CELESTINO I, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

Celestino I, santo

Franco Gori

Fu eletto il 10 settembre 422, rapidamente e senza contestazioni. Ben poco si conosce della sua vita precedente. Il Liber pontificalis lo dice figlio di un certo Prisco e originario della Campania. In un frammento di sermone tramandato da Arnobio il Giovane (Conflictus II, 13, 9-16), C. allude ad una sua permanenza a Milano, ove dice di avere sentito cantare in un giorno di Natale l'inno ambrosiano Veni, redemptor gentium. A C. pare che si riferisca papa Innocenzo I nella lettera a Decenzio di Gubbio del 19 marzo 416 (ep. 25, 11, in P.L., XX, col. 560) e, verosimilmente, è lui il destinatario dell'ep. 192 di Agostino, databile alla fine del 418.

C. si dedicò con grande impegno all'affermazione dell'autorità della Sede romana, come nessun altro papa prima di lui. Per i vescovi di Roma, tra la fine del IV secolo e l'inizio del V, il primato della loro Sede su tutte le Chiese d'Occidente era incontestabile e basato su un fondamento storico specifico, che si aggiungeva alla considerazione, anch'essa storica, su cui si voleva fondato il primato sulla Chiesa universale: la Sede di Roma - si argomentava - non solo eredita dal principe degli apostoli, che l'ha fondata, l'autorità su tutta la Chiesa, ma in Occidente è l'unica sede di origine apostolica, mentre le altre Chiese sono state fondate da inviati della Chiesa romana (Innocenzo I, ep. 25, 2, in P.L., XX, col. 252). I predecessori di C. avevano spesso ribadito il loro diritto, e lo avevano esercitato soprattutto in materie disciplinari delicate, quali erano, per esempio, le norme che regolavano l'elezione dei vescovi e l'esercizio del potere giudiziario ecclesiastico nelle province. L'affermazione del primato da parte di C. fu vigorosa, sia in ambito disciplinare che dottrinale. La crisi nestoriana (428-431) gli offrì l'occasione per rivendicare con forza al successore di Pietro il ruolo di custode supremo della fede della Chiesa universale. In verità nel corso del 429 sia Nestorio che il suo antagonista Cirillo di Alessandria lo interpellarono, ciascuno per ottenerne l'appoggio per la propria causa, ma né l'uno né l'altro intendeva con ciò riconoscergli un diritto di primazia sulla Chiesa universale. Invece C. si sentì investito della questione nestoriana proprio quale detentore della suprema autorità nella Chiesa, e questa funzione intese esercitare quando nel 430 fece conoscere agli Orientali la sua sentenza contro Nestorio, e quando nel 431 inviò tre delegati al concilio di Efeso "perché prendano parte a quanto si tratti ed eseguano quello che da noi sia stato in precedenza stabilito" (ep. ad synodum, in Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 2, p. 24, r. 28). Successivamente C. espresse la certezza che la sconfitta di Nestorio fosse da attribuire al suo intervento di medico che aveva reciso con i ferri chirurgici un membro infetto: "san Pietro non abbandonò un malato così grave" (ep. ad Constantinopolitanos, ibid., p. 94, r. 25). In realtà i legati papali giunsero a Efeso quando il concilio aveva già sanzionato la condanna di Nestorio sotto le pressioni di Cirillo, che aveva fatto leggere e approvare la propria lettera dogmatica a Nestorio (ibid., I, 1, 1, pp. 25-8), non quella di Celestino. Solo in una successiva sessione fu letta la lettera di C. a Nestorio (ibid., I, 2, pp. 7-12), verosimilmente su richiesta dei legati papali. Di fatto l'Oriente non era disposto a tributare al vescovo di Roma niente di più dell'onore che meritava l'antica prestigiosa Sede apostolica, e niente di più la Sede romana era in grado di ottenere. Roma pretendeva invece di estendere in Occidente un effettivo potere giurisdizionale anche fuori d'Italia, scontrandosi con forti resistenze in specie in Africa e in Gallia.

Un caso di attrito fra le Chiese di Roma e d'Africa sotto il pontificato di C. è documentato nell'ep. 209 di Agostino al medesimo papa (423). Qualche anno prima Agostino aveva deciso di dare un vescovo alla grossa borgata di Fussala, che aveva abbandonato il donatismo per tornare in seno alla Chiesa cattolica e che non poteva essere agevolmente governata da Ippona a motivo della distanza. Venuto meno il candidato prescelto, Agostino dovette ripiegare su un giovane, Antonino, che diede prova di grande avidità, tanto che gli abitanti del luogo lo denunciarono. Essendo stato rimosso per la sentenza di un concilio provinciale, Antonino si appellò a Roma, riuscendo anche ad ottenere l'appoggio del primate di Numidia, che inviò a Roma una lettera commendatizia. Il predecessore di C., Bonifacio, rimandò assolto Antonino senza interpellare Agostino. Questi fu turbato dalla decisione romana e fece ricorso a C., divenuto nel frattempo papa, con una lettera vibrante d'emozione, ove si assumeva le proprie responsabilità per l'accaduto, ma difendeva la legittimità della sentenza emessa dal tribunale africano, dichiarando di volersi dimettere dall'episcopato, se Roma non avesse riveduto la decisione sul caso. Non si sa come la vicenda si concluse, ma è da credere che C., che era in buoni rapporti personali con Agostino, abbia accolto la richiesta.

