DAMASO I, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

Damaso I, santo

Carlo Carletti

Le informazioni antecedenti il periodo episcopale sono episodiche, scarsamente documentate, talvolta oscure e contraddittorie. Il primo problema che si pone è quello del suo luogo di nascita, indicato nella penisola iberica sia dal Liber pontificalis propriamente detto (Le Liber pontificalis, I, pp. 212-13; metà VI secolo) sia dalle versioni compendiate della sua prima redazione, le epitomi feliciana e cononiana (ibid., p. 84; inizio VI secolo): "Damasus, natione Spanus, ex patre Antonio, sedit ann[is] XVIII m[ensibus] III d[iebus] XI". Sono stati in molti (L.-S. Lenain de Tillemont e successivamente L. Duchesne, E. Caspar, A. Ferrua, Ch. Pietri) a giudicare questa notizia priva di fondamento, analogamente ad altre informazioni, talvolta anacronistiche, che pure ricorrono nelle diverse redazioni della biografia damasiana nel Liber pontificalis.

Il periodo del pontificato è stato posto erroneamente in sincronia con il regno di Giuliano l'Apostata (360-363); la sua elezione, diversamente da quanto testimoniato in altre fonti autorevoli, è presentata come ratificata da un concilio, in forza del quale il suo antagonista (Ursino) sarebbe stato inviato a Napoli; parimenti infondata, e oltretutto difficilmente credibile per un ultrasettantenne, l'accusa di adulterio - altrimenti ignota - rivoltagli da due suoi diaconi, nonché la notizia che attribuisce a D. l'istituzione del canto dei salmi in tutte le chiese di Roma. Queste informazioni, ad eccezione dell'accusa di adulterio, sono assenti nelle due versioni compendiate della prima edizione della biografia.

In realtà una cospicua documentazione, soprattutto epigrafica, sembra senz'altro indicare in Roma il luogo di nascita di Damaso. Il padre Antonius (il cui cognomen Leo è pura illazione di O. Marucchi), come attesta l'epigramma composto dallo stesso D. (Epigrammata Damasiana - da ora in avanti E.D. - 57) per ricordare gli interventi che trasformarono l'originaria casa paterna in un edificio di culto ("titulus Damasi"), percorse la sua carriera ecclesiastica in questa città, dove fu dapprima notaio, poi lettore, diacono, vescovo. Ancora a Roma, per iniziativa dello stesso D., si insediò il sepolcreto di famiglia, ubicato sulla via Ardeatina presso la tomba dei ss. Marco e Marcelliano. Qui furono accolte le spoglie dello stesso pontefice e quelle della madre e della sorella, a ciascuna delle quali D. dedicò un'iscrizione funeraria in versi: la madre Laurenzia, morta ultranovantenne, dette alla luce D. a circa trent'anni e per i successivi sessanta, rimasta vedova, dedicò la sua vita a Dio (E.D. 10); la sorella, di nome Irene, fu una "sacra virgo" e morì a soli vent'anni (ibid. 11, 1-4). Sembra inoltre che nei suoi primi anni di vita D. si trovasse a Roma, come indicherebbe un dato autobiografico inserito nell'elogio dei ss. Marcellino e Pietro, martiri romani: D., ancora fanciullo ("cum puer essem"), aveva appreso dalla viva voce del carnefice il luogo, accuratamente occultato dai persecutori, della primitiva sepoltura dei due santi (ibid. 28, 1-5). C'è infine la testimonianza del vescovo ariano Maximinus che, intorno all'ultimo decennio del IV secolo, nella Dissertatio contra Ambrosium, mostra di non avere dubbi sulla patria di D.: "certe tam tibi [scil. Ambrosio] quam Damaso provincia est Italia, genetrix Roma". Si deve inoltre considerare che la presenza di uno spagnolo sulla cattedra di Roma si sarebbe rivelata in totale controtendenza rispetto alla consolidata prassi dei secc. IV e V che prevedeva per la Sede romana un rappresentante della comunità urbana o tutt'al più un italico.

A circoscrivere intorno al 305-306 la nascita di D. concorrono la notizia di Girolamo (De viris illustribus 103, p. 208) relativa agli anni vissuti ("Damasus romanae urbis episcopus prope octogenarius sub Theodosio mortuus est"); la durata del pontificato in diciotto anni, due mesi, undici giorni (il Liber pontificalis registra erroneamente tre mesi) a partire dal 1° ottobre 366 come si ricava dalla cronologia degli eventi che contrassegnano lo scisma ursiniano; i dati biometrici - sopra ricordati - di alcuni componenti della sua famiglia (la madre e la sorella); il riferimento alla sua infanzia nel già ricordato elogio dei ss. Marcellino e Pietro (E.D. 28). Per la data della morte le fonti sono esplicite e non presentano discordanze: l'11 dicembre (giorno in cui se ne celebra la memoria liturgica) 384, ufficialmente registrato sia nel Martyrologium Hieronymianum (pp. 643-44) sia nel Liber pontificalis (I, p. 213), è confermato da un'epistola di papa Simmaco (21, 10, p. 295), da un decreto di Valentiniano II (Milano, 24 febbraio 385, in Collectio Avellana 4, pp. 47-8) e dalla didascalia che accompagnava il clipeo di D. nella serie dei ritratti papali nella basilica di S. Paolo fuori le Mura (metà V secolo).

È soprattutto da Girolamo, presente a Roma nel triennio 382-384, che si ha qualche informazione, seppur generica, sulla produzione letteraria di Damaso. Nel De viris illustribus (103, p. 208) ne ricorda la spiccata versatilità poetica come testimoniato - aggiunge Girolamo - dalla pubblicazione di molti e brevi componimenti in esametri: "elegans in versibus componendis ingenium habuit multaque et brevia opuscula heroico metro edidit". Gli "opuscula" di cui parla Girolamo, non si riferiscono, come in genere si è ritenuto, al gruppo degli epigrammi composti in onore dei martiri, ma ad altre composizioni scritte su codices - evidentemente andate perdute - alle quali peraltro sembra far riferimento lo stesso Girolamo in una lettera del 384 indirizzata ad Eustochio, ove ricorda "alios libellos" che D. avrebbe composto in prosa e in versi sul tema della verginità (ep. 22, 22, p. 174).

A D. sono state attribuite numerose altre composizioni, in prosa e in versi, come la Praefatio Nicaeni concilii e un Liber de vitiis, da riferire invece rispettivamente ad un anonimo del V secolo e ad un poeta di nome Facetius. Tra le altre opere poetiche arbitrariamente attribuite a D. da copisti medievali, si possono inoltre ricordare una Passio in onore dei ss. Crisanto e Daria e alcuni carmi acrostici di argomento cristologico (De nomine Iesu, De ascensione Christi, De cognomento Salvatoris). I Carmina in Vetus et Novum Testamentum, menzionati in tarde versioni della biografia damasiana (E.D., pp. 10 e 62), altro non sono che i due epigrammi In beatum Paulum apostolum (ibid. 1) e In laudem Davidis (ibid. 60), probabilmente composti da D. come una sorta di introduzione alla revisione geronimiana delle epistole paoline e dei salmi.

La parte più cospicua e caratteristica della produzione damasiana è certamente da riconoscere nel corpus degli epigrammi costituito allo stato attuale da sessanta composizioni, pervenute nell'originale epigrafico e/o attraverso copie altomedievali (VII secolo) conservate in sillogi dei secc. VIII-XII. Le testimonianze più autorevoli di questa tradizione, in base ovviamente al confronto con gli originali pervenuti, si riconoscono nelle sillogi Laureshamensis (IX-X secolo), Turonensis (XII secolo), Virdunensis (VII-IX secolo). Queste copie hanno contribuito a conservare almeno l'80% degli epigrammi: gli esemplari integri o parzialmente integri sono infatti soltanto quelli del Vaticano, dei papi e dei martiri sepolti in S. Callisto, di Cornelio, di Eutichio, di Gennaro, di Felicissimo e Agapito, di Agnese, di Proietta. La distruzione o il grave danneggiamento degli originali epigrafici inizia con l'invasione gotica di Vitige (537-538) e di Totila (545-546) e successivamente con quella longobarda di Astulfo (755). Ma i danni maggiori furono quelli indotti dall'abbandono dei santuari extraurbani, avviato sotto il pontificato di Paolo I e concluso da Pasquale I: i corpi dei martiri furono traslati nelle chiese urbane e le iscrizioni damasiane, evidentemente non riconosciute o ritenute non meritevoli di conservazione, furono abbandonate ovvero riutilizzate in altre opere edilizie urbane, come dimostra il caso clamoroso dell'elogio di s. Ippolito, ridotto in pezzi e reimpiegato nella decorazione in opus sectile di S. Giovanni in Laterano (E.D. 35).

