SALERNO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1999)

SALERNO

F. Aceto

(lat. Salernum)

Città costiera dell'Italia meridionale, capoluogo di provincia della Campania.S. è documentata per la prima volta nel 197 a.C. come castrum destinato ad accogliere una colonia di diritto romano, condizione che mantenne fino alla tarda epoca imperiale. Alla luce dei ritrovamenti archeologici pare accertato che la postazione militare fosse ubicata sul fianco del monte Bonadies, nell'area solcata da diversi torrenti e valloni dove poi si sviluppò l'abitato longobardo. Provvista quasi certamente di mura e forse anche di uno scalo marittimo, essa presidiava militarmente le comunicazioni tra la costa e l'Irpinia e quelle verso la Calabria e il Nord, assicurate dalla via Annia, il cui percorso, in rapporto al centro abitato di età romana, è tuttavia ancora oggetto di discussioni (Avagliano, 1982; Varone, 1982).Coinvolta nella guerra greco-gotica (535-553), S. passò infine sotto il dominio dei Bizantini, prima di essere conquistata dai Longobardi di Benevento, intorno alla metà del 7° secolo. Il silenzio delle fonti su questo evento ha fatto ritenere che la città a quest'epoca fosse diventata secondaria. Il periodo bizantino è illuminato solo da alcune epigrafi funerarie scalate dal sec. 5° al 7°, rinvenute nel frigidarium (sec. 1°-2°) sottostante la chiesa di S. Pietro a Corte, riutilizzato come luogo di culto cristiano (Un accesso, 1988). Assai oscure risultano le vicende della città anche per tutto il primo periodo della dominazione longobarda.Il punto di svolta nello sviluppo urbano di S. è rappresentato dalla decisione del principe di Benevento, Arechi II (774-787), di fortificarla all'indomani della caduta del regno longobardo (774), per crearsi un riparo ben munito di fronte alla minaccia militare dei Franchi e insieme in posizione strategica per il controllo di un bacino viario diverso da quello che faceva perno su Benevento. Oltre a rafforzare le strutture difensive, Arechi II vi costruì anche un palazzo principesco, con relativa cappella, celebrato dalle fonti per la sua grandezza e bellezza (Erchemperto, Hist. Lang., 3; Chronicon Salernitanum, 17; Delogu, 1977, p. 36ss.). L'insediamento della corte, avviando la progressiva configurazione urbana dell'antico castrum, pose le premesse per una ristrutturazione territoriale di tutto il principato longobardo. Infatti l'accresciuto peso politico di S. diede luogo, nell'849, alla divisione dei territori longobardi in due entità politiche indipendenti, il principato di Benevento e quello di S., comprendente fino al 915 anche l'importante contea di Capua.L'assetto urbanistico assunto dalla città, per via di successive addizioni, durante la lunga fase del dominio longobardo, rimase per secoli sostanzialmente inalterato nel suo perimetro esterno, condizionato dalla situazione orografica e dal corso dei torrenti Rafastia e Fusandola, che ne segnavano il limite rispettivamente a E e a O (Delogu, 1977; Amarotta, 1989). L'intervento di Arechi II comportò l'inclusione nella cinta fortificata dell'area a E della cattedrale, nota dalle carte come Ortomagno. Al figlio Grimoaldo I (m. nel 806) si deve invece l'ampliamento verso O, a ridosso del Fusandola - coincidente con il quartiere di Santa Trofimena (od. Fornelle), dove nella seconda metà del sec. 9° si trasferì stabilmente un nucleo di Amalfitani che incrementò la vocazione marittima della città -, e quello verso S, con la costruzione, per ragioni difensive, di un antemurale parallelo alla linea di costa. In questo settore, a ridosso dell'area portuale, segnalato nei documenti con la formula inter murum et muricinum, dal sec. 10° risulta installato un gruppo di ebrei dediti ad attività commerciali e artigianali. All'atto della fondazione, da parte del principe Guaiferio, della chiesa di S. Massimo, documentata a partire dall'865 (Codex diplomaticus Cavensis, 1873-1893, I, nr. 64, p. 79ss.; Ruggiero, 1973), la cerchia delle