CARLO Borromeo, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARLO Borromeo, santo

Michel De Certeau

Nato il 2 ottobre 1538 nel castello di Arona, ai bordi del lago Maggiore, terzogenito di Gilberto, conte di Arona, e di Margherita de' Medici, apparteneva ad un'antica e ricca famiglia originaria di Padova. Alle origini c'è una famiglia e un nome (la cui forma primitiva, "Buon Romeo", è la firma che adottò C. in parecchie lettere di gioventù). Tutti e due sono sempre stati preziosi a questo cadetto di buona famiglia. La nobiltà e antichità dei Borromeo gli erano care. Le dignità ecclesiastiche e la fulminante carriera le dovette d'altronde alla famiglia e soprattutto allo zio materno, il cardinale Giov. Angelo de' Medici, eletto papa il 25 dic. 1559 con il nome di Pio IV: un mese dopo, il 31 genn. 1560, il papa fece cardinale il nipote di ventidue anni accorso a Roma, affidandogli la segreteria di Stato e (l'8 febbr. 1560) l'amministrazione perpetua dell'arcidiocesi di Milano. Nello stesso tempo nominò Federico, fratello maggiore di C., al comando dell'esercito pontificio. Una strategia famigliare organizza il gioco delle posizioni e delle forze che legano ogni membro agli altri. Il cardinale restò fedele a questi vincoli di sangue, impiegando molte energie per "difendere gli interessi della famiglia", per sposare le tre sorelle a dei principi (Camilla a Cesare Gonzaga, Geronima a Fabrizio Gesualdo e Anna a Fabrizio Colonna), per dotare la nipote Margherita Gonzaga grazie ad un prestito di 25.000 scudi del duca di Toscana, per sistemare i cugini Carlo e Federico, ecc.

La rete delle alleanze famigliari costituiva una unità di potere. Questo referente clanico restò una costante dell'azione di C., così abile nella scelta dei "fedeli" e nella formazione di una "clientela" sul modello della "familia", da organizzare una "milizia ecclesiastica" intesa come "un manipolo di pastori pronti a tutto… per le anime… sotto la direzione del vescovo" (G. Maioli, Temi di spiritualità in s. C. B., in La scuola cattolica, XCIII[1965], p. 467).L'ideale presbiterale di C. consisteva nel creare un "corpo", distinto dagli altri, le cui parti si collegavano organicamente e obbedivano tutte a una testa. "Voi siete i miei occhi, le mie orecchie, le mie mani" diceva loro: le metafore organiche, così frequenti nei suoi discorsi, avevano in lui valore letterale. Esse indicavano il modello biologico e clanico al quale si riferiranno con particolare attaccamento tanti vescovi (nobili) della Controriforma. Si trattava di trasformare le diocesi in storie di famiglia sacerdotali, storie d'altronde parallele a quelle di molte congregazioni religiose e loro concorrenti. La famiglia è dunque, nell'opaco della storia, il fondamento di questa milizia costantemente mobilitata e unita in ragione della sua eccezionale "nobiltà" e "grandezza".

L'ascesa famigliare dei Borromeo s'inscrive anche nel movimento di una espansione e quasi di una "conquista" milanese di Roma. Era il tempo in cui milanesi e lombardi affluivano a Roma: architetti, scultori, fonditori, orefici, armaioli, ecc. La Confraternita dei milanesi, fondata a Roma nel 1471, prosperava. Uomini d'azione venuti dal Nord partecipavano efficacemente alla trasformazione del Papato rinascimentale e mediceo in capitale della Controriforma trionfante sotto Sisto V e Clemente VIII. Uno stile nuovo si impose, amministrativo e tecnico, costruttore e pragmatico. Come al tempo di s. Ambrogio, Milano, i cui cittadini acquistarono al Sud una nuova influenza, divenne un centro rivale di Roma. Della sua residenza a Milano, la prima effettiva dopo un secolo, l'arcivescovo Borromeo farà un atto politico. Lavorerà alla gloria della sua patria milanese: l'installazione di questo arcivescovo e quasi papa rafforzerà il nazionalismo lombardo che del resto gli frutterà bene.

Tonsurato e nominato abate commendatario dell'abbazia dei SS. Graziano e Felino di Arona (13 ottobre e 20 nov. 1545, a soli sette anni), a partire dal novembre del 1552 studente di diritto a Pavia sotto la direzione di Francesco Alciati, dottore inutroque iure il 6 dic. 1559, C., votato alla prelatura in quanto cadetto, era portato più alle lettere che alle armi. La sua passione per la caccia era solo un diversivo. Ricevette una formazione classica. Il diritto l'orientò forse verso quelle tecniche dell'azione e dell'"occasione" che postulavano allora un primato della produzione e della "meccanica" sociali sulla "natura"; esso si congiungeva in ogni caso al suo gusto per la precisione, per la meticolosità del dettaglio.

Lo studente leggeva molto. Nel 1551 lamentava già una deficienza di libri e chiedeva al padre di inviargli un Plinio, il De animalibus di Aristotele e un Sallustio. Arcivescovo di Milano, avrà una ricchissima biblioteca e persino un museo privato importante. Ma se nella giovinezza scrisse Rime diverse, si tratta di poesie perdute, lirismo effimero, svanito. A Roma fondò l'Accademia delle Notti Vaticane: per tre anni (1562-1565)un'assemblea di futuri vescovi e cardinali discusse di Cicerone, Tito Livio, Lucrezio, Virgilio (Georgiche), Varrone (De re rustica), Aristotele (Retorica), ecc., ma abbandonò a poco a poco questa letteratura profana per soggetti più sacri, scritturali e patristici. Una tradizione umanistica del Rinascimento, venerata come una reliquia, si rivolse verso il riformismo religioso. Se C. leggerà sempre e dappertutto, portandosi appresso casse di libri nel corso delle visite pastorali, egli accentuò questa evoluzione verso una cultura destinata all'utilizzazione pastorale: i Padri della Chiesa (soprattutto quei modelli che sono Ambrogio e Cipriano) e gli esegeti e commentatori della Scrittura. Come la sua stessa esistenza, i suoi libri dovevano servire l'azione programmata dal concilio.

