COLOMBANO, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLOMBANO (Columba, Columbanus), santo

Donald A. Bullough

Nacque, secondo quanto ci è dato stabilire sulla base dei Vitae Columbani abbatis discipulorumque eius libri, nel Leinster, la provincia più sudorientale dell'Irlanda, intorno al 550, da famiglia di proprietari terrieri facoltosi, ma non nobili, forse cristiani di prima generazione. Il nome con cui il santo si definisce nelle sue opere, "Columba" (di cui "Columbanus" rappresenta manifestamente la latinizzazione del diminutivo irlandese), era con ogni probabilità non il nome di battesimo, ma il nome di religione.

I Vitae Columbani libri duo sono opera di Giona, che fu monaco a Bobbio e segretario e confidente degli immediati successori di C. nel governo di quell'abbazia, Atala e Bertulfo. Composti fra il 618 e il 640 sulla scorta di informazioni fornite da testimoni oculari degli avvenimenti narrati o da persone che erano state a contatto diretto col santo, rappresentano l'unica fonte autorevole della biografia del fondatore di Bobbio. Giona si mostra tuttavia molto parco di notizie per il periodo anteriore alla venuta di C. sul continente ed alla fondazione dell'abbazia di Luxeuil, sebbene dovesse senza dubbio essere a conoscenza dell'attività da lui svolta in Irlanda, nella Bretagna e nella Gallia franca. Questa reticenza, unita alla parsimonia con cui fa allusione a fatti o ad avvenimenti politici coevi, rende difficile ricostruire, insieme con il quadro storico generale, una precisa cronologia della vita del santo irlandese. Quanto agli scritti sicuramente attribuibili a C. giunti sino a noi, essi, più che notizie sulla sua vita, forniscono utili indicazioni sul carattere, sul pensiero e sulla spiritualità del santo.

La tesi secondo cui la nascita di C. dovrebbe porsi nel quinto decennio del sec. VI ebbe larga fortuna e derivò essenzialmente dagli ultimi versi del componimento Ad Fidolium contenuto in manoscritti dei secc. IX-X (a cura di W. Gundlach, in Mon. Germ. Hist., Epist. III, Berolini 1892, pp. 186-88), opera di un Columbanus che la critica più recente è quasi concorde nel ritenere un poeta del periodo carolino. Dato il silenzio osservato in proposito da Giona, nessun peso può essere dato sia all'affermazione dello Pseudo-Fredegario, secondo cui C. sarebbe morto "plenus dierum", sia a, quella di Floro di Lione, il quale nel suo Martyrologium (cfr. Quentin) annota che C. morì "in senectute bona". L'asserzione, contenuta nei più antichi e migliori manoscritti dell'opera biografica di Giona, che C. lasciò l'Irlanda per la Gallia "vicensimum aetatis annum agens" (I, 4, p. 160) è stata universalmente respinta; e, d'altro canto, l'antica emendazione di questo passo in "tricesimum" non ha chiaramente una sua propria autorità.

Giona afferma, in un passo precedente (I, 4, p. 159), che C. si fermò a lungo presso la comunità monastica di Bangor, prima di riprendere il suo apostolico pellegrinare: "Peractis itaque annorum multorum in monasterio circulis, coepit peregrinationem desiderare"; mentre in altri luoghi sottolinea ripetutamente (I, 3) che era "adulescens", quando prese la decisione di volgersi alla vita religiosa. Presupponendo che sia esatta la data 590-91 per l'arrivo di C. in Francia, fissare la data di nascita a metà del sec. VI può essere una ragionevole deduzione; soltanto se l'epoca del viaggio in Francia fosse portata indietro di quindici o sedici anni, si potrebbe avanzare l'ipotesi di una data più antica, non così anticipata tuttavia da non essere compatibile con gli inizi della comunità monastica di Bangor (c. 558-59?).

Nel protocollo iniziale della prima delle sette sue lettere giunte sino a noi, quella indirizzata al papa Gregorio I, C., giocando sul significato della parola ebraica Yonah "colomba", si dice "ego Bar-Iona, vilis Columba"; "Columba" è la forma usata nei Vitae s. Columbani..., ed il componimento ivi inserito all'inizio del secondo capitolo comincia col verso: "Columbanus etenim qui et Columba". "Columba", dunque: lo stesso nome, in gaelico Colum "colomba", che aveva ricevuto, abbracciando la vita monastica, uno dei maggiori santi dell'Irlanda, vissuto tra il 521 e il 597 e chiamato dalla pietà dei fedeli Colum-cille "columba Ecclesiae". (cfr. A. O.-M. O. Anderson, Adomnans Life of Columba, London-Edinburgh 1961, pp. 67, 127; per gli aspetti filologici cfr. anche R. Thurneysen, in Zeitschr. f. Celtische Philol., XIX [1933], p. 209).

Il fatto che C. fu avviato agli studi mentre era ancora giovane, sebbene non dovesse per questo lasciare la casa paterna, prova che non fu di umili origini, e suggerisce implicitamente anche che egli non appartenne ad una classe sociale in cui era normale affidare ad altri i figli per educarli; la locuzione "pubertas nobilis" con cui Giona allude al periodo, nel quale C. fu impegnato negli studi, si riferisce al carattere del giovane, non al suo stato sociale. Le testimonianze relative ad una ipotetica nobiltà di C. o ad una sua parentela regia (H. Concannon, Life of St. Columban, Dublin 1915, p. 6) non sono anteriori al sec. XII. Secondo il racconto del biografo, C. "in pueritiae aetate pubiscens" (cioè fra i sette e i quattordici anni) cominciò ad applicarsi alle "liberalium litterarum doctrinis" ed ai "grammaticorum studiis", che "capaci ingenio" approfondì "usque ad virilem aetatem". Giona non ci dice niente riguardo al suo primo o ai suoi primi maestri, ma dal contesto sembra di poter dedurre che essi furono laici e del luogo.

La decisione, presa da C., di abbracciare la vita religiosa è spiegata, dal pio cronista, sia col desiderio di maggior perfezione da raggiungersi attraverso un rigido ascetismo sia con una vocazione missionaria. Determinante sarebbe stato, in ogni caso - sempre per Giona -, il colloquio che C. avrebbe avuto, prima di iniziare la sua nuova vita, con una "religiosa ac Deo dicata femina", la quale lo avrebbe esortato ad abbandonare per sempre gli allettamenti e la corruzione del suo mondo, "quae Inferi ducit ad valvas", per seguire, peregrinando, le vie del Signore. Doveva essere sui vent'anni quando, nonostante la strenua opposizione della madre, lasciò per sempre la sua casa e la provincia del Leinster. Dapprima C. fece parte della comunità monastica diretta da un "vir venerabilis" Senilis, un religioso originario dell'Irlanda settentrionale, e lì ricevette la sua prima formazione ascetica e religiosa. Fu mentre si trovava sotto la guida di Senilis e beneficiava dei suoi insegnamenti che C. rivelò per la prima volta le sue doti componendo un commento ai Salmi "in lingua elegante" e molti altri testi per il canto o per l'insegnamento.

Più di trenta scritture in celtico nella caratteristica scrittura ogamica, prevalentemente del sec. V, sono le più antiche testimonianze di una cultura letteraria nel Leinster e ne dimostrano la derivazione dalle vicine regioni occidentali, dove tali iscrizioni sono molto più numerose (R. A. S. Macalister, Corpus Inscriptionum Insularum Celticarum, I, Dublin 1945, nn. 18-51; per la datazione cfr. K. Jackson, in C. Fox-B. Dickins, The Early Cultures of North-West Europe, Cambridge 1950, pp. 197 ss.). Senilis è stato identificato con Sinchell il Giovane, il promotore della comunità monastica di Cell-Achid (Killeigh, presso Offaly), che fiorì dopo il 549 e le cui sante consuetudini sono ricordate in un testo irlandese del sec. VIII (Hibernica Minora, a cura di K. Meyer, Oxford 1894): tale identificazione, difficilmente sostenibile in sede di critica filologica, è in contraddizione con quanto afferma Giona, il quale riferisce esplicitamente che C. lasciò il Leinster, della cui provincia Offaly faceva allora parte. Più accettabile è l'identificazione con Senell della comunità Cluain-Inis (sul lago Erne presso Fermanagh). La maggior parte delle notizie su costui, incluso il fatto che è nominato fra i seguaci di Finniano di Clonard, ci è giunta attraverso fonti relativamente tarde; ma la comunità e la sua gravissima regola sono associate con altre figure del tardo sec. VI in Vite irlandesi latine che secondo ogni apparenza incorporano molto materiale primitivo e storicamente attendibile (C. Plummer, Vitae Sanctorum Hiberniae, Oxford 1910, II, p. 228 e I, Introd.). Il fatto che Finniano fosse originario del Leinster fornisce un ulteriore argomento per l'identificazione dei Senilis di Giona con Senell di Cluain-Inis, che tuttavia non è sicura. La perdita del commento al Salterio e degli altri testi ("dicta", erroneamente "docta" nel manoscr. di Metz), composti da C. mentre era con Senilis (e non a Bangor come, a dispetto di quanto chiaramente afferma Giona, ha asserito la maggior parte degli studiosi moderni) ci ha sfortunatamente privato non solo di un'importante testimonianza sull'adolescenza e sulla formazione culturale di C., ma anche di utili informazioni sulla persistenza della lingua e della cultura latina nell'Irlanda del sec. VI. Appunto la peculiarità dell'ambiente, in cui il santo ha compiuto i suoi studi e la sua formazione, può spiegare lo stile e il lessico arcaici riscontrabili negli scritti più tardi di C. che sono giunti fino a noi, stile e lessico che pure sembrano alla Mohrmann quelli dei migliori scrittori latini della Gallia franca del sec. VI.