mura incluse anche l'area a N, in gran parte a verde, nota con il toponimo di Piano del Monte. L'ultimo intervento di fortificazione di un certo peso, datato alla metà del sec. 11°, comportò il prolungamento della cinta a N, fino a comprendere la chiesa di S. Felice in Felline, documentata dal 975 (Codex diplomaticus Cavensis, 1873-1893, VIII, nr. 1252, p. 26), e la turris maior, impiantata sulla sommità del colle Bonadies, attestata dal 1046 (Amato di Montecassino, Storia de' Normanni). Lungo il perimetro delle mura sono documentate sei porte. Sul fronte orientale erano ubicate porta dei Respizzi e porta Nocerina, dalle quali si diramavano due strade pubbliche che tagliavano in senso longitudinale una parte dell'abitato, fino a convergere a N della cattedrale, all'altezza di porta Rotese. Da questa prendeva avvio verso S-E la platea maior, sede del mercato cittadino almeno fino al sec. 13°, il cui tracciato, percorrendo l'Ortomagno, fuoriusciva da porta S. Fortunato, detta poi Elini. Nel tratto meridionale della murazione si aprivano la porta Rateprandi e la porta di Mare. Gli assi stradali longitudinali erano intercettati trasversalmente da altre plateae pubbliche che, adattandosi al declivio del colle, seguivano un percorso coincidente sovente con i canaloni formati dal deflusso delle acque piovane. Il tracciato delle strade pubbliche, approssimativamente ortogonale ma a maglie irregolari, era integrato da un fitto reticolo di vicoli, con passaggi coperti, che costituiscono tuttora una caratteristica della parte antica della città.La ricchezza di dettagli della documentazione d'archivio ha consentito di determinare a grandi linee anche la fisionomia delle abitazioni private della S. longobarda. Nei secc. 10°-11° si tratta per lo più di costruzioni di modeste dimensioni, di norma limitate al piano terreno, oppure costituite dal piano terreno (catodeo) e dal primo piano (solario). Lo sviluppo in altezza delle abitazioni è una caratteristica che si impose dall'età normanna in avanti, come conseguenza diretta dell'incremento della popolazione, che produsse anche il progressivo assottigliamento degli spazi a verde, che costituivano, all'interno della cinta muraria, un complemento delle fabbriche religiose e sovente anche delle abitazioni private. Le case erano in pietra o in legno, in rapporto con la loro destinazione e con le caratteristiche del possesso, ma più diffusamente miste. L'approvvigionamento d'acqua avveniva mediante pozzi di proprietà privata o fistole pubbliche, mentre appare ormai dimostrato che i ponti-canale superstiti non sono anteriori al sec. 12° nelle parti più antiche. Le dimore dell'aristocrazia longobarda, raggruppate per famiglie o per consorzi intorno a una corte comune, si segnalano per la presenza, nelle immediate vicinanze, di una chiesa privata, le cui funzioni erano tuttavia offerte a tutta la popolazione, integrando il sistema delle chiese vescovili e monastiche. Per valutarne l'incidenza nell'organizzazione ecclesiastica, occorre tener conto che esse rappresentavano più della metà delle oltre trenta chiese documentate nella tarda età longobarda.Dalle abitazioni comuni e dell'aristocrazia si distingueva per rango e monumentalità la residenza principesca fondata da Arechi II, ubicata nella parte più bassa dell'abitato altomedievale, l'unica denominata fino al sec. 11° con il termine di palazzo. Sopraelevata, essa comprendeva, oltre ai locali per ospitare la corte e a un'aula con il trono, a N una cappella palatina, dedicata ai ss. Pietro e Paolo, da identificare con l'oratorio di S. Stefano, la sola parte sopravvissuta dell'intero complesso palaziale, sebbene profondamente manomessa. Impostata su un ambiente ipogeo utilizzato come fondazione e provvista di un loggiato, la cappella era completamente deaurata (forse mosaicata; Belting, 1962, p. 171), con iscritto all'interno, in monumentali lettere capitali all'antica, un componimento di sette esametri redatto da Paolo Diacono, di