In relazione alla loro destinazione gli epigrammmi di D. possono così suddividersi: trenta elogi in versi in onore dei martiri romani: Felice e Adautto (E.D. 7), Nereo e Achilleo (8), Tarcisio (15), papi e santi deposti nel cimitero di Callisto (16), papa Sisto II (17), papa Eusebio (18), papa Cornelio (19), Pietro e Paolo (20), Eutichio (21), Felicissimo e Agapito (25), Quirino (27), Marcellino e Pietro (28), Tiburzio (31), Gorgonio (32), Lorenzo (33), Ippolito romano (35), Agnese (37), Felice e Filippo (39), papa Marcello (40), martiri deposti nel cimitero di Trasone (42), Vitale, Marziale e Alessandro (41), LXII martiri sepolti nel cimitero di Trasone (43), Mauro (44), Crisanto e Daria (45), Saturnino (46), Proto e Giacinto (47), Ermete (48), Valentino (49), Felice di Nola (59), Ippolito portuense (D. Mazzoleni, nr. 242); sei epigrammi funerari non martiriali: ad un anonimo diacono (E.D. 2), alla madre Laurenzia (10), alla sorella Irene (11), a se stesso (12), a Marco (50), a Proietta (51); cinque epigrammi commemorativi di interventi edilizi: battistero vaticano (E.D. 3-4), S. Lorenzo al Verano (34), "titulus Damasi" (S. Lorenzo in Damaso: 57-58); quattro dediche martiriali di breve estensione, in prosa e in versi: Abdon e Sennen (E.D. 5), Faustino e Viatrice (6), Gennaro (24), Marcellino e Pietro (29); due elogi di personaggi biblici, non destinati ad incisione epigrafica: a s. Paolo (E.D. 1), a David (60). Vi è inoltre un consistente gruppo di frammenti marmorei che tramandano le tracce di altri tredici epigrammi dei quali, per l'esiguità dei reperti pervenutici, non è possibile individuare i destinatari (E.D. 9, 13, 14, 22, 23, 26, 36, 38, 52, 53, 54, 55, 56). Dopo l'edizione di A. Ferrua (1942) sono venute alla luce altre testimonianze della produzione epigrammatica damasiana, anche se molto lacunose. Le più importanti sono due pezzi dell'epigramma composto per s. Ippolito di Porto (D. Mazzoleni, nr. 243) e alcuni frammenti dell'elogio per i sette figli di s. Felicita (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, IX, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua-D. Mazzoleni, In Civitate Vaticana 1985, nr. 24310); a questi vanno poi aggiunti un frammento della dedica ai ss. Pietro e Marcellino (ibid., VI, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, ivi 1975, nr. 15937c) che si congiunge agli altri due già noti e quattro frammenti, non meglio identificabili, rinvenuti nel sopratterra del cimitero di Domitilla e nella catacomba di Ciriaca sulla Tiburtina (ibid., IV, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, ivi 1964, nrr. 11079a, b, d; VII, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, ivi 1980, nr. 18369a). La cronologia degli epigrammi è stata compiutamente definita da Ferrua: al 370-383 risalgono tutti quelli (e sono la massima parte) incisi da Furio Dionisio Filocalo; al primo anno del pontificato quelli dedicati alla madre, alla sorella, a se stesso; a poco dopo il 370 l'epigramma per i martiri di S. Callisto; al 379 quello dedicato a s. Felice di Nola; al 383 quello dedicato a Proietta; al 384-385 l'elogio dei ss. Nereo e Achilleo composto da D. ma inciso dopo la sua morte.

L'attività poetica di D. in onore dei martiri è esplicitamente ricordata nel Liber pontificalis (I, p. 212) con la menzione dell'epigramma in onore dei ss. Pietro e Paolo collocato nella "basilica apostolorum". Agli "elogia martyrum", e in particolare a quello dedicato ai ss. Vitale, Marziale e Alessandro, fa anche riferimento papa Vigilio nell'epigramma Dum periturae Getae (Inscriptiones Christianae [...]. Nova series, IX, nr. 24313), posto in una cripta del cimitero dei Giordani sulla via Salaria all'indomani dell'invasione gotica del 537.

Agli anni 376-384 si fa risalire lo scambio epistolare tra D. e Girolamo. Nelle lettere 15 e 16 (pp. 62-9), scritte dal deserto della Calcide negli anni 376-377, Girolamo chiede a D. chiarimenti su problemi di terminologia trinitaria e sui rapporti di comunione tra alcuni monaci a lui vicini e i vescovi di Siria; D., a quanto risulta, non sembra aver dato risposta a tali quesiti. Nel 382 e nel 384 è D. che si rivolge alla competenza scritturistica di Girolamo chiedendogli espressamente una chiara spiegazione circa il significato del termine ebraico "osanna" registrato nei vangeli (ep. 19) e su alcune questioni esegetiche relative a passi della Genesi e dell'Esodo (ep. 35). Le risposte di Girolamo (epp. 20 e 36) si configurano come approfonditi e documentati trattatelli esegetici anche se, soggiunge Girolamo, per rispondere adeguatamente a tutti i quesiti propostigli da D. sarebbero stati necessari non una lettera ma cinque volumi. Indirizzate a D. sono anche le epistole 18A, 18B, 21 (pp. 97-104; 111-41), ampio commento su alcuni versetti di Isaia e sulla parabola del figlio prodigo.

Una parte della critica (P. Nautin), soprattutto sulla scorta di un'analisi interna lessicale e stilistica, ha ritenuto che le lettere 35 e 36 siano da considerare come un artifizio letterario creato ad arte da Girolamo e inviato a Roma tre anni dopo la morte di D. (387) congiuntamente alla traduzione del De spiritu sancto di Didimo il Cieco; questa posizione non sembra però condivisa da J. Fontaine che considera autenticamente damasiane sia l'epistola 35 sia l'epistola 19, inviata da D. a Girolamo nel 382. Sicuramente apocrifa è invece la lettera (ep. 5, in P.L., XIII, coll. 410-11) attribuita a D., relativa all'istituzione del canto dei salmi nelle chiese di Roma. Analogamente le due lettere, di D. a Girolamo e di Girolamo a D., poste come premessa al Liber pontificalis sono state giudicate senza alcun dubbio apocrife da Duchesne (I, pp. XXXIII-XXXIV, 117).

Per comprendere e seguire in tutti i suoi risvolti l'accidentato percorso che portò D. alla cattedra romana è necessario partire dalla crisi che contrassegnò il pontificato di Liberio. I gravi disagi sofferti dalla Chiesa di Roma in questo periodo furono in gran parte determinati dalle pesanti ingerenze del filoariano Costanzo II nelle questioni ecclesiastiche: l'imperatore riuscì infatti ad imporre alla maggioranza dell'episcopato occidentale con i concili di Arles (353) e di Milano (355) l'allontanamento di Atanasio dalla sua legittima sede episcopale di Alessandria. A questa decisione, oltre a Ilario di Poitiers e Ossio di Cordova, si oppose decisamente anche papa Liberio che fu destituito e mandato in esilio a Beroea (Tracia). Al suo posto, con l'appoggio di alcuni esponenti del partito filoariano, fu imposto il diacono Felice cui non mancò a Roma un piccolo seguito. È in questo frangente che D., componente del collegio diaconale, si affaccia per la prima volta sulla scena della politica ecclesiastica romana: in un primo momento rimase fedele al vescovo destituito seguendolo nella via dell'esilio, successivamente si avvicinò a Felice, per poi rientrare in comunione con Liberio, quando, nel 358, Costanzo ne consentì il rientro a Roma, dove fu accolto con entusiasmo dalla comunità dei fedeli, la quale, invocando "un solo Dio, un solo Cristo, un solo vescovo" (Teodoreto, Historia ecclesiastica II, 17, 6, p. 137) rifiutò la paradossale delibera del concilio, che prevedeva una sorta di diarchia, con pari dignità, tra Liberio e Felice. L'atteggiamento dell'imperatore, e implicitamente la remissività di Liberio, furono duramente stigmatizzati da Ilario (Liber in Constantium 11, 29-32, p. 190).

Alla morte di Liberio si accende immediatamente la lotta per la successione che, attraverso momenti di grave tensione e di scontri cruenti, si protrarrà per oltre un anno: dal 24 settembre 366 (elezione di Ursino) al 16 novembre 367 (esilio definitivo di Ursino). La fonte principale di questi avvenimenti è un'anonima cronaca redatta a Roma da un acerrimo avversario di D. verso la fine del 368: l'autore è un contemporaneo, probabilmente romano, come si deduce anche dalla sua conoscenza della topografia e della toponomastica della città. Si tratta di un libellus (Gesta inter Liberium et Felicem episcopos) che, sebbene dichiaratamente di parte, appare del tutto credibile nella essenzialità dei fatti, peraltro inseriti entro ben definite coordinate spaziali e temporali, confermate, oltre che da una serie di rescritti imperiali, anche da altre testimonianze, pagane (Ammiano Marcellino) e di parte damasiana (Girolamo, Ambrogio, Socrate, Rufino, Sozomeno).

Il 24 settembre del 366 un gruppo di presbiteri (i Gesta non ne specificano il numero), i tre diaconi Ursino, Amanzio e Lupo e una parte della comunità rimasta fedele a Liberio durante il periodo dell'esilio, si riuniscono nella basilica di papa Giulio in Trastevere (poi S. Maria in Trastevere) e rivendicano l'episcopato per il diacono Ursino; il vescovo di Tivoli Paolo procede all'ordinazione. I partigiani di D., che il libellus chiama con disprezzo spergiuri, si raccolgono nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina e qui designano il loro candidato, la cui elezione è naturalmente presentata dagli ursiniani come una anomalia, in luogo cioè dell'antipapa Felice II, a suo tempo imposto dall'imperatore, e non invece nella linea di successione legittima che compete ad Ursino. D. immediatamente procede allo sgombero della basilica Iulii avvalendosi di una consistente forza d'urto, costituita - dice il libellus - da aurighi e da una moltitudine di ignoranti reclutati con il denaro: lo scontro infuria per tre giorni consecutivi con lo sterminio di un gran numero di ursiniani. Il 1° ottobre D. con i suoi occupa la basilica lateranense, la sede amministrativa della Chiesa romana di fondazione costantiniana, e qui viene ordinato da Florenzio, vescovo di Ostia: era infatti tradizione consolidata che il vescovo di Roma venisse consacrato dal presule ostiense.