Non possiamo tuttavia che avanzare ipotesi circa i testi particolari o gli autori letti da C. in questo periodo. È possibile che abbia conosciuto lo Pseudo Anatoliano Canon Paschalis, specie se si ritiene sia stato composto nell'Irlanda meridionale piuttosto che in quella settentrionale o nella Bretagna intorno alla metà del sec. VI. I testi grammaticali, che furono usati dal santo nel corso dei suoi studi, testi di cui non ci sono stati tramandati i nomi, costituirono probabilmente per C. una fonte di reminiscenze e di citazioni classiche; il numero di tali allusioni, negli scritti indubitabilmente autentici di C., è tuttavia trascurabile. Le citazioni bibliche riflettono con ogni probabilità in parte il testo che gli era stato familiare nella giovinezza: si tratta di citazioni dal Vangelo di s. Matteo in una versione certamente Vetus Latina o in versioni "peculiari" (Walker, pp. 216 ss.), che non corrispondono mai alle lezioni fornite dal cod. G. VII 15 della Bibl. naz. di Torino, che si ritiene essere stato portato dall'Irlanda a Bobbio da Colombano. Non è conosciuto alcun testo irlandese di esegesi biblica anteriore a C.; né abbiamo prove che la versione latina del commento di Teodoro di Mopsuestia al Salterio, con o senza la continuazione di Giuliano di Eclano, fosse già nota in Irlanda nel sec. VI. I tentativi compiuti dalla critica per identificare il commento di C. con analoghe opere conservateci anonime in manoscritti arrivati fino a noi (Tosi) sono da considerarsi in genere falliti.

Giona afferma che quando C. sentì il richiamo ad una vita di maggiore perfezione si portò a Benechor (Bangor, contea di Down), dove fioriva una comunità di religiosi sotto la rigida ed austera guida del suo fondatore e abate Comgell. E probabile che le consuetudini di Bangor e il pensiero religioso del suo abate - non tanto, certamente, le testuali parole di quest'ultimo - siano rispecchiate nella versione originale della Regula monachorum di C. e nelle sezioni sicuramente sue della Regula coenobialis. È pure molto probabile che a Bangor C. fu ordinato sacerdote e introdotto - con durature conseguenze per lui e per la Chiesa d'Occidente - nel concetto e nella pratica della confessione privata e della penitenza rigidamente proporzionata ai peccati confessati, che erano stati introdotti in Irlanda da Vinniano (Finniano). È interessante notare che nelle sue lettere più antiche tra quelle pervenuteci C. allude ad una corrispondenza fra "Vennianus auctor" e il britannico Gilda, ma che non accenna in alcuno dei suoi scritti a noi noti alle comunità di Comgell e di Bangor. Secondo Giona, una volta entrato nel monastero di Bangor C. si dette alla preghiera e al digiuno imitando con le sue mortificazioni Cristo sofferente sulla croce; secondo la più antica tradizione continentale, C. fu un "magister": quello che istruì Gallo e altri giovani monaci, affidati al monastero dai loro parenti.

Comgell è chiamato "abbas" o "monasterii fundator" tre volte nella Vitae Columbae di Adomnan (I, 49; III, 13; III, 17), la prima volta in connessione con eventi del 575 circa. Un passo presumibilmente non contemporaneo nel più antico strato degli Annali irlandesi attribuisce la fondazione di Bangor al 559 e un altro, forse contemporaneo, la morte di Comgell al 602 (Annals of Ulster, a cura di W. M. Hennessy, I, Dublin 1887, subann. 558, 601). Le virtù di Conigell sono commemorate senza dettagli personali in un inno contenuto nell'Antifonario di Bangor, uncodice assegnabile all'ultimo ventennio del sec. VII ed ora conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano; un altro inno del medesimo manoscritto loda l'osservanza della regola, l'austerità e la santità della vita comunitaria nel monastero diretto da Comgell (Antiphonary of Bangor, a cura di F. M. Warren, II, London 1895, pp. 16 ss., 28); il rigoroso ascetismo dell'abate viene descritto dettagliatamente nella Vita Comgelli, composta in epoca probabilmente anteriore al secolo X (Vitae sanctorum Hiberniae, a cura di C. Plummer, II, pp. 3 ss.). Una Regula abbatis Comgelli figura in un catalogo di Fulda della metà del sec. IX, ma non è pervenuta sino a noi: cfr. Becker, Catalogi Bibliothecarum Antiqui, Bonn 1885, n. 13. L'opinione dello Hertel e del Laporte che i primi sei capitoli della Regula monachorum sianoun compendio o un adattamento di un testo di Conigell non è provata in sede critica. Nella Regula monachorum, il c. 7 "De curso", nel quale sono indicati gli offizi delle sei ore e la distribuzione dei Salmi in essi - per cui C. afferma di conoscere differenti tradizioni - mostra alcune concordanze con consuetudini in uso nel sec. VI nell'Irlanda e con altre, attestate per Bangor nel tardo sec. VII (Antiphonary, cit., pp. 16 s.; J. J. Ryan, Irish Monasticism, Dublin-Cork 1931, pp. 335 ss.). La Ratio de cursus, composta nel sec. VIII in un non identificato centro continentale, connette direttamente la diffusione del "cursus Scottorum" con la separazione di C., diretto in Gallia da Comgell.

C. viene definito "sacerdos" nei Versus in b. Columbae festivitate ad mensam canendi, inseriti da Giona in calce alla sua biografia del santo. La più antica affermazione che C. fu "magister" a Bangor è contenuta nella Vita Galli (I, 1) di Vettino, un insegnante della scuola monastica di Reichenau, che può aver desunto questo particolare dalla Vita vetustissima, ma che può aver anche interpretato in tal senso le fonti a sua disposizione. Quest'ultima eventualità appare tanto più probabile, ove si pensi ai dubbi avanzati circa l'origine irlandese di s. Gallo. Nessun elemento in favore di un magistero di C. a Bangor può essere dedotto dai poemetti metrici Ad Hunaldum e Ad Sethum a lui attribuiti (ediz. a cura di W. Gundlach, in Mon. Germ. Hist., Epist. III, Berolini 1892, pp. 182, 183-185; ed. Walker, pp. 184-90). Anche ammettendo che i due componimenti siano opera autentica di C. (il che sembra improbabile) e che ambedue i destinatari fossero giovani monaci (il che, nel primo caso, è lungi dall'essere certo), i nomi stessi dei destinatari fanno apparire poco verosimile che essi fossero monaci irlandesi. È da sottolineare il fatto che il nome di C. non compare in alcuna delle fonti antiche relative a Comgell e alla comunità di Bangor, così come non figura nei più antichi martirologi irlandesi, il Félire Óengusso e il Martyrology of Tallaght.

Secondo Giona C., dopo aver trascorso molti anni a Bangor, sentì più forte il richiamo alla "peregrinatio" nello spirito di Abramo: la vocazione, cioè, a seguire la volontà di Dio, abbandonandovisi e rinunziando ad avere una propria vita, una propria casa, una propria patria. Decise pertanto di lasciare il suo paese natale e i parenti; l'abate Comgell, sebbene riluttante, fini col dare il suo consenso, poiché riteneva che l'esilio volontario di C. avrebbe potuto portare beneficio ad altri; fu così che sostenuto dalle preghiere del resto della comunità, C. partì con dodici compagni, i cui nomi sono desumibili in parte da passi successivi della Vita s. Columbani di Giona, e in parte dalla pia tradizione irlandese.

Il gruppo si imbarcò, facendo rotta verso la Bretagna, ignoriamo esattamente in quale anno: il pio cronista, pur riferendo dell'avvenimento, evita accuratamente di fornire qualsiasi elemento cronologico, se si esclude la del resto vaga allusione agli "annorum multorum circulis", che C. aveva trascorso nel monastero di Bangor allorché "coepit peregrinationem desiderare". Dopo una breve sosta nella penisola armoricana, allora rifugio dei Britanni fuggenti davanti agli Angli e ai Sassoni che avevano invaso la loro isola, C. ed i suoi compagni entrarono nella Gallia franca, dove cominciarono a vivere e a predicare il Vangelo: ben presto la loro fama raggiunse la corte di un re, che Giona chiama Sigeberto e che non puo essere altri se non il sovrano dei Franchi d'Austrasia primo di questo nome, morto nel 575, ma che la maggior parte degli studiosi, fin dal sec. XVII, ha ritenuto di dover piuttosto identificare - per ragioni cronologiche - con un fratello o con un figlio di quel sovrano. Quando essi si presentarono dinnanzi al monarca, questi li incoraggiò a rimanere presso di lui: poco propenso a scendere a compromessi con la sua aspirazione ad una vita tutta improntata alla semplicità e al rigore evangelici, C. preferì tuttavia cercare, per sé e per i suoi confratelli, un luogo solitario e infine si stabilì a Annegray (Haute-Saône). Giona descrive vivacemente la vita di grande austerità condotta dai monaci irlandesi, nel loro improvvisato rifugio, in mezzo a una natura selvaggia; durissimi gli inizi, a causa di una carestia. La fama della comunità fondata da C. non tardò a diffondersi, provocando l'affluenza di molti penitenti disgustati del mondo e attirati dalla voce di santità che circondava i monaci irlandesi; vi convennero soprattutto i malati, che chiedevano di essere guariti grazie alle preghiere di quegli uomini pii. Il crescente numero di persone che chiedevano di far parte della sua austera comunità spinse infine C. a cercare un altro sito per una seconda fondazione monastica; egli lo trovò fra le consistenti rovine dell'antica città termale romana di Luxovium (Luxeuil), circa otto miglia a sud-est del suo primo monastero in Gallia. Lì egli stabilì di nuovo la sua comunità e cominciò la costruzione di quello che sarebbe divenuto il suo più importante centro monastico. La data più verosimile della fondazione del monastero di Luxeuil è il 592-93, preceduta di uno o due anni da quella di Annegray.

Nella sua biografia di C. Giona afferma che, quando lasciò Bangor per iniziare la sua missione nel continente, aveva vent'anni: "Vicensimum ergo aetatis annum agens, arrepto itinere, cum duodecim comitibus Christo duce ad litus maris accedent" (Vitae Columbani abbatis..., I, 4, p. 160). Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è possibile stabilire se "vicensimum" sia il risultato di un antico errore di trascrizione (l'emendamento "tricesimum" non è, per diverse ragioni, del tutto soddisfacente), o non sia piuttosto la conseguenza di un errore di interpretazione delle fonti compiuto dallo stesso cronista, il quale può aver equivocato con l'età di C. in religione, o se non dipenda, infine, da una tradizione non attendibile.