cui sono state recuperate alcune parti (Un accesso, 1988). La qualità dei ritrovamenti archeologici (titolo epigrafico, frammenti di una pavimentazione in opus sectile, tracce di decorazione in stucco) dà conto dell'alto livello culturale della corte di Arechi II, ben documentato tra l'altro dalle iniziative artistiche promosse dal principe a Benevento. Nella prima metà del sec. 10°, il palacium [...] penitus destructum fu restaurato dal principe Guaimario II (Chronicon Salernitanum, 159) e la cappella venne dotata di un campanile, che tuttavia, sulla base di un'attenta valutazione stratigrafica, è stato escluso che possa identificarsi con quello esistente, innalzato non prima del 12° secolo.Oltre alla cappella palatina, interessanti tracce architettoniche altomedievali hanno conservato le chiese di S. Maria della Lama e di S. Massimo. La prima, risalente al sec. 10°-11°, ma trasformata in epoca successiva, aveva la forma di un vano quadrilatero absidato, inglobante resti di fabbriche romane (De Feo, D'Aniello, 1991); la seconda, di cui sopravvivono il titolo epigrafico recante il nome del fondatore e sei colonne di spoglio, era preceduta da un atrio e strutturata dall'origine a due livelli, quello sottostante riservato al principe, quello superiore aperto ai fedeli e articolato in tre navate con un'abside a E. Impianto basilicale e tre absidi aveva anche la distrutta chiesa di S. Maria de domno, edificata alla fine del sec. 10° dal principe Giovanni e dalla consorte Sichelgaita tra il muro e il muricino (Codex diplomaticus Cavensis, 1873-1893, II, nr. 422, p. 289ss.; Amarotta, 1989, p. 192ss.).Alle scarse attestazioni di pittura (affreschi in S. Maria della Lama) fa riscontro per l'epoca longobarda un discreto numero di manufatti scolpiti (capitelli, plutei, pilastrini di recinzione) scalati dal sec. 8° al 10°, di disuguale qualità (Aceto, 1982, p. 89ss.). Alcuni ubbidiscono a modalità compositive e formali generiche, altri invece, di più accusata originalità, confermano, sul terreno della produzione scultorea, la formazione di omogenei orientamenti artistici, intessuti di barbarismi ed echi della tradizione tardoantica, tra i diversi centri della Longobardia Minore.La conquista di S. a opera di Roberto il Guiscardo (1076) e la successiva annessione al regno di Sicilia, se da un lato posero termine alla sua autonomia politica, si rivelarono decisive per la sua immissione in un giro di esperienze culturali di largo raggio. La condizione di floridezza economica raggiunta da S. nel corso del sec. 11°, sulla spinta del considerevole sviluppo delle attività mercantili, era d'altra parte quanto mai favorevole per una forte ripresa di iniziative in campo artistico. Mutarono però le condizioni della produzione. Nella nuova situazione politica, segnata dalla crisi del potere longobardo locale, fu la figura del vescovo, il colto Alfano I - rinsaldato nel suo prestigio dalla solidarietà con i più influenti esponenti del partito della riforma della Chiesa -, a proporsi come punto di riferimento morale della comunità cittadina, interprete, nella dimensione religiosa, dell'orgoglio civico conculcato da Roberto il Guiscardo.La costruzione della nuova cattedrale, condotta a termine nelle sue parti essenziali entro il 1084, rappresentò lo sbocco naturale di questo progetto. Se l'impresa fu agevolata, per devozione e prestigio personale, dal concorso finanziario di Roberto il Guiscardo - celebrato da tre iscrizioni apposte nelle parti più in vista dell'edificio -, le ragioni dell'iniziativa e le peculiarità formali della costruzione trovano la loro più profonda giustificazione nella cultura di Alfano, appena qualche decennio prima mentore della ricostruzione dell'abbaziale di Montecassino, promossa dall'amico Desiderio da Montecassino (v.). Di questa la cattedrale di S. rappresenta una versione ingrandita, nella riproposizione della pianta basilicale di ascendenza paleocristiana - articolata in tre navate da colonne di spoglio, con