Un analogo episodio ebbe per protagonista Apiario, presbitero di Sicca Veneria della provincia d'Africa Proconsolare, che per la sua condotta fu scomunicato dal proprio vescovo. Si appellò a Roma, contro gli statuti della Chiesa d'Africa che vietavano tali appelli. Papa Zosimo, che invece intendeva riaffermare il diritto della Sede romana di ricevere ricorsi da tutte le Chiese d'Occidente, accolse l'appello e fece riaccompagnare Apiario in Africa da una legazione capeggiata da Faustino di Potenza Picena, che avrebbe dovuto ribadire ai vescovi d'Africa le prerogative di Roma, secondo il papa sancite a Nicea. I vescovi africani riuniti in concilio a Cartagine (419) obiettarono che i documenti niceni da loro posseduti non contenevano tali disposizioni. Tuttavia, su proposta di Agostino, il concilio accolse, per deferenza, la richiesta del vescovo di Roma, ma si riservò di chiedere alle sedi orientali (Costantinopoli, Antiochia e Alessandria) copie autentiche degli atti di Nicea. Apiario fu assolto, ma successivamente si attirò una nuova scomunica. Di nuovo si recò a Roma, ove papa C. lo accolse con manifestazioni di gioia, e di nuovo lo fece riaccompagnare in Africa da una legazione guidata dal medesimo Faustino di Potenza Picena. Ma questa volta Apiario, messo alle strette dalle contestazioni dei giudici africani, confessò le proprie malefatte. A Faustino non restò che chiedere scusa e tornarsene a Roma. Aurelio di Cartagine e altri vescovi, a nome del concilio di Cartagine (424-425), espressero a C. con parole pungenti il disappunto dei vescovi africani per l'accaduto, e sottolinearono che i documenti del concilio di Nicea, nel frattempo giunti dalle sedi orientali, e inviati in copia anche a Roma, nulla contenevano circa il diritto della Sede romana di ricevere i ricorsi di chierici o vescovi condannati in provincia, e in effetti il diritto di appello alla Sede romana era stato sancito non dal concilio di Nicea, ma dal concilio di Serdica (canoni 3 e 3b); riaffermarono poi il valore degli statuti della Chiesa d'Africa, e dichiararono la loro opposizione alla pratica romana di inviare legati in provincia, perché estranea agli statuti e alla tradizione della Chiesa, e introdotta come riprovevole imitazione della prassi propria del potere politico (lettere del concilio di Cartagine a C., in Concilia Africae, pp. 169-72).

I rapporti di C. con le Chiese della Gallia furono negativamente condizionati da una difficile situazione creata da papa Zosimo, che aveva imprudentemente ceduto alle pretese di Patroclo, vescovo di Arles, attribuendo alla sua sede una sorta di primato su tutta la Gallia, che avrebbe reso travagliati non solo i rapporti di Arles con Roma, ma anche con le altre sedi metropolitane transalpine. Patroclo esercitò con sempre maggiore invadenza i poteri che gli erano stati conferiti da Roma. Nel 425 la sua autorità fu anche rafforzata dall'attribuzione di privilegi politici da parte di Galla Placidia, che cercava di acquisire l'appoggio della sede di Arles per ristabilire il controllo imperiale sulla Gallia meridionale non ancora caduta in mano ai Goti. Nel 426 Patroclo fu assassinato, ma non venne meno il ruolo preminente di Arles, i cui vescovi concentrarono nelle proprie mani potere sia politico che ecclesiastico, e accentuarono la propria indipendenza dalla Sede romana. Di fatto C. si trovò di fronte ad uno scisma. Si aggiunga che i successori di Patroclo, Onorato ed Ilario, diedero una propria impronta al governo delle loro Chiese. Essi erano monaci provenienti dal monastero di Lérins, di cui Onorato era stato fondatore. Animati da forte spirito ascetico vollero promuovere una riforma della disciplina ecclesiastica ispirandosi al rigorismo monastico. In conformità a tale orientamento sceglievano i vescovi non tra i chierici formati in seno a quelle Chiese, ma tra i monaci che in genere erano laici, oppure facevano cadere la loro scelta su persone straniere. L'intrapresa riformatrice diede anche maggior spinta all'invadenza di Arles nelle questioni ecclesiastiche della Gallia. Ma nel 428 accadde un fatto che offrì a C. occasione di intervenire e di far sentire l'autorità di Roma. Un certo Daniele, presumibilmente un monaco, che in Oriente aveva commesso misfatti particolarmente turpi, si era rifugiato ad Arles. Contro di lui dall'Oriente pervenne a Roma una documentata denuncia. C. inviò ad Arles un suddiacono con la richiesta che l'accusato fosse inviato a Roma per il processo. Non solo la richiesta rimase inascoltata, ma Daniele fu addirittura nominato vescovo. Lo sdegno di C. è espresso nella lettera ai vescovi delle province viennese e narbonense del 28 luglio 428 (P.L., L, coll. 429-36), nella quale, tra l'altro, si dichiarano decaduti dalla dignità episcopale coloro che avevano promosso l'illecita ordinazione: in particolare l'indignazione del papa era rivolta contro il vescovo di Arles, che all'epoca doveva essere Onorato. C. formula nella lettera anche un'aspra critica delle "presuntuose novità" introdotte in Gallia dai monaci vescovi. Essi esibivano il loro rigorismo ascetico nei modi esteriori del vivere e anche nella foggia del vestito (erano detti "palliati" per il mantello monastico che portavano). E volevano imporre anche ai fedeli questo stile di vita tutto esteriore, che sostituiva le antiche consuetudini della Chiesa fondate sulla valorizzazione delle disposizioni interiori del cristiano. C. giudica tale riforma come "superstizione", perché esalta il senso letterale delle Sacre Scritture e ne ignora il significato spirituale. La lettera è la riprova della costante diffidenza della Sede romana per le correnti rigoriste riformatrici sostenute dall'ascetismo monastico, che soleva muoversi ai margini dell'istituzione e della tradizione ecclesiastica.

