Pugliatti, Salvatore

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

Salvatore Pugliatti

Vincenzo Scalisi

Salvatore Pugliatti occupa nella civilistica italiana del Novecento un posto di primissimo piano. Il suo pensiero giuridico è di quelli che dividono il tempo tra un prima e un dopo, creando netta discontinuità con il passato e prospettive nuove per il futuro. Maestro di diritto ineguagliabile, egli è il fondatore della scuola giuridica messinese. Dotato di una visione enciclopedica della cultura, è stato anche letterato, musicologo, critico d’arte, fervido animatore culturale in ogni campo: insomma, un umanista integrale, un gigante della cultura.

La vita

Nato a Messina il 16 marzo 1903, Pugliatti vive, quando ha appena cinque anni, la terribile esperienza del terremoto, che – come egli stesso scriverà – cancella «di colpo la fiaba dell’infanzia» (Il diritto ieri oggi domani. Ultima lezione, Università di Messina 19 dic. 1973, 1993, p. 2) in una città distrutta, da lui attraversata da bambino attonito e dove il suo posto preferito diviene un baraccone in cui sono stati ammassati quasi tutti i libri che si sono salvati dalle macerie.

Consegue il diploma di ragioneria presso il glorioso Istituto tecnico A.M. Jaci di Messina, frequentato tra gli altri da Antonino Giuffrè, il futuro fondatore dell’omonima casa editrice, da Giorgio La Pira e da Salvatore Quasimodo, con i quali egli intesse da subito un fraterno e intimo sodalizio culturale, durato per tutto l’arco delle rispettive esistenze; diverrà così il «soave amico» della famosa poesia quasimodiana Vento a Tindari (1930).

Ottenuta la licenza liceale da esterno a Catania, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Messina, dove si laurea il 5 luglio 1925 con Gioacchino Scaduto relatore, il quale per l’occasione afferma di essere «lieto di laureare un giovane di talento che presto siederà tra noi».

E infatti, dopo una breve esperienza di assistente bibliotecario di ruolo (1926-1930), Pugliatti consegue la libera docenza ed entra a far parte in pianta stabile del corpo docente della facoltà giuridica messinese: quale professore di istituzioni di diritto civile dal 1930, di istituzioni di diritto privato dal 1935, di diritto civile dal 1941 sino al 1973, anno del congedo per raggiunti limiti età. È preside della facoltà dal 1934 sino al 1954, accademico dei Lincei (dal 1956) e rettore dell’Università di Messina dal 1955 al 1976, anno in cui improvvisamente si spegne (il 22 maggio 1976) a Ragusa, in occasione della quindicesima edizione del premio di poesia Vann’Antò, da lui fondato per ricordare un amico poeta scomparso, Giovanni Antonio Di Giacomo.

La concezione integrale della giuridicità

Le costruzioni teorico-concettuali di Pugliatti spaziano in ogni campo del sapere giuridico: dai beni alla proprietà, dalla conoscenza alla pubblicità, dal mandato alla rappresentanza, dalle situazioni soggettive alla responsabilità, dagli atti ai negozi, dalla teoria generale del diritto alla metodologia. Fautore di una concezione integrale della giuridicità, intesa come sintesi di materia e forma, fatto e norma, per Pugliatti ogni fenomeno giuridico si comprende appieno solo attraverso un’opera di «disvelamento», con metodo analitico, di siffatta «dualità».

Nella materia-fatto sono le esigenze, i bisogni, gli interessi, volta a volta presi in considerazione dal diritto, ma immanente e intrinseca vi è anche una prescrittiva carica di valore (Sollen), quale fissata e resa possibile dal continuo concreto divenire storico dell’esperienza, in che consiste l’ordinamento quale legalità sociale originaria della comunità, destinata a riflettersi e a integrarsi con il diritto formalmente stabilito.

La forma-norma o principio di legittimazione è il dato positivo, reso intellegibile (nel senso del gadameriano ‘comprendere’) attraverso l’esegesi e il sistema. Per Pugliatti l’esegesi è «il primo passo verso il sistema» e il sistema a sua volta è da intendere in prospettiva plurale, come unità-molteplicità, ossia quale struttura elastica e aperta, sempre in equilibrio dinamico e mobile, e in grado di accogliere diversi, a volte anche eterogenei e discordi, corpi di norme espressione del complesso e variamente articolato divenire storico dell’esperienza. È lungo le linee portanti segnate da questa duplice direttiva metodologica che Pugliatti reimposta e rifonda, sin dalla metà degli anni Trenta del secolo scorso, gli studi intorno alla proprietà.