Più difficile da spiegare, ma tuttavia vigorosamente difesa da alcuni studiosi (specialmente dall'O'Carrol), è l'asserzione di Giona secondo la quale il sovrano franco che invitò C. e i suoi discepoli a stabilirsi nel suo regno sarebbe stato un Sigeberto: "Pervenit ergo fama Columbani Sigiberti regis ad aulam, qui eo tempore duobus regnis Austrasiorum Burgundionorumque inclitus regnabat Francis" (Vitae Columbani abbatis..., I, 6, p. 162). Un solo Sigeberto compare nella serie dei re merovingi in questo periodo: il primo di questo nome, che regnò dal 561 al 576 e solo sui Franchi d'Austrasia. Il manoscritto di Metz contenente l'opera di Giona, riporta la variante "Pervenit ergo fama Columbani Hyldeberti regis ad aulam", che prospetta la possibilità di emendare il passo in "Pervenit ergo fama Columbani Hyldeberti [filii] Sigeberti regis ad aulam...". Childeberto, secondo sovrano merovingio di questo nome e figlio di Sigeberto I, aggiunse tuttavia al proprio il regno dei Franchi d'Austrasia soltanto dopo la morte dello zio Gontrano, avvenuta il 28 marzo 593 (Chronicarum quae dicuntur Fredegarii Scholastici, IV, 14). Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 14 e 19, pp. 174 ss., 187 ss.) suggerisce, d'altro canto, che Luxeuil si trovava allora nel territorio di Besançon: faceva perciò presumibilmente parte di quella diocesi, così come ne fece parte anche nei secoli successivi insieme con Annegray. Besançon, allo stesso modo di Langres a occidente, era certamente inclusa nei confini nel regno di Gontrano (A. Longnon, Géographie de la Gaule au VIe siècle, Paris 1878, pp. 125 ss., 220, e carta). Sarebbe ancora necessario supporre, perciò, che prima del 593 la regione della Haute-Saône si trovasse ai limiti di una terra di nessuno o facesse temporaneamente parte del territorio di Toul, il cui confine meridionale fu determinato quasi immediatamente dopo; ipotesi a sostegno della quale non si può portare alcuna prova documentaria. Elementi di maggior peso per la determinazione della data in cui venne fondata Luxeuil e, quindi, dell'epoca in cui C. arrivò in Gallia, sono forniti da Giona, secondo il quale il santo fu costretto ad abbandonare il monastero di Luxeuil "vicesimo anno post incolatum heremi illius" (Vitae Columbani abbatis..., I, 20, p. 197), e dello stesso C., il quale, scrivendo nell'estate-autunno del 603 ai padri riuniti nel sinodo di Chalon-sur saône, ricordava che "usque nunc licuit nobis inter vos vixisse duodecim annos" (Columbae sive Columbani abbatis Luxoviensis et Bobbiensis Epistolae, n. 2, p. 162). Da altre fonti - indipendenti da Giona - apprendiamo l'anno in cui C. partì definitivamente da Luxeuil: fu il 610. L'O'Carrol ha cercato di dimostrare che il sinodo, al quale il santo inviò la seconda delle sue lettere giunte sino a noi, fu il sinodo di Mâcon del 585: tale ipotesi è da respingere, se non altro perché, in quella stessa lettera, il santo cita il papa Gregorio Magno e la sua Regula pastoralis. Per il poco che si sa della romana Luxovium o Lussovium, cfr. Dict. d'Arch. Chrét. et deLit., IX, 2, coll. 2722-24 e Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie, XIII, col. 2109.

Gli anni di Luxeuil sono i più largamente documentati della vita e dell'attività di C.; la mancanza di indicazioni cronologiche precise e la totale assenza di riferimenti ad avvenimenti coevi nel racconto di Giona, ed il fatto che non ci sia pervenuto alcun documento sulla primitiva abbazia di Luxeuil rendono tuttavia praticamente impossibile ogni tentativo di ricostruire una coerente cronologia della vita di C. in quel periodo. Giona ricorda che molte persone provenienti da ogni parte delle Gallie e molti "nobilium liberi" si recarono a Luxeuil cercandovi conforto spirituale; e che, a causa dell'aumento della comunità originale, C. si vide costretto a fondarne ben presto un'altra a poca distanza, a Fontaine-les-Luxeuil. Secondo un'ipotesi generalmente accettata, in quegli anni di rapida espansione, quando due o tre comunità erano sotto la sua giurisdizione di abate, C. cominciò ad elaborare e a mettere per iscritto - anche se evidentemente non nella forma definitiva a noi nota - le sue Regulae e il suo Penitenziale, con sezioni rispettivamente per i suoi monaci, per i clerici secolari e per i penitenti laici.

Nessuno dei manoscritti della Regula monachorum o della Regula coenobialis giunto sino a noi è precedente ai primi anni del sec. IX ed ai tempi di Benedetto di Aniane. La prima è tramandata in una redazione più lunga, divisa in dieci capitoli, e in una seconda, più breve, in quattordici capitoli. Anche la Regula coenobialis ci è pervenuta in due redazioni di differente lunghezza. La redazione più estesa della Regula monachorum, che sappiamo essere stata copiata a Bobbio tra il IX-X secolo, è generalmente attribuita a Colombano. Molto più dibattuta è la questione delle origini delle due versioni della Regula coenobialis, il dettagliato regolamento che, secondo il Walker, costituisce "un necessario complemento dei principî generali" della Regula monachorum. La maggioranza degli studiosi ritiene tuttavia che soltanto i primi nove capitoli della redazione più breve della Regula coenobialis siano da attribuirsi a C.; gli altri capitoli e le interpolazioni sarebbero aggiunte posteriori, opera di autori non identificati. Ad eccezione del VII capitolo della redazione più estesa della Regula monachorum - cheprecisa il "cursus" o "ufficio dei Salmi e delle preghiere in modo canonico" - le Regulae non prescrivono niente sull'organizzazione e sulla vita comunitaria di un monastero: esse sono piuttosto esortazioni all'eroica ricerca delle virtù monastiche, con unite prescrizioni penali per qualsiasi fallo di cui un monaco può macchiarsi. La Regula monachorum è infatti, più che un insieme di regole monastiche, una raccolta di consigli ascetici e spirituali; mentre la Regula coenobialis è sostanzialmente un penitenziale monastico.

Il Poenitentiale Columbani, che a noi è giunto tramandato solamente da due manoscritti bobbiesi contenenti la Regula monachorum e altri testi di C., può essere ritenuto sostanzialmente opera del santo: molti capitoli rispecchiano con grande aderenza motivi ed idee proprie del Penitenziale di Finniano di Clonard, mentre altri riflettono problemi peculiari della Borgogna al principio del sec. VII.Il Poenitentiale Columbani introdusse nell'Europa continentale, con conseguenze che fecero epoca, la pratica della confessione privata e frequente ("confessione di devozione"), e della penitenza similmente privata e reiterata (penitenza "tariffata") come un mezzo per l'assoluzione dai peccati commessi dall'ultima confessione.

Gli aneddoti ricordati da Giona per illustrare i poteri sovrannaturali di C., i suoi doni profetici e le sue facoltà guaritrici enfatizzarono l'importanza della solitudine naturale in cui era stata fondata ed in cui doveva vivere la comunità; allo stesso modo pongono in rilievo la totale dipendenza di quest'ultima, per la sua sopravvivenza, dal lavoro degli stessi monaci. Ad ogni modo, quando sia stata fatta astrazione dalle esigenze proprie del genere agiografico, gli episodi narrati dal pio cronista offrono nel complesso un quadro convincente dell'intensa spiritualità di C., basata sulla totale soggezione dell'uomo al volere di Dio e sulla sua identificazione con il Crocifisso; testimoniano inoltre ilfascino personale del santo, che sembrava inevitabilmente avere una base sovrannaturale. I momenti di comprensione e di dolcezza riescono a mitigare molto l'impressione di irragionevole e irrazionale severità data dai provvedimenti disciplinari delle Regulae e del Poenitentiale Columbani. Probabilmente uno dei primi effetti dell'influenza esercitata dalla predicazione e dall'esempio di C. e dei suoi discepoli sulla nobiltà della Borgogna settentrionale è testimoniata dalla devozione dimostratagli da un "dux" locale, Valdeleno, e dalla moglie di questo Flavia (forse gallo-romani), i quali non esitarono ad affidargli, perché lo educasse, il loro primogenito Donato, più tardi divenuto vescovo di Besançon; mentre l'attrattiva che egli, col suo esempio e la sua parola, esercitava sui ceti meno elevati è testimoniata dalle visite alle comunità monastiche irlandesi compiute da un Vinioco "presbiter ex parrochianis" e padre di un futuro abate di Bobbio. Sembra che C. e le sue comunità, oltre alla pratica della confessione privata frequente, abbiano incoraggiato anche quella della comunione frequente per i laici come per loro stessi, comunione che molti dei primi avrebbero ricevuto nelle cappelle monastiche. Non è sorprendente, perciò, che le consuetudini monastiche e gli indirizzi pastorali introdotti o incoraggiati da C., così come pure il tipo di spiritualità da lui promosso, possano aver suscitato a lungo andare il malcontento e l'opposizione di almeno alcuni dei vescovi e degli esponenti dell'alto clero della Francia orientale, sebbene Giona non vi faccia dirette allusioni. Il dissidio cen le gerarchie locali era acuito dall'insofferenza, che C. dimostrava nei confronti della decadenza morale del clero franco, cui rinfacciava senza mezzi termini la rilassatezza dei costumi, la mondanizzazione, l'ossequio dinanzi ai potenti, il distacco dagli ideali evangelici. A rendere più pesante la situazione, si aggiungeva l'uso abituale, da parte dei missionari irlandesi, del ciclo pasquale di ottantaquattro anni, con equinozio fissato al 25 marzo e limiti dalla quattordicesima alla ventesima luna, che C. aveva portato con sé dall'Irlanda: le chiese locali, come del resto la maggior parte di quelle della Gallia, si attenevano invece, per la determinazione della Pasqua, alle tavole di Vittore di Aquitania. Già negli ultimi anni del sec. VI, per il tramite del "rector patrimonii b. Petri in Galliis", Candido, C. si era rivolto al papa Gregorio I, perche avallasse con apostolica autorità le dottrine sul ciclo pasquale proprie delle Chiese irlandesi; ma fu solo nel 600 che, con la prima delle sette sue lettere giunte a noi, sottopose formalmente la questione al pontefice romano.