Nella medesima lettera C. torna sull'argomento della penitenza in punto di morte, che in Gallia, anche per la linea rigorista sostenuta dai monaci, continuava ad essere negata. Si adduceva la ragione che il penitente non avrebbe avuto la possibilità di compiere le opere di penitenza che solitamente la Chiesa gli imponeva per un certo periodo, prima di riammetterlo nella comunione. A Roma già da qualche tempo il rifiuto della penitenza "in extremis" era stato considerato contrario allo spirito evangelico. All'inizio del V secolo infatti perdurava la tendenza rigorista tradizionale, ma cresceva la spinta per un atteggiamento più indulgente. In questo conflitto era già intervenuto papa Innocenzo, nel 405, con la lettera in cui, rispondendo ad un preciso quesito di Esuperio di Tolosa, spiegava perché la Chiesa aveva giustamente deciso di concedere ai morenti la penitenza e il viatico (P.L., XX, col. 498). C. si esprime con severità maggiore di chi disperi della misericordia di Dio (cfr. ibid., L, col. 432A), e ricorda che Gesù ha accolto il pentimento del ladrone morente in croce. Nel 452 Leone Magno dovrà ancora insistere con i vescovi della Gallia per convincerli a concedere la penitenza e la comunione "in extremis", riprendendo gli stessi argomenti di C. (cfr. ep. 108, 2, in ibid., LIV, col. 1012A). Ciò nonostante, Fausto di Riez alla fine del V secolo sarà ancora sostenitore della linea rigorista.

In Gallia l'ordinazione episcopale dei monaci, che erano laici, era avvenuta in violazione di una norma, sancita dal concilio di Serdica (343, canone 8), che vietava l'accesso dei laici all'episcopato. Il canone nel corso del IV secolo fu praticamente ignorato (basti pensare all'elezione di Ambrogio di Milano), ma i predecessori di C. (Siricio, Innocenzo, Zosimo) lo avevano ribadito. Il "curriculum" ecclesiastico per C. è una prova della preparazione del candidato al compito di vescovo e una garanzia per le Chiese contro brutte sorprese. La regola, secondo la quale "dev'essere prima discepolo chiunque desidera essere maestro" (P.L., L, col. 433A), vale anche, e soprattutto, per il difficile compito dell'episcopato. Su questo punto la lettera di C. alle Chiese delle province viennese e narbonense afferma la necessità di una specifica formazione ecclesiastica. Di più, secondo C., il vescovo deve essere preferibilmente scelto fra i chierici della medesima Chiesa, cosicché più facilmente possa ottenere il necessario consenso del clero e del popolo che dovrà governare. Riaffermando la condizione di tale consenso, il papa intendeva erigere un ostacolo al ripetersi di ordinazioni di stranieri o di laici e, quindi, di monaci, e ribadire la distinzione fra lo stato di vita monastico e l'ufficio episcopale. C. respinge, poi, con fermezza la pretesa di primato della sede di Arles, e riafferma l'autorità di ogni metropolita entro i confini tradizionali delle province ecclesiastiche, condannando ogni tentativo di usurpazione dei diritti altrui (ibid., col. 434B).

La lettera ai vescovi dell'Apulia e della Calabria (21 luglio 429, ibid., col. 436) ribadisce il divieto ai laici di accedere all'episcopato. In quelle regioni vi era l'urgenza, non di frenare l'invadenza dei monaci, ma più semplicemente la necessità di rimarcare la distinzione nella Chiesa tra chierici e laici, onde evitare che i secondi prevaricassero sui primi. Il rischio infatti era che un candidato laico tentasse di accedere alla carica di vescovo facendo leva su un favore popolare conquistato con metodi demagogici. Il divieto di scegliere candidati estranei al "curriculum" degli ordini ecclesiastici è esteso da C., oltre l'episcopato, al chiericato, per impedire che un laico potesse per questa via diventare vescovo.