transetto allineato e continuo, tre absidi e ampio atrio quadrilatero, ma con la novità di un'ampia cripta -, modello di molte chiese campane e pugliesi (Bertaux, 1903; Delogu, 1977; 1992; L'art dans l'Italie, 1978; D'Onofrio, Pace, 1981). Tuttavia le spiccate valenze classicistiche dei titoli epigrafici e della scultura architettonica, le incertezze circa il carattere antico o di copia medievale dell'architrave del portale dell'atrio (Gandolfo, 1995), il dimensionamento delle membrature secondo un rigoroso modulo geometrico (Braca, 1997), il vigile controllo con il quale risultano assemblati i materiali di spoglio, sono tutti elementi che parlano in favore di un disegno progettuale assunto consapevolmente e realizzato in piena autonomia, principalmente come manifestazione degli interessi intellettuali di Alfano, ma le cui motivazioni di fondo erano certamente condivise anche da Roberto il Guiscardo, per le implicazioni 'nobilitanti' del modello architettonico prescelto. Di recente, a una interferenza proprio del duca Roberto è stata ricondotta l'adozione delle tarsie murarie applicate sul nudo paramento del quadriportico (Cadei, 1994, p. 198), un apparato decorativo che in forme e disegni via via più elaborati costituì un connotato peculiare dell'architettura religiosa e civile di S. (palazzo Fruscione, palazzo Pernigotti) e della fascia costiera amalfitana fino all'inoltrato Duecento (Kalby, 1971; L'art dans l'Italie, 1978, V, p. 771ss.). Alfano era ricordato come devoto da un lungo titolo epigrafico a commento del perduto mosaico nell'abside maggiore.La grandiosità del progetto e la contemporanea scomparsa (1085) dei suoi due principali animatori, Alfano e Roberto il Guiscardo, spiegano bene la lentezza con la quale procedette l'opera di fornire alla cattedrale un'adeguata veste decorativa. All'atto della consacrazione (1084), il quadriportico non aveva ancora ricevuto il loggiato superiore, la cui costruzione precede in ogni caso l'elevazione del campanile patrocinata dall'arcivescovo Guglielmo di Ravenna (1137-1152), giacché questo gli si addossa mascherando una bifora (Rosi, 1948). Simile ad altre torri della Campania nell'articolazione muraria dell'alzato, esso si segnala per la colorata cella campanaria cilindrica, cinghiata da archi intrecciati bicromi e da una fascia stellare a intarsi. Successive alla messa in opera dell'incorniciatura marmorea sono anche le ante di bronzo della porta del Paradiso, offerte dal protosebasto Landolfo Botromile e dalla moglie, le ultime in ordine di tempo, ma ancora entro il sec. 11°, della nota serie di ante importate da Costantinopoli. La qualità del progetto alfaniano è dimostrata anche dal livello dell'apparato scultoreo. Le mensole interne e le parti figurate dei portali, specie le due notevoli coppie di leoni, manifestano la riconquistata attitudine, per via di un'attenta rimeditazione dei modelli antichi, a volgere la forma in termini di modellato volumetrico, a quest'epoca con pochi confronti nel Mezzogiorno (Pace, 1997, pp. 220-224).Il vertice delle manifestazioni artistiche salernitane nella prima età normanna è rappresentato dal celebre complesso di avori con Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, proveniente dalla cattedrale (Salerno, Mus. Diocesano; Parigi, Louvre; Budapest, Iparművészeti Múz.; New York, Metropolitan Mus. of Art), da più di un secolo al centro di un acceso dibattito critico, volto ad accertarne epoca, luogo di produzione, destinazione, configurazione originaria (Bergman, 1980; Braca, 1994). Mentre la questione concernente il primitivo ordinamento degli avori (antependium, dossale, urna-reliquiario, cattedra, porta dell'iconostasi) è destinata forse a restare irrisolta, per l'impossibilità materiale di colmare le molte lacune, poco convincente risulta la proposta di dirottarli verso Amalfi, in ragione della generica aura islamizzante degli ornati e delle architetture dei fondali, così come appaiono sfocati i ricorrenti