Nel suo scritto, il santo, dopo aver premesso di riconoscere la speciale autorità della sede di S. Pietro e dopo aver espresso il proprio grande rispetto per la persona di Gregorio I, si batteva vigorosamente perché il suo calcolo del ciclo pasquale fosse riconosciuto come parte della tradizione autentica della Chiesa; pretendeva inoltre - implicito rimprovero a molti esponenti dell'alto clero franco - sanzioni contro i vescovi simoniaci e impuri e per quei monaci che avevano abbandonato i loro monasteri.

Tre anni più tardi, nel 603, C. fu convocato a Chalon-sur-Saône, dove si sarebbe dovuto presentare dinnanzi ad un sinodo di vescovi e di ecclesiastici non solo per discutere sul problema della determinazione della Pasqua, ma soprattutto per rispondere sulle altre questioni in cui le tradizioni e le consuetudini da lui introdotte dall'Irlanda erano in contrasto con quelle locali. C. si rifiutò di ottemperate all'invito, affermando di ritenere inutile ogni ulteriore discussione sull'argomento: "Ego autem ad vos ire non ausus sum, ne forte contenderem praesens contra apostoli dictum dicentis: Noliverbis contendere; et iterum: Si quis contentiosus est, nos talem consuetudinem non habemus, neque Ecclesia Dei". Inviò invece ai padri riuniti a Chalon una lettera per esortarli a non discutere solo sul problema del ciclo pasquale, "sed etiam de universis necessariis observationibus canonicis, quae a multis - quod gravius est - corruptae sunt", negando nel medesimo tempo ogni intrinseco conflitto con la contrastante "testimonianza" (documentum) del clero secolare. In una lettera posteriore, inviata a Roma con ogni probabilità durante la vacanza papale successiva alla morte di Gregorio Magno (11 marzo 604), perché indirizzata "Domno sancto in Christo apostolico patri N. papae", rinnovò l'appello, perché a lui e ai suoi discepoli fosse permesso di continuare a seguire le regole che essi avevano portato dall'Irlanda (Columbiae sive Columbani abbatis Luxoviensis et Bobbiensis Epistulae, n. 3, pp. 164 s.).

Circa il numero e la disposizione degli edifici, da cui era costituita la primitiva fondazione monastica di Luxeuil, nessun elemento nuovo hanno portato scavi e ricerche archeologiche, sebbene nel corso di esse siano state trovate tombe del periodo merovingico sotto il confine orientale della chiesa sussidiaria di S. Martino (che può risalire alla metà del sec. VII: A. Erland-Brandenburg, Le monastère de Luxeuil au IXe siècle, in Cahiers archéol., XIV [1964], pp. 239-43). Giona attribuisce ai "septa monasterii" una "ecclesia" (la cui dedicazione più antica ricordata è a S. Pietro), un "atrium ecclesiae", fornito di finestre, nel quale C. sedeva a leggere, un "refectorium", un "cellarium" e un "horreum" (VitaeColumbani, I, 10, 15, 16, 17, 20). Per la chiesa di S. Martino, luogo di sepoltura dell'abate; Valdeberto (m. 670), si veda la Vita Waldeberti, in Acta Sanctorum Maii, I, p. 280.

Giona collega specificamente la creazione della Regola di C. - che doveva essere osservata da tutti i suoi monaci - con la "cella" di Fontaine sotto un preposito, e parla per essa, di una comunità di sessanta monaci (Vitae Columbani, I, 17, p. 183). Nella lettera inviata al sinodo di Chaion, C. allude a "diciassette fratelli morti".

Del duca Valdeleno e della sua famiglia parla Giona (Vitae..., I, 14, pp. 174 ss.): dal momento che Donato fu vescovo di Besançon dal 626-27, l'episodio dovrebbe appartenere all'ultimo decennio del sec. VI. Giona definisce Valdeleno "dux" della regione fra le Alpi e il Giura, corrispondente alla moderna Svizzera occidentale - "qui gentes inter Alpium septa et Jurani saltus arva incolent regebat" - ma il suo nome non compare nella serie dei duces Ultraiorani di questo periodo e che noi conosciamo grazie allo Pseudo-Fredegario. Dal momento che, secondo quanto afferma Giona, la coppia venne a Luxeuil "ex Vesontionense oppido", sembra verosimile ritenere che il ducato da cui provenivano fosse "Cisiuranus". Che Valdeleno fosse, a dispetto del suo nome, di origine gallo-romana, si deduce dalla affermazione dello Pseudo-Fredegario, secondo la quale il di lui figlio e successore nel ducato, Cramnelend, era "ex genere, Romano", mentre gli altri duchi erano "ex genere Francorum" (Chronicarum quae dicuntur Fredegarii Scholastici, IV, 78). Un altro Valdeleno fu creato da C. priore di Luxeuil, quando fu costretto a lasciare il monastero; alcuni studiosi hanno identificato questo secondo Valdeleno con il futuro abate di Bèze e con un figlio del "dux" franco Amalgario (Roussel, I, p. 128; K. F. Werner, Karl der Grosse, I, Düsseldorf, 1965, pp. 101 s.).

Il "presbiter Columbus", cui papa Gregorio I spedì personalmente una copia della Regula pastoralis nel novembre del 594 (Gregorii papae I Registrum epistolarum, a cura di P. Ewald, in Mon. Germ. Hist., Epistolarum I, Berolini 1897, p. 299) quasi certamente non è C.; non si sa perciò per quale via C. entrò in possesso di quell'opera, che cita nella seconda e nella terza delle sue lettere a noi pervenute. Queste due epistole e un'allusione contenuta nella terza forniscono la prova del conflitto in corso negli anni 601-603 circa la osservanza pasquale (per il contesto e le date: P. Grosjean, Recherches sur les débuts de la controverse paschale chez les Celtes, in Analecta Bollandiana, LXIV [1946], pp. 200-215); lo Pseudo-Fredegario ricordando il "senodus Cabillonno" parla soltanto della deposizione di Desiderio di Vienne.

Un'identificazione del "sanctus frater" - al quale C. inviò un suo trattatello sul calcolo pasquale - con il vescovo di Lione dal 602-603 ordinario di C. (Chronicorum quae, dicuntur Fredegarii Scholastici, IV, 22, 24), che in altri testi compare sempre come "Aridius" o "Aredius" è fonologicamente e storicamente possibile, ma non assolutamente certa.

La mancanza nel protocollo iniziale della terza lettera di C. del nome del vescovo di Roma, C. si appellava ancora una volta, è convincentemente spiegata dal fatto che egli potesse ancora ignorare, quando scriveva quella lettera (metà del 604 o del 606-607), chi fosse il papa successo a Gregorio I da poco scomparso. Il Grosjean, pp. 208-210, preferisce attribuire la terza lettera di C. al 606-607, poiché la Pasqua irlandese sarebbe caduta, nel 607. nella quattordicesima luna: lo studioso sottolinea che questa volta C. richiede soltanto che "dalla tua approvazione noi possiamo durante il nostro esilio conservare il rito della Pasqua come l'abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti".

C. non menziona maiun principe secolare nelle lettere che scrisse mentre era in Francia. La sua condotta indipendente nei confronti della gerarchia ecclesiastica della Borgogna e la sua resistenza - che a quanto sembra ebbe successo - alle pressioni, perché abbandonasse le consuetudini "irlandesi" hanno fatto ritenere ad alcuni studiosi che egli abbia goduto per molti anni dell'attivo sostegno del re Teodorico II o di quello della nonna di questo, Brunechilde. Sulla base di elementi desumibili da due passi dell'opera di Giona (Vitae Columbani..., I, 19, pp. 188, 190), sembra inoltre di dover dedurre che tra il 603 ed il 607 il giovane re di Borgogna abbia concesso formalmente ai centri monastici fondati da C. la sua protezione sovrana (mundeburdium). Un passo della terza epistola del santo (Columbac sive Columbani abbatis Luxoviensis atque Bobbiensis Epistolae, p. 165) èstato interpretato in modo tale da poter avanzare l'ipotesi, peraltro discutibile, che le fondazioni monastiche di C. beneficiarono di un privilegio reale di immunità. Nel medesimo periodo o, forse, durante o poco dopo il breve matrimonio di Teodorico II con la principessa visigota Ermenberga (607-08), C. si attirò l'aspra inimicizia di Brunechilde, perché, secondo il biografo, si era rifiutato di benedire i figli illegittimi del re nel corso di una sua visita ad una "villa regia", dove i fanciulli vivevano affidati alle cure dell'anziana regina. In quell'occasione il santo avrebbe profetizzato che essi non avrebbero mai impugnato lo scettro reale. Come ritorsione Brunechilde ordinò che fosse fatto divieto di fornire "receptacula... vel quaelibet subsidia" ai seguaci del santo; impose inoltre ai monaci di Luxeuil di nonuscire "extra monasterii terminos". C. si recò allora ad Époisses (Côte-d'Or), dove si trovava in quel momento la corte burgunda, e si appellò a Teodorico II contro le misure persecutorie disposte dalla vecchia regina, esigendone la revoca immediata. A causa della scandalosa condotta di Teodorico II, si rifiutò tuttavia di entrare "in domibus regis" per incontrarsi personalmente col sovrano - giunse perfino a ricusare le vivande che gli venivano offerte a nome di quest'ultimo. La fermezza del santo ed un evento miracoloso, che terrorizzò il sovrano e la sua corte, portarono alla revoca dei provvedimenti contro i missionari irlandesi. Qualche tempo dopo però, tornato il re alle sue dissolutezie, C. riprese a fustigarne pubblicamente la condotta, giungendo a minacciare la scomunica, "si emendare... non vellit".

In un simile clima di tensione fu quindi facile a Brunechilde convincere prima "proceres, auligas, obtimates", poi gli "episcopos" del regno, infine lo stesso Teodorico II, che era necessario allontanare dalla Borgogna l'ingombrante monaco. Presentatosi a Luxeuil, il re contestò al santo l'attaccamento intransigente alle consuetudini irlandesi e, in particolare, criticò quelle che interdicevano a quanti non facessero parte della comunità l'accesso ai "septa secretiora" del cenobio. Quindi, infrangendo la clausura monastica, il sovrano penetrò sino al refettorio, allontanandosene solo dopo che C., sdegnato da una simile violazione di uno dei punti più gelosi della regola, gli ebbe minacciato la collera divina e profetizzato la rovina totale del suo regno e della sua stessa famiglia.