Negli ultimi anni del pontificato di C. le Chiese della Gallia meridionale erano turbate, oltre che dalle questioni di cui si è detto, dalla disputa teologica sul tema della grazia. Anche su questo punto esercitava la sua influenza il monachesimo, che vedeva nella dottrina agostiniana della predestinazione la negazione dell'ascesi cristiana, che era la ragione stessa del monachesimo. La reazione a Marsiglia e in Provenza era sostenuta da alcuni presbiteri che attaccavano le ultime opere di Agostino sulla predestinazione bollandole di eresia. Due laici, Prospero d'Aquitania e Ilario (del secondo si sa ben poco), che erano stati in corrispondenza con Agostino e parteggiavano per lui, trovandosi in difficoltà nel fronteggiare la reazione contro Agostino, fecero ricorso a Roma per sollecitare un intervento di C. in difesa della memoria del vescovo di Ippona, che doveva essere morto da poco (28 agosto 430). Il papa intervenne con la lettera ai vescovi delle Gallie (ibid., coll. 430-36). Il tono del documento è energico, come si conveniva ad un papa impegnato ad affermare, particolarmente nei confronti della Gallia, il suo diritto di primazia, ma il contenuto non era quello che Prospero e Ilario si attendevano. Nell'insieme sembra preoccuparsi più della pace interna delle Chiese di Gallia, del rispetto della disciplina ecclesiastica e delle prerogative dei vescovi che della questione sollevata dai due seguaci di Agostino. C. biasima la predicazione di taluni presbiteri, ma soprattutto biasima quei vescovi che la tollerano e lasciano che i presbiteri svolgano il compito della predicazione per il quale non hanno adeguata preparazione teologica. Sui contenuti della predicazione si esprime in modo che è sorprendentemente generico in rapporto al severo tono accusatorio, e in relazione alla denuncia certamente non generica che Prospero e Ilario avevano fatto al vescovo di Roma, nella quale è da credere che avranno rappresentato quella predicazione come pelagiana. Così facendo il papa evita di lasciarsi coinvolgere nella controversia dottrinale. Precisamente i suoi ammonimenti sono rivolti più che ai presbiteri erranti, ai vescovi, che avrebbero dovuto vegliare sulla predicazione della retta dottrina: gli importa soprattutto di far sentire ai vescovi della Gallia il peso della sua superiore autorità. Quanto ai presbiteri, che predicano una dottrina erronea sulla grazia, C. si limita ad osservare genericamente che le loro novità sono contrarie alla verità. Ai vescovi ricorda che è loro proprio il compito del magistero e che essi hanno, particolarmente in campo dottrinale, autorità sui presbiteri. Poi considera l'ipotesi che i vescovi i quali non adempiono, come dovrebbero, il compito di insegnare siano proprio quelli che sono stati eletti tra i laici in violazione delle disposizioni canoniche, e dunque senza adeguata formazione. Così, in un certo senso, l'intervento di C., diretto al vescovo Venerio di Marsiglia e ad altri vescovi della regione, si riannoda con quello in precedenza rivolto contro la politica ecclesiastica della sede di Arles. Quale sia l'argomento specifico sotteso alla lettera lo si deduce da due elementi. C. dice che è stato mosso a scrivere dalla denuncia portata a Roma da Prospero e da Ilario, che, si sapeva, erano convinti assertori della dottrina agostiniana. Poi, al termine della lettera, esprime un elogio di Agostino, che è stato successivamente recepito come una sorta di approvazione ufficiale della sua dottrina sulla grazia nella Chiesa. In realtà la lettera concede assai meno di quanto Prospero ed Ilario avevano sperato di ottenere. Il loro ricorso a Roma mirava a sollecitare un'esplicita condanna degli oppositori della dottrina agostiniana su grazia e predestinazione. Qualsiasi lettore non avvertito sulle taciute ragioni della lettera resterebbe disorientato, non comprendendo quale dottrina C. vuole condannare e quale difendere. Lo stesso Prospero più tardi nella sua opera contro Giovanni Cassiano si vedrà costretto a difendere il vero senso della lettera (Contra collatorem 21, 3, in P.L., LI, col. 272B). Ed è non meno sorprendente che il papa punti il dito solo contro alcuni anonimi presbiteri su una questione che stava arroventando il clima religioso in Provenza. Non sono menzionati i monasteri di S. Vittore e di Lérins, coinvolti nella disputa, e le personalità di rilievo, come Cassiano e Vincenzo di Lérins, che prendevano posizione contro Agostino. Si capisce che C. era pronto a difendere la memoria di Agostino, ma non precisamente la sua dottrina sui temi della grazia e della predestinazione. La prudenza romana sulla ormai trascorsa controversia pelagiana si replicava a proposito della conseguente questione predestinazionista. Quanto il papa non volle precisare in questa lettera ai vescovi delle Gallie fu aggiunto in appendice, più tardi, probabilmente dal medesimo Prospero. Nella tradizione manoscritta infatti il testo della lettera è seguito dai cosiddetti Capitula Caelestini, una serie di proposizioni sul tema della grazia a favore della dottrina agostiniana, estrapolate dagli scritti dei predecessori di C. o da documenti conciliari. Il testo non è autentico, cioè non è di C., ma è stato ritenuto tale fino a tempi recenti ed ha avuto un'importanza fondamentale nella storia del dibattito teologico in tema di grazia e libero arbitrio.

Secondo Prospero d'Aquitania, C. nei confronti del pelagianesimo fu davvero coerente con l'atteggiamento dei suoi predecessori. Lo dimostrerebbe la sua condotta verso Celestio, il maggiore degli esponenti pelagiani dopo Pelagio, allorché tentò di approfittare della nuova situazione politica, determinata dall'usurpazione di Giovanni (423-425), per ottenere la revoca della scomunica che lo aveva colpito: "Caelestium, quasi non discusso negotio audientiam postulantem, totius Italiae finibus iussit extrudi: adeo et praecessorum suorum statuta et decreta synodalia inviolabiliter servanda censebat ut quod semel meruerat abscindi, nequaquam admitteret rectractari" (Prospero, Contra collatorem 21, 2, in P.L., LI, col. 271B). Secondo il testo, il papa avrebbe ordinato di espellere dall'Italia Celestio, che gli aveva chiesto udienza, in coerenza con le decisioni dei suoi predecessori, e questa notizia è ritenuta attendibile, anche se non vi sono conferme. Prospero informa sia nel Contra collatorem (21, 2) che nel Chronicon, ad a. 429, di un'altra iniziativa antipelagiana presa da C., allorché avrebbe mandato in Britannia il vescovo di Auxerre, Germano, con lo scopo di combattere l'eresia che vi si stava diffondendo. Anche questa notizia è credibile, sebbene la Vita Germani narri un po' diversamente di un concilio della Gallia che avrebbe dato mandato a Germano e a Lupo di Troyes di occuparsi della Chiesa della Britannia. Secondo il medesimo Prospero (Chronicon, ad a. 431, e Contra collatorem 21, 2), C. avrebbe anche inviato in Irlanda il primo vescovo dell'isola, Palladio. Per Prospero (Contra collatorem 21, 2) e per Arnobio il Giovane (Praedestinatus 1, 89) fu merito dell'intervento di C. al fianco di Cirillo di Alessandria l'eliminazione dell'eresia nestoriana.