Francesco di Sales giudica il suo collega milanese con un certo distacco e persino alterigia savoiardi, quando scrive, a proposito della sua predicazione: "il beato Carlo Borromeo aveva una scienza assai mediocre e tuttavia faceva meraviglie" (Oeuvres, XII, Annecy 1902, pp. 301, 324). "Mediocre" significa "onesto" nel suo francese, ma significa anche giudicare il discorso di C., dalla superficie un po' compassata ed austera, adorna solo di riferimenti biblici e priva della ricchezza lirica di citazioni, allusioni e perifrasi letterarie che animano la prosa di Francesco di Sales. Non è tuttavia meno vero che, al contrario del vescovo di Annecy, al "papa" milanese mancava ogni passione dottrinale o teorica: egli utilizzava ciò che era detto e ben detto e che ormai occorreva fare o rifare.

A Roma, a partire dal 1560, le cariche e i beni si accumulano. Abate commendatario di una dozzina di abbazie, legato di Romagna, protettore del regno di Portogallo e dei Paesi Bassi, arciprete di S. Maria Maggiore, gran penitenziere, amministratore della diocesi di Milano, soprattutto segretario di Stato, sistemato alla testa di una "casa" di 150 persone (che egli voleva tutte vestite di velluto nero), il cardinale aveva come compito essenziale quello di trattare con i diplomatici accreditati presso la S. Sede e di regolare gli affari correnti con lettere, istruzioni, ordinanze. Il suo segretario intimo, Tolomeo Gallio, futuro cardinale di Como, garantiva il servizio e redigeva i testi.

Sebbene negli affari di politica generale prevalessero i consigli dei cardinali Morone e Hosius, e Morone svolgesse la parte decisiva nella conclusione del concilio di Trento (1562-1565), dopo la morte dei cardinali Gonzaga e Seripando, Pio IV riponeva intera fiducia in questo giovane "di natura freddo e per consuetudine timido al papa" secondo Francesco Tonina, agente mantovano. Non lo sospettava affatto di minacciare la sua autorità o di intervenire negli affari per il tramite di potenze straniere. Aveva d'altronde detto di volere "un segretario e non un maestro di palazzo".

I numerosi interventi di C. erano di tipo amministrativo e diplomatico. Così nella corrispondenza con il nunzio di Napoli (1560-63), moltiplicò i consigli sui cento e più modi di indurre i vescovi vecchi del Sud a fare il viaggio di Trento (promesse di grazie, invio di monitori, immagini minacciose del rancore pontificio, ecc.), senza fidarsi dei certificati medici presentati dai vescovi. In ciò era fedele esecutore di Pio IV, che espresse nel 1561 al delegato di Venezia il suo desiderio di "haver de nostri Italiani per ogni rispetto quel maggiore numero che potemo" (ConciliumTridentinum, ed. Soc. Goerresiana, VIII, Friburgi Br. 1919, p. 241). La sua fortuna era considerevole, come risulta dall'inventario che ne fece nel 1563 l'ambasciatore veneziano C. Soranzo. Ma la sua stima sembra anche troppo debole: Bascapé, biografo di C., parlo di 90.000 scudi. Se ci si attiene invece ai calcoli di Soranzo, il cardinale disponeva di un entrata annua di circa 52.000 scudi; nel 1565, di 57.000 scudi (dei quali 16.000 provenienti dai territori spagnoli sarebbero stati in sofferenza). Tratto caratteristico: a parte quattro galere, queste rendite erano di origine fondiaria. C. era un grande proprietario. La sua economia pastorale ne portò il segno. Essa consisterà nel distribuire "terre" a buoni fittavoli (i pastori), a visitarli e controllarli. Era geografica e territoriale, mirava ad un miglior rendimento (in termini di raccolti e di "frutti") dei terreni (le parrocchie) affidati ad economi zelanti. La gestione dei beni fondiari restò il modello della amministrazione ecclesiastica.

Una "conversione" indusse C. a farsi ordinare prete (17 luglio 1563) e farsi consacrare vescovo il 7 dicembre seguente, "giorno di Sant'Ambrogio", come scrisse alla sorella monaca, Corona. Vari elementi ebbero parte in questa decisione: la morte improvvisa e per lui sconvolgente del fratello maggiore Federico (1562), che egli avrebbe dovuto sostituire nella carriera delle armi e alla testa della famiglia; le sue relazioni con i gesuiti (faceva gli esercizi spirituali sotto la direzione del padre Giovanni Battista Ribera) e con i teatini (gli si rimproverò di essersi "dato… quasi a una vita theatina" e il cardinale Altemps parlò delle sue "theatinerie"); la conoscenza del domenicano Bartolomeo de Martiribus, arcivescovo di Braga, venuto a Roma nel settembre del 1563 per la fine del concilio e al quale C. scrisse: "la vostra figura è costantemente davanti ai miei occhi, io vi ho preso per modello" (P. Broutin, La réforme pastorale en France au XVIIe siècle, Paris 1956, p. 96).

Per questo giovane che ieri, dimentico del passato, galoppava allegramente attraverso l'Italia per raggiungere il nuovo papa (vedi la sua lettera del 6 genn. 1560), l'insieme dei testi votati dal concilio di Trento nel 1562-63 presentava lo ideale, offerto ad un'ambizione più alta e legato all'urgenza dei tempi, della eminente dignità e dei doveri del vescovo. Per tutta la vita i canones reformationis generalis di Trento ebbero per C. il valore di una rivelazione decisiva. Egli assistette e collaborò alla produzione di questa immagine del vescovo, eroe mitico della riforma attesa dalla cristianità. Ma C. era uomo d'azione: "huomo di frutto et non di fiore, de' fatti et non di parole" a dire del cardinal Seripando. Voleva "applicare" e passò all'azione.