La proprietà come «interesse»

È nell’«interesse», secondo Pugliatti, il nucleo portante del fenomeno proprietario, la sua ragione genetica, il centro di unificazione e il principio stesso di individuazione, la cosiddetta terza dimensione di ogni fenomeno giuridico. Scrive testualmente il maestro messinese che, nel caso della proprietà, «il diritto protegge l’interesse alla utilizzazione e allo sfruttamento della cosa nella integrale totalità delle possibilità che essa offre» (La proprietà e le proprietà, in Id., La proprietà nel nuovo diritto, 1954, rist. 1964, p. 159), in sintesi l’interesse alla fruizione e al godimento (compresa la disposizione) di un determinato bene.

L’interesse ha valenza e portata storico-reali, e come tale una carica dissolvitrice sia delle ricorrenti prospettazioni giusnaturalistiche che nel tempo avevano fatto della proprietà una sorta di «integrazione o proiezione della personalità», sia dell’archetipo astratto e generalizzante delle teorizzazioni della modernità (con radici anche nella dogmatica romanistica), riposizionando struttura e funzione proprietarie nella concreta e complessa trama dei rapporti sociali.

Per lo studio della proprietà, così finalmente rimesso «con i piedi per terra», era una ripartenza dal «basso». Tentativi in tal senso non erano invero al tempo mancati, specie in opposizione e a superamento della concezione allora dominante, d’impronta pandettistica, tutta incentrata sui poteri spettanti al proprietario e la proprietà stessa raffigurante quale dimensione del soggetto, anzi come lo stesso soggetto in azione. Ma riconsiderare la proprietà – come allora si disse – «da sotto in sù» aveva significato, per diversi autori nostrani (Enrico Finzi, Filippo Vassalli) ma anche d’oltralpe (Franz Wieacker, Franz Schlegelberger, Louis Josserand), partire dai beni e dagli statuti a essi riservati.

Si era però trattato di impostazioni unilaterali e riduzionistiche, manifestamente inappaganti, sia perché relegavano in posizione subalterna il preminente e primario termine di riferimento dell’esperienza giuridica (ossia il soggetto), sia anche perché, con singolare inversione, presupponevano una qualificazione ex ante del bene in quanto tale, che invece solo può conseguire a una valutazione ex post, in ragione del fatto che lo stesso possa formare oggetto di diritti (art. 810 del vigente c.c., ma anche art. 406 di quello previgente), alla cui previa identificazione soltanto – e non viceversa – si commisura e rapporta alla funzione strumentale di ogni bene quale potenziale fonte di utilità.

La nozione di interesse consentiva di scongiurare siffatti inconvenienti, in quanto se da un verso dava ragione del necessario collegamento funzionale della proprietà al bene, nel contempo ne evitava l’assorbimento e la risoluzione in esso (come pure nel correlativo statuto), restituendo altresì centralità di posizione ai soggetti protagonisti della vicenda proprietaria, ma in funzione ora dei diversi e vari ordini e piani di interessi in gioco elevati a criterio di commisurazione sia dei poteri spettanti al proprietario sia delle varie limitazioni legalmente imposte, una categoria quest’ultima tanto esaminata e inquisita quanto sino ad allora incompresa nelle sue reali ed effettive finalità.

La proprietà come situazione «complessa»

Analizzato in termini di interessi ed esigenze reali di vita, l’istituto proprietario rivela, secondo Pugliatti, una struttura complessa, e si presenta sotto una pluralità più o meno ricca di atteggiamenti, determinata dalla combinazione (sullo stesso piedistallo dell’interesse fondamentale oggetto della tutela) di vari interessi, anche di vari ordini (interessi pubblici e privati) e di diversa rilevanza (principali e accessori), tutti fatti oggetto di apposita tutela.

In questo singolare e complesso intreccio di relazioni assiologiche, diversi fili reggono la trama: quello soggettivo (inteso in senso sia qualitativo sia quantitativo), quello oggettivo (per l’aspetto che concerne la struttura del diritto, ma anche per quello che attiene alla peculiarità dei beni), e ancora il momento statico e quello dinamico (con riguardo soprattutto al legame con il lavoro e l’impresa).