L'attività pastorale e la predicazione di C., così diverse e così nuove rispetto a quelle abituali, avevano senza dubbio urtato le suscettibilità del clero locale e rinfcolato le profonde rivalità esistenti fra i diversi gruppi di potere del regno dei Burgundi. Ne fosse conscio o meno, il santo fu sul punto di diventare uno dei fattori della lotta per la conquista del potere; forse, fu anche sospettato di collusione con i gruppi dirigenti degli altri regni franchi. Per volere del re intorno al 609 C. ricevette pertanto l'ordine di stabilirsi a Besançon, forse allo scopo di mettere alla prova il suo lealismo: non venne considerato prigioniero di Stato e poté portare con sé almeno uno dei suoi discepoli irlandesi. A Besangon, in circostanze che Giona presenta come miracolose, riuscì a liberare dal carcere e a far riparare in una chiesa alcuni condannati a morte. Poco dopo, poiché non era sorvegliato, tornò a Luxeuil, dove erano sorti dissidi all'interno della comunità, non è chiaro se provocati dalla eccessiva severità della regola o dall'intransigenza dello stesso C., che si rifiutava di adottare consuetudini monastiche allora comuni, o ancora per altre ragioni a noi ignote. Quando Teodorico e Brunechilde ordinarono che il santo venisse arrestato ed inviato a forza in esilio, sembra che gli ufficiali incaricati di portare a termine l'operazione siano stati turbati dalla coraggiosa fermezza del fondatore di Luxeuil e dall'enormità dello stesso ordine ricevuto. C. tentò di resistere, in un primo momento, ma poi - secondo quanto riferisce Giona - piuttosto che mettere a repentaglio la vita di altri accondiscese a partire.

Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 19, p. 190) narra che Teodorico nella sua visita a Luxeuil disse tra l'altro: "Si largitatis nostrae munera et solaminis supplimentum capere cupis..." e che C. replicò: "... nec tuis muneribus nec quibusque subsidiis me fore ad te sustentaturum". I termini "solamen" e "subsidia" si devono intendere in linguaggio letterario come "protezione [regia]", soprattutto perché uniti alla parola "munera" (se questi non sono donazioni di beni immobili); ma non abbiamo nelle fonti chiari esempi per un tale uso e, d'altro canto, Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 18, p. 187) usa "solamina" nel senso tradizionale di "consolazioni". Concessioni regie di età merovingia di "emunitas" a chiese e monasteri risalgono almeno alla prima metà del sec. VI; cfr. F. L. Ganshof, in Les liens de vassalité et les immunités (in Recueils de la Soc. Jean Bodin, I [1958], 2, pp. 177, 188 s.;F. Prinz, Frühes Mönchtum, pp. 158 s.). Ilbrano della terza lettera di C. è "constat nos in nostra esse patria, dumnullas istorum suscipimus regulas Gallorum, sed in desertis sedentes..." (p. 165), sembra piuttosto un'asserzione diesenzione dall'autorità episcopale e questa non è la natura della "emunitas" secolare, di cui non ci sono pervenute testimonianze per una epoca così alta.

Lo Pseudo-Fredegario (Chron., IV, 21, 24)ricorda la nascita di figli di Teodorico nel 602 e nel 603 e (ibid., IV, 30) il breve e non consumato matrimonio con Ermenberga (con responsabilità in parte di Brunechilde).

La "Brocariacum villa", dove, secondo Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 19, pp. 187 s.), C. incontrò Brunechilde e i suoi nipoti, è generalmente identificata con Bruyères-le-Châtel (Seine-et-Oise); tuttavia, poiché quest'ultima viene indicata come "Brocaria" in un documento privato forse del 670, e sitrova a più di trecento chilometri in linea retta da Luxeuil, tale identificazione non sembra accettabile.

Secondo Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 19, pp. 189 s.) il re fu convinto "de eius [cioè Columbani] religione detrahendo et statum regulae quam suis custodiendam monachis indederat macularet". C. era preparato ad ammettere il re e il seguito solo negli alloggi degli ospiti, in contrasto con l'uso allora abitualmente seguito nei monasteri in Gallia di ammettere laici in tutti gli edifici monastici (E. Lesne, Histoire de la propriété ecclésiastique, I, Lille 1910, pp. 398 s.).

Il "procer" Baudulf si impadronì di C. a Besançon "quoadusque ex eo regalis sententia quod voluisset decerneret".

Le serie divisioni apertesi nella comunità di Luxeuil sono riferite nella quarta delle epistole di C., scritta quando questi era a Nantes.

C. lasciò Luxeuil sotto scorta; sua destinazione era, con ogni evidenza, la costa atlantica, dove sarebbe stato imbarcato e ricondotto nella nativa Irlanda. Era il 610, venti anni dopo che egli aveva fondato la prima cella in terra di Francia e tre anni prima che il re Clotario II dei Franchi di Neustria estendesse la sua autorità anche sull'Austrasia e sulla Borgogna. Durante il cammino scampò a un attentato ordito contro di lui da un guerriero della scorta, ma trovò ospitalità presso le persone pie, operò guarigioni miracolose e fece profezie. In particolare predisse che Clotario avrebbe esteso la sua autorità sulla regione: questo vaticinio deve aver confermato i sospetti che gravavano su di lui e che lo mettevano in rapporto con la corte di Soissons. Ad Auxerre, evidentemente per evitare la troppo pericolosa vicinanza della frontiera con la Neustria, la comitiva piego verso sud-ovest dirigendosi su Nevers. Qui si imbarcarono per discendere la Loira. Gli ordini che li avevano preceduti a Orléans erano così drastici e il timore della collera del re era così grande nel capoluogo del Loiret, che solo un siriano cieco, e sua moglie osarono portar aiuto a C. e ai suoi compagni, cui offrirono alloggio e ristoro. A Tours, città al di fuori dei confini del regno dei Burgundi, la scorta tentò di impedire a C. di sbarcare per visitare la tomba di s. Martino; ma la corrente, nonostante gli sforzi dei marinai, portò l'imbarcazione dentro, il porto: il missionario irlandese poté passare la notte in preghiera, presso la tomba del santo, mangiare il giorno dopo con il vescovo della città e rinnovare, nel corso del banchetto, la profezia della distruzione della famiglia del re Teodorico II.

Arrivato a Nantes, fu affidato alla responsabilità del conte e del vescovo della citta per tutto il tempo necessario a trovare un'imbarcazione diretta verso l'Irlanda. Egli utilizzò la sosta per scrivere una lettera ai monaci della comunità della Borgogna e più particolarmente ad Atala, un nobile burgundo che, dopo un breve periodo trascorso presso l'abbazia di Lérins, aspirava alla più austera disciplina di Luxeuil, e che C. voleva come suo successore.

Questa lettera rivela in modo mirabile la fermezza del carattere e dei propositi di C. nel momento delle delusioni - tra esse va incluso anche il fallimento della sua vocazione missionaria - e il suo genuino affetto per quanti dividevano con lui il suo ideale di vita monastica; essa rivela anche le divisioni che si erano sviluppate già prima della sua partenza probabilmente non solo per questioni relative all'osservanza - all'interno delle comunità da lui fondate, divisioni che il santo temeva peggiorassero con la sua lontananza e che potevano essere risolte soltanto con espulsioni.

Imbarcato, insieme con i suoi discepoli su un mercantile, C. salpò finalmente per l'Irlanda; uscito in mare aperto, il vascello venne tuttavia respinto indietro da una onda di riflusso e si incagliò su un bassofondo: dopo tre giorni di inutili sforzi compiuti per liberarlo, il comandante temette una vendetta dei Cielo e si convinse che, sino a quando C. e i suoi beni non fossero stati scaricati, l'imbarcazione non avrebbe potuto riprendere il mare. In questi frangenti C. si rese conto che nessuno desiderava trattenerlo prigioniero, contrariamente aquanto aveva già indicato nella lettera inviata a Luxeuil, ma che si voleva aiutarlo a fuggire. Così fece: prima della fine del 610 comparve nella Neustria, dove fu benevolmente accolto alla corte di Clotario II. Le sue lamentele nei confronti di Teodorico e di Brunechilde furono ascoltate con simpatia e, secondo Giona, il sovrano accolse il consiglio di C. di rimanere neutrale nell'imminente confronto fraTeodorico II e Teodoberto II, re dei Franchi d'Austrasia. Prima che si aprisse il conflitto tra i due sovrani merovingi, ad ogni modo, C. si rimise in cammino e si diresse, passando per Parigi, verso il regno di Teodoberto. Qui egli ebbe i suoi incontri più importanti con membri della nobiltà franca: in una villa appena fuori Meaux egli incontrò Chagneric e alcuni suoi familiari; e a Ussy vide Autari e la sua famiglia. Alla corte di Teodoberto II, che si trovava allora forse a Metz, C. si incontrò con i monaci che erano stati da poco espulsi da Luxeuil; tra essi si trovavano anche Atala ed Eustasio. Poiché il santo stava allora cercando per la sua comunità una nuova sede permanente, da cui potesse predicare la fede ai pagani, il re e i suoi consiglieri lo indirizzarono verso le regioni sudorientali dei regno franco, là dove, intorno al lago di Costanza, esso confinava con la semindipendente Rezia cristiana e con le terre allora occupate dalle tribù germaniche degli Alamanni, pagane. Ancora una volta C. intraprese con i suoi discepoli un viaggio fluviale, nel corso del quale egli e il suo seguito beneficiarono della ospitalità del vescovo di Magonza.

Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 20-24, pp. 193-208) è la sola, e molto particolareggiata, fonte per il viaggio da Besancon a Nantes e da Nantes alla corte di Clotario. La quarta lettera di C. fornisce tuttavia alcuni particolari relativi alla situazione politica generale e alle difficoltà incontrate nel trovare un naviglio diretto in Irlanda. La ripetuta profezia della vittoria, che Clotario II avrebbe riportato sui re di Austrasia e di Borgogna "entro tre anni", fornisce la data. La comunità siriaca di Orléans viene ricordata da Gregorio di Tours quando fa il resoconto della visita compiuta in quella città dal re Gontrano nel 585 (Hist. Franc., VIII, 1, in Mon. Germ. Hist., Script. Rerum Meroving., I, 1, a cura di B. Krusch-W. Levison, Hannoverae 1937-1951). Il manoscritto del Grand Seminaire di Metz [senza segnatura] (e la sua copia conservata nella Biblioteca municipale di Metz, ms. 523) riporta correttamente il nome dell'allora vescovo di Tours, Leupecharius; gli altri codici hanno "Leuparius". Da altre fonti apprendiamo che questo presule morì nel 613-14. In tutti i manoscritti il nome del vescovo di Nantes è "Suffronius"; ed un "Eufronius episcopus Namnatis" sottoscrisse gli atti del concilio di Parigi nel 614 (Concilia, in Corpus Christian., Series Latina, a cura di C. De Clercq, 148 A, p. 281). Nel passo che ricorda il disappunto di C. per non poter predicare alle "gentes", le fonti presentano la lezione evidentemente corrotta "fee" o "fel modo", che Walker (pp. 30 s. e nn.) emenda in "Fedolio", fornendo così un legame con i versi Ad Fidolium falsamente attribuiti a s. Colombano. Questa correzione è tuttavia respinta dallo Smit (Studies, pp. 243 s.), sicuramente a ragione, sebbene la tesi che nell'usare il sostantivo "gentes" C. "pensava anche ad abitanti della Gallia" e non soltanto a veri pagani, sia poco convincente.

Per l'estensione dei domini di Clotario II nel 600 - "duodecim pagi inter Esara et Secona et mari litores", cioè i territori di Beauvais, Amiens e Rouen - e per la promessa del ritorno del perduto "ducatos Dentelini", dei territori, cioè, compresi fra Boulogne, Cambrai e Tournai, si veda Chronicarum quae dicuntur Fredegarii Scholastici, IV, 20. Giona (nella Vitae Columbani abbatis..., II, 7, p. 241) indica, come il luogo dell'incontro con Chagneric "Theudeberti conviva", Pipimisiacus, Poincy, quasi certamente una della proprietà con cui la di lui figlia Burgundofara - che C. aveva consacrato a Dio - più tardi dotò la sua fondazione monastica a Eboriacus, Faremoutiers: cfr. J. Guerout, Le testament de sainte Fare, in Revue d'hist. eccl., LX (1965), pp. 807 ss.

Le relazioni familiati e i possedimenti di Autari ricordati da Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 26), sono stati ricostruiti non senza temerarietà dal Bergengruen, pp. 76 ss.; per le fondazioni religiose opera dei figli di Autari. cfr. Prinz, Frühes Mönchtum..., pp. 126 s., e de Maillé, Les Cryptes de Jouarre, Paris 1971, pp. 63 ss.

Che fra i monaci di Luxeuil, che C. incontrò di nuovo alla corte di Teodoberto II (Vitac Columbani abbatis..., I, 27) ci fossero Atala ed Eustasio (quest'ultimo probabilmente un gallo-romano originario della Borgogna nord-occidentale), può essere dedotto dalle loro vicende, narrate anch'esse da Giona. Il cronista asserisce (ibid., p. 211) che C. si diresse specificatamente a Bregenz, "intra Germaniae terminos", nella parte orientale del lago di Costanza. Il nome del vescovo di Magonza che offrì ospitalità a C. non è indicato da Giona: lo Pseudo-Fredegario, narrando della guerra del 612 (Chron. IV, 38), menziona un vescovo Lesio di Magonza (generalmente identificato con il "Leudegasius" del Catalogo), ammiratore di Teodorico ed ostile a. Teodoberto. Il Walker collega il Carmen navale, una delle composizioni metriche attribuite - ma con scarso fondamento - a C., col viaggio fluviale compiuto dal santo irlandese per raggiungere Bregenz.

È difficile che C. abbia potuto raggiungere il lago di Costanza prima degli ultimi mesi del 611; il santo lasciò quindi questa regione per recarsi in Italia nella estate o nel primo autunno del 612. Secondo Giona, C. si diresse direttamente a Bregenz, un antico castrum romano semidiruto sulla sponda orientale del lago, che non gli piacque, ma che aveva il vantaggio di trovarsi nel territorio abitato dagli Alamanni, in parte pagani, in parte praticanti una religione sincretistica, in cui erano confluiti elementi cristiani. Con lo aiuto di un miracolo egli impedì un sacrificio pagano, operò conversioni e convertì apostati.

Secondo le Vitae Galli, composte tutte in epoca più tarda (sec. IX), in un primo momento C. si sarebbe stabilito con i suoi compagni a Tuggen, sulle rive meridionali del lago di Costanza, e di là avrebbe iniziato la predicazione fra gli Alamanni. Dopo qualche tempo sarebbe stato tuttavia obbligato a troncare la sua opera e forzato ad allontanarsi dalla regione a causa dell'atteggiamento ostile degli abitanti del luogo, irritati dalla distruzione di alcuni templi pagani operata da Gallo. Con i suoi discepoli si sarebbe trasferito ad Arbon, la Arbor Felix dei Romani, sulle sponde sudoccidentali del lago, dove si trovava una comunità latinizzata e dove un sacerdote cristiano, Villimaro, avrebbe generosamente offerto ospitalità agli esuli. Quali che possano essere le basi storiche e l'attendibilità di questa tradizione, oggi, la maggior parte degli studiosi nega, fondandosi essenzialmente su motivazioni di ordine cronologico, che C. possa aver comunque preso parte alle vicende da esse ricordate.

Giona (Vitae Columbani abbatis..., I, 28, pp. 217 s.) afferma che, quando stava per scoppiare il conflitto fra Teodorico II e Teodoberto II, C. si recò da quest'ultimo per esortarlo "ut coepte arrogantiae supercilium deponeret seque clericum faceret, et in ecclesia positus sacre subderetur religione". Il suggerimento venne respinto dal re e dalla sua corte come assurdo: non si era mai udito che un sovrano Merovingio, nella pienezza della sua regalità, avesse abbracciato volontariamente la vita ecclesiastica. Il santo abbandonò allora la corte d'Austrasia profetizzando: "Si voluntarius nullatenus clericatus honorem sumat, in brevi invitus clericus existat!". Sulla base di argomentazioni di ordine ancora una volta cronologico, la notizia - almeno nella forma in cui è presentata dal cronista - è stata in genere respinta dalla critica storica. Attualmente gli studiosi propendono nel ritenere che C. abbia fatto conoscere il suo ammonimento e la sua predizione a Teodoberto II per mezzo di una lettera o per il tramite di un messaggero.

Le medesime Vitae ricordano anche le proteste rivolte dagli abitanti della regione di Bregenz al duca alamanno, poiché gli intrusi con le loro attività stavano danneggiando i loro territori di caccia.

Travolto Teodoberto II dalle forze del re di Borgogna (tarda primavera del 612), C. rimase, privo della protezione di quel re sia nelle Gallie sia nelle regioni ad esse limitrofe; volse perciò la sua attenzione all'Italia, dove, come gli era stato predetto in una visione, "avrebbe potuto gustare i frutti della sua fatica". L'ultima peregrinazione è narrata da Giona in modo estremamente succinto: "Beatus ergo Columbanus, cum vidisset... devictum a Theuderico Theudebertum, relicta Gallia atque Germania, Italiam ingreditur, ubi ab Agilulfo Longobardarurn rege honorifice receptus est" (Vitae Columbani abbatis, I, 30, p. 220). Nulla possiamo dire, pertanto, sulle circostanze che determinarono ed accompagnarono la partenza dei missionari irlandesi per l'Italia, così come non possiamo indicare le tappe del loro viaggio da Bregenz sino ai confini del regno dei Longobardi. Sono i più tardi biografi di s. Gallo a fornire alcuni particolari sulla vicenda, come quello della movimentata separazione di C. da s. Gallo, uno dei discepoli più fedeli, che lo aveva seguito sin dall'Irlanda: episodio che Giona passa sotto silenzio e che è stato in genere respinto dalla più recente critica storica. Secondo quanto narrano i biografi di s. Gallo, questi era ammalato quando C. decise di rimettersi in viaggio insieme ai suoi compagni per scendere in Italia; chiese perciò di poter rimanere a Bregenz. Con tratto tipico del suo carattere autoritario ed intransigente e dei suoi ruvidi modi, C. rinfacciò a Gallo di non voler sottoporsi alle fatiche ed ai disagi di un nuovo pellegrinaggio, lo riprese per la sua disobbedienza e lo punì, facendogli espresso divieto di celebrare la messa finché fosse vissuto.

Brigantium era stata in passato un importante nodo stradale; si trovava allora poco oltre il limite sudorientale del territorio che Teodorico aveva dovuto qualche tempo prima cedere a Teodoberto. Quest'ultimo aveva forse sperato di servirsi di C. per rafforzare la sua autorità nella regione: secondo le Vitae Galli, ciò accade nel distretto sottoposto ad un "dux Alamannorum" non altrimenti noto. La biografia di s. Gallo composta da Vettino contiene (capp. 4 ss.) il più antico resoconto esistente dell'opera missionaria compiuta da C. a sud del lago di Costanza.

Anche se essa conservasse una tradizione autentica della situazione etnica, religiosa e culturale di quella regione nei primi anni del sec. VII - il che potrebbe anche essere -; anche se si mettesse da parte il problema dell'attendibilità della notizia relativa alla presenza di Gallo nella zona del lago di Costanza e in quel tempo, rimarrebbe il fatto che le attività attribuite a C. dalle Vitae Galli non possono facilmente accordarsi con la cronologia implicita nella narrazione di Giona. Queste considerazioni hanno indotto pertanto gli studiosi a respingere le notizie su C. riportate da Vettino. Giona ricorda (I, 27, pp. 214 s.) il generoso aiuto in generi alimentari fornito a C. ed ai suoi compagni in occasione di un periodo di carestia da un non identificato vescovo vicino (di Windisch? di Coira? difficilmente di Costanza, che in quella data quasi certamente non esisteva).