Di C. è difficilissimo scoprire il volto, celato dietro la funzione che egli esercitava e quindi il movimento di conversione che ve lo condusse. Ma questa riservatezza sembra la conversione stessa. Venendo dopo tanti Specchi del vescovo, genere letterario che faceva furore, ma confermandoli e universalizzandoli, i canoni di Trento produssero la "immagine" che C. rese effettuale. Egli s'identificò con questa immagine, la nutrì con la sua vita, sapendo che il discorso passa nel reale a prezzo del sangue: sanguinis ministri, erano per lui i veri preti. Egli realizzò dunque l'immagine perdendovisi. Mise tutta la sua "passione" a riprodurla, a fare del suo corpo il sacramento del ritratto episcopale, ad essere il martire del modello, prima di divenirne a sua volta la rappresentazione agiografica. Una regola data ai preti dal concilio era: "se componere" (ConciliumTridentinum, VIII, p. 965), conformarsi al ruolo, trasformarsi alla lettera.

Questo movimento si ripeterà nella concezione che C. ebbe della retorica: passare dal modello al volere, dal dire al fare. Che il "testo prenda corpo", ecco il principio essenziale che ispirò non solo un'arsconcionandi, ma un'esistenza. Fare avvenire ciò che è già detto, questa la spiritualità, meticolosa e accanita, dell'arcivescovo lentamente trasformato in quel ritratto prestigioso che a Roma si era già soddisfatti di avere alla fine dipinto. Nel momento in cui il testo si conclude felicemente e trionfa per lungo tempo, C. inizia la sua opera. Prende questo testo alla lettera per scriverlo con il suo corpo e non per inventarne altri: io lo farò, io lo sarò. Egli scrisse al cardinale di Como, il 4 dic. 1563, tre giorni prima della sua consacrazione: "è tanto il desiderio mio che hormai s'attenda ad exequir poi che sarà confirmato questo santo concilio conforme al bisogno che ne ha la christianità tutta e non più a disputare" (Jedin, pp. 14 s.). Dopo il tempo dei teologi, grandi disputatori, che condussero per mano i padri conciliari, ecco il tempo dei pastori, che è quello dell'esecuzione.

Nonimato arcivescovo di Milano (12 maggio 1564), C. vi inviò nel giugno Niccolò Ormaneto "per governare la mia chiesa di Milano e supplire alla mia assenza". Aveva conosciuto a Roma questo consigliere di vescovi, prete di notevole levatura che si era formato presso monsignore Gian Matteo Giberti (vescovo di Verona dal 1524 al 1543 e il primo boni pastoris exemplum della riforma cattolica) ed era stato poi compagno del cardinale Pole in Inghilterra. L'arcivescovo di Milano lo tolse alla diocesi vicina di Verona per il servizio della sua. Pratica tipicamente sua. Più tardi, Filippo Neri scriverà francamente che egli aveva fama di essere non solo "sensuale" ma anche "ladro". Come avvenne spesso (C. sapeva scegliere i "suoi" uomini), la nomina fu felice.

Ormaneto fece miracoli: per ingiunzione del suo cardinale ventiseienne, organizzò a tamburo battente un sinodo diocesano. Se ne erano già avuti a Vigevano, Brescia, a Cremona, a Verona. Occorreva fare presto a Milano. Il sinodo si aprì il 29 ag. 1564: milleduecento preti erano presenti per ascoltare, dettato da Roma da C., un programma di applicazione dei decreti tridentini e una serie di misure disciplinari (residenza, riduzione del numero dei benefici, moralità, studi ecclesiastici, pratiche pastorali). Si levarono proteste, ma invano. Ottenendo dal papa un breve che l'autorizzava ad imporre tasse sui titolari di benefici, C. già preparava la creazione di un seminario, affidato ai gesuiti e inaugurato nel dicembre dello stesso anno, del quale l'occhio del cardinale sorvegliava i minimi dettagli (l'orario, il vestiario, ecc.). Si iniziarono anche la campagna per costringere i detentori di più benefici ecclesiastici a contentarsi solo di uno e le visite pastorali. Tutto il programma conciliare si mise in moto. Queste procedure ugualmente impopolari presso il clero milanese furono condotte da monsignor Ormaneto con l'aiuto di monsignor Goldwell, nominato vescovo ausiliario. Riducendo il suo tenore di vita e distribuendo una parte dei suoi beni per costruzioni e fondazioni, C. conduceva da lontano queste operazioni pionieristiche e discusse, prima di ottenere dal papa l'autorizzazione di abbandonare Roma.

Con un corteggio di un centinaio di persone e la scorta di una compagnia di cavalleggeri - di che sostenere la dignità dei vescovi, "in militia Christi imperatores" (ActaEcclesiae Mediolanensis, a cura di A. Ratti, III, Mediolani 1897, p. 857) -,giunse infine a Milano nel settembre del 1565, poco prima di essere privato, nel 1566, "della sua mano destra", Ormaneto, creato vescovo di Padova e destinato a partire come nunzio per la Spagna.

è l'ora del confronto con la diocesi. Il tempo anche di una sorta di solitudine. Pio IV, lo zio papa, morì il 9 dic. 1565 e gli successe il 7 genn. 1566 il domenicano Michele Ghislieri sostenuto dai Farnese e amico dei Carafa - un altro clan - che prese il nome di Pio V. C., che ritornò a Roma per il conclave, non uscirà più dal suo Milanese che in rare occasioni: per i conclavi, per l'anno santo del 1575, durante il conflitto con il governatore di Milano (1579, 1580 e autunno 1582), per delle visite in Svizzera (1570) e a Venezia (1580), per dei pellegrinaggi a Loreto (1566, 1572, 1579, 1583) e alla Sacra Sindone trasportata da Chambéry a Torino nel 1578 (1578, 1581, 1582, 1584).

Per diciotto anni dal 1566 alla morte, l'arcivescovo si chiuse nella sua provincia ecclesiastica, nella più stretta osservanza dei canoni e della cura animarum. "Noi vorremmo avere osservato diligentemente tutto ciò che è stato prescritto in tutti i sinodi precedenti" disse nel 1584. E ancora: "la vita di un vescovo deve regolarsi… unicamente secondo le leggi della disciplina ecclesiastica". Leitmotiv di una esistenza sacrificata alla sopraeminente dignità della quale era stata rivestita. "La consacrazione episcopale ci ha posto su un trono elevato": questa dichiarazione all'apertura del secondo concilio provinciale di Milano (1569) poneva nello stesso tempo diritti e doveri.