In effetti quest'ultima è la vicenda più rilevante del pontificato di Celestino. Nestorio, chiamato nell'aprile del 428 da Antiochia a reggere la sede patriarcale di Costantinopoli per volontà di Teodosio II, un po' per il suo carattere forte, un po' per l'estraneità all'ambiente costantinopolitano, non ebbe una buona accoglienza nella capitale. Le difficoltà si aggravarono quando prima alcuni suoi fedelissimi e poi lo stesso patriarca contestarono in alcune omelie il titolo di Madre di Dio (theotókos) che tradizionalmente la pietà popolare attribuiva a Maria. L'opposizione cercò di organizzarsi e di mettere sotto accusa Nestorio. Questi con l'aiuto dell'imperatore poté fronteggiare la ribellione, ma ormai lo scisma era nell'aria ed è probabile, anche se non si dispone di documentazione, che i suoi avversari abbiano cercato appoggio a Roma e ad Alessandria. Nestorio decise allora di fare un passo presso la Sede romana, non tanto per chiedere sostegno, quanto per prevenire un'eventuale presa di posizione ostile di C., che sapeva, o supponeva, essere già stato informato dei fatti (si pensa che tra gli informatori del papa a Costantinopoli vi fosse Mario Mercatore). La sua prima lettera al papa (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 2, pp. 12-4) si apre sul caso di quattro vescovi occidentali scomunicati e deposti con l'accusa di pelagianesimo, i quali si erano rifugiati a Costantinopoli per appellarsi all'imperatore. Nestorio, la cui decisione di dare ospitalità a questi vescovi suscitava grande irritazione a Roma, chiede informazioni sui vescovi condannati dalla Sede romana per poter decidere il da farsi. Alla richiesta di chiarimenti fa seguire, come una sorta di contropartita, una relazione sulla controversia dottrinale in atto a Costantinopoli, precisamente su quello che egli riteneva essere l'errore cristologico dei suoi avversari, con uno scambio di informazioni e un'implicita proposta di collaborazione alla pari fra i vescovi delle due capitali per risolvere i problemi interni di ciascuno.

C. lasciò senza risposta la lettera di Nestorio, che è dell'inizio del 429. Nell'autunno del medesimo anno un messo di Nestorio portò a Roma una seconda lettera dal contenuto analogo: medesima richiesta di informazioni sui rifugiati pelagiani, medesima denuncia della dottrina cristologica di stampo ariano e apollinarista dei suoi antagonisti, tra i quali ormai comprendeva, senza nominarlo, anche Cirillo di Alessandria, intervenuto nella disputa. Anche questa seconda lettera restò senza replica. C., per capire di che cosa esattamente si discuteva in Oriente, avviò contatti con Alessandria. Nella primavera del 430 Cirillo di Alessandria, dopo aver inviato a Nestorio una prima e una seconda lettera, con le quali gli contestava la gravità dell'errore dottrinale che egli andava predicando a Costantinopoli, e che aveva cercato di diffondere anche nei monasteri d'Egitto facendovi circolare i suoi sermoni, decise di rompere gli indugi e inviò a C. una denuncia dell'eresia nestoriana con relativa documentazione. Il patriarca di Alessandria ricorda il fallimento dei suoi tentativi epistolari di far recedere Nestorio dalle sue posizioni; dice di aver accantonato l'idea di inviargli una lettera sinodale di scomunica per evitare una rottura definitiva, ma che ritiene vana qualsiasi speranza di un suo ravvedimento. A prova della radicalizzazione della posizione nestoriana Cirillo riferisce l'episodio del vescovo Doroteo che, durante una celebrazione liturgica, alla presenza di Nestorio, aveva gridato l'anatema contro i difensori di Maria Madre di Dio (theotókos). Un episodio che a Roma - Cirillo lo sapeva bene - avrebbe suscitato profonda emozione. Nestorio, secondo Cirillo, è un superbo, che predica questa dottrina solo contro tutti, contro la tradizione dei Padri, contro la fede professata da tutte le altre Chiese. L'eretico va fermato. Ma Cirillo, prima di agire, attende la risposta di Roma, vuol essere sicuro del suo appoggio. Anzi, invita C. a comunicare il suo giudizio anche ai vescovi della Macedonia e dell'Oriente, di modo che Nestorio sia completamente isolato.

Ma Cirillo non si affida solo alla lettera: si preoccupa di pubblicizzare nell'ambiente romano la pericolosità dell'eresia nestoriana. Se ne dovrà occupare il diacono Posidonio, latore della missiva. Per questo Cirillo gli consegna un biglietto con istruzioni, una traccia per una più dettagliata e allarmata relazione orale da fare al papa e ai personaggi influenti della Sede romana. Il biglietto si chiude con la narrazione di un episodio, destinato ad accrescere l'irritazione del papa: vi si dice che Celestio - il pelagiano, cacciato dall'Italia da C. medesimo, secondo la testimonianza di Prospero - ciaa Costantinopoli dà man forte a Nestorio contro i suoi oppositori (ibid., I, 1, 7, p. 171, rr. 31 ss.).