A fronte di questi avvenimenti l'autorità di polizia, quasi in attesa dell'esito dello scontro, non interviene; anzi il prefetto della città Rufius Viventius Gallus, come testimoniato da Ammiano Marcellino (Historia XXVII, 12, p. 110), si ritira nella sua residenza suburbana, fin quando D., ormai rivestito ufficialmente della dignità episcopale, richiede espressamente l'intervento dell'autorità imperiale, riuscendo ad ottenere l'esilio per l'antipapa Ursino e i due diaconi Amantio e Lupo. Successivamente, per intervento diretto dei partigiani di D., anche i sette presbiteri ursiniani vengono allontanati, ma la parte della comunità rimasta fedele a Ursino riesce a liberarli e con essi occupa la basilica liberiana sull'Esquilino (poi S. Maria Maggiore). Qui si consuma un secondo e più cruento scontro tra le due fazioni: "Allora Damaso con i traditori, reclutati i gladiatori e i quadrigarii, e i fossori e tutto il clero, con scuri, spade e bastoni, assediò la basilica alle ore otto del 26 ottobre 366 e suscitò uno scontro violento. Infatti, sfondate le porte e appiccatovi il fuoco, cercava un varco per entrare: alcuni dei suoi inoltre, demolito il tetto della basilica, uccidevano con le tegole il popolo dei fedeli. Tutti i damasiani allora, irrompendo nella basilica, uccisero 160 dei nostri, uomini e donne, e ne ferirono moltissimi, dei quali molti morirono. Invece da parte damasiana non vi fu alcun morto" (Gesta inter Liberium 7, p. 3).

Trascorsi tre giorni, gli ursiniani, ormai sconfitti sul campo, chiedono all'imperatore che si tenga a Roma un'assise episcopale che incrimini D. quale responsabile della strage. La richiesta viene respinta e l'unica concessione - evidentemente per abbassare la tensione - è una parziale riabilitazione di Ursino e dei suoi due diaconi che, in esecuzione del rescritto imperiale Licet iusta indirizzato al prefetto Pretestato (in Collectio Avellana 5, p. 48), il 15 settembre 367 rientrano in città e, insieme ai propri partigiani, rioccupano alcuni edifici di culto, tra cui di nuovo la basilica Liberii (Gesta inter Liberium 10, p. 4). Ma dopo poco tempo (16 novembre), attraverso i suoi legami con il palazzo, D. riesce abilmente ad occultare le sue responsabilità, a fermare il provvedimento, ad ottenere la riconferma dell'esilio per il suo avversario e la restituzione della basilica Liberii, come sancito nel rescritto imperiale Dissensionis auctore (in Collectio Avellana 6, p. 49), cui dette esecuzione, il 12 gennaio 368, il prefetto della città Vezio Agorio Pretestato (rescritto Ea nobis, ibid. 7, pp. 49-50).

I superstiti del partito ursiniano, ormai privi del proprio clero, si recano nel suburbio presso i santuari dei martiri e, nell'autunno 368, prendono posizione nella basilica di S. Agnese sulla via Nomentana dove subiscono un nuovo attacco dei damasiani, anche in questa occasione con spargimento di sangue. Quest'ultimo scontro tra le due fazioni viene riferito in toni allarmati all'imperatore dal vicario della città Aginatius, ma il prefetto, il cristiano Cl. Hermogenianus Olybrius, non interviene e lascia che la disputa si risolva sul campo. Solo verso la fine dell'anno il rescritto imperiale Tu quidem (ibid. 8, p. 50) vieta qualsiasi riunione faziosa in una fascia di venti miglia dalla città.

La vittoria definitiva consentì a D. non solo di recuperare gli edifici di culto precedentemente occupati dagli scismatici ma anche di riguadagnare alla sua causa quella parte del clero che in un primo tempo si era schierata con il partito ursiniano. Un'eco di tali eventi si coglie nell'epigramma dedicato ai martiri del cimitero di Trasone nel quale D., presentandosi come "rector triumphans", proclama il ritorno del clero in quell'area sacra, in virtù del suo intervento (E.D. 42, 3-4). Ottenuta completa soddisfazione da parte del potere imperiale, D. cerca di chiudere definitivamente la questione ursiniana anche con il conforto di una condanna sinodale. Nel terzo anniversario della sua consacrazione, il 1° ottobre 368, convoca a Roma un concilio, il primo da lui presieduto; ma i vescovi convenuti rifiutano di condannare Ursino come espressamente richiesto da D. e oppongono di essere venuti a Roma per il suo anniversario e non per condannare un assente (Gesta inter Liberium 13-14, p. 4). Nel biennio successivo l'attività di Ursino va progressivamente spegnendosi; l'autorità di polizia, all'inizio del 371, lo allontana definitivamente da Roma inibendogli, inoltre, tutte le regioni dell'Italia suburbicaria e relegandolo in Gallia (così i rescritti Iure mansuetudinis, in Collectio Avellana 11, pp. 52-3 e Est istud, ibid. 12, p. 53).

La fine dello scisma non pone però fine alla polemica antidamasiana che anzi raggiunge toni drammatici, poiché contro il vescovo di Roma viene intentato un processo criminale. L'azione giudiziaria è avviata da un partigiano di Ursino, Isacco, un ebreo convertito e poi ritornato alla sinagoga, che scaglia contro D. la pesante e documentabile accusa de vi, la responsabilità cioè delle violenze subite dagli ursiniani negli anni 366-368. Trattandosi di un procedimento criminale, il processo fu istruito in un tribunale ordinario e affidato al vicarius urbis Massimino che, nella acquisizione delle testimonianze, non esitò a torturare alcuni presbiteri. Sulla procedura si hanno scarse e frammentarie notizie; la vicenda comunque sembra si fosse conclusa verso la fine del regno di Valentiniano I (375) che avocò a sé il processo salvando di fatto D. e condannando Isacco all'esilio. Nella sinodale Et hoc gloriae (9, in Relatio "Romani Concili", p. 195, relativa al concilio romano del 378) la questione appare definitivamente risolta con piena soddisfazione di D.: "[...] con la sentenza della vostra Serenità [dell'imperatore Graziano] si è dimostrata l'innocenza del ricordato nostro fratello Damaso e ne è stata proclamata l'integrità, ed anche Isacco - non potendo portare prove alle sue accuse - ha avuto la sorte che meritava". Le istanze della sinodale sono recepite nel rescritto Ordinariorum (fine 378-inizio 379, in Collectio Avellana 13, 4-5, 9, pp. 55-7) che sanziona le accuse come "turpissimae calumniae" e relega Isacco in Spagna (ibid., 5, p. 55). Alla liberazione da questa grave accusa D. fa implicito riferimento nell'epigramma votivo a s. Felice di Nola: "poiché sotto la tua protezione ho scampato un pericolo mortale, sconfitti i nemici che avevano affermato il falso, Damaso supplice con questi versi a te scioglie i voti" (E.D. 59, 3-5).

Secondo A. Hoepffner D. avrebbe subito un secondo processo; in questo caso l'accusa avrebbe riguardato la sfera morale, secondo quanto tramandato dal Liber pontificalis (I, p. 212) nel quale si riferisce che D. sarebbe stato falsamente accusato di adulterio da due diaconi romani (Concordio e Callisto) e poi discolpato da un sinodo di quarantaquattro vescovi. Il pro-cesso si sarebbe realmente svolto nel 381 di fronte ad un tribunale ecclesiastico e ad esso - suppone A. Hoepffner - farebbe implicitamente allusione la sinodale Provisum est inviata dai padri del concilio di Aquileia (381) all'imperatore Graziano, laddove lamenta che Ursino, tramite l'eunuco Pascasio, continua "a diffondere le sue follie, a inviare lettere, a fomentare disordini tentando di sollevare i pagani e i deviati [...]". Gli argomenti di Hoepffner non sembrano sufficienti per smentire quanto già definito da L. Duchesne secondo cui questa notizia del Liber pontificalis si configura come un'interpolazione ripresa interamente dalla biografia di papa Simmaco.

Nel 375 l'imperatore Graziano, con un atto di considerazione se non di benevolenza verso il vescovo di Roma, dà precise istruzioni al prefetto Simplicio perché tutti gli ursiniani siano espulsi ad oltre cento miglia dalla città (in Collectio Avellana 13, 2, p. 55). La presenza di Ursino è però ancora segnalata a Milano dove, dopo la morte del vescovo filoariano Aussenzio (374), entra in rapporto con i seguaci del defunto presule (sinodale Et hoc gloriae 4, p. 193). Da Milano, qualche anno dopo (inizio del 379), per intervento diretto dell'imperatore, viene relegato a Colonia (in Collectio Avellana 13, 4, p. 55).

Soprattutto nel corso degli ultimi sussulti dello scisma ursiniano emerge con nettezza quella che - forse con inconscio eufemismo - è stata definita la "pastorale energica" di D. (Ch. Pietri): si trattò in realtà di una pastorale molto più che energica e in più di una occasione non si esitò a fare ricorso alla violenza. Ben diverso fu invece l'atteggiamento verso la maggioranza pagana nei cui confronti D. si mosse con prudenza, sempre attento ad evitare manifestazioni di aperto dissenso. D'altra parte, nell'ottica della sua strategia politico-ideologica, D. né poteva trascurare il dato oggettivo di essere pastore di una comunità fortemente minoritaria, né dimenticare l'aiuto di prefetti e vicari urbani durante lo scisma ursiniano, né sottovalutare che la legislazione imperiale, soprattutto con Graziano, si avviava allo smantellamento della religione pagana (rinuncia al titolo di pontifex maximus, confisca dei beni dei templi, soppressione delle immunità ai sacerdoti) ed elaborava strumenti legislativi contro gli eretici (Codex Theodosianus XVI, 5, 3). Nel 382, quando, in esecuzione di un decreto di Graziano (ibid. XVI, 10, 20), si avviò un'inchiesta contro le depredazioni dei templi pagani, D. non esitò a discolpare per iscritto il prefetto della città Simmaco dall'accusa di aver torturato alcuni ecclesiastici ingiustamente indiziati (Simmaco, Relatio 21, 3). Nel 384, in occasione della seconda petizione per il ripristino dell'altare della Vittoria nella curia senatus, D. non volle accentuare i motivi di contrasto con l'aristocrazia pagana lasciando libero campo all'azione di Ambrogio; il riserbo in questa circostanza ebbe forse anche lo scopo di far dimenticare che due anni prima, per la medesima questione, D. si era fatto tramite materiale presso Ambrogio del libellus con la contropetizione dei senatori cristiani (Ambrogio, ep. 72, 10, p. 16).