"Ah! città di Milano, nuova Ninive inebriata dei tuoi piaceri, superba nelle tue pompe, cieca nelle tue vanità, insaziabile nelle tue dissolutezze…". L'eloquenza di Bossoet (Oeuvres oratoires, a cura di J. Lebarq, II, Paris 1926, p. 581) procede speditamente: gli occorreva lo sfondo nero della città corrotta per schizzarvi la silhouette di s. Carlo. Di fatto, non è sicuro che C. abbia giudicato in questo modo la sua capitale. Ceduto dalla Francia a Carlo V con il trattato di Madrid (1525) dopo la battaglia di Pavia, il Milanese dipendeva dal 1556 da Filippo II di Spagna, che designava il governatore dello Stato. Molteplici questioni opposero l'arcivescovo a questo "potere temporale".

Il primo riguardò l'introduzione dell'Inquisizione spagnola a Milano (1563). Da una trentina d'anni un riformismo evangelico si infiltrava a Milano, dapprima presso i religiosi (agostiniani, francescani, domenicani) sotto forma di tendenze luterane, calviniste, zwingliane ed infine anabattiste, e non senza il veicolo costituito dall'università di Pavia. Nel 1547le autorità milanesi avevano cacciato un gran numero di questi ecclesiastici, molti dei quali si rifugiavano in Svizzera. Dei laici ne presero il posto a Milano. Verso il 1554letterati, medici, borghesi formarono focolai importanti, legati a quella Chiesa di Cremona che fra tutte le città italiane fornì il più gran numero di rifugiati a Ginevra. Contro questi "novatori" che disegnavano intorno al crocevia milanese la geografia delle future campagne di C., la repressione s'intensificò negli anni 1558-60, tenuta in mano dalla corte di Spagna. Filippo II intavolò trattative con la corte di Roma per impiantare l'Inquisizione nella capitale lombarda. Meno reticente dei rappresentanti della città, il papa si oppose non alla istituzione ma alle sue procedure spagnole e allo sconfinamento del potere civile in campo religioso. Era il punto di vista di C., che nella sua qualità di giurista rifiutò "la maniera spagnola" (per esempio le denunce anonime) e in quanto uomo di Chiesa una ingerenza dello Stato. Nel 1566egli scrisse: "il popolo milanese ha il sospetto che con questa bolla si cerchi di mettere in questo Stato l'Inquisizione alla foggia di Spagna, non tanto per zelo di religione quanto per interesse di Stato" (in M. Bendiscioli, Penetrazione protestante e repressione controriformistica in Lombardia all'epoca di C. e Federico Borromeo, in Festgabe Y. Lortz, I, Baden-Baden 1958, p. 376).Indipendentemente dal nazionalismo milanese, il problema era di sapere se una questione religiosa dipendeva ormai da una giurisdizione politica, nella misura in cui era considerata sotto la formalità dell'ordine pubblico, e non più immediatamente della fede. Questa era la convinzione di Filippo II, anche se per ragioni diplomatiche (i rapporti con Roma) e di pietà personale era portato ad una maggiore moderazione dei suoi ministri, educati secondo un diritto che già includeva la religione nella politica.

Nella sua logica, questo diritto inscriveva il "visibile" nel campo "naturale" della politica e riservava Dio alla mistica. Si opponeva così direttamente alla volontà tridentina di restaurare una visibilità istituzionale, sacramentale e giuridica, cioè ecclesiale, della grazia e della verità. Per C., che ebbe certamente "una concezione quasi medioevale del rapporto tra i due poteri laico ed ecclesiastico" (Jedin, p. 32), ma che era perfettamente consapevole della posta in gioco in questi conflitti di giurisdizione, si trattava di una questione essenziale: questi casi particolari erano "d'interesse generale per tutta la Chiesa cattolica".

La caccia agli eretici egli la condusse come arcivescovo della diocesi di Milano. Facendo di ogni erba un fascio (bisogna, scriveva ai legati nel 1562 a proposito di Trento, "trovar via e forma… senza entrar più oltre"), utilizzò l'aiuto, riprovevole, dei crocesignati, una congregazione milanese di una quarantina di nobili "crociati" che avevano giurato lo sterminio degli eretici. Sostegno dei più discutibili, anche se raramente impiegato. Il cardinale disponeva anche di una propria polizia (del resto legale), la sua "famiglia armata", per fare eseguire le sentenze del tribunale vescovile. Ma contro le ribellioni, le sette, i carnevali e le concussioni - i suoi principali avversari - preferiva i rigori della predicazione o della legge ecclesiastica, fino a "fulminare" la scomunica contro i canonici di S. Maria della Scala (che gli interdissero lo ingresso nella loro chiesa) o contro il governatore dello Stato, don Luis de Zuñiga y Requesens, vincitore a Lepanto, grande di Spagna (che nel 1573 voleva limitare il numero degli annati al servizio del vescovo). Davanti alle proteste del governatore, che il papa sollevò in privato dalla scomunica, l'arcivescovo ricorse all'appoggio di Gregorio XIII che gli raccomandò maggiore cautela. A sua volta il successore di Requesens, il marchese di Ayamonte, in seguito ai conflitti occasionati dalle feste di quaresima, chiese al papa l'allontanamento dell'arcivescovo: una ambasciata pontificia presso Filippo II guidata dal barnabita Carlo Bascapé (futuro biografo di C.) dovette risolvere il conflitto (1579-80). è certo che in tutti questi casi la materialità dei fatti era meno importante dei rapporti di forza ideologici. Queste questioni di precedenza mettevano in causa una guerra simbolica, cioè la relazione che dei poteri concorrenti intrattenevano ciascuno con una credibilità o una "autorità". Ma C. privilegiava ancora l'immagine, s'appoggiava di preferenza su di un linguaggio, interveniva in termini di "autorità", mentre i suoi avversari facevano giochi di potere e accusavano il vescovo di compromettere la stabilità che assicurava ai loro calcoli, di potere la manipolazione del simbolico. Due ottiche inconciliabili, ma fra le quali una discriminazione storica si andava già operando in favore di chi deteneva il controllo effettivo dell'ordine pubblico.