Si discute se il passo di Giona relativo ai preparativi per un sacrificio in onore del "loro Dio Vodan" (ibid., pp. 213 s.) si fondi su una genuina conoscenza del contemporaneo paganesimo alamanno. Nessun argomento in contrario può essere tratto dal fatto che nel testo si identifichi Wodan con Mercurio: si tratta infatti di un'evidente reminiscenza letteraria, che non compare nella redazione contenuta nel manoscritto di Metz e che pertanto può non aver fatto parte del testo originario di Giona.

Anche se sappiamo che intorno al 610 un loro "dux" era probabilmente cristiano, e che elementi romano-cristiani erano presenti in mezzo a loro, non possiamo porre in dubbio che gli Alamanni fossero in prevalenza pagani sia nelle credenze, sia nelle pratiche.

Giona asserisce che C. si innamorò per qualche tempo dell'idea di predicare il Vangelo ai totalmente pagani Vendi o Slavi - ed e questa la più antica testimonianza dell'interesse dei missionari occidentali per quei popoli -, ma ne fu dissuaso da una visione angelica.

Lo Pseudo-Fredegario (IV, 38) afferma che la prima disfatta di Teodoberto avvenne nel tardo 612 o poco dopo, e che la seconda, quella di Ziilpich, avvenne poche settimane dopo. Giona collega specificamente la decisione di C. di partire "dalla Gallia e dalla Germania" con una rivelazione di ciò che stava avvenendo a Ulpich. Secondo Vettino (c. 8) e Valafrido Strabone (c. 8), nella zona del lago di Costanza erano sorti forti risentimenti contro C. e i suoi compagni che avevano indotto il duca Cunzo ad emettere lo ordine di espulsione nei loro confronti.

Quanto riferisce Vettino - e ripete Valafrido Strabone - sulle circostanze in cui s. Gallo fu lasciato indietro e sul divieto "diebus meis Missam non celebrabis", è stato più volte discusso e assai spesso respinto dalla più recente critica storica; per una parziale difesa della "tradizione" cfr. W. Berschin, Gallus abbas vindicatus, in Hist. Yahrb., XCV (1975), pp. 257-77.

Il viaggio verso il meridione da Bregenz dovrebbe essere quasi inevitabilmente avvenuto lungo la via romana sino a Coira, dove la strada si biforcava; di qui la via più facile si dirigeva verso lo Spluga, dove si divideva di nuovo in una prima strada che attraverso lo Spluga, portava a Chiavenna e in una seconda strada che, superato il passo di San Bernardino portava a Bellinzona. Anche se l'anonimo che, secondo C., "quasi al mio arrivo alle frontiere di questa provincia", gli indirizzò una lettera di critica nei confronti del papa si deve identificare con il vescovo Agrippino di Como, questo particolare non può fornire alcuna indicazione della via che fu realmente presa dai pellegrini irlandesi.

Presumibilmente nell'autunno del 612, C. e il suo seguito arrivarono alla corte del re longobardo, che allora era a Milano. In Italia essi si trovarono di fronte ad una situazione religiosa difficile e complessa: la popolazione locale non longobarda e il suo clero erano divisi fra quanti accettavano le dottrine "ortodosse", sostenute a quel tempo da Roma e da Costantinopoli, e quanti aderivano invece alle dottrine dei Tre capitoli ed erano perciò considerati scismatici dalla Sede apostolica. Questi ultimi, però, erano sostenuti dalla moglie del re Agilulfo, Teodolinda. Quanto al sovrano e ai suoi fedeli, essi erano ariani come buona parte dei loro sudditi longobardi; e vescovi e clero ariani erano allora presenti in un certo numero di città del regno longobardo. La convinzione di C., che il trinitarismo tradizionale fosse la base della vera fede cristiana, trovò espressione, secondo quanto riferisce Giona, I, 30, p. 221), in un "libellum florenti scientia", col quale il santo intendeva "hereseorum fraudes id est Arriane perfidie, Scripturarum cauterio discerpi".

Il lavoro è perduto, a meno che (ma sitratta di un'ipotesi non molto verosimile) non si debba identificare col sermone De fidel, il primo di una serie di tredici "instructiones", attribuite, sia pur non pacificamente, a C. sin dal secolo IX. Nel caso i sermoni fossero di C., tutti o in parte, essi potrebbero essere stati composti e diffusi solamente durante il soggiorno del santo a Milano o a Bobbio. Il "libellus" con il quale, secondo Giona, cercò di combattere la falsità delle menzogne ariane fu scritto invece "dum ille poenes Mediolanium urbem moraretur"; e la concessione regia di Bobbio fu "data Mediolani in palatio". Due manoscritti della biblioteca del monastero di Bobbio, ora a Torino (Biblioteca nazionale, codd. G. VII. 16 e G.V.38) attribuiti rispettivamente alla seconda metà del sec. IX e al sec. IX-X, e un tardo manoscritto di San Gallo (Stiftsbibliothek, cod. 1346), tutti evidentemente tratti dal medesimo esemplare bobbiense, conservano la serie completa dei tredici sermoni: il secondo e il terzo di essi attribuiscono le "instructiones", tutte o altrimenti la prima di esse, a Colombano. Ora, il più antico manoscritto (seconda metà del sec. VIII) e altri, databili al sec. IX o ai secoli successivi, contenenti la molto più diffusa Instructio V (inc.: "O tu via humana, fragilis et mortalis"), presentano l'attribuzione a C. in genere secondo la formula "epistola sancti Columbani abbatis". Numerosi studiosi, a partire dal sec. XVIII, hanno visto in questa collezione un coerente sistema dottrinale, un conciso e organico corpus di esortazioni morali, frutto di una sola mente, benché vi siano state individuate influenze del pensiero e del linguaggio di vari autori, come Ilario (Instructio I) e Fausto di Riez (Instructio II). La paternità di C. è stata inoltre messa in dubbio dal punto di vista stilistico (lo Hauck e altri) e testuale (specialmente il Glorie). La critica più recente ha contestato in particolare l'autenticità della Instructio II: il Glorie l'attribuirebbe a Cesario di Arles, poiché vi si fa largo uso di un sermone di Fausto di Riez. Anche le altre Instructiones (ad eccezione della V) presentano paralleli con sermoni di Cesario e con altri, contenuti nella raccolta del cosiddetto Eusebio Gallicano, probabilmente databili al sec. VIII. Viceversa lo Smit, che non mette mai in dubbio la paternità di C. per i sermoni, nega che apparenti paralleli con le poesie attribuite a C. possano costituire prova che egli ne fu effettivamente l'autore. La maggiore semplicità e franchezza di linguaggio dei sermoni rispetto alle lettere non è in se stessa un argomento contro la comune paternità: ma l'asserzione del Walker che "c'è una notevole somiglianza fra il tipo di testo biblico citato nei sermoni e quello usato in altri lavori" di C. non è del tutto esatta. La diffusione separata (e antica) della Instructio V puòsembrare un argomento valido per considerarla una composizione autentica di C., che fu incorporata in una raccolta, della quale egli non fu il curatore, ma che in seguito gli fu attribuita. Sfortunatamente questo breve testo non presenta caratteristiche sintattiche e lessicali evidentemente distintive, che permettano di collegarlo alle Epistolae o possano indicare senza ambiguità un autore differente da quello delle altre Instructiones.

Forse subito dopo il suo arrivo alla corte longobarda, C. rispose con una lettera ricca di forti espressioni al vescovo di Como, Agrippino, un attivo propugnatore dei Tre capitoli, il quale - a quanto pare - gli aveva scritto accusando il papa Bonifacio IV di sostenere dottrine eretiche. Sia la lettera di Agrippino sia la risposta di C. non sono giunte sino a noi, ma se ne ha notizia grazie agli accenni ad esse contenuti nella quinta delle lettere di C. a noi pervenute, quella indirizzata a Bonifacio IV nel corso del 613.

Scrivendo, come afferma, per comando del re e della regina dei Longobardi, ancor più preoccupato di loro per le divisioni di cui è travagliata la Chiesa in Italia, e turbato dall'insinuazione che fosse il papa stesso a favorire gli eretici, C. si scusa innanzi tutto per la sua presunzione, ma afferma di sentir chiaro il dovere di incoraggiare il papa a indire un concilio, davanti al quale egli possa discolparsi dalle accuse lanciate contro di lui e, come si addice al successore di Pietro, possa ricondurre alla concordia e all'unità l'Italia e i suoi abitanti cristiani.

Il tono della lettera, alternativamente apologetico e arrogante; l'uso elaborato di larghe metafore e in genere il linguaggio retorico; l'alternarsi del singolare e del plurale, quando lo scrivente si rivolge al papa, hanno portato la critica storica ad interpretazioni contrastanti dell'atteggiamento di C. nei confronti dell'autorità papale. La preoccupazione principale di C., tuttavia, è che la Chiesa intera dovrebbe essere solidale nel credere che "Cristo nostro salvatore è vero Dio, eterno, senza tempo, vero uomo senza peccato nel tempo"; e che il papa, (che C. stranamente sembra considerare inquinato dal nestorianesimo) dovrebbe mostrare la via verso l'unità con una personale confessione della dottrina cristologica ortodossa: è questo che provoca la nervosa passione del suo scritto. Il fatto che la quinta lettera di C. sia stata conservata - insieme con le attuali prime quattro - in un manoscritto di Bobbio, che fu trascritto dal Fleming al principio del sec. XVII ma fu in seguito perduto, induce a ritenere che essa non abbia quasi avuto lettori nel corso del Medioevo. Questa lettera però sembra portarci vicino, quanto è possibile sperare, a comprendere il giudizio di C. sulle responsabilità accollategli da Dio quando egli scelse la via di peregrinus lontano dalla sua Irlanda.

