; tra la fine del 1059 (più probabilmente) e i primi mesi del 1060 Reggio fu conquistata e Roberto vi fu acclamato duca dalle truppe.

Nel frattempo Roberto aveva avviato le trattative che lo portarono (seconda metà del 1058) a ripudiare la prima moglie, Alberada, in favore di Sichelgaita, sorella di Gisulfo II, principe di Salerno. Fu una tappa importante della sua piena legittimazione politica. Una seconda, decisiva in prospettiva non solo per lui, ma per tutti i normanni, seguì di lì a pochissimo. Durante il Concilio indetto nell’agosto del 1059 a Melfi, nel cuore del potere degli Altavilla, Roberto giurò fedeltà a papa Niccolò II che lo investì del ducato di Puglia, di Calabria e di Sicilia, quest’ultima ancora da conquistare, così come pure, probabilmente, investì principe di Capua Riccardo di Aversa.

Rimasero esclusi dall’orizzonte della conquista i principati longobardi. Il duca si impegnò da parte sua a proteggere militarmente il papa, a corrispondergli annualmente un tributo, a porre sotto la potestà papale tutte le chiese che avesse conquistato, a garantire le procedure per la regolare elezione del pontefice. Il titolo ducale, che già altri avevano portato nei decenni 1040-50 in Italia meridionale (Melo, Argiro, Guaimario IV, lo stesso Guiscardo, già prima di Melfi), diveniva ora il segno di una compiuta legittimazione di fronte agli altri capi normanni e all’interno del panorama politico complessivo dell’Italia meridionale.

L’investitura papale diede al Guiscardo un prestigio nuovo di fronte ai normanni, consentendogli ora di rendere esplicito il disegno di un dominio esteso a buona parte del Mezzogiorno. Questo salto di qualità non ebbe forse immediata risonanza tra i contemporanei: i due principali cronisti, Amato e Malaterra, accennano appena al giuramento di Melfi. La conquista restava d’altronde un orizzonte, e lo sforzo militare necessario per compierla comportava ripercussioni all’interno della stessa compagine normanna.

A partire dalla dorsale appenninica, nel 1060-61 Roberto conquistò prima Troia, nel Nord della Puglia, poi Acerenza, nella Lucania settentrionale, centro strategicamente importante, il primo del principato di Salerno a essere preso dal Guiscardo. Nel 1062, invece, conquistò Brindisi e Oria, ma per buona parte dell’anno fu impegnato a risolvere un nuovo, duro contrasto con il fratello cui concesse infine, stando al racconto di Malaterra (De rebus gestis, a cura di E. Pontieri, 1927, II, 21-27), la metà della Calabria, dopo che Ruggero lo ebbe salvato dalla furia della popolazione di Gerace, che lo aveva catturato.

La presenza intermittente del duca permetteva ai bizantini di contrattaccare con qualche efficacia, ma la direttiva di espansione, all’estremo Nord e all’estremo Sud della regione, era segnata. Nel 1066 il Guiscardo conquistò Vieste e Otranto; e proprio subito dopo dovette fronteggiare una nuova rivolta dei signori normanni della Puglia centrale: Abelardo, Goffredo di Conversano, Amico, Gocelino di Molfetta (sostenuto dai bizantini), Ruggero Toutebove. Sgominati rapidamente i rivoltosi con l’aiuto di Ruggero, il Guiscardo ampliò dunque i suoi domini diretti nella Puglia centrale e poté puntare al centro del potere bizantino. Con tenace mobilitazione, a partire dall’agosto del 1068 assediò Bari, il capoluogo bizantino del Sud, usando macchine da guerra e cercando di sfruttare i dissensi interni alla popolazione urbana. Prevalse infine grazie alla flotta di Ruggero giunta dalla Sicilia, che isolò la città bloccando i collegamenti con i territori bizantini dell’altra sponda dell’Adriatico. Bari si arrese il 16 aprile 1071, data che di fatto segna la fine della presenza bizantina in Italia.