Il vescovo sapeva bene del resto che solo una organizzazione coerente della sua diocesi poteva resistere davanti al potere temporale. A tal fine impiegò i suoi stessi metodi, per creare una milizia, sebbene ecclesiastica. Il suo obiettivo era di trasformare il clero in un "corpo", articolando l'una sull'altra una tecnica organizzatrice e una ideologia religiosa mobilizzatrice: la prima costituiva una amministrazione, la seconda riguardava la predicazione. Forse occorre individuare il genio di C. nella costanza con la quale egli seppe assicurare praticamente, fino al minimo dettaglio, la stretta connessione tra una gestione istituzionale e una capacità di credere o di far credere, tra un managetnent e una retorica, modo con il quale egli alleava indissolubilmente politica e spiritualità.

Per l'organizzazione della sua diocesi i metodi gli furono dettati dal concilio; ma la sua pratica li precisò e ne provò e confermò le possibilità. La sua prima opzione concerneva l'istituzione di un potere locale, il Milanese, sulla base del quale egli ritenne possibile più tardi di elargire la riforma alla Curia e alla diocesi dalla "testa" della cattolicità (1575), o di tentare la espansione verso i Cantoni svizzeri (1583)Se il discorso doveva essere romano, "universale", la sua esecuzione non poteva partire cheda punti di forza, dunque circoscritti, nei quali l'azione si sarebbe concentrata. A C. occorrevano i mezzi per un tale disegno. Chiese e ottenne dai papi che si susseguirono (Pio IV, Pio V, ecc.) poteri molto estesi, persino esorbitanti, di arcivescovo, di legato, di visitatore apostolico, ecc.: il diritto di erigere confraternite di dare indulgenze plenarie, di assolvere nei casi riservati, di tenere in sospeso le parrocchie e le chiese, di disporre dei benefici vacanti, ecc. Tolse ogni facoltà di resistenza giuridica al clero secolare e regolare, esattamente come ai laici. Impossibile o inutile ricorrere a Roma: lo si sapeva onnipotente. Se egli così lusingava la fierezza milanese, ne soffocava anche l'opposizione. Tutto doveva essere al servizio della diocesi che dipendeva dalla sua persona, essa stessa sacrificata ai "diritti del vescovo", questa parola magica di Carlo. Lo disse chiaramente: "Io desidero che tutto stia nella mia volontà, non altro volendo fare che un sodalizio di uomini pronti ad ogni mio cenno" (Deroo, p. 344). In base a ciò il "quasi papa" (Possevino) interpose tra il potere romano e i vescovi il corpo intermedio della provincia. Indubbiamente la struttura politica di allora favoriva questa unità. Già il concilio di Trento, che designava come francesi o spagnoli i vescovi stranieri, non conosceva per l'Italia che il Venetus, il Neapolitanus o il Bononiensis.La pastorale di C. consolidò il provincialismo amministrativo. La convocazione di concili provinciali triennali (previsti del resto dal concilio di Trento) nel 1566, 1569, 1571, 1576, 1579 e 1582, l'attività di visitatore apostolico nelle diocesi suffraganee (Cremona e Bergamo, nel 1575; Vigevano, nel 1578; Brescia, nel 1580; ecc.), la centralizzazione milanese (rafforzata dal prestigio del vescovo, dalla creazione di istituzioni modello e persino dalla "fuga dei cervelli" verso Milano) ed anche la restaurazione nel 1575 del rito ambrosiano (epurato da Pietro Galesino in modo assai fanatico e poco critico): tutti elementi che nello stesso tempo unificavano un territorio e distinguevano la sua capitale.

Nel momento in cui le nazioni si sostituivano lentamente alla cristianità, questa Chiesa lombarda s'inscriveva nello stesso movimento delle Chiese gallicana o spagnola. Certo con la sua azione e i suoi poteri, che gli erano stati conferiti come ai missi dominici di ieri, C. serviva il centralismo pontificio, applicando dappertutto nella sua provincia i decreti che avevano segnato una tappa decisiva verso la "monarchia romana", ma, all'interno stesso di questo sistema, dava consistenza giuridica e storica a una mediazione necessaria, a una pertinenza amministrativa, a una differenza dei luoghi. La legge universale era frenata da determinazioni geografiche. Donde le tensioni tra Roma e questo vescovo tanto "temuto" quanto ammirato: a proposito dei suoi conflitti con i governatori spagnoli (che imbarazzavano la diplomazia pontificia), a proposito del rito ambrosiano (che a Roma sembrò ledere l'uniformità liturgica o che, nelle diocesi lombarde come Monza nel 1576, sembrò divenire lo strumento di un colonialismo milanese contro il quale si ricorreva al papa), o a proposito del quarto concilio provinciale (che la Curia romana si rifiutò a lungo di approvare). In quest'ultimo caso in particolare, C. ebbe l'impressione che si toglieva ai vescovi tutta l'autorità che derivava loro dai concili: appello ai concili contro gli "eccessi" romani.

Una stretta osservanza doveva regnare nel corpo sacerdotale diocesano. La delimitazione stessa di questa unità territoriale permise di dare esecuzione ad un programma disciplinare che comportò un piccolo numero di punti essenziali: i concili e sinodi periodici (una legislazione), la redistribuzione dei benefici (una lotta contro tutti coloro che erano privilegiati ed esenti), la conformazione dei costumi e del sapere alla legge conciliare (una esemplarità delle condotte e una ortodossia della dottrina), le visite pastorali (un controllo che era nello stesso tempo una conoscenza delle situazioni particolari), infine e soprattutto il seminario (che assicurò il reclutamento e costruì in spazi "ideali" e controllabili l'avvenire della riforma postridentina).