I profili indicati costituiscono altrettante teste di capitoli, in cui si articola il saggio pugliattiano di maggiore compiutezza dogmatica e di più ampio respiro sistematico, intitolato La proprietà e le proprietà (con particolare riguardo alla proprietà terriera) (in Atti del terzo congresso nazionale di diritto agrario, Palermo 19-23 ottobre 1952, a cura di S.O. Cascio, 1954, pp. 46 e segg., poi in Id., La proprietà nel nuovo diritto, 1954, pp. 145 e segg.), il quale rappresenta un vero e proprio «bagno di fattualità» o, se si vuole, di «storicità» (Grossi 2002), per la penetrazione e lo scavo teorico senza precedenti che esso offre delle grandi trasformazioni già all’epoca intervenute non solo a livello di legislazione ma anche e ancor prima sul piano della realtà storico-sociale. In quanto tale, il saggio inaugura l’ingresso ufficiale della postmodernità anche nel fortino del diritto civile, consacrando in Pugliatti il giurista teorico della complessità sociale anche nel tema specifico della proprietà.

Il senso della svolta si coglie soprattutto sotto duplice e concomitante aspetto: anzitutto per l’impiego di una metodologia di tipo nuovo, pluralista, facente leva sul pensiero del molteplice, quale necessità di coniugare al plurale anche la disciplina della proprietà, modellandola e rendendola aderente alla complessità del dato storico-sociale; in secondo luogo per il recupero anche della «diversità» insita nella complessità, diversità da valutare non più, secondo l’ottica tradizionale, come «deviazione» da sospingere nel paradigma regola-eccezione, bensì quale dimensione fenomenica dotata – anche per indicazione desumibile dallo stesso art. 3, 2° co., della Costituzione – di uguale valore e legittimità, come tale provvista anch’essa di pari valenza sistematica e conformativa.

L’istituto proprietario poteva così dirsi restituito alle sue reali dimensioni storico-sociali, che sono quelle di un istituto immerso anch’esso nel mare inquieto, liquido e fluido, della postmodernità, non più in grado di contare su caratteristiche stabili e permanenti, ma definibili e determinabili soltanto volta per volta.

Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di proprietà

La natura dell’interesse protetto genera la prima grande dicotomia: quella tra proprietà pubblica e proprietà privata.

La prima gravita sull’interesse pubblico, su un interesse cioè che fa capo all’intera collettività e come tale viene assunto a oggetto immediato e diretto della tutela giuridica, nella forma dell’«appartenenza», a volte esclusiva, dei beni allo Stato e/o agli altri enti pubblici territoriali (regioni, province, comuni). Di qui la qualificazione della proprietà pubblica anche come «proprietà funzionale» (ossia strumentale all’adempimento di una pubblica funzione per l’attuazione di un pubblico interesse). Vi rientrano le differenti tipologie di demanio sia necessario sia accidentale, privata invece essendo la proprietà avente a oggetto il patrimonio sia disponibile sia indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici. La proprietà pubblica non esclude tuttavia la tutela in varia misura e intensità anche di interessi privati, come la garanzia del comune uso diretto degli stessi beni da parte dei consociati o l'autorizzazione o la concessione di particolari o eccezionali usi.

L’assunto vale reciprocamente per la proprietà privata. Solo con riferimento ai beni di consumo destinati unicamente a servire al singolo, può dirsi garantito l’interesse individuale alla esclusività e totalità delle utilizzazioni della cosa. In tutti gli altri casi, l’interesse privato, per quanto costituente l’oggetto immediato e diretto della protezione giuridica, subisce l’infiltrazione e l’innesto dell’interesse pubblico, tra cui anche la tutela dell’interesse di terzi estranei, sicché in ultima istanza il diritto di proprietà si presenta quasi sempre come la risultante del prodotto dei due termini: l’interesse privato e l’interesse pubblico, in rapporto costante, e però secondo valori variabili e in equilibrio mutevole, a seconda delle attitudini satisfattive delle diverse categorie di oggetti e delle differenti tipologie di limiti, oneri e obblighi imposti al proprietario in funzione dei concreti bisogni pratici (della collettività o anche di terzi) volta a volta da soddisfare.