C. non aveva abbandonato il suo antico ideale di vita austera e disciplinata all'interno di una comunità monastica autosufficiente sotto la sua guida; e i sovrani longobardi possono aver pensato di utilizzare il suo zelo missionario per la conversione dei loro sudditi dall'arianesimo nel tentativo di avvicinare, attraverso l'unita religiosa, le popolazioni romano-italiche, che ancora riconoscevano l'autorità dell'imperatore e sentivano i Longobardi come stranieri invasori e il loro dominio come un'usurpazione. L'attenzione di ambedue le parti si appuntò su una località fertile e selvaggia dell'Appennino Tosco-emiliano, nella media Val Trebbia, a 46 km da Piacenza, denominata Bobbio. Qui ai piedi del monte Penice, alla confluenza del torrente Bobbio con la Trebbia, si trovava un oratorio semidiruto e abbandonato, dedicato a s. Pietro. La zona era "ubertate fecunda, aquis irrigua, piscium copia". Forse nel luglio del 613 Agilulfo concesse a C., ai suoi seguaci e ai loro successori, come sede per un monastero, l'oratorio semidiroccato e un'area circostante per un raggio di quattro miglia, con l'eccezione della "metà di un pozzo" già concessa a un eminente longobardo, il "vir magnificus" Sundrarit.

Giona descrive, vivacemente il contributo personale fornito da C. al lavoro di ricostruzione. Niente si sa circa le consuetudini, la vita, o l'insieme dei membri della primitiva comunità di Bobbio, eccettuato quel poco che può essere dedotto da altri due scritti di Giona, le biografie di Atala e di Eustasio, i due abati che successero immediatamente a C., e dai più antichi documenti del monastero. Di nessun manoscritto bobbiese conservatoci si può asserire con sicurezza che sia stato nella primitiva biblioteca del cenobio o che sia stato scritto là mentre C. era in vita. Giona ricorda soltanto che, presumibilmente durante il 614, Eustasio, già discepolo di C. a Bregenz, venne da Luxeuil a Bobbio per recargli, da parte del vittorioso re Clotario II, l'invito a tornare nelle Gallie, dove sarebbe stato ricevuto con i dovuti onori. C. cortesemente, ma fermamente, declinò la proposta, e suggerì ad Eustasio di cercare il favore di quel re per il monastero di Luxeuil e per i suoi monaci. Con tratto tipico del suo carattere, gli affidò inoltre alcuni scritti ammonitori da consegnare al re dei Franchi.

Non c'è alcuna antica tradizione relativa a gli ultimi mesi di vita di C., ma la Vita Galli vetustissima (seconda metà del sec. VIII) asserisce che il santo, quando sentì approssimarsi la morte, comandò di inviare il suo bastone da pellegrino (cambutta) a Gallo, come segno della sua assoluzione. Morì a Bobbio, secondo la testimonianza del cronista, il 23 novembre, di un anno che è, con ogni probabilità, il 615. Il suo corpo fu seppellito a Bobbio.

L'attendibilità della notizia relativa al diploma, con cui Agilulfo concesse a C. il luogo su cui sarebbe sorto il futuro monastero di Bobbio, è stata lungamente e vigorosamente dibattuta: la sua sostanziale autenticità è stata dimostrata dal Brühl, che ha dato anche una plausibile ricostruzione dei suo dettato originale. Rimane tuttavia incerta la data, il 613, in cui venne rilasciato il documento. Secondo Giona, la località di Bobbio con la chiesa (basilica) abbandonata fu indicata da un certo Giocondo: quest'uomo è altrimenti sconosciuto - forse può essere stato uno del gruppo dei "Romani", che collaborarono con Agilulfo ed erano alla sua corte. È stato supposto che il monastero sia stato deliberatamente fondato in una posizione strategica su una delle strade che portavano dalla Emilia longobarda alla Liguria bizantina (cf. Forma Italiae, Reg. IX: Libarna, a cura di G. Monaco, Roma 1936, p. 115); più recentemente il Bognetti ha ritenuto che, secondo le intenzioni del re, C. e i suoi monaci - esperti delle istanze e dei problemi connessi con la evangelizzazione di popoli di lingua differente dalla loro - dovessero lavorare fra gli "arimanni" i longobardi ariani dislocati a presidiare il confine in quella montagnosa regione di frontiera. L'ipotesi del Bognetti di un antico insediamento "arimannico" nell'Italia settentrionale è stata, tuttavia, largamente rigettata dalla critica storica. Del resto, secondo Vettino (c. 6), era Gallo e non C., che poteva rivolgersi nella loro lingua ai Germani pagani. Elementi indiretti a sostegno della teoria del Bognetti potrebbero tuttavia essere sia la plausibile identificazione del "vir magnificus Sundrarit", cui era già stata precedentemente concessa la metà del pozzo vicino a Bobbio, con il "maximus dux Sundrarius", che intorno al 617 ottenne una vittoria sull'esercito imperiale (Continuatio Prosperi Haveniensi, a cura di R. Cessi, in Archivio Muratoriano, XXXII [1922], p. 640), sia la probabilità che il castello Malaspina a Torriglia (vicino allo spartiacque all'inizio della Trebbia) incorpori un forte bizantino.

L'abitudine di utilizzare manoscritti della antichità classica per riscriverci sopra, dopo averne deleto, per raschiatura o lavaggio, il testo originario, può a Bobbio essere cominciato al tempo del successore di C. come abate, il dotto burgundo Atala (616-626/27), ma, giudicando dalla scrittura superiore, fu soprattutto un lavoro svoltosi nei decenni posteriori. I manoscritti più antichi di Bobbio in scrittura insulare non sono anteriori al tardo sec. VII. La bolla di Onorio I del 628, probabilmente autentica nella sua sostanza, rivela soltanto in termini molto generali il modo di vita della comunità; che i monaci "sub regula sancte memorie Benedicti vel reverentissimi Columbani fundatoris loci illius conversari videntur", è asserito in una supposta bolla del 643, concessa da papa Teodoro all'abate Boboleno; essa è tuttavia quasi universalmente considerata falsa.

"VIII kal. Decembris" è il giorno tramandato come quello della morte di C. o come il suo "dies natalis" nei migliori manoscritti di Giona, negli antichi martirologi (Mart. Hieronymianum, mss. di Echternach e Weissenburg, a cura di D. H. Quentin - H. Delehaye, in Acta Sanct. Novembris II, 2, ecc.) e nel Messale di Bobbio (Milano, Bibl. Ambrosiana, cod. D 84), attribuibile al sec. X-XI; la data alternativa, "XI kal. Dec.", che compare nel Martirologio romano ricorre già in manoscritti del sec. IX.

Non si conoscono con certezza né il luogo né l'aspetto della primitiva tomba di s. Colombano. Nella cripta della chiesa attuale i resti del patriarca di Bobbio sono conservati in un sarcofago marmoreo decorato con scene della sua vita, scolpite nel 1480 da Giovanni dei Patriarchi di Milano.

"Cuius strenuitatem si quis nosse vellit, in eius dictis reperiet": così Giona conclude la biografia di C. (Vitae..., I, 30, p. 224). Tali "dicta", cui il biografo allude, possono essere in modo significativo differenti dal corpus degli scritti, che èstato, con l'opera di Giona, la base della maggior parte delle biografie di C. a partire dal sec. XVII. I più antichi editori non avevano dubbi sul fatto che le Instructiones e molti componimenti poetici, riportati nei manoscritti medievali sotto il nome di C., fossero effettivamente del santo irlandese. Studiosi del sec. XIX attribuirono a C. altri brevi lavori e il Carmen navale. Nessuna di queste attribuzioni aggiuntive è convincente e alcune (specialmente quelle del De saltu lunae e delle Epistola de solemnitatibus) devono essere considerate molto improbabili. Che C. abbia composto le Instructiones, è almeno discutibile; soltanto alcune parti delle Regulae ebbero d'altro canto origine durante la vita di Colombano. Argomenti di notevole peso e rilievo sono stati adottati per attribuire tutti i lavori poetici che nei manoscritti compaiono sotto il nome di C., ad un omonimo forse di origine irlandese vissuto nella Francia settentrionale in epoca carolingia. Se si accetta questa teoria, cade l'intera questione sulla conoscenza - unica in quel tempo - degli scrittori latini pagani, che C. dimostra negli scritti di Luxeuil e di Bobbio. Le attitudini e la formazione intellettuale di C., quali compaiono riflesse nel ridotto corpus di scritti autentici, sono tuttavia completamente concordanti con il quadro dell'uomo e delle sue attività materiali tratteggiato da Giona nella sua biografia del santo. Almeno una copia di quest'opera era reperibile in Borgogna già pochi anni dopo che era stata completata, come dimostra l'uso fattone dallo Pseudo-Fredegario; altre ne furono fatte con ogni probabilità subito dopo, specialmente per quelle comunità monastiche, che nella Francia precarolingia basavano esplicitamente la loro disciplina e la loro osservanza in parte almeno sulla Regula Columbani. La larga diffusione dell'opera di Giona -oltre cento manoscritti ancora esistenti - cominciò tuttavia solo nella seconda metà del sec. IX.

Durante la sua vita C. acquistò notorietà per la tua intensa spiritualità e per il suo coraggio nel criticare perfino i più potenti, che non riuscivano a uniformarsi alle sue ardue norme di vita cristiana: se - a buon diritto - egli ebbe critici e nemici fra i vescovi contemporanei della Gallia franca, si procurò tuttavia durevoli legami fra elementi della nuova aristocrazia e del movimento monastico franco e, attraverso questi, con vescovi delle generazioni successive. Egli dette un contributo unico alle pratiche della Chiesa occidentale, dei cristiani laici come degli ecclesiastici, con l'introduzione in Francia del sistema della penitenza celtica e delle sue basi testuali. Il breve tempo da lui trascorso come missionario fra i pagani ed eretici germani probabilmente non ebbe conseguenze durature. I monaci, che lo seguirono dalla Francia a Bobbio, gettarono tuttavia le basi della successiva reputazione del monastero italiano, come un luogo di produzione del libro e di cultura, quantunque di un tipo in qualche modo eccentrico; e la fama postuma di C., nutrita a tempo debito di miracoli, attrasse a sé nei più tardi secoli VII e VIII uomini che si erano allontanati peregrinando dalla nativa Irlanda, con ben documentate conseguenze per lo scriptorium e la biblioteca. Imprese di tale tipo e di tale misura non sono in alcun modo diminuite dalla supposizione che la fama ispirata dalla biografia composta da Giona e l'entusiasmo dei copisti e degli editori abbiano attribuito a C. creazioni letterarie di altri, che non avevano niente in comune con lui eccetto il nome.

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