Trascorsa l’estate a Otranto, attraverso la Calabria Roberto raggiunse in Sicilia, all’assedio di Palermo, il fratello Ruggero, che aveva intanto conquistato Catania. La conquista dell’isola era stata condotta principalmente da Ruggero a partire dal 1061, con un saltuario apporto del Guiscardo, che fu in Sicilia in tre sole, ma importanti occasioni: un fallito tentativo di conquistare Castrogiovanni, centro nevralgico negli equilibri della frammentata Sicilia musulmana, nel 1061, un primo assedio di Palermo (durato tre mesi) nel 1064, infine il secondo assedio di Palermo, condotto con una flotta molto più consistente, conclusosi felicemente dopo quattro mesi il 10 gennaio 1072.

Dopo la resa, il Guiscardo si affrettò a garantire alla popolazione condizioni miti e la possibilità di continuare a vivere secondo la religione musulmana. Nello stesso tempo, la principale moschea palermitana fu però convertita in cattedrale e probabilmente già da lui fu costruita una rocca urbana. Seguirono gli accordi tra i due fratelli Altavilla. Il Guiscardo si riservò soltanto la metà di Palermo, di Messina e di Val Demone e non mise mai più piede in Sicilia; il comando nell’area passò allora di fatto a Ruggero, che invece fu costretto a tornare in più occasioni sul continente, per sostenere militarmente il duca.

Continuò negli anni successivi il consolidamento e l’espansione dei domini di Roberto nell’Italia continentale. La repressione della rivolta dei signori pugliesi (1072-73) e soprattutto del conte Pietro (II) di Trani – riluttanti all’appoggio militare per la conquista della Sicilia – permise al Guiscardo di acquisire Giovinazzo e Trani, che peraltro Pietro non aveva mai controllato stabilmente. Probabilmente nello stesso 1073 anche Amalfi si sottomise al duca, piegandosi al pagamento di un tributo in cambio di protezione contro Salerno.

Con l’elezione di Gregorio VII (1073), cambiò il segno dei rapporti fra Roma e i normanni, specie a causa dell’aggressività del conte Roberto di Loritello, nipote del Guiscardo, contro monasteri (Casauria) e sedi vescovili (Penne) negli Abruzzi. Mutato atteggiamento rispetto al passato, Gregorio VII percepì i normanni come una minaccia e cercò invano di organizzare una spedizione contro il Guiscardo, ripetutamente scomunicato, con i suoi seguaci, nel 1074, nel 1075, forse nel 1076 e nel 1077. Nonostante qualche apertura del papa (premuto dal conflitto con l’Impero) e la mediazione dell’abate Desiderio di Montecassino, la tensione durò a lungo, acuita dal perdurante espansionismo normanno: il Guiscardo e Riccardo di Capua tentarono infatti di conquistare le due antiche capitali longobarde.

Il tentativo fallì nel caso di Benevento (fine 1077-aprile 1078), con la morte di Riccardo di Capua e la rinuncia di Giordano, il figlio e successore; riuscì invece a Salerno, ultima grande conquista del Guiscardo. Salerno non era compresa nello spazio di espansione legittimato da Nicolò II a Melfi, e nonostante le affermazioni nel territorio di vari capi normanni, tra cui Guglielmo, conte del Principato, fratello del Guiscardo, la città, l’area circostante e buona parte del Cilento erano rimasti sotto il controllo dell’ultimo principe longobardo, Gisulfo II. Salerno cadde dopo un lungo assedio, da maggio a dicembre, a seguito dell’apertura di una delle porte cittadine (12-13 dicembre), anche se Gisulfo resistette nella rocca ancora qualche mese.

Il positivo rapporto del Guiscardo con la città fu orientato da una serie di scelte immediate (distribuzione di viveri a prezzi calmierati, clemenza nei confronti dei difensori della rocca) e soprattutto di lungo periodo, in primo luogo le relazioni con la chiesa locale e con l’arcivescovo Alfano, avvicinatosi ai normanni ancor prima della resa di Gisulfo. Questa vicinanza trovò espressione plastica nella rifondazione della cattedrale, ricostruita in forme monumentali, ispirate al modello cassinese di Desiderio, e dedicata ora a S. Matteo. Qui alcune celebri epigrafi magnificano il ruolo del Guiscardo come duca e come trionfatore sull’Impero, con riferimento alla vittoria del 1081 su Alessio Comneno.