La «funzione sociale» e le diverse gradazioni delle forme di appartenenza

Sebbene direttamente insediantesi «sul tronco del diritto di proprietà», l’interesse pubblico non consente ancora, secondo Pugliatti, che possa parlarsi, in base alla normativa codicistica, di funzione sociale della proprietà (privata), fatta eccezione per le sole ipotesi di limitazioni aventi come contenuto un obbligo positivo del proprietario finalizzato proprio alla sua attuazione (la cosiddetta proprietà privata obbligata a fini pubblici). La svolta è invece segnata dalla disposizione dell’art. 42, 2° co., della Costituzione, avente – in forza del principio della massima attuazione della Costituzione – immediata efficacia precettiva e costituente in quanto tale «il cemento, l’idea unificatrice, il principio sistematico organizzatore» di tutte le disposizioni in tema di proprietà.

Se già non lo era, «la proprietà si avvia[va così] ad essere», secondo Pugliatti, strumento di realizzazione di una complessa e poliedrica «funzione sociale», in quanto situazione giuridica polarizzata ad accogliere al suo interno la realizzazione di finalità di carattere sociale, quali quelle (razionale sfruttamento del suolo ed equi rapporti sociali) indicate in ordine alla proprietà terriera dall’art. 44 della Costituzione, disposizione quest’ultima da leggere in stretto e diretto collegamento con l’art. 42.

Non sempre la futura legislazione avrebbe corrisposto alle attese, ma la direzione di marcia poteva considerarsi ormai tracciata lungo linee sicure e obbligate, riassumibili quanto meno in un triplice corollario: potere-obbligo facente capo al legislatore ordinario di emanare norme per il conseguimento di scopi di carattere sociale; carattere non eccezionale delle disposizioni rivolte all’attuazione di siffatti scopi, applicabili in quanto tali per via analogica; oltrepassamento e anzi definitivo superamento del concetto stesso di limite, ad avviso di Pugliatti costituente, con la sua operatività esterna e quasi meccanica, il più grave impaccio a una chiara visione delle problematiche proprietarie, contribuendo a tenere in vita un’idea di proprietà, da tempo – sono parole sue - «morta e sepolta, senza cerimonie e senza onori».

In considerazione di quanto precede, la situazione proprietaria può conoscere, e di fatto ormai conosce, diverse e più o meno accentuate gradazioni di appartenenza, atteggiandosi, in relazione alla particolare destinazione dei beni e alla diversa natura degli interessi protetti, ora come proprietà condizionata o risolubile e ora come proprietà soltanto attenuata o compressa o addirittura meramente formale (quale proprietà-legittimazione, ma con godimento spettante ad altri), sino a ridursi in alcuni casi a semplice diritto affievolito o mero interesse legittimo (istruttive, per le diverse ipotesi, la normativa sulle terre incolte e le varie leggi di riforma agraria), o a trasformarsi a volte in vera e propria forma di proprietà sociale (nei limiti e modi di cui al già citato art. 44 della Costituzione) e in altri casi ancora a estinguersi del tutto (espropriazione ex art. 838 c.c.). E mano a mano che altri istituti, quali, per es., il lavoro e l’impresa, portatori di interessi e finalità di schietta natura sociale, vengono a contatto con la proprietà per «riscattarla dall’inerzia e dalla improduttiva stasi», ulteriori gradazioni prendono corpo a segnalare altrettante trasformazioni del paradigma proprietario.

Un principio poteva così dirsi ormai definitivamente acquisito all'investigazione scientifica sul tema, e cioè che contenuto e struttura del diritto proprietà non sono più (se mai prima lo erano stati) definibili a priori e una volta per tutte, ma soltanto a posteriori, in quanto volta a volta dipendenti dal grado di incidenza e dal vario dosaggio, nel nucleo interno del diritto, del gioco combinato di interesse privato e finalità di pubblico interesse perseguite dall’ordine giuridico anche in ragione della diversa e particolare importanza sociale dei beni.

Proprietà collettiva, res incorporales e complessi di beni

Sul fronte soggettivo, l’attenzione di Pugliatti è attratta dal fenomeno della «proprietà dei più insieme», nelle fattispecie più significative della comproprietà e del condominio sia per quote sia a mani riunite. Qui il persistente attaccamento al paradigma (di origine romanistica) della proprietà solitaria e all’individualità del dominio aveva reso quasi impossibile la soluzione del problema, che è quello di come conciliare la pluralità dei soggetti titolari (contitolarità) con l’unità della situazione giuridica di proprietà. La serrata critica pugliattiana mette in chiaro, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’assoluta improponibilità dei ricorrenti e soliti artifici logici, facenti leva ora sulla moltiplicazione dell’unità originaria attraverso la divisione dell’oggetto in quote, e ora all’opposto sull’escamotage dell'unificazione della pluralità soggettiva sotto lo schermo della personalità giuridica.