Non mancò tuttavia, durante il pontificato damasiano, qualche momento di tensione con il potere imperiale. Valentiniano I, cristiano di fede nicena, nel corso degli anni 369-375 scatenò una dura campagna contro l'aristocrazia senatoria, pagana e cristiana, sospettata di dissidenza o addirittura di complotto. Strumento attivo di questa repressione fu soprattutto il prefetto dell'Annona (poi, nel 370-371, vicario) Massimino che, a quanto testimonia Girolamo (Chronicon, ad a. 371, p. 246), mandò a morte molti nobili romani. D., che era stato eletto con il favore della nobiltà e che in questo ambito aveva trovato favori e finanziamenti, si trovò in una posizione di grave imbarazzo anche perché in questo stesso periodo la malevola fama popolare che gli attribuiva l'epiteto di "auriscalpius matronarum" ("solleticatore delle orecchie delle matrone" e, come insinua - non a torto - Ch. Pietri, captatore di donazioni ed eredità) aveva ispirato un provvedimento imperiale. Una costituzione della Cancelleria occidentale di Valentiniano I, emanata a Treviri il 30 luglio del 370 (Codex Theodosianus XVI, 2, 20, p. 841), indirizzata direttamente al vescovo di Roma e fatta affiggere e leggere pubblicamente nelle chiese, proibiva agli ecclesiastici e agli ex ecclesiastici di frequentare le abitazioni delle vedove e delle fanciulle; i medesimi non potevano ottenere alcuna proprietà, né per donazione né per testamento né per interposta persona, da parte di quelle donne cui erano legati con il pretesto della religione. Questi provvedimenti con un dispositivo del 373 (ibid. XVI, 2, 22) vennero poi estesi anche ai vescovi e alle vergini. Di tutto ciò mostrano di essere al corrente figure eminenti come Ambrogio e Girolamo: il primo (ep. 18, 5) rilevando che la costituzione imperiale "non doveva costituire per loro offesa [...] perché è preferibile che manchi denaro piuttosto che il favore di Dio"; il secondo (ep. 52, 6, pp. 425-26) mostrando qualche perplessità che le nuove leggi - peraltro emanate non da persecutori ma da principi cristiani - sebbene previdenti e severe, potessero in realtà porre un freno alla avidità senza limiti degli ecclesiastici.

I disordini e le controversie che contrassegnano il primo decennio del pontificato di D. non sono sottaciuti dalla storiografia filodamasiana: naturalmente le violenze vengono omesse o quantomeno ridimensionate e soprattutto emerge l'esigenza di sottolineare la legittimità anche formale della successione a Liberio. Per Girolamo (Chronicon, ad a. 366, p. 244) quella di D. è un'ordinazione del tutto legittima, la trentacinquesima dalle origini dell'episcopato romano; quella di Ursino invece, successiva nel tempo, fu un tentativo velleitario da parte di un gruppo di illustri sconosciuti, che indebitamente prendono possesso del Sicininum (cioè della basilica Liberii) e si rendono responsabili delle violenze che ne derivano. Per Ambrogio, che non accenna alle vicende del biennio 366-368, l'elezione di D. è incontestabile perché frutto del giudizio divino (ep. 72, 10, p. 16). Anche Rufino (Historia ecclesiastica II, 10), in forma apertamente apologetica, presenta la successione di D. come la sola legittima e naturalmente come precedente a quella di Ursino che, solo con la violenza e con la compiacenza di un vescovo inesperto e ignorante, riesce ad ottenere la consacrazione episcopale. Rufino non nasconde le violenze che caratterizzarono lo scisma ma, così come Girolamo, ne attribuisce tutta la responsabilità a Ursino, accusato di aver provocato lui stesso gli scontri chiamando a raccolta una "plebe turbolenta" nella basilica Sicinini. Anche le autorità, secondo Rufino, non furono esenti da responsabilità: questa accusa è specificamente rivolta a Flavio Massimino, "un uomo sinistro" che si scagliò contro "il vescovo buono e innocente fino al punto che il contrasto sfociò in un'aperta persecuzione contro i chierici". Qui il riferimento è non solo alle vicende giudiziarie in cui fu coinvolto D. per le accuse dell'ebreo Isacco, ma anche, probabilmente, al particolare rigore che contraddistinse il comportamento di Massimino nella campagna persecutoria di Valentiniano I contro la nobiltà senatoriale. Sulla stessa linea "revisionista" di Rufino sembrano porsi sia Socrate (Historia ecclesiastica IV, 29, pp. 265-68) sia Sozomeno (Historia ecclesiastica VI, 23, pp. 265-66).

Nella seconda metà del VI secolo il processo di depurazione della biografia damasiana si stabilizza definitivamente nel Liber pontificalis (I, pp. 212-13) che presenta addirittura l'elezione di D. come ratificata in un concilio. In questa linea si inserisce anche il tentativo di occultare le reali responsabilità di D. dirottandole dalla sfera criminale a quella morale: il biografo infatti non fa cenno alcuno alla "guerra" (bellum) contro gli ursiniani né agli interventi persecutori contro i gruppuscoli ereticali che proliferavano a Roma e, inopinatamente, riferisce di una accusa di adulterio rivolta al vescovo da due diaconi (ibid., p. 212). L'inserimento di questa notizia altrimenti ignota - ispirata, nota Duchesne (ibid., p. 214), alla biografia di Simmaco anch'esso accusato di adulterio - proprio in virtù della sua insostenibilità (l'adulterio di un ultrasettantenne!) ha il chiaro fine di presentare D. come vittima innocente dell'invidiosa acredine dei suoi avversari.

Il giudizio di parte pagana è autorevolmente rappresentato da Ammiano Marcellino (Historia XXVII, 12-13, p. 110) che narra e giudica gli avvenimenti da una posizione neutrale. L'avvento di D. alla cattedra romana è in ultima analisi l'esito di uno scontro tra bande armate i cui protagonisti altro non sono che uomini assetati di potere, disposti a tutto pur di raggiungere il loro obiettivo. Ammiano sembra comunque accordare le sue preferenze ad Ursino e riversa critiche corrosive sul vescovo di Roma, che accusa di essere un esibizionista, amante degli agi e dei banchetti, frequentatore assiduo dell'ambiente femminile dell'alta società (ibid., 14, pp. 110-11): figura emblematica, quella di D., del "vescovo di città" cui Ammiano contrappone l'immagine del vescovo di provincia il quale "si accontenta di un pasto molto parco, è modesto nel vestire, rivolge sempre gli occhi a terra" (ibid., 15, p. 111).

D. non fu certo un teologo, né si cimentò direttamente nelle problematiche dottrinali che pure si dibattevano ai suoi tempi: era d'altra parte tutto teso al consolidamento del primato di Roma, e probabilmente impreparato, oltreché per natura alieno a comprendere e ad affrontare - soprattutto in relazione alle delicate questioni delle Chiese di Oriente - quegli aspetti dialettici del dibattito teologico che andassero al di là della semplicistica dicotomia tra niceni e antiniceni. Tuttavia durante il suo pontificato la Sede romana accentua notevolmente la sua funzione nel mediare e dirimere (ma non sempre con successo) molteplici questioni dottrinali e disciplinari che si dibattevano sia in Occidente sia in Oriente. Con D. inizia la tradizione di una assemblea sinodale annuale in occasione del dies natalis pontificale (anniversario della consacrazione), ma soltanto per alcuni di questi concili si dispone d'informazioni dirette e circostanziate.

Il primo concilio di un certo rilievo - dopo quello, sopra ricordato, del 368 relativo allo scisma ursiniano - fu quello convocato tra la fine del 371 e l'inizio del 372, forse su sollecitazione di una lettera di Atanasio (Epistula ad Afros 9, col. 1045) il quale, a nome di un concilio di vescovi di Egitto e Libia (ca. 370), manifestava soddisfazione nel prendere atto che un sinodo di Roma (probabilmente quello del 368) avesse condannato i vescovi pannonici Valente di Mursa e Ursacio di Singiduno che costituivano un importante presidio ariano (seppur moderato) in Occidente, ma si rammaricava altresì che il filoariano Aussenzio avesse ancora conservato la cattedra episcopale di Milano. Le decisioni dell'assemblea, alla quale parteciparono circa novantadue vescovi di Italia e della Gallia, sono conservate nella lettera sinodale Confidimus inviata ai vescovi d'Oriente e dell'Illirico (in P.L., XIII, coll. 347-49; versione greca in Teodoreto, Historia ecclesiastica II, 22, pp. 146-50). I partecipanti, dopo aver solennemente rinnovato la validità del Credo definito a Nicea nel 325, ribadiscono la condanna dei deliberati del concilio di Rimini del 359, che con l'appoggio dell'imperatore Costanzo II aveva ratificato le tesi omee (il Figlio è genericamente simile al Padre nella sostanza, ma non a lui consustanziale, cioè homoousios) sostenute dagli ariani moderati, sulla base della considerazione che essi non avevano ricevuto l'approvazione del vescovo di Roma. L'eccezione sollevata era evidentemente pretestuosa, perché in quell'epoca le delibere conciliari non erano soggette all'approvazione del vescovo di Roma ma a quella dell'imperatore e, pertanto, l'argomentazione addotta da D. appare solo funzionale al potenziamento del primato romano; allo stesso modo va inteso il presunto patrocinio fornito al concilio di Nicea con la scelta dei trecentodiciotto padri che vi presero parte (Confidimus, col. 348). Vi è ancora nella sinodale la riproposizione della condanna di Aussenzio, però blanda e di fatto solo formale, perché il presule di Milano, fortemente protetto dall'imperatore Valentiniano I, rimase al suo posto fino alla morte (374). In questa assise, come ricordato nella sinodale Et hoc gloriae del successivo concilio del 378 che ad essa fa esplicito riferimento, furono definitivamente condannati i vescovi dissenzienti Urbano di Parma e - "sei anni dopo" dice la sinodale - Florenzio di Pozzuoli.