Inoltre il duca non esitò a livello locale a porsi, accortamente, anche come diretto continuatore del principe deposto: ne riprese le emissioni monetarie e gli usi cancellereschi, consentì la prosecuzione della carriera di alcuni ufficiali già attivi in epoca longobarda, e mantenne nel loro rango di signori del territorio alcuni membri della famiglia principesca. Ma per altri versi il Guiscardo non volle assimilarsi al contesto istituzionale salernitano: non assunse il titolo principesco, conservando la dignità ducale, interpretata come attributo personale, che prescindeva dagli spazi di volta in volta effettivamente dominati; e non a caso scomparve nella Salerno normanna, con pochissime eccezioni, il titolo comitale, di cui si fregiava sino ad allora un’ampia élite urbana legata al principe e agli uffici.

Come di consueto, un nuovo salto di qualità nel potere del duca fu seguito da una grave rivolta dei signori pugliesi, determinata dalla richiesta inusitata di auxilium per la dote di una delle figlie del Guiscardo, sposa di Azzo d’Este forse nell’estate del 1078, a Troia. La rivolta che coinvolse vecchi e nuovi oppositori del Guiscardo (Abelardo, il conte Pietro [II], Amico, Goffredo di Conversano e Roberto di Montescaglioso, Enrico di Montesantangelo, Giordano di Capua) e dunque comprese quasi tutta la Puglia, ma si estese anche a Cosenza, durò dall’inizio del 1079 alla metà del 1080 e anche in questo caso si risolse in un incremento di potere del duca che, grazie alle confische, acquisì, oltre a vari centri minori, una città importante come Taranto, permettendo però, ancora una volta, a gran parte dei congiurati di conservare parte delle rispettive signorie.

Va detto che neppure quest’ulteriore espansione modificò le caratteristiche di fondo del potere del Guiscardo sul Mezzogiorno continentale. Lungi dal conseguire coerenza territoriale e istituzionale, tale potere continuava a trarre sostanza essenzialmente dal ruolo militare del duca e rimaneva diverso dalla costruzione politica che parallelamente Ruggero andava completando in Sicilia e in parte della Calabria. Dispersione delle signorie controllate direttamente dal duca, persistenza di un gruppo nutrito di capi che avevano acquisito da sé i propri domini e contrastavano quindi l’egemonia ducale, interpretazione ‘personale’ della sua dignità da parte del Guiscardo: tutti questi fattori inibirono la costituzione di un quadro coerente e conservarono al Mezzogiorno continentale una fisionomia schiettamente signorile, che si mantenne fino all’affermazione piena di Ruggero II.

Domata la rivolta pugliese, eliminate le ultime roccaforti longobarde, il Guiscardo iniziò probabilmente a progettare la spedizione contro Bisanzio, che avrebbe potuto rilanciarne, su un piano ancora più alto, il ruolo a lui più congeniale di capo militare, in un orizzonte di conquista. Accolse dunque i segnali di apertura di Gregorio VII, a sua volta implicato in uno scontro sempre più duro contro Enrico IV, e si accordò con il papa a Ceprano, al confine tra domini della chiesa e principato capuano (giugno del 1080). Il Guiscardo e Giordano di Capua si sottomisero formalmente al papa, che annullò le loro scomuniche e riconobbe di fatto la conquista di Salerno e dell’Abruzzo.

In seguito a questo accordo la politica ecclesiastica di Roberto il Guiscardo si modificò profondamente. Nel ventennio precedente egli aveva operato concessioni solo a monasteri di fondazione normanna, in primo luogo Venosa, e a chiese e monasteri nella ristretta area del suo primo radicamento, fra Calabria settentrionale, Basilicata e Puglia meridionale; era una proiezione ‘interna’ del suo potere, ancora limitata allo spazio di diretto dominio, nonostante la sua autorità politica si proiettasse ormai su scenari ben più ampi. A partire dal 1079-80, i diplomi ducali diventarono molto più numerosi e soprattutto si ampliò il loro raggio e il loro prestigio: erano ora emanati in favore dei vescovati di Troia, Bari, Salerno, per il cenobio emergente della Trinità di Cava e, soprattutto, per la Montecassino di Desiderio, da sempre in posizione di equilibrio fra Papato e normanni. L’accordo ritrovato con Roma sembra dunque aver abolito un’interdizione, permettendo in tal modo di adeguare al rango del duca e all’estensione effettiva della sua autorità politica la relazione con chiese e monasteri meridionali.