La corretta soluzione del problema passa ancora una volta per la valorizzazione di ciò che deve ritenersi l’effettivo e concreto centro di gravitazione del fenomeno, ossia il comune interesse del gruppo, quale forza coesiva che, in quanto sostenuta da un'altrettanto comune destinazione di uso del bene, risolve la pluralità soggettiva in unità collettiva a cui appartiene la cosa: non quindi spettante ai singoli divisamente, ma neppure alla totalità personificata. Lo schema è quello offerto da una realtà antichissima e sempre ritornante, la proprietà collettiva, di cui numerose e diverse potevano dirsi anche al tempo le applicazioni emergenti dall’esperienza (comunioni tacite familiari, comunioni coniugali, comunioni a mani riunite, maso chiuso, varie specie di usi civici e domini o demani collettivi) e di cui un riconoscimento doveva secondo Pugliatti rinvenirsi nella stessa carta costituzionale all’art. 43, laddove si fa riferimento a «comunità di lavoratori o di utenti».

Anche la considerazione dell’oggetto consente a Pugliatti di procedere a ulteriori puntualizzazioni di ordine sistematico. Perché se, sotto il profilo della struttura del diritto, si conferma l’esistenza di situazioni di scissione tra proprietà formale, cioè come mera titolarità, e proprietà sostanziale, cioè come effettivo godimento (distinzione evocante il tema già allora controverso della dissociazione tra proprietà e controllo della ricchezza), avuto riguardo invece alla particolare natura del bene oggetto del diritto, la situazione proprietaria nella sua configurazione normale sembra legarsi strettamente alla corporalità della cosa. Sicché, se la cosiddetta proprietà dei beni immateriali non è più che una generalizzazione soltanto verbaleper indicare «diritti di vario contenuto, relativi a interessi che presentano soltanto generiche analogie, e non si inquadrano in uno schema unico» (La proprietà e le proprietà, cit., p. 251), un problema di appartenenza proprietaria neppure si pone per i cosiddetti complessi di beni quali universitas, azienda o eredità, risolvendosi un tale problema integralmente in quello che concerne i singoli beni costituenti il complesso.

Proprietà conformata e pluralità di statuti proprietari

Se così disomogenea e «divisa» appariva all’analisi la materia-fatto sottesa al fenomeno proprietario, anche la forma-norma, ossia il principio di legittimazione e la stessa qualificazione giuridica, non poteva non restarne condizionata, evidenziando il definitivo trapasso, anche a livello di diritto positivo, della proprietà nelle proprietà, in quanto situazione ormai contraddistinta da una pluralità e molteplicità di statuti normativi, a seconda anche della particolare natura e destinazione dei beni.

Per Pugliatti il «dato positivo» è il punto di verifica obbligato di ogni indagine scientifica intorno al diritto e pertanto, già in uno dei primi scritti (Interesse pubblico e interesse privato, 1935), così egli scrive:

Il diritto di proprietà è, come diritto, una creazione della legge; questa, nel foggiarlo e nel definirlo, obbedisce ad esigenze d’indole generale; tali esigenze si riflettono inevitabilmente in quello (in La prorpietà nel nuovo diritto, cit., p. 4).

L’idea moderna di «proprietà conformata», che, come non mancherà di sottolineare lo stesso Pugliatti in scritti successivi, è anche a base dello stesso art. 42, 2° co., della Costituzione, nasce da qui: dalla consapevolezza che la realtà storico-sociale – sono ancora parole del maestro messinese – non è livellabile «colla falce della legge», legge che invece è chiamata a rispecchiarla in tutta la sua complessità, per farsene al tempo stesso tutrice e garante.

L’appartenenza proprietaria appare ormai degradata nell'impostazione pugliattiana da potere a semplice titolo di legittimazione al godimento, e come tale destinata a subire il concorso di altri possibili titoli di legittimazione alla utilizzazione del medesimo bene, quale volta a volta la norma istituisce anche in favore di soggetti non proprietari o della stessa collettività, sulla base di una valutazione ponderata dei diversi interessi in campo, privati e pubblici, individuali e collettivi, volta a volta interferenti e coinvolti nella gestione dei beni.