La lettera di denuncia di Cirillo era corredata da un dossier di testi che dovevano documentare al papa l'eresia di Nestorio, mentre un fascicolo di documenti era stato mandato a Roma anche da Nestorio. Il dossier allestito da Cirillo era composto di sermoni nestoriani e di testi ortodossi dei "Padri": il loro confronto dava forma ai capi d'accusa contro Nestorio. Per il loro rilievo e l'importanza della precisione terminologica tali testi furono mandati a Roma in traduzione latina eseguita ad Alessandria per volontà di Cirillo, che intendeva così facilitare la lettura del dossier. C. nella lettera di risposta a Cirillo confermerà la ricezione degli allegati (ibid., I, 2, p. 5), una copia dei quali fu consegnata da C., per il tramite del diacono Leone, a Giovanni Cassiano, che se ne servì per redigere una relazione sulla dottrina di Nestorio. Un confronto dettagliato fra le citazioni di testi di Nestorio nel De incarnatione di Giovanni Cassiano e quelle nel Conflictus di Arnobio il Giovane dà la possibilità di conoscerne meglio la composizione. Questa raccolta di documenti è importante perché ha influenzato le opinioni di Giovanni Cassiano e di Arnobio, i giudizi di C. e di Leone Magno, e più in generale ha orientato l'opinione degli Occidentali su Nestorio.

Il tono allarmato della denuncia del patriarca di Alessandria, le informazioni giunte a Roma da Costantinopoli e il giudizio contenuto nella relazione di Cassiano sui documenti nestoriani convinsero C. che Nestorio era veramente un eretico bestemmiatore perché negava la divina maternità di Maria e la divinità di Cristo, e propugnava la dottrina dei due Figli. C. dunque decise di intervenire e agli inizi di agosto del 430 riunì un concilio romano. Nel sermone che vi pronunciò (ne ha conservato un frammento Arnobio il Giovane, Conflictus II, 13, 9-16), invocava contro l'eresia nestoriana l'autorità dei grandi dottori occidentali: Ambrogio di Milano, Ilario, Damaso. Il concilio approvò una sentenza di condanna in cui si sanciva che, se Nestorio non avesse ritrattato per iscritto la sua dottrina entro dieci giorni dalla notifica, sarebbe stato scomunicato e deposto. Per gli adempimenti C. si affidò a Cirillo, al quale diede mandato di agire in sua vece. Al diacono Posidonio in partenza per tornare ad Alessandria il papa affidò il 10 agosto 430 una lettera per Cirillo con la sentenza contro Nestorio (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 2, pp. 5-6), una lettera per il medesimo Nestorio che Cirillo avrebbe dovuto fargli pervenire insieme alla sentenza (ibid., pp. 7-12), e lettere a vari destinatari orientali, vescovi e clero delle sedi più importanti (ibid., pp. 15-22), che vennero così informati delle decisioni della Sede romana. Finalmente il 10 agosto 430 C. risponde alle due lettere di Nestorio, per il tramite di Cirillo. Si scusa per il ritardo (la prima lettera di Nestorio è dell'inizio del 429!), che attribuisce alla difficoltà di reperire un traduttore. In realtà il papa attendeva di avere un quadro preciso di quanto stava accadendo in Oriente. Dice di aver ricevuto con grande gioia buone notizie sul conto di Nestorio al momento della sua elezione alla cattedra di Costantinopoli, e di aver avuto la certezza che egli sarebbe stato degno successore degli illustri suoi predecessori, ma che le speranze iniziali erano state smentite sia dalle lettere e dagli scritti inviati a Roma da Nestorio sia dalle informazioni giunte da Alessandria. Il quadro che il papa fa della personalità di Nestorio è fosco, i suoi giudizi sono pesanti. Per evitare la scomunica, Nestorio dovrà dimostrare il proprio ravvedimento al suo avversario, il patriarca di Alessandria, al quale il papa ha delegato il compito di eseguire la sentenza. La lettera affronta anche il caso dei pelagiani rifugiatisi a Costantinopoli. Anche su questo punto Nestorio è colpevole, per aver dato asilo a persone che erano state scomunicate in Occidente, ben sapendo che i suoi predecessori avevano solidarizzato con Roma sulla questione pelagiana. La lettera insinua che l'atteggiamento di Nestorio verso costoro non sia dovuto a mancanza di informazioni, ma faccia parte di una manovra antiromana. Colpisce in questa lettera, dai toni molto aspri, la personalizzazione della questione nestoriana. Pochi e assai vaghi sono gli accenni alla dottrina cristologica. Il dito è continuamente puntato sulla persona di Nestorio e sulla sua funzione di corrotto e di corruttore. Probabilmente C. era consapevole della difficoltà che gli Occidentali in genere ed egli stesso avevano di comprendere con precisione concetti e dottrine che la controversia orientale metteva in campo. Ma la ragione principale, che lo tiene lontano dal merito della questione, è probabilmente di principio. Il vescovo di Roma, in forza del suo primato, interviene nella controversia orientale come sommo custode della fede tradizionale della Chiesa. Non è ammesso discutere di una dottrina che è eredità apostolica, sulla quale il successore di Pietro ha il compito di vigilare. La colpa dell'eretico è precisamente di insegnare una dottrina nuova che sovverte la tradizione. C. ripete spesso nelle lettere agli Orientali che Nestorio è un "disputator" che mette in discussione la fede tradizionale della Chiesa. Per C. la fede piena, chiara e intoccabile della tradizione è quella del simbolo apostolico, che a Roma si credeva formula degli apostoli in senso proprio. Questa "fides", che il successore di Pietro ha specifico mandato di custodire e che non ammette né aggiunte né omissioni, è stata violata dall'eretico: "plene etenim et manifeste tradita [fides] ab apostolis nobis nec augmentum nec imminutionem requirit" (ep. ad Nestorium 7, ibid., I, 2, p. 9). La detrazione operata da Nestorio riguardava evidentemente le parole del simbolo "natus de spiritu sancto et Maria virgine": egli infatti rifiutava di ammettere che del Figlio di Dio si possa dire che è nato da Maria. Ma se Cristo, Figlio di Maria, non è il medesimo che è anche Figlio di Dio, come può essere salvatore? C. tocca velocemente la questione cristologica, ma non è l'interesse speculativo per la dottrina che lo muove, bensì sono le conseguenze sul piano soteriologico che lo turbano, trattandosi del fondamento della propria speranza: "agitur ut mihi totius spei meae causa tollatur" (ep. ad Nestorium 12, ibid., p. 10).