tentativi di ancorarli stilisticamente al generico bizantinismo di matrice cassinese. La valutazione dell'opera, prodotto di un'addestratissima officina padrona di una variegata gamma di modelli iconografici, non può prescindere infatti dall'avvertimento dei grandi fatti della scultura romanica europea, tra i secc. 11° e 12°, affiorante soprattutto nella concentrata energia plastica, animata d'interna passione, delle Storie della Genesi (Bologna, 1955, p. 11ss.): riconoscimento che comporta una conseguente datazione di tutto il complesso nei primi decenni del sec. 12°, nella fase di più intenso dialogo tra il Mezzogiorno e i centri propulsori del Romanico.Nel solco della tradizione campano-cassinese si inscrivono invece il pavimento a intarsio musivo e il recinto dell'altare maggiore a specchiature mosaicate, eseguiti nel secondo quarto del 12° secolo. Una pagina nuova, destinata a riverberare i suoi effetti in Campania almeno per un trentennio, rappresentò la costruzione, tra il 1175 e il 1180, dei due monumentali pulpiti promossa dall'arcivescovo Romualdo II Guarna e dal vicecancelliere del regno Matteo d'Aiello (Glass, 1991, p. 64ss.). Foderati di una rutilante veste musiva, essi sono arricchiti da un corredo plastico di qualità molto alta, eseguito da una maestranza di schietto orientamento classicistico, attiva anche nel chiostro di Monreale. Se da un lato risulta assai tenue il legame con la precedente tradizione campana, nelle cadenze stilistiche e nell'accensione patetica dei due lettorini sono state colte suggestioni della scultura provenzale e della Francia meridionale (Salvini, 1962, p. 204ss.).I rapporti culturali di S. con la Sicilia, così serrati negli ultimi tempi normanni, proseguirono senza cesure anche in epoca sveva, sul filo di una comune temperie bizantineggiante, di cui partecipa tutto il litorale campano. Recano la sua impronta, vivificata da fresche notazioni vegetali, le parti originarie del mosaico nell'abside destra della cattedrale, patrocinato intorno al 1260 da Giovanni da Procida, per tempi e stile prossimo al mosaico nella lunetta interna del portale principale raffigurante S. Matteo (Bologna, 1955, p. 29ss.; 1969, pp. 10, 23-24). Al medesimo indirizzo di cultura, ma a una data entro la metà del Duecento, appartengono altre testimonianze di pittura ad affresco e su tavola: il crocifisso, ridotto a pochi lacerti, proveniente da S. Benedetto (Salerno, Mus. Diocesano); i pannelli votivi emersi nell'ambiente ipogeo di S. Pietro a Corte (Un accesso, 1988); infine quelli in S. Maria della Lama, stilisticamente contigui all'Exultet della cattedrale (Salerno, Mus. Diocesano), la cui esecuzione è disputata tra S. e l'abbazia di Cava de' Tirreni (De Feo, D'Aniello, 1991; D'Aniello, 1994).A parte la cattedrale, molto poco si è conservato degli stabilimenti religiosi innalzati o rinnovati in età normannosveva. La grandiosa fabbrica di Alfano e di Roberto il Guiscardo sembra comunque aver giocato un ruolo normativo, come confermano la chiesa di S. Benedetto e quella del Crocifisso, nota in antico con il nome di S. Maria di Portanova. La prima, fondata con l'annesso cenobio nel sec. 8° (Delogu, 1977, p. 39), venne riedificata tra i secc. 11° e 12° nella forma di un edificio d'impianto basilicale a colonne, preceduto da un quadriportico, di cui sopravvive solo un braccio inserito nella sistemazione moderna del Mus. Archeologico Prov. e Gall. Prov. d'Arte. Schema basilicale triabsidato, privo di atrio ma con l'aggiunta di una cripta, presenta anche la chiesa del Crocifisso, ricordata la prima volta solo nel 1219 (Codice Diplomatico Salernitano, 1931-1946, I, p. 119). Le radicali manomissioni subìte non permettono di precisare in quali forme si atteggiassero invece le chiese degli Ordini mendicanti: S. Francesco, già costruita nel 1238 (Codice Diplomatico Salernitano, 1931-1946, I, pp. 191-193), e S. Domenico, documentata nella prima metà del Duecento e poi rinnovata alla fine del secolo (Codice