In conclusione, gli studi pugliattiani in tema di proprietà, per quanto su alcuni punti possano – come è ovvio che sia – apparire datati, restano di straordinaria attualità, non fosse altro che sotto il decisivo profilo della metodologia impiegata, una metodologia – come dichiara lo stesso Pugliatti – di tipo storico-realistico, che potremmo anche definire metodologia della complessità, facente leva per un verso sul dato costante della confluenza nella situazione proprietaria, accanto all’interesse del proprietario, di una pluralità e varietà di altri interessi (della collettività o anche dei terzi), e per altro verso sul dato variabile del differente atteggiarsi nei diversi casi del rapporto tra i vari piani e ordini di interessi, con il diritto in ogni caso chiamato a trovare di volta in volta il giusto punto di equilibrio e di contemperamento sulla base della particolare posizione dei soggetti portatori degli interessi coinvolti e della peculiare natura delle utilità offerte dai beni.

Il tutto senza la pregiudiziale e aprioristica assunzione di alcun contenuto minimo proprietario da salvaguardare a ogni costo, ma in un’ottica di bilanciamento e di proporzionalità, la stessa cui negli anni a venire, soprattutto su alcuni temi (per es., l'indennità di espropriazione), si sarebbe ispirata la giurisprudenza non solo delle corti nazionali ma anche di quelle europee, in particolare la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Corte di giustizia dell’Unione.

Opere

La proprietà nel nuovo diritto, Milano 1954, rist. 1964.

Scritti giuridici, a cura della facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Messina, 6 voll., Milano 2008-2012.

Bibliografia

L’opera di Salvatore Pugliatti, dossier di «Rivista di diritto civile», 1978, 5, pp. 534-613 (in partic. A. Falzea, Salvatore Pugliatti, il maestro, pp. 534-40, poi in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, 3° vol., Scritti di occasione, Milano 2010, pp. 51 e segg.; F. Santoro-Passarelli, La proprietà, pp. 569-75).

A. Falzea, Dalla scuola dell’apprendimento alla scuola dell’insegnamento, in Scritti in onore dell'Istituto tecnico commerciale 'Antonio Maria Jaci' di Messina nel CXX anniversario della fondazione, 1862-1982, Messina 1982, 1° vol., pp. 183-98, poi in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, 1° vol., Teoria generale del diritto, Milano 1999, pp. 565-82.

V. Scalisi, Proprietà e governo democratico dell’economia, «Rivista di diritto civile», 1985, 1, pp. 221-39.

P. Grossi, Presenze vigili: Salvatore Pugliatti, un civilista inquieto, in Id., La cultura del civilista italiano, Milano 2002, pp. 95-119, poi in Id., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Milano 2008, pp. 531-55.

Salvatore Pugliatti giurista. Ricordo nel I centenario della nascita (1903-2003), dossier di «Rivista di diritto civile», 2003, 6, pp. 559-654 (in partic. V. Scalisi, Teoria e metodo in Salvatore Pugliatti. Attualità di un insegnamento, poi in Id., Fonti, teoria, metodo. Alla ricerca della 'regola giuridica' nell’epoca della postmodernità, Milano 2012, pp. 187 e segg.; A. Falzea, Salvatore Pugliatti giurista innovatore, pp. 589-96, poi in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, 3° vol., Scritti di occasione, Milano 2010, pp. 357-69; A. Gambaro, Salvatore Pugliatti e la proprietà moderna, pp. 633-38).

P. Grossi, L’avvio di un itinerario scientifico. Una lettura del primo volume degli 'Scritti giuridici' di Salvatore Pugliatti, «Rivista di diritto civile», 2009, 4, pp. 365-84.

V. Scalisi, I professori del genere civilistico istituzionale a Messina. Dalla tragedia del terremoto al secondo conflitto mondiale, in La Facoltà di Giurisprudenza della Regia Università degli Studi di Messina, 1908-1946, a cura di G. Pace Gravina, Messina 2009, pp. 137 e segg., poi in Id., Fonti, teoria, metodo. Alla ricerca della 'regola giuridica' nell’epoca della postmodernità, Milano 2012, pp. 141 e segg.

V. Scalisi, Dalla scuola di Messina un contributo per l’Europa, «Rivista di diritto civile», 2012, 1, pp. 1-28, poi in Id., Fonti, teoria, metodo. Alla ricerca della 'regola giuridica' nell’epoca della postmodernità, Milano 2012, pp. 261 e segg.

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