Cirillo ottenne così da Roma ben più del semplice appoggio che aveva sperato e cercò di approfittarne. Ma Teodosio II prese le difese del suo patriarca e, per fronteggiare l'alleanza tra Roma e Alessandria, convocò un concilio a Efeso per la Pentecoste dell'anno successivo (431). Nestorio da parte sua, sapendo che a Roma soprattutto lo accusavano di negare il titolo di Maria theotókos, scrisse a C. una terza lettera di tenore conciliante (novembre 430, ibid., I, 5, p. 182), con la quale, pur mantenendo una rigida posizione nei confronti di Cirillo, manifestava la sua disponibilità ad accettare il theotókos (Madre di Dio), spiegando che, se egli preferisce usare l'attributo christotókos (Madre di Cristo), è solo per mantenere le distanze da arianesimo e apollinarismo. Non era facile per Nestorio spiegare ai fedeli di Roma che egli non aveva di mira un titolo tradizionalmente riconosciuto a Maria, bensì discuteva della sussistenza in Cristo di due nature.

Cirillo tornò a sondare le intenzioni di C., per conoscere se era ancora deciso a perseguire Nestorio. La lettera non è pervenuta, ma si ha la risposta del papa (ibid., I, 2, pp. 26-7), che diplomaticamente esprime plauso per l'intervento dell'imperatore. Se un anno prima C. aveva dato all'Alessandrino delega incondizionata per eseguire la sentenza contro Nestorio, ora, dopo l'intervento dell'imperatore e nell'imminenza del concilio, vuole attendere gli eventi, pur senza rinnegare nulla del giudizio espresso. Il papa dice poi che non sarà personalmente presente al concilio, ma assicura la sua spirituale partecipazione, sottintendendo l'invio di delegati.

L'8 maggio 431 partirono i delegati romani al concilio di Efeso. Ad essi C. affida una lettera per i vescovi del concilio, un'altra per l'imperatore Teodosio II e un biglietto di istruzioni per i delegati stessi. La lettera ai vescovi contiene una lunga esortazione, del genere di quelle contenute nelle precedenti lettere agli Orientali, a difendere la dottrina tramandata dagli apostoli. Di Nestorio non parla. Solo accenna alla pretesa di sottoporre a giudizio colui che è giudice del mondo. C., cioè, condanna il tentativo di sottoporre all'indagine del ragionamento umano il mistero di Cristo uomo-Dio. È quanto la lettera all'imperatore esprime in modo più esplicito: "[...] ne quid turbidae novitati licere vestra mansuetudo permittat neve facultas aliqua his qui divinae maiestatis potentiam in humanae disputationis rationem artare contendunt [...] tribuatur" (ep. ad Theodosium, ibid., p. 25). C. vede nella dottrina di Nestorio un approccio razionalistico alla fede, quasi questa fosse un elaborato del pensiero umano, non un dato della tradizione apostolica. Naturalmente il papa non trascura di dire all'imperatore che la pace della Chiesa è fondamentale per la sicurezza dell'Impero, e che perciò l'eliminazione dell'eresia nestoriana è nell'interesse di entrambe le istituzioni. La lettera è importante perché è il primo documento ufficiale della Sede romana che contiene chiari spunti per una teorizzazione dei rapporti fra papato e Impero, visti, s'intende, dal punto di vista del papa. C. non contesta la decisione dell'imperatore di convocare il concilio, ma non gli riconosce il diritto di intervenire nel merito delle questioni, riguardo alle quali egli deve rispettare il "divinum iudicium" che si esprime attraverso il pontefice. Nel biglietto di istruzioni (ibid.) due sono i criteri dettati ai legati. Primo: essi avrebbero dovuto prendere subito contatto con Cirillo e concordare con lui la linea di condotta. Secondo: se vi fosse stata discussione su punti della dottrina, sarebbero dovuti intervenire con la forza dell'autorità che rappresentavano ("auctoritatem sedis apostolicae custodiri debere mandamus"). Conclusosi il concilio il 31 ottobre 431 con la deposizione di Nestorio, C. inviò in Oriente una serie di lettere di congratulazione per tale esito a Teodosio II, a Massimiano nuovo patriarca di Costantinopoli, al clero e al popolo di Costantinopoli, a Flaviano di Filippi e al concilio medesimo (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 2, pp. 88-101 e I, 1, 7, pp. 142 s.). I veri destinatari di quest'ultima si deve intendere che fossero i nove vescovi delegati dal concilio che avevano provveduto all'elezione, il 25 ottobre 431, del successore di Nestorio, e che subito ne avevano dato informazione al papa. Tra l'altro, la lettera di C. contiene le condizioni per la riammissione dei pelagiani che il concilio aveva anche condannato, i quali, secondo C., avevano aderito alla dottrina nestoriana e avevano riposto le loro speranze in un esito del concilio favorevole a Nestorio.