Diversamente da quello del 372, il concilio svoltosi a Roma tra la fine del 377 e l'inizio del 378 assunse una dimensione molto più ampia, quasi ecumenica: vi prese parte anche il presule di una sede di grande prestigio, Pietro di Alessandria. La motivazione immediata che ne sollecitò la convocazione fu il pressante appello di Basilio di Cesarea ai fratelli d'Occidente, e personalmente anche a D., perché si pronunciasse sugli errori dottrinali di Eustazio di Sebaste e di Apollinare di Laodicea e sulla situazione della sede episcopale di Antiochia che vedeva contrapposte le pretese di Paolino (riconosciuto e protetto da D.) e Melezio (appoggiato da Basilio). È questa la prima assise conciliare romana che si occupa intenzionalmente di questioni dottrinali e disciplinari relative all'Oriente cristiano.

I risultati di questa assemblea sono tramandati nel cosiddetto Tomus Damasi (Ecclesiae Occidentalis, pp. 281-96; P.L., XIII, coll. 354-65; versione greca in Teodoreto, Historia ecclesiastica V, 10-11, pp. 295-302), in sostanza una lettera sinodale indirizzata a Paolino vescovo di Antiochia: si legge infatti in Teodoreto (Historia ecclesiastica V, 10, pp. 295-97) che agli Orientali fu trasmessa la notizia che l'eresia di Apollinare (limitazione dell'integrale umanità di Cristo) era stata condannata in un documento (tomus), definito a Roma in un concilio cui aveva partecipato anche Pietro di Alessandria. Questo tomus è articolato in due serie di ventiquattro anatematismi: quelli della prima serie (nrr. 1-8) sono introdotti dalla formula "anathematizamus", quelli della seconda (nrr. 10-24) si aprono con "si quis [non] dixerit" e si chiudono con "anathema sit". Vi si riaffermano solennemente i principi della fede nicena (nrr. 1, 20, 21, 24) e si condannano le deviazioni dottrinarie ariane ed eunomiane, apollinariste, macedoniane, sabelliane, fotiniane; vi è inoltre tra la prima e la seconda serie un canone (nr. 9) che tratta dello scisma di Antiochia, il problema che più da presso interessava Basilio.

Gli anatemi nrr. 3, 16, 17, 20 riguardano Ario ed Eunomio (ariano radicale, o "anomeo") che, sia pure con diverso linguaggio, affermavano il Figlio e lo Spirito essere creature; i nrr. 4, 22, 23 i macedoniani i quali rifiutavano la divinità dello Spirito; il nr. 5 Fotino di Sirmio, discepolo di Marcello di Ancira, per il quale il Logos era potenza (dynamis) divina non personalmente sussistente, una manifestazione del Padre nell'economia della creazione; i nrr. 6, 7, 13, 14, 15 le tesi cristologiche di Apollinare di Laodicea (ma Apollinare non viene mai citato espressamente, forse per una sorta di rispetto da parte di D. per i suoi trascorsi di difensore della fede nicena) il quale escludeva dall'essenza di Cristo la ragione (nous), o anima superiore, in quanto soggetto capace di autodeterminazione; il nr. 8 l'eresia di Sabellio (monarchianismo modalista o patripassianismo) per la quale il Figlio altro non era che un modo con il quale Dio si era manifestato nella redenzione cosicché sulla croce in realtà aveva patito il Padre.

A questo concilio si riferisce anche il frammento epistolare Illud sane (in P.L., XIII, coll. 352-53), una puntuale enunciazione antiapollinarista sul fondamento della totale e perfetta umanità del Cristo, di cui è traccia anche nella Historia di Rufino (XI, 20, p. 1024).

Quanto alle istanze avanzate da Basilio esse rimasero in gran parte deluse. Nel suo appello a D. (ep. 70, I, pp. 164-66 a. 371), in cui prudentemente non faceva esplicito cenno né alla controversia antiochena, tutta interna alla comunità ortodossa, né a Marcello di Ancira, Basilio aveva affrontato la questione su un piano di ordine più generale, quello dell'unità degli ortodossi. Successivamente, in una lettera della primavera del 377 (ep. 263, III, pp. 121-26) - ancora un accorato appello agli Occidentali e questa volta specificatamente rivolto ai padri conciliari del 377-378 - ritorna sul tema sottolineando che il pericolo maggiore in Oriente non è più tanto nell'eresia ariana, ma piuttosto in quelli "che si rivestono dell'aspetto di agnelli, che si nascondono dietro un aspetto di amichevole dolcezza [...] e poiché provengono dalle nostre stesse fila, facilmente arrecano danni ai più semplici" (ep. 263, III, p. 122). La risposta di D., da individuare nel frammento epistolare Non nobis (in P.L., XIII, coll. 353-54), è gelidamente negativa: "nulla possiamo fare che possa arrecarvi qualche sollievo se non invitarvi a condividere l'integrità della nostra fede fondata sul credo niceno". Le appassionate richieste di Basilio, morto di lì a poco (1° gennaio 379), venivano di fatto eluse: non vi fu alcuna condanna di Eustazio di Sebaste o di Paolino (accusato da Basilio di simpatie verso le idee monarchiane di Marcello di Ancira) e addirittura Melezio, sostenuto da Basilio, fu invitato a deporre la dignità episcopale. Era la sconfitta di una idea alta, la ricomposizione degli ortodossi dell'area antiochena, non recepita dall'autoritario e pragmatico schematismo degli Occidentali e soprattutto di D., abituato a valutare la situazione orientale in termini semplicistici: per Basilio - commenta Simonetti - "al danno si aggiungevano anche le beffe" se è vero - come pare - che il tomus fu indirizzato a Paolino definito "episcopus Antiochenus".

A poca distanza di tempo - alla fine del 378 - D. convoca a Roma un'altra assemblea sinodale sollecitata, in questo caso, da problemi di politica ecclesiastica interna, relativi cioè, salvo il caso del vescovo Restitutus di Cartagine, all'Italia e a Roma: la crescita ormai preoccupante dei donatisti (a Roma conosciuti con il nome di Montenses) il cui capo, il vescovo Claudiano, ribattezzava i nuovi adepti e svolgeva una attiva azione di reclutamento negli strati sociali più disagiati; le attività, ancora non del tutto sopite, dei gruppi ursiniani che continuavano a fomentare discordie in Italia; la richiesta del deposto vescovo Florenzio, avanzata al tribunale civile e non a quello ecclesiastico, di rientrare nella sede di Pozzuoli. L'assemblea, cui presero parte solo i vescovi d'Italia, si tenne nella più prestigiosa e significativa delle sedi, la basilica di S. Pietro in Vaticano (Relatio "Romani Concili", 1, p. 191). Gli esiti di questa assise, in cui più che in passato emerge la solidarietà dell'episcopato italiano con D., sono consegnati nella sinodale Et hoc gloriae (ibid., pp. 191-97), indirizzata agli imperatori Graziano e Valentiniano II. Al di là dei problemi contingenti i sinodali chiedono all'imperatore di recepire e rendere operante la giurisdizione del pontefice romano sugli altri vescovi d'Italia e d'Occidente anche per tutte quelle circostanze che potevano prevedere un conflitto tra un ecclesiastico (ingiustamente accusato o meno) e il proprio vescovo o il proprio metropolita, oppure nei riguardi di un decreto sinodale: era il caso di Florenzio che di fatto aveva rifiutato la sentenza ecclesiastica di espulsione e aveva chiesto di essere giudicato dal tribunale civile. Le richieste avanzate da Roma nella sinodale avevano in ultima analisi lo scopo di liberare rapidamente le sedi episcopali da prelati indegni e di evitare qualsiasi possibilità che costoro rivolgessero istanza di revisione al tribunale civile. C'era poi la questione delicatissima, senza dubbio sollecitata dal processo intentato contro D. dall'ebreo Isacco, relativa alle procedure da seguire nel caso di un'accusa criminale rivolta contro il vescovo di Roma: l'istanza sinodale, tenendo evidentemente conto del privilegio senatorio di sottomettere direttamente al principe i capi di accusa in cui si fossero trovati coinvolti (Codex Theodosianus IX, 1, 13: febbraio 376), chiede espressamente che il vescovo di Roma sia sottratto alla giurisdizione del governo civile della città (cioè del praefectus urbi o del vicarius) e ottenga di ricorrere direttamente al tribunale del principe o al giudizio di un concilio, come peraltro - aggiunge la sinodale - era già invalso al tempo di Costantino e come insegnano alcuni esempi della Sacra Scrittura (Relatio "Romani Concili", 11, p. 197). In D. evidentemente era ancora vivissimo il ricordo dello smacco subito dai padri conciliari del 368 che si erano rifiutati di esprimersi nel merito dello scisma ursiniano. Il rescritto imperiale Ordinariorum inviato da Graziano e Valentiniano II al "vicarius urbis Aquilinus" (in Collectio Avellana 13, pp. 54-8; inizio del 379) accoglie, almeno in parte, le istanze avanzate nella sinodale: Ursino e Isacco vengono rispettivamente relegati a Colonia e in Spagna; il donatista Claudiano viene cacciato da Roma; la vicenda dei vescovi Urbano e Florenzio è definitivamente regolata. Quanto al vescovo di Roma Graziano rifiuta di sottrarlo al giudizio del prefetto, e cioè alla giustizia ordinaria, ma in compenso allarga e rafforza la sua giurisdizione accogliendo la costituzione di un tribunale ecclesiastico romano (il pontefice coadiuvato da cinque o sette vescovi) con facoltà di giudicare i vescovi ordinari e i metropoliti, in teoria dell'area occidentale, di fatto solo di quella italiana (ibid. 11, pp. 57-8). Sebbene non avesse raggiunto effetti pratici maggiori di quelli dei canoni 3 e 3b (ricorso in appello al vescovo di Roma) del concilio di Serdica (343), il rescritto imperiale Ordinariorum, con il riconoscimento della giurisdizione episcopale, è stato considerato come una tappa significativa nel processo di interrelazione istituzionale tra papato e potere politico, una sorta di concordato ante litteram (P. Batiffol), che consentiva di fatto alla Chiesa di servirsi legittimamente dell'autorità civile per dare effettiva esecuzione alle sentenze emesse dai propri tribunali.