Il seminario era la scuola dei quadri. Già centrale nella propaganda protestante o gesuita, la scuola qui si specializzò. Era riservata al clero e non più destinata a tutti. C. concentrò sulla formazione ecclesiastica e dunque multipla, riducendo il suo campo, il potere che ha la scuola "moderna" di forgiare una società, di esserne ormai non solo il rito iniziatico per eccellenza ma il laboratorio produttore. Egli mirava a creare così un corpo, corpo distinto e corpo d'élite, grazie a istituzioni modello in cui tutti i metodi applicati nella diocesi potevano funzionare in modo esemplare: "Nihil magis necessarium aut salutare videri ad restituendum veterum ecclesiasticorum disciplinam quam seminarii institutionem" (ActaEcclesiae Mediolanensis, III, Mediolani 1897, p. 930). Questa dichiarazione del 1565 annunzia una serie di fondazioni supplementari: S. Giovanni alle Case Rotte (a Milano, per le vocazioni tardive), Beatae Mariae alla Canonica (a Milano per formare curati di villaggio), i piccoli seminari di Celana (1579) e d'Inverigo (1582), una filiale del seminario milanese ad Arona, il Collegio elvetico (1579, a Milano per gli Svizzeri e i Grigioni), il collegio per i Grigioni ad Ascona (1584), ecc. L'élite che vi si formava non era quella della ricchezza o della nobiltà né quella del sapere. I poveri vi erano largamente ricevuti e finanziariamente aiutati. I "saggi" e gli intelligenti non ne erano gli eroi. La "disciplina", condotta corporale e spirituale del volere messa al servizio del vescovo in vista della cura animarum, vinceva su ogni altro criterio.

Lo stesso principio si applicava alla riforma del clero. Per C., grande vegliatore, il nemico era la lethargia dei preti e dei vescovi. Vi oppose l'ascesi. Tre termini sembravano designare, nel suo linguaggio, l'obiettivo e l'impulso: servi, patres, angeli.Servitori del vescovo nel suo servizio dei fedeli. Padri delle "anime", nella riproduzione dei Padri della Chiesa antica e dei loro successori vescovili. Angeli, infine, per l'imitazione di un ordine gerarchizzato, per la castità che vale loro una posterità spirituale e simbolica, e per il loro statuto di esseri separati. Su questo modello troppo "religioso" per essere facilmente accettato a Milano, egli fondò nel 1578 gli oblati di S. Ambrogio, congregazione diocesana di preti votati al vescovo e alla sua pastorale, che, approvata nel 1581, contava quasi duecento membri nel 1584 e fu accompagnata da una congregazione di oblati laici.

A questo movimento che organizzava concentricamente una gerarchia di "corpi" vescovili, dagli oblati fino alla "famiglia armata" secolare, corrispondeva il movimento reciproco contro i preti recalcitranti e, contro gli Ordini religiosi indipendenti e corrotti. In particolare tentò di riformare gli umiliati, antico Ordine arricchito del quale egli designò autoritariamente il superiore, visitò le case, controllò le finanze, finché Farina, membro del convento di Brera a Milano, tentò di assassinare il cardinale a colpi di archibugio, il 26 ott. 1569. Il Farina, estradato dalla Savoia dove si era rifugiato arruolandovisi nell'esercito, fu impiccato nell'agosto del 1570 insieme con quattro suoi complici, la Congregazione fu sciolta dal papa nel 1571 e i suoi beni furono messi a disposizione dell'arcivescovo.

La lotta contro le "superstizioni" non fu meno severa: così nel 1583 a Roveredo (nella Val Mesocco) undici streghe furono condannate al rogo, e il prevosto D. Quattrino degradato: l'arcivescovo, commosso, restò implacabile.

La carità e la dedizione straordinaria di C., durante la peste del 1576 gli valsero una popolarità che rispose alla sua passione di servire il suo popolo e che ispirò anche la "baraka" del capo che non viene colto né dalla peste né dal moschetto di Farina, che dorme e mangia appena, attraversa le montagne invalicabili l'inverno e si trova dappertutto. Dietro questa popolarità, che per C. non riguardava la sua persona ma rendeva solo omaggio alla sua funzione, c'era anche l'effetto di una attitudine, nello stesso tempo politica e cordiale, a integrare la religiosità popolare. I balli o le superstizioni che egli soppresse le sostituì non con discorsi, ma con gesti: guidò egli stesso le processioni di reliquie, si professò pubblicamente devoto dei santi, si fece pellegrino della S. Sindone a Torino o della Vergine a Varallo, Varese, Saronno, Rho, Tirano o Loreto. La sua religione non era quella teologica, "astratta" e spoglia, che prevarrà mezzosecolo più tardi fra gli spirituali francesi. Essa si congiungeva indubbiamente con la spiritualità italiana, ma si conformò anche con la volontà tridentina di rendere il visibile del mondo al Dio inaccessibile e una "fisica della gloria" alla Parola. Essa attesta inoltre qualcosa come ima tenerezza, quasi infantile, che nessuna "dottrina" aveva sfiorato e che abitava in segreto la volontà armata dai "diritti e doveri" vescovili. Le devozioni popolari corrispondevano in C. a degli appuntamenti e feste del cuore in mezzo alla folla dalla quale lo separava la sua carica. Là egli sembrava veramente felice. In questa felicità devota in prossimità del suo popolo il vescovo trovò la morte, il 3 nov. 1584 a Milano, al termine di un ultimo pellegrinaggio alla S. Sindone.

Il segreto spirituale di C. sta tutto qui, I ritratti in piedi, come la statua colossale di 28metri ad Arona, il Carlone, presentano la "rigidità d'acciaio" del vescovo (Pastor), l'eroica e stoica virtù del legislatore, il "santo dall'anima di inquisitore, macerato dall'astinenza e dallo studio" (H. Hauser) e che, come dirà il nipote e successore nella sede milanese, "mai non si scardinalava, ed… era un vescovo che mai non si svescovava" (cfr. Deroo, p. 229).Ma non sono identici al personaggio nel quale egli volle perdersi. Il santo si indovina nel fervore e in qualche modo nell'innocenza di un'anima, alla quale le forme popolari della devozione danno un linguaggio comune. Questo è il senso della sua predicazione.

Insieme con un modello amministrativo egli creò uno stile. Il discorso di C. è certo percorso dalla nostalgia dei riformatori della sua epoca, dal sogno di un ritorno ai Padri della Chiesa primitiva e all'antica disciplina. Ma sono questioni presenti che si articolano in questo sogno. E resta l'interrogativo se la Parola ritroverà quella "potenza" che gli attribuiva s. Paolo e alla quale s. Ambrogio, davanti al popolo e all'imperatore, aveva dato la sua maestà oratoria.