Diplomatico Salernitano, 1931-1946, I, pp. 406-408; III, pp. 326, 366; Fiore, 1949). A giudicare da alcune tracce superstiti, nei chiostri dei due edifici era svolto il tema delle corsie ad archi intrecciati, utilizzato anche nella coeva architettura civile salernitana, come dimostrano lo stratificato episodio di palazzo Fruscione e - se si deve prestar fede a una delle miniature che illustrano il Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli (Berna, Bürgerbibl., 120 II) - la reggia normanna di S., denominata dalle fonti castel Terracina, insistentemente identificata, ma con scarsa plausibilità, con una casatorre rivestita di tarsie (Kalby, 1971).La posizione di rilievo conquistata da S. come scalo marittimo e sede di una celebre scuola medica si rafforzò con l'avvento degli Angioini. Nel 1272 la città venne elevata da Carlo I (1263-1285) al rango di capitale di un principato autonomo riservato all'erede al trono Carlo II (1285-1309). La presenza di una piccola corte produsse nei decenni finali del Duecento una rivitalizzazione del mercato artistico, aprendo la strada all'arrivo di opere di grande qualità, in linea con gli indirizzi culturali attivati nella capitale (Bologna, 1969; 1992, p. 242ss.). L'episodio di maggiore interesse, nato dall'innesto di più aggiornati modi bolognesi su un fondo di cultura franco-sveva, è rappresentato dalle miniature del Pontificale ad usum Ecclesiae Salernitanae (Salerno, Mus. Diocesano), l'opera più antica di un notevole maestro, autore anche della prima parte di un manoscritto con l'opera di Tito Livio (Parigi, BN, lat. 5690) e, in collaborazione con un miniatore romano, di un messale destinato alla basilica di S. Pietro (Roma, BAV, Arch. S. Pietro, F.16; De Benedictis, Neri Lusanna, 1990). Su un versante sensibile alle novità cimabuesche di Assisi si colloca invece un messale francescano (Salerno, Mus. Diocesano), il cui arrivo è stato messo in connessione con Filippo Minutolo, arcivescovo di S. fino al 1283, titolare di una cappella nel duomo di Napoli affrescata alla fine del secolo da un pittore anch'egli di cultura assisiate, identificato con Montano d'Arezzo. Il messale, opera di un miniatore umbro attivo anche in altri manoscritti, è documentato a S. solo dal sec. 16°, ma in favore di un'antica presenza sua o di fatti culturali analoghi depone il fregio di mensole in prospettiva negli affreschi della chiesa del Crocifisso, i quali per il resto si inseriscono a pieno nel vivo di una circolazione mediterranea di esperienze pittoriche di marca catalano-rossiglionese, che coinvolse direttamente Napoli e altri centri del principato (Melfi, Oppido Lucano).Per il Trecento, alle numerose testimonianze di scultura in marmo - attestate però su un livello di produzione corrente e provinciale, almeno fino all'intervento di Antonio Baboccio nel monumento sepolcrale della regina Margherita di Durazzo (m. nel 1412) - si affianca, nella cattedrale, una francesizzante Madonna lignea dai tratti pungenti, atteggiata in un elegante hanchement, nella quale sono stati intravisti apporti iberici (Bologna, Causa, 1950, p. 79). Poche sono le opere di pittura, ma di qualità sostenuta e, al seguito della capitale, sintonizzate sul dettato moderno che dalla metà del secolo mosse da Avignone e dalle regioni rivierasche del Mediterraneo occidentale: la tavola raffigurante la Madonna con il Bambino, in S. Agostino; la più tarda Pietà oggi al Mus. Diocesano, proveniente dalla chiesa dei Ss. Crispino e Crispiniano, dello stesso pittore che eseguì il guasto affresco con la Madonna con il Bambino e santi nel quadriportico del duomo, nella parete di fondo di un'edicola (Bologna, 1969, p. 332). Alla documentata presenza a Napoli di Niccolò di Tommaso nel corso dell'ottavo decennio del secolo, e forse proprio alla sua mano, si deve invece il Battesimo di Cristo nell'abside sinistra del duomo di S., integrazione ad affresco di un danneggiato mosaico di cultura cavalliniana degli inizi del Trecento.