Due anni dopo la Sede romana raggiunge un altro importante obiettivo con il riconoscimento imperiale del proprio ruolo di depositaria e garante dell'unica fede ortodossa, quella nicena. È il celebre editto Cunctos populos promulgato da Teodosio a Tessalonica il 27 febbraio 380 (Codex Theodosianus XVI, 1, 2): in esso l'imperatore, che da poco aveva assunto il governo dell'Oriente, ordina a tutti i popoli a lui sottoposti di abbracciare la fede cattolica, cioè quella che "il divino apostolo Pietro ha trasmesso ai Romani e che seguono il pontefice Damaso e Pietro vescovo di Alessandria". Quelli che professano tale fede - aggiunge la costituzione imperiale - devono definirsi "christiani catholici", mentre tutti gli altri sono eretici e come tali dovranno temere non soltanto il castigo divino ma anche quello imperiale. Ma in una costituzione di poco successiva (ibid. XVI, 5, 6: 10 gennaio 381) sembra emergere una presa di distanza tra Teodosio e D.: l'imperatore dopo aver imposto agli eretici di non erigere nuove chiese, di restituire quelle possedute allo Stato o ai cattolici e di non tenere riunioni nelle abitazioni private, enuncia - senza nominare espressamente né D. né Pietro di Alessandria - i fondamenti della fede cattolica in una formulazione talmente generica da risultare di fatto largamente comprensiva anche delle posizioni del partito di Melezio e degli eredi di Basilio.

Quasi costretto dalle pressanti sollecitazioni di Ambrogio D. convocò a Roma un'altra assemblea conciliare nella primavera-estate del 382, all'indomani della conclusione del concilio di Costantinopoli (381). Il problema discusso da quest'ultimo riguardava, oltre la specifica sfera dottrinale, l'ambito istituzionale e disciplinare: preminenza, dopo Roma, del vescovo di Costantinopoli (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, canone 3, p. 32); condanna di Massimo il Cinico che "non è mai stato né è vescovo, e non lo sono quelli che egli ha ordinato in qualsiasi grado del clero" (ibid., canone 4, p. 32); autorità e sfera di azione dei vescovi circoscritta all'ambito delle diocesi di appartenenza (ibid., canone 6, pp. 33-4); successione episcopale di Costantinopoli, di Antiochia e di Gerusalemme nelle quali - come dalla lettera sinodale - erano stati rispettivamente insediati Nettario, in opposizione alle pretese di Massimo, Flaviano contro il filoccidentale Paolino vicino a D. e Cirillo "a suo tempo consacrato in conformità alle norme ecclesiastiche, dai vescovi della provincia e spesso strenuo combattente degli Ariani" (Teodoreto, Historia ecclesiastica II, 27, p. 159). Queste delibere esprimevano un sentimento antiromano, proprio quando D. si produceva nel sommo sforzo per consolidare il primato della Sede apostolica, cui doveva riconoscersi non solo un primato di dignità e di onore (come da lunga tradizione e come a Costantinopoli deliberato) ma anche e soprattutto un primato giurisdizionale.

All'assise romana parteciparono i maggiori metropoliti d'Occidente: Ambrogio (dal 374 presule di Milano), Valeriano di Aquileia, Brittone di Treviri, Anemio di Sirmio, Acolio di Tessalonica e, inoltre, il filoromano Paolino di Antiochia. Furono invitati anche i vescovi d'Oriente, che contemporaneamente (382) tenevano assemblea a Costantinopoli; ma essi opposero un fermo rifiuto (Epistula Constantinopolitani concilii ad papam Damasum et occidentales episcopos, tramandata da Teodoreto, Historia ecclesiastica V, 9, pp. 289-94). In merito all'attribuzione della sede costantinopolitana dopo le dimissioni di Gregorio di Nazianzo, D., in disaccordo con Ambrogio (ep. 14, p. 107-11) che difendeva la candidatura di Massimo il Cinico, si affrettò a riconoscere Nettario come legittimo vescovo e ad entrare in comunione con lui. Il problema di Antiochia rimase però irrisolto: Paolino fu riconosciuto dagli Occidentali come legittimo aspirante alla titolarità della sede antiochena e i vescovi che avevano proceduto alla ordinazione di Flaviano (Diodoro di Tarso e Acacio di Beroea) vennero scomunicati.

A questo concilio, come dimostrato dalle recenti indagini di Ch. Pietri, si connette il terzo dei cinque capitoli di un documento composito noto dal VII secolo come Decretum de libris recipiendis et non recipiendis, tradizionalmente attribuito a papa Gelasio e perciò anche detto Decretum Gelasianum. Si tratta in sostanza di una risposta a quelle delibere del concilio di Costantinopoli (381) manifestamente ostili alle sedi di Roma e di Alessandria di Egitto, una sorta di integrazione alla sinodale del 382. In esso c'è una forte accentuazione del primato romano il cui fondamento teologico è formalmente giustificato con l'interpretazione in senso giurisdizionale e disciplinare del passo di Matteo 16, 17-19. Per D. primato e autorità della Chiesa romana non si fondano su alcuna costituzione conciliare ma direttamente sulla parola del Signore, la vox Domini (in P.L., XIX, col. 793). D., osserva Pietri, "alla crescita di una capitale politica [Costantinopoli] oppone tenacemente l'autorità della tradizione apostolica". Gli altri capitoli del Decretum (I, II, IV, V, ibid., coll. 788-93), variamente attribuiti tra la fine del V e l'inizio del VI secolo (Gelasio I, Ormisda), comprendono un'esposizione dottrinale seguita da una lunga dossologia sul Figlio e sullo Spirito Santo (I), un canone dei libri dell'Antico e del Nuovo Testamento (II), un elenco delle letture raccomandate e di quelle interdette con il ricordo dei concili di Nicea, Efeso e Calcedonia (IV), un elenco di libri apocrifi accompagnato dalla menzione del concilio di Rimini condannato per l'eternità (V).

Nell'ultimo biennio del suo pontificato D. dovette di nuovo misurarsi con alcune comunità scismatiche, attive non soltanto a Roma ma anche in Spagna, in Gallia, in Egitto, in Palestina. Erano gruppi di intransigente fede nicena, denominati a Roma "luciferiani" in riferimento a Lucifero di Cagliari, sostenitore della più assoluta fermezza contro coloro che, pur compromessi con le tesi filoariane del concilio di Rimini, intendevano rientrare nell'ortodossia: questi oltranzisti rifiutavano pertanto la comunione con D. che contro di loro scatenò una dura campagna persecutoria. Nel 384 - dopo l'annuncio della morte di Graziano (27 aprile 384) e prima che fosse nota quella di D. (11 dicembre 384) - i presbiteri Marcellino e Faustino, allontanati da Roma su forte pressione di D., presentano agli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio una lunga sequela di lamentele (Libellus precum) in cui il vescovo di Roma viene innanzitutto accusato di strumentalizzare la denominazione stessa di luciferiani; questo cognomentum - obbiettano i due presbiteri - è usato da D. in maniera capziosa perché, nel caso specifico, non c'è alcuna setta né c'è la proposizione di una nuova dottrina (ibid. 86, pp. 30-1). Inoltre D. è accusato di voler sradicare le piccole comunità dissidenti con la violenza e con il ricorso all'autorità di polizia (ibid. 79, p. 28). Il vescovo Efesio è stato per esempio denunciato ad Anicius Auchenius Bassus, prefetto della città dalla fine del 382 al 383, con l'accusa di essere luciferiano (ibid. 84, p. 30); ma il prefetto, di fede cattolica, ha respinto le accuse di D. sottolineando che le costituzioni imperiali si applicano soltanto "contra haereticos" e non contro cattolici "integrae fidei" (ibid. 85, p. 30). Ai dissidenti è stato inoltre interdetto di tenere pubbliche assemblee liturgiche, sicché il presbitero Macario si è trovato costretto a riunire la sua comunità in una casa privata (ibid. 80-81, p. 29): qui, con l'ausilio delle forze di polizia, irrompono i chierici damasiani, disperdono i dissidenti e, catturato Macario, lo sottopongono a lapidazione ferendolo a morte.