La predicazione affronta questa temibile questione. Da una parte doveva assicurare al discorso conciliare o scritturale una efficacia sulle condotte e sulle credenze. Dall'altra doveva restaurare l'alleanza tra i Padri antichi e la folla attuale. Alla congiunzione di questi termini separati c'è l'"azione" dell'oratore, la presenza mediatrice della sua voce, il suo corpo fatto sacramento "re-ligioso", cioè capace di ri-legare. Questa concezione eucaristica della rhetorica ecclesiastica pone la predicazione al centro dell'attività episcopale - "praedicatio est praecipuumepiscoporum munus" (Concilium Tridentinum, II, Friburgi Br. 1911, p.242) - o sacerdotale - i preti sono "velut perpetuum quoddam praedicandi genus" (ibid., IX, ibid. 1924, p. 1086). I trattati contemporanei lo ripetono a gara, così il cap. VII del famoso Stimulus pastorum di Bartolomeo de Martiribus, del quale C. aveva nella sua biblioteca il manoscritto e due edizioni. Data l'importanza ulteriore della retorica di C. se ne possono rilevare alcuni tratti che disegnano anche, in una relazione stretta tra l'oratio pubblica e l'oratio segreta, tra l'atto oratorio e l'orazione, la sua spiritualità pastorale. Questa retorica rinvia in primo luogo a un problema politico del quale i trattati contemporanei sono pieni: mentre i discorsi tecnici o letterari si sviluppano nel campo chiuso di una élite, all'interno di un ordine sociale stabile, la retorica intrattiene un rapporto necessario con il linguaggio comune e ritorna nei momenti d'instabilità politica, quando occorre restaurare con il popolo dei contratti sostitutivi a quelli che si dissolvono. Con le volontà che esso commuove, seduce o istruisce, il discorso "persuasivo" deve ristabilire un ordine che dipende ormai dalla loro adesione. Esso si inscrive in una politica da e per la parola che è fondamentale nella pastorale postridentina e della quale i due libri di Giovanni Botero, discepolo di C., esplicitano i due poli (Ragione di Stato, 1589; De praedicatore Verbi Dei, 1585).Sitratta, tra le élites e il popolo lentamente separati da due secoli, di uscire dalla specializzazione dialettica per instaurare dei contratti di linguaggio tra "cattolici" (questa parola dappertutto sostituisce quella di "cristiano"): lo scopo della predicazione è dunque di produrre l'istituzione. La retorica è istituzionale e istituzionalizzatrice, proprio come l'istituzione è retorizzante. Per ciò la predicazione trasforma il rapporto con la verità. è una arte del "relativo", cioé di stabilire la relazione, legata all'occasione (alla natura del pubblico, alle circostanze, ecc.). A una scienza degli affari e una scienza delle situazioni: gli uni e gli altri non conoscono verità definitive ma il sottile adeguamento della intelligenza a dei "casi" concreti. è una tattica della manipolazione nella misura in cui essa confronta senza sosta una tecnica del far credere e dell'affectus (un "commuovere" che è "muovere") alle volontà dei destinatari. Questa forza di convincere, stabilendo una "società", prova anche la sua verità per e nella sua operazione stessa o, come si dice, con "l'azione" (oratoria). Essa poggia sul probabile piuttosto che sul certo, supponendo così l'impossibilità di una conoscenza perfetta che trionfa sull'"ombra delle idee" (G. Bruno). La produzione dei legami sociali si sostituisce al riconoscimento delle verità stabilite.

Se nell'ecclesiasticarhetorica, cara a C., a Luis de Granada e a tanti altri, il privilegio dei metodi è patente; se del resto sotto questo riguardo il modus o ratioconcionandi, ormai base di una cultura clericale, corrisponde all'arsorandi o al modus loquendi degli spirituali, insomma se il rapporto con la rivelazione si esplicita concretamente come una pratica del linguaggio in vista di una produzione di effetti, essa si riferisce con tutta la sua organizzazione all'idea, insieme mitica e necessaria, di una potenza della Parola - che riconduce al "Christus orator perfectissimus" (Giovanni Botero). Quando questa parola è efficace nell'oratore, si ha l'orazione, quando lo è per mezzo suo, si ha la predicazione. La questione è di sapere come la parola, essenzialmente "voce", possa essere "azione". Il problema del mistico e quello dell'oratore si congiungono strettamente nella retorica di Carlo. Possono tradursi tutti e due nella ricerca dell'impetus, della fonte motrice o di ciò che dà alla parola il suo potere di muovere, ma a partire da una fonte autentica. La soluzione, a doppia faccia, concerne l'enunciazione: il suo soggetto, con l'inspiratio, e il suo luogo, con la missio. L'affectus o la devozione del predicatore darà forza al suo discorso; la sua "missione" (la sua designazione da parte del vescovo che è nella posizione ideale di eletto e di "inviato") costituirà la legittimità di questa forza. Donde le esigenze di C. in materia di orazione ("la forza viene dal cuore") e la sua intransigenza nel volere designare e controllare i "suoi" predicatori. è anche l'articolazione tra la devozione "popolare", cordiale e affettiva, del santo e la sua sicurezza autoritaria di vescovo-predicatore.

Di questo equilibrio instabile che privilegia l'enunciazione sull'enunciato, ma compensa il relativismo in materia di verità con un rigore amministrativo in materia di delegazione, si può riconoscere un effetto nel rapporto tra l'esegesi letterale dei testi conciliari e l'esegesi accomodante o indefinitamente allegorizzante dei testi scritturali. Le "parole" evangeliche, sovrabbondanti, forniscono, mediante qualsivoglia senso, un impetus di pietà, ma nel quadro stretto di norme giuridiche che gerarchizzano le posizioni e specificano le pratiche. Lo stile oratorio di C. - "un certo gonfiore spagnolesco del periodare, le antitesi o troppo vive o troppo tirate, le distinzioni poco logiche o minuziose" (A. Novelli, S. C. B. oratoresacro, in La scuola catt., LXI [1935], pp. 313-322, specie p. 321) - corrisponde in lui a ciò che sono le "follie" e i "sogni" in Teresa d'Avila, o il "poema" in Giovanni della Croce: deriva e delirio del cuore, infanzia vagabonda della pietà all'interno stesso di quella carica vescovile della quale C. è stato il martire. Questa è in effetti la fonte del suo potere e della devozione popolare che dalla sua morte ha preceduto la canonizzazione nel 1610. Ma quando questa voce spariva per lasciare solo il modello vescovile, un violino senza anima, il personaggio vescovile si faceva di marmo, teatro o strumento giuridico e narrativo di una istituzione.