La pacificazione interna pose le premesse per la nuova impresa adriatica. Già nel 1074, in cambio di dignità di corte e di cospicue rendite monetarie, Roberto aveva accettato di promettere in sposa una sua figlia, rinominata poi Elena, al figlio infante dell’imperatore Michele VII, ma la deposizione di Michele, nel 1078, a opera di Niceforo Botaniata aveva annullato il progetto e aperto una grave crisi politica interna, in un Impero già in estrema difficoltà, duramente provato dall’avanzata turca e dalla conseguente perdita dell’Asia minore.

Nei mesi successivi al giugno 1080 un impostore, con ogni probabilità un fantoccio dello stesso Guiscardo, giunse in Italia meridionale spacciandosi per l’imperatore deposto e chiedendo di essere reinsediato. Con l’intento di approfittare della situazione, Roberto designò come successore al Ducato Ruggero, figlio suo e di Sichelgaita, e preparò, sia pure con scarso sostegno dei capi normanni, una spedizione navale insieme con l’altro figlio, Boemondo, avuto dal matrimonio con Alberada. Nel marzo 1081 il Guiscardo partì alla volta di Corfù, la cui città principale conquistò in maggio, per poi assediare, sulla costa, Durazzo. Il 18 ottobre 1081 egli aveva sconfitto il nuovo imperatore, Alessio Comneno, salito al trono nell’aprile 1081, e secondo le fonti contemporanee, sia greche sia latine, puntava direttamente alla conquista di Costantinopoli: ma Alessio, convinto anch’egli che il Guiscardo fosse un pericolo effettivo per l’Impero, riorganizzò la resistenza e bloccò nell’inverno 1081-82 l’avanzata dei normanni sulla via Egnatia. A poco valse la conquista di Durazzo (febbraio 1082); Alessio consolidò poi il risultato anche grazie al forzato ritorno in Italia del Guiscardo, determinato nell’aprile 1082 da una nuova rivolta dei signori pugliesi, fomentata dai bizantini stessi, e dalla pressante richiesta d’aiuto da parte di Gregorio VII contro Enrico IV, che stava avvicinandosi in armi a Roma.

La rivolta in Puglia, capeggiata da Abelardo, dal fratellastro Ermanno e da Goffredo di Conversano, fu domata con fatica solo nel luglio 1083, ma Roberto si decise a portare aiuto al papa solo nel marzo 1084, quando la situazione era ormai disperata, chiara indicazione delle priorità politiche del duca: le truppe imperiali avevano nuovamente occupato Roma, Gregorio VII era bloccato a Castel Sant’Angelo, mentre Clemente III (Guiberto di Ravenna) aveva incoronato imperatore Enrico. Il Guiscardo – giunto a Roma con un grande esercito, irrobustito dall’apporto siciliano – salvò dall’assedio il papa, la cui posizione fu però resa insostenibile dalle violenze e dalle distruzioni perpetrate dai soldati normanni, sì che egli dovette rifugiarsi a Salerno.

Nell’ottobre del 1084, Roberto riattraversò l’Adriatico e nel gennaio del 1085 vinse una durissima battaglia navale presso la costa albanese contro una flotta bizantino-veneziana, prima che un’epidemia decimasse i normanni alla fine dell’inverno. Si spostò successivamente a Cefalonia, forse con l’intenzione di cambiare strategia, abbandonando l’ostile entroterra albanese per attaccare il Peloponneso attraverso il golfo di Patrasso. Ma a Cefalonia, assistito dalla moglie Sichelgaita e dal figlio Ruggero, morì per una violentissima febbre, il 17 luglio 1085. Fu sepolto presso la Trinità di Venosa.

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