Come già gli ursiniani, anche Marcellino e Faustino spingono la loro polemica sul piano morale. Alla figura del vescovo di Roma, apostrofato con la derisoria denominazione di "egregius archiepiscopus" (ibid. 79, p. 28), oppongono per contrasto l'immagine di un uomo come Macario che "a Roma è riconosciuto come un presbitero di ammirevole continenza poiché non riempie lo stomaco di vino, né soddisfa il corpo con carni succulente, ma si accontenta di condire cibi semplici con un po' di olio e si dedica al digiuno e alla preghiera" (ibid. 78, p. 28). Tutto l'opposto di "quegli empi" (così D. e il suo clero sono definiti nel Libellus) che, come riferirà anche Ammiano Marcellino (Historia XXVII, 3, 14, pp. 110-11), "una volta raggiunti i loro scopi, hanno la certezza di arricchirsi per le offerte delle matrone, di apparire in pubblico accomodati sulle carrozze, di vestirsi con ricercatezza, di far preparare banchetti così abbondanti da superare quelli dei re". Un altro lato della controversia coinvolgeva l'edilizia sacra, uno degli aspetti più caratteristici e visibili del pontificato damasiano. Marcellino e Faustino, forse anche in diretto polemico riferimento agli interventi di D. nel martyrium di S. Lorenzo al Verano le cui strutture erano "marmoribus vestita" (come dice lo stesso D., E.D. 35), sottolineano polemicamente che "quelli" (D. e il suo clero) possiedono basiliche che ostentano colonnati, marmi preziosi e decorazioni d'oro (Libellus precum 121, p. 43).

Queste provocazioni suscitano nel vescovo di Roma inquietudine e conseguenti atteggiamenti repressivi (ibid. 79, p. 28). Avvalendosi della capziosa abilità di avvocati pagani e della compiacenza dei giudici, D. riuscì infatti a far espellere dalla città presbiteri e laici contravvenendo, sottolineano Marcellino e Faustino, "alle costituzioni imperiali che sono state decretate contro gli eretici e non contro i cattolici e soprattutto contro quei cattolici che anche sotto gli imperatori eretici non abbandonarono l'integrità della loro fede e per questo subirono molte violenze" (ibid. 83, p. 30). Il riferimento è evidentemente alla politica del filoariano Costanzo II e all'atteggiamento dei rigoristi luciferiani che si dichiaravano contrari a riaccogliere nella comunione cattolica tutti coloro che si erano compromessi nella sottoscrizione delle tesi del concilio di Rimini. Gli scismatici ottennero comunque un qualche riconoscimento da parte di Teodosio, il quale, nella risposta alla loro petizione (rescritto Etsi nulla, in Collectio Avellana IIa, pp. 45-6), forse per influsso della moglie Flacilla (ad essa risulta dedicato il De Trinitate di Faustino, in P.L., XIII, col. 57), non solo non li condanna ma ne loda la pura fede e li autorizza a stabilirsi in qualsiasi città di loro scelta (Etsi nulla, p. 46). Il rescritto tuttavia ebbe effetto solo nelle provincie controllate da Teodosio e, sul piano giuridico, non cancellò quanto era riuscito ad ottenere D. a loro danno.

Prima del pontificato di D. il problema del primato, nella sua connotazione giurisdizionale e disciplinare, non sembra di per sé costituire materia di approfondimento teologico o di dibattito dottrinale. Esso viene progressivamente affermandosi nei fatti prima ancora che nella teoria e la prima tappa di questo percorso può individuarsi nell'appello al papa decretato nel III canone del concilio di Serdica (343). Un successivo sviluppo, anche sul piano della definizione formale, si ha durante il pontificato di Liberio che per la prima volta usa l'espressione "sedes apostolica" per definire la Chiesa di Roma (Epistula ad Eusebium Vercellensem 1, coll. 1349-50).

Il tema del primato durante il pontificato di D. assume un rilievo assoluto. Già nella sinodale Et hoc gloriae (Relatio "Romani Concili", 1, p. 191) relativa al concilio del 378, oltre alla solenne celebrazione della Sede apostolica e all'implicito riconoscimento di essa da parte dell'episcopato italiano, c'è la dichiarazione che se D. "è per le sue funzioni uguale agli altri vescovi, egli tuttavia ha su di essi una primazia in virtù della prerogativa della sede apostolica". Il fondamento teologico del primato, come è espresso nel III capitolo del cosiddetto Decretum Gelasianum, è indicato nel passo di Matteo 16, 17-19 ed è sempre nella tradizione petrina che si giustifica anche il ruolo di preminenza - dopo Roma - delle Chiese di Alessandria e di Antiochia: la prima perché "a nome del beato Pietro è stata consacrata dal suo discepolo ed evangelista Marco" (in P.L., XIX, col. 794), la seconda "per il fatto che egli [cioè Pietro] vi abitò prima di venire a Roma e lì per la prima volta sorse il nome di cristiani per il popolo nuovo" (ibid.).

Durante il pontificato di D. l'espressione di "sedes apostolica" tende a generalizzarsi e specializzarsi come vera e propria espressione tecnica estendendosi a definire anche il potere giurisdizionale della Chiesa di Roma. Questa autorità, fondata sul primato, è riconosciuta non solo dagli Occidentali ma anche da quelle Chiese orientali tradizionalmente legate a Roma. Infatti a D. (Epistula ad Acholium, in P.L., XIII, coll. 369-70) si rivolgono gli Orientali perché sia deposto Timoteo di Beirut e i tre pretendenti alla cattedra di Antiochia Melezio, Vitale, Paolino (Girolamo, ep. 26, ibid., XXII, col. 359); ed è sempre a D. che nel 371 ricorre Basilio perché la Chiesa di Roma intervenga a dirimere le divisioni degli Orientali ortodossi: "ci è parso opportuno scrivere al vescovo di Roma [...] perché usi la sua piena autorità" (ep. 69, 1, I, p. 162).

Per radicare e diffondere il concetto della "sedes apostolica" D. e il suo clero si servirono ampiamente delle iscrizioni monumentali di apparato, il più efficace e immediato strumento di diffusione pubblica. In quella esposta nel battistero vaticano viene proposto il parallelismo tra l'unica sede petrina e l'unico battesimo (E.D. 4); nella dedica del "titulus Damasi" (poi S. Lorenzo in Damaso) si sottolinea che Cristo ha voluto concedere a D. il privilegio della Sede apostolica (E.D. 57, 3-4); nell'iscrizione che ricorda i lavori di ampliamento nel santuario di S. Ippolito D. è ricordato come "antistes sedis a[postolicae]" (E.D. 35¹, 3-4); infine nell'epitaffio di un certo Felix c'è la menzione dell'archivio della Sede apostolica (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, I, a cura di G.B. de Rossi-A. Silvagni, Romae-In Civitate Vaticana 1922, nr. 5745).

In questa strategia riemerge la figura di s. Paolo che, rimasta in ombra soprattutto durante il pontificato di Giulio, viene riproposta come ulteriore argomento funzionale al consolidamento della Sede romana. Ciò tra l'altro, in un'epoca in cui andavano definendosi le gerarchie delle sedi episcopali, consentiva di sgombrare il campo da qualsiasi rivendicazione che, almeno in linea di principio, la Chiesa di Antiochia avrebbe potuto legittimamente avanzare in relazione alla priorità della presenza petrina.

L'abbinamento con s. Paolo trovò infatti solenne ratifica nel concilio del 382 che, subito dopo la menzione di Matteo 16, 17-19, sottolineava come Paolo fosse stato martirizzato proprio nello stesso giorno di Pietro, a Roma sotto Nerone, e non in un momento diverso come sostenevano gli eretici (in P.L., XIX, coll. 793-94). Nel quadro di questa strategia D. inserisce un ulteriore tassello: nell'epigramma Hic habitasse (E.D. 20, 7) Pietro e Paolo sono presentati come "nuove stelle" (nova sidera), il qualificativo che la tradizione pagana attribuiva generalmente a Romolo e Remo e ai Dioscuri. D., con la concretezza che aveva sempre contraddistinto la sua azione, altro non fece se non catalizzare e ufficializzare un culto, quello della coppia Pietro-Paolo, che a Roma da oltre un secolo si era profondamente radicato.

Già tra il 250 e il primo decennio del IV secolo si era sviluppato un centro cultuale sulla via Appia ("in catacumbas") verso il quale, come dimostrano le oltre seicento iscrizioni parietali a sgraffio pervenute, si rivolse un notevole afflusso di visitatori che, nelle loro memorie scritte autografe, rivolgono alla coppia Pietro-Paolo invocazioni, richieste di aiuto, scioglimenti di voto. Successivamente, in età costantiniana, l'evergetismo imperiale si era espresso in forme monumentali macroscopiche con la costruzione di tre basiliche martiriali dedicate ai due apostoli in Vaticano, sulla via Ostiense, sulla via Appia. Non va poi dimenticato che nel più antico calendario della Chiesa romana (del tempo di papa Marco, contenuto nel Cronografo del 354), la Depositio martyrum, il dies natalis (giorno della morte) dei due apostoli viene unificato al 29 giugno: era lo stesso giorno in cui i pagani celebravano l'anniversario della fondazione di Roma. Non è qui il luogo di riprendere le questioni relative alla presenza di Pietro e Paolo "in catacumbas", se da morti (in seguito ad una traslazione dalla via Ostiense e dal Vaticano) o da vivi (tradizione di una abitazione). Ciò che appare incontrovertibile è che la comunità romana dovette considerare quel luogo come sacro per la presenza, vera o presunta che fosse, di una memoria funeraria di Pietro e Paolo. In tal senso la quantità e la qualità dei graffiti sulle pareti di un cortile porticato (triclia) non sembrano ammettere dubbi. La massima parte di queste iscrizioni contiene preghiere rivolte a Pietro e Paolo espresse generalmente nelle locuzioni "ricordatevi del tale", "proteggete il tale", "aiutate il tale" sia in riferimento a vivi; ad esempio "Petrus et Paulus in men/te abeatis Antonius" (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, V, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1971, nr. 12914); sia in riferimento a defunti, denominati "spirita sancta" (ibid., nr. 12954). Talvolta i visitatori esplicitano il motivo contingente che induce a chiedere l'intervento dei due apostoli: una buona navigazione (ibid., nr. 12973) ovvero il favore per la vittoria del cavallo preferito come dimostrano immagini di cavalli paludati con la testa palmata (ibid., nrr. 13088 a-c, 13089 a-d). C'è infine la testimonianza del pasto rituale (il refrigerium) in onore degli apostoli (ibid., nrr. 12961, 12981), talvolta consumato come scioglimento di un voto (ibid., nr. 12932).