La "leggenda" postridentina di C. è il fenomeno che s'impone allo storico. L'anno stesso della sua morte (1584), le "vite" di lui si diffussero nell'Occidente cattolico. Così, mons. A. Canigiani, arcivescovo di Aix-en-Provence, trasmise subito una necrologia a César de Bus che la tradusse in francese per darne larga diffusione. La Controriforma ha il suo eroe: passa le montagne, precede e introduce i canoni del concilio di Trento molto prima che siano effettivamente ammessi (in Francia essi saranno ufficialmente riconosciuti solo nel 1615).Le "vite" di Agostino Valerio (in latino, Verona 1586; Colonia 1587; trad. ital., Milano 1587), di Gian Francesco Bonomi (Milano 1587), di Giovanni Battista Possevino (Roma 1591; trad. franc., 1611), di Carlo Bascapé (Ingolstadt 1592; Venezia 1596; Brescia 1602; Parigi 1643; Lodi 1658; ecc.), di Giovanni Pietro Giussano (Milano 1610; Roma 1610; Brescia 1612; Venezia 1613; trad. franc., di N. de Soulfour con una introduz. di P. de Bérulle, Paris 1615; di E. Cloyscault, Lion 1685; trad. lat., Milano 1751; otto altre traduzioni in tedesco, inglese, spagnolo), di Antoine Godeau (Brusselle 1684), ecc. Una letteratura prolifera; di essa la parte pubblicata dà solo pochi dati ufficiali, accanto ad una folla di notizie desunte da ogni sorta di fonti manoscritte, o alle "storie" orali che emergono frammentariamente dalle corrispondenze epistolari. Più della vita della sua contemporanea Teresa d'Avila (morta nel 1582, prima edizione 1588) nel campo mistico che essa narrativizza, le vite di C. costituiscono un "racconto", unico ma con infinite varianti, che mette in circolazione il programma pastorale e sacerdotale della riforma tridentina.

Potenza del racconto. Esso si costruì su uno spazio che assunse valore utopico ed esemplare, l'unità biografica, e vi schizzò la figura di un principe nel quale si realizzò il sogno di un secolo di cristianità, la reformatio in capite, alla testa della Chiesa. Sotto questo sogno reverenziale e nello stesso tempo "meraviglioso", esso descrisse pratiche amministrative in sequenze che la santità e l'efficacia dell'eroe convalidavano. Exemplum seduttore, questa actio retorica mobilitò gli ecclesiastici, valorizzati da una storia della quale essi furono i principali propagatori: esso enunciò e selezionò i loro desideri. Tuttavia, come la vita teresiana presenta anche metodi oratori nel romanzo biografico nel quale si dicono le meraviglie e le "follie" d'una questua d'amore, le vite di C. precisano tecniche pastorali, raccontando come il diritto ecclesiastico prevale sul potere della nascita, come la parola del prete trasforma ciò che Bossuet chiamerà la "Babilonia" milanese, e come la potenza dell'eletto sacerdotale trionfa dei suoi avversari "temporali", laici o mondani. Il linguaggio del desiderio e della promozione simbolica si articola sul linguaggio dei metodi.

Questa narrazione dipendeva dalla retorica ecclesiastica alla quale Agostino Valerio (biografo e discepolo di C.) con il suo De rhetorica ecclesiastica (Verona 1574)0 Luis de Granada (amico del santo) con le sue Ecclesiasticae rhetoricae libri sex (Lisbona 1576)consacrarono interi trattati, posti esattamente sotto l'egida dell'eroe (per Luis de Granada si tratta dell'edizione di Venezia 1576).Essa obbedì ai due criteri di ciò che allora si designava come una "azione" oratoria: "movere [commuovere e muovere] et docere" (insegnare). Questi discorsi miravano a suscitare nel destinatario le pratiche che descrivevano; avevano valore di "azioni": il racconto dottrinale, generatore di movimenti, faceva ciò che diceva. Per di più, narrando rendeva credibile ciò che esponeva conferendo alla Controriforma una credibilità. Infine, evidenziava, metteva in vista e popolarizzava un trasformatore della società, il vescovo secondo il concilio di Trento. Da tutti questi punti di vista, "produceva storia". Conformi o no a quello che una erudizione oggi ricostruisce dietro di essa, queste "finzioni" più o meno agiografiche determinavano una credibilità postridentina e modificarono realmente la storia illustrando un nome proprio: Carlo Borromeo. è questo nome storicizzato che plasmerà tanti altri agenti della Controriforma, cosicché per esempio in Francia monsignore Potier de Gesvres sarà chiamato "il Borromeo di Beauvais", monsignor de Grammont "il Borromeo della Franca Contea" e monsignor de Solminihac "il san Carlo della Francia" - tracce fra mille altre della produttività del racconto della vita di Carlo.

Fonti e Bibl.: Ampie indicaz. bibliogr. sono offerte in calce all'art. di R. Mols, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XII, Paris 1953, coll. 530-534e al libretto di H. Jedin C. B., Roma 1971, pp. 63-71.Da aggiungere P. Sposato, Ivescovi del Regno di Napoli e la bulla "Ad Ecclesiam Regime" (29 nov. 1560)per la riapertura del concilio di Trento, in Arch. stor. per le prov. nap., n. s., XXXV (1956), pp. 375-391;A. Derpo, Saint Charles Borromée cardinal réformateur, docteur de la pastorale (1583-1584), Paris 1963;M. Fumaroli, Jésuites et Gallicans. Recherches sur la genèse et la signification des querelles de rhétorique en France, sous les règnes d'Henri IV et de Louis XIII, Paris 1976(tesi di dottorato, inedita).

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