Bibl.:

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Letteratura critica. - E. Bertaux, L'art dans l'Italie méridionale, 3 voll., Paris 1903 (19682); G. Rosi, L'atrio della cattedrale di Salerno, BArte 33, 1948, pp. 225-238; M. Fiore, Tre monasteri salernitani, Salerno 1949; F. Bologna, R. Causa, Sculture lignee nella Campania, cat., Napoli 1950; F. Bologna, Opere d'arte nel Salernitano, cat., Napoli 1955; H. Belting, Studien zum beneventanischen Hof im 8. Jahrhundert, DOP 16, 1962, pp. 143-193; R. Salvini, Il chiostro di Monreale e la scultura romanica in Sicilia, Palermo 1962; F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli 1266-1414, Roma 1969; L. Kalby, Tarsie ed archi intrecciati nel romanico meridionale, Salerno 1971; B. Ruggiero, Principi, nobiltà e chiesa nel Mezzogiorno longobardo, Napoli 1973; P. Delogu, Mito di una città meridionale, (Salerno, secoli VIII-XI), Napoli 1977; L'art dans l'Italie méridionale. Aggiornamento dell'opera di Emile Bertaux, 4 voll., Roma 1978; R.P. Bergman, The Salerno Ivories, Cambridge (MA)-London 1980; M. D'Onofrio, V. Pace, La Campania (Italia romanica, 4), Milano 1981; A. Amarotta, La cappella palatina di Salerno, Salerno 1982; A. Varone, La colonia romana. Fonti storiche e documenti epigrafici, in Guida alla storia di Salerno e della sua provincia, a cura di A. Leone, G. Vitolo, Salerno 1982, I, pp. 3-31; G. Avagliano, La colonia romana. Impianto urbano e testimonianze archeologiche, ivi, pp. 33-51; F. Aceto, Cultura artistica e produzione figurativa, ivi, pp. 87-112; Un accesso alla storia di Salerno: stratigrafie e materiali dell'area palaziale longobarda, Rassegna storica salernitana, n.s., 5, 1988, pp. 9-63; A. Amarotta, Salerno romana e medievale. Dinamica di un insediamento, Salerno 1989; C. De Benedictis, E. Neri Lusanna, Miniatura umbra del Duecento: diffusione e influenza a Roma e nell'Italia meridionale, StArte, 1990, 1, pp. 9-34; R. De Feo, A. D'Aniello, La chiesa di Santa Maria ''della Lama'' di Salerno, Apollo 7, 1991, pp. 45-60; D.F. Glass, Romanesque Sculpture in Campania (tesi), Pennsylvania Univ. 1991; F. Bologna, Momenti della cultura figurativa nella Campania Medievale, in Storia e civiltà della Campania, a cura di G. Pugliese Carratelli, II, Il Medioevo, Napoli 1992, pp. 192-220; P. Delogu, Patroni, donatori, committenti nell'Italia meridionale longobarda, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell'Alto Medioevo occidentale, "XXXIX Settimana di studio del CISAM, Spoleto 1991", Spoleto 1992, I, pp. 303-334; A. Braca, Gli avori medievali del Museo diocesano di Salerno, Salerno 1994; A. Cadei, Il colore nell'architettura, in L'architettura medievale in Sicilia: la cattedrale di Palermo, Roma 1994, pp. 183-204; A. D'Aniello, Salerno, Museo Diocesano, Exultet, in Exultet, cat., Roma 1994, pp. 393-396; F. Gandolfo, ''Archeologia'' contro epigrafia: il caso dei portali della cattedrale di Salerno, in Napoli, L'Europa. Ricerche di storia dell'arte in onore di Ferdinando Bologna, Roma 1995, pp. 17-20; A. Braca, Oltre Montecassino. La pianta originaria del duomo di Salerno, Rassegna storica salernitana, n. s., 14, 1997, pp. 7-42; V. Pace, La cattedrale di Salerno. Committenza, programma e valenze ideologiche di un monumento di fine XI secolo nell'Italia meridionale, in Desiderio di Montecassino e l'arte della riforma gregoriana, Montecassino 1997, pp. 189-230.F. Aceto

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