Al pontificato di C. si attribuisce l'introduzione della salmodia nella liturgia romana della messa, prima della "missa fidelium", in aggiunta alle letture tratte dalle epistole di Paolo e dal vangelo: il canto dei salmi era eseguito a cori alternati da tutto il popolo. Veniva così recepito un uso che in Oriente e a Milano, dal tempo di Ambrogio, era ormai una consuetudine. Decretò la chiusura in Roma delle chiese tenute dai novaziani, i quali furono costretti a radunarsi nelle case private (Socrate, Historia ecclesiastica VII, 11). Il Liber pontificalis non manca di menzionare i suoi interventi in campo disciplinare e dottrinale, la cui documentazione, cioè le sue lettere, era conservata nell'archivio della Sede romana.

Nella sfera dell'attività edilizia il Liber pontificalis (p. 230) ricorda che C., "post ignem Geticum" (all'indomani cioè del Sacco di Alarico del 410), procedette ad una nuova dedicazione della "basilica Iulii" (S. Maria in Trastevere) che fu anche riccamente dotata di una cospicua suppellettile in argento (patene, coppe, calici, candelabri, cantari) per il servizio liturgico. Ma l'iniziativa di maggior rilievo (non ricordata nel Liber pontificalis) fu certamente la costruzione della basilica di S. Sabina con la quale si inaugura la presenza cristiana sul colle Aventino: un'aula a tre navate decorate con un fregio in "opus sectile" (incrostazione marmorea) nella fascia soprastante le colonne. Una imponente iscrizione musiva di enormi dimensioni (m 13 x 3) fu collocata nella parte interna della parete d'ingresso. La superficie iscritta, costituita da uno sfondo azzurro su cui si stagliano grandi lettere capitali dal modulo perfettamente uniforme, è definita a sinistra e destra dalle allegorie delle due "ecclesiae" (sotto forma di due donne tunicate e velate), accompagnate dalle relative scritte didascaliche ("eclesia ex circumcisione - eclesia ex / gentibus"), che recano ciascuna un grande "codex" aperto, apparentemente rivolto alla lettura dei fedeli ma in realtà pura convenzione dal momento che i segni grafici tracciati sui due "codices" altro non sono che una indistinta successione di rettangolini e lineette. L'iscrizione, una delle più solenni e funzionali esemplificazioni dell'uso ideologico e propagandistico dell'epigrafia monumentale di apparato, celebra il primato della Sede romana e della sua storica incarnazione nella persona di Celestino. I moduli espressivi, solenni e magniloquenti quanto la veste grafica, mostrano ormai l'acquisita conquista di un repertorio di immagini e di figure funzionali all'esaltazione del ruolo sempre più emergente della Roma cristiana: la Sede romana è "culmen apostolicum"; la figura del vescovo di Roma rifulge in tutto il mondo; il presbitero Pietro, cui C. affida l'esecuzione dei lavori, ben degno di recare un nome tanto illustre quale quello di Pietro ("Illyrica de gente Petrus, vir nomine tanto / dignus, ab exortu nutritus in aula"), è ricco per i poveri, povero con se stesso e con il disprezzo dei beni mondani ha meritato di sperare nella vita futura: "pauperibus locuples, sibi pauper, qui bona vitae / praesentis fugiens meruit sperare futuram".

C. morì il 27 luglio (giorno in cui se ne celebra la memoria liturgica) 432 e fu sepolto nella basilica di S. Silvestro sulla via Salaria al di sopra del cimitero di Priscilla come testimoniato dal Liber pontificalis ("qui etiam sepultus est in cymiterio Priscillae, via Salaria, VIII id(us) april(es)", p. 230), e come descritto con dovizia di particolari dall'itinerario Notitia ecclesiarum (10): "Postea ascendes eadem [Salaria] via ad sancti Silvestri [...] et in dextera parte Caelestinus papa [...]". Sulla scorta della lettera De sacris imaginibus di Adriano I a Carlomagno ("Caelestinus papa proprium suum coemeterium picturis decoravit") si apprende che già in vita C. aveva provveduto a farsi allestire una degna sepoltura corredata da un apparato decorativo ad affresco che doveva rappresentare una schiera di martiri ammessi nella "regia coeli": a questa pittura, come esaurientemente dimostrato da G.B. de Rossi (in senso contrario A. Ferrua), si accompagnava un'iscrizione esametrica che riproponeva una sintesi degli articoli di fede relativi alla persona del Cristo ("natum, passum, ascendit in caelum; sedet ad dexteram Patris; iterum venturus est iudicare vivos et mortuos") e, in particolare, riprendeva la formula antinestoriana del concilio di Efeso che ribadiva la tesi delle due nature: "natum passumque deum". Sulla sepoltura di C. fu posto un elogio in versi (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, I-X, a cura di G.B. de Rossi et al., Romae-In Civitate Vaticana 1922-92: IX, nr. 24833) tutto impostato in proiezione escatologica che, come da prassi negli "elogia" metrici tardoantichi, trova il suo fulcro espressivo nella ripresa del motivo dualistico del corpo destinato alla terra e dell'anima immediatamente ammessa alla gloria divina: "Corporis hic tumulus: requiescunt ossa cinisque / nec perit hinc aliquid Domino caro cuncta resurgit. / Terrenum nunc terra tegit, mens nescia mortis / vivit et aspectu fruitur bene conscia Christi" (vv. 5-8); l'unico accenno retrospettivo sembra cogliersi nella prima parte dell'"elogium" (vv. 1-4), in cui si sottolinea implicitamente il largo seguito avuto da C. fin dalla sua elezione alla Sede apostolica che, conseguita rapidamente e senza contestazioni, governò con il consenso di tutti ("omni rexit populo"): "Praesul apostolicae sedis venerabilis omni / quam rexit populo, decimum dum conderet annum, / Caelestinus agens vitam migravit in illam / debita quae sanctis aeternos reddit honores".

Fonti e Bibliografia

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