C'era dunque un patrimonio "di devozione" ai due apostoli ben radicato nel tessuto sociale della comunità romana del quale abilmente D. si appropriò, apportandovi il segno della sua personalità, della sua ecclesiologia, del suo "essere romano". D. - come è stato opportunamente rilevato (Ch. Pietri) - ricorre non tanto ai severi argomenti della teologia e della esegesi, ma ai mezzi, più immediatamente visibili e percepibili, forniti dalla "storia" e dalle sue tangibili testimonianze monumentali. Manifesto coerente (in senso damasiano) di questo atteggiamento è senza dubbio il celeberrimo Elogium Petri et Pauli collocato nella "memoria Apostolorum in catacumbas" (E.D. 20), nel quale D. proclama solennemente la cittadinanza romana di Pietro e Paolo in virtù del comune martirio subito a Roma: "sanguinis ob meritum Chr[ist]umq[ue] per astra secuti / aetheorios petiere sinus regnaque piorum: / Roma suos potius meruit defendere cives".

Durante il pontificato damasiano ebbero larga diffusione i vetri dorati con la rappresentazione dei busti di Pietro e Paolo, spesso coronati, affrontati al cristogramma, alla corona, alla colonna (simbolo della Chiesa). Una traduzione figurativa della concordia apostolorum veicolata attraverso oggetti mobili di agevole e ampia diffusione che, così come accadeva per un tipo di particolari medaglie pagane (i cosiddetti contorniati) donate in occasione del primo giorno dell'anno, venivano offerti dai cristiani a parenti ed amici nella festa del 29 giugno.

Il modello di questa iconografia è evidentemente da cogliere nella numismatica imperiale con la rappresentazione simbolica della concordia imperii, nella forma appunto dei busti di due imperatori affrontati. Su alcuni esemplari di questi vetri dorati sembra inoltre doversi riconoscere l'immagine dello stesso D. identificato dalla scritta "Damas" e accompagnato dai busti di Pietro, Paolo e di altri personaggi (Ch.R. Morey, nrr. 106, 107, 250, 340). Particolarmente interessante e significativo appare un esemplare del Museo Sacro della Biblioteca Vaticana (ibid., nr. 107) che accanto a quello di D. reca il busto di un Florus, forse da identificare con l'omonimo padre di Proietta, cui D. dedicò un elogio funebre (E.D. 51, 6-7). La documentazione figurativa relativa a D., così come per tutti gli altri papi dell'antichità, non propone naturalmente una iconografia stabilizzata con tratti fisiognomici tipizzati: l'identificazione è infatti espressa o da una iscrizione didascalica, come nei vetri dorati o nel clipeo di S. Paolo fuori le Mura, ovvero nei secoli successivi, e soprattutto in età rinascimentale, da alcuni attributi qualificanti: così ad esempio una Bibbia contrassegnata dalla scritta "Vulgata" e associata alla figura di s. Girolamo in un dipinto di Palma il Vecchio (XVI secolo) o un diamante incastonato nell'anello con chiaro collegamento all'etimologia latina del suo nome ("Adamas") come in un affresco della cappella Sistina attribuito a Fra Diamante.

Il consolidamento del primato sarebbe rimasto privo di effetti, se parallelamente non si fosse sviluppata una curia pontificia centralizzata, con specifiche capacità organizzative e gestionali e con strumenti e figure professionali che potessero sostenere lo svolgimento di un'attività sempre più estesa e impegnata, soprattutto nei riguardi dell'area occidentale. Con D., per la prima volta, la Chiesa di Roma esprime giudizi e indicazioni disciplinari attraverso la decretale, espressione diretta dell'autorità pontificia, modellata nel linguaggio e nell'articolazione ai rescritti redatti nella burocrazia imperiale. Ne è testimonianza l'Epistula ad Gallos (in P.L., XIII, coll. 1181-96) in risposta ai vescovi della Gallia riuniti in concilio a Valence nel 374 (Conciles gaulois du IVe siècle, a cura di C. Munier-J. Gaudemet, Paris 1977 [Sources Chrétiennes, 241] pp. 102-09) che richiedevano di conoscere disposizioni e tradizioni della disciplina ecclesiastica in relazione alle condizioni di accesso agli ordini sacri. Le risposte di D., più o meno arbitrariamente ricollegate all'autorità dei canoni niceni, ribadiscono quanto sostanzialmente già noto: per il reclutamento del clero, dal quale sono esclusi i fedeli sottoposti a pubblica penitenza e coloro che vengono dall'esercito, elemento primario di valutazione è soprattutto il merito della rettitudine e non la qualità intellettuale; per i ministri consacrati (diaconi, presbiteri, vescovi) è richiamato l'obbligo della continenza alla quale la Chiesa di Roma riconosce un particolare valore; ai vedovi che contraggono un secondo matrimonio (bigami), elemento nuovo nella legislazione romana, è interdetto l'accesso agli ordini sacri.

Ancora a D. era indirizzata la lettera del vescovo Imerio di Tarragona, un memoriale in cui si richiedevano indicazioni in relazione a molteplici aspetti disciplinari: battesimo degli ariani rientrati nella comunione cattolica, amministrazione del battesimo a Pasqua, a Pentecoste e non a Natale; scomunica dei fedeli che partecipano a cerimonie pagane; esclusione dal presbiterato (o dal diaconato) per i chierici sposati che non osservano la continenza; esclusione dei bigami; osservanza dei gradi gerarchici. La morte impedì a D. di rispondere; a ciò provvide il suo successore, Siricio, con la decretale del 10 febbraio 385 (ep. 1, coll. 1131-47) che si concludeva con una solenne riaffermazione del ruolo della Chiesa romana: "per ciascuno dei casi per i quali, per il tramite del nostro figlio il presbitero Bassiano, tu avevi consultato la Chiesa romana, quale capo del corpo cui tu appartieni, noi - così ci pare - abbiamo risposto sufficientemente. Ed ora, affinché siano rispettati i canoni ed osservati i decreti così stabiliti, sollecitiamo la tua fraternità a far conoscere ciò che abbiamo risposto alla tua consultazione a tutti i nostri colleghi vescovi, non soltanto a quelli della tua provincia, ma anche a tutti quelli della Cartaginese, della Betica, della Lusitania e della Galizia, come pure a quelli delle provincie limitrofe".

Queste manifestazioni ufficiali dell'autorità pontificia, nella nuova formalizzazione di decreti, si propongono come elementi costitutivi di un nascente diritto ecclesiastico ed esprimono efficacemente il rafforzamento del ruolo della sedes apostolica, la progressiva crescita della sua organizzazione interna sempre più centralizzata, che può ormai disporre di archivi e biblioteche. Le decretali di D. e Siricio, come anche il già ricordato Tomus Damasi, sembrano indicare, anche nel loro stile, l'esistenza e l'utilizzazione non solo di una biblioteca ma anche di uno scrinium (archivio, per altro già documentato al tempo di papa Giulio) in cui si conservava tutta la documentazione relativa ai rapporti con le altre Chiese (lettere e atti conciliari). Alla costituzione e organizzazione di questo archivio dovette contribuire anche Girolamo durante il suo soggiorno a Roma tra il 382-385: in qualità di "collaboratore di Damaso per le carte ecclesiastiche" aveva redatto, o collaborato a comporre, lettere di risposta a consultazioni sinodali di Oriente e Occidente (ep. 123, 9, p. 82). Al tempo di D. risale anche l'istituzione di una nuova figura professionale, uno specialista per le questioni giuridiche, cui era demandato l'ufficio di difendere gli interessi della Chiesa: il defensor ecclesiae Romanae, generalmente un laico che, in ragione delle sue funzioni, veniva reclutato nell'ambito degli scholastici (avvocati); il suo primo intervento, come attesta il rescritto Dissensionis di Graziano, si registra durante la crisi ursiniana, quando D., per ottenere la restituzione della basilica Liberii, si affida ad un defensor ecclesiae che interviene presso il tribunale civile del prefetto di Roma Pretestato.

Negli ultimi anni del pontificato di D. venne a maturazione e trovò la sua definitiva formalizzazione un evento di capitale importanza per la storia della Chiesa di Roma: è in quest'epoca infatti, come dimostrato da Th. Klauser e confermato da J.A. Jungmann e Ch. Mohrmann, che l'uso della lingua latina, già precedentemente di uso comune nelle letture bibliche e nella predicazione, si estende ufficialmente anche alla prassi liturgica. La prima testimonianza è indicata da Klauser in un autore romano, il cosiddetto Ambrosiaster, che vive e scrive al tempo di D. (Ad Timotheum I 3, 15, p. 270) e che nell'opera Quaestiones Veteris et Novi Testamenti (109, 21, p. 268) cita una preghiera del canone in latino per rilevare l'errata attribuzione a Melchisedech del titolo di summus sacerdos così come fanno i fedeli di Roma nell'anafora: "sicut nostri in oblatione praesumunt". La citazione dell'Ambrosiaster è tanto più rilevante se si osserva che ancora nel 360 Mario Vittorino, che scrive in latino, cita in greco un passo del canone romano (Contra Arium II, 8). Di questa trasformazione, che altro non fu se non una formale presa d'atto di un progressivo e irreversibile processo di latinizzazione ormai avviato da oltre un secolo, è testimonianza diretta e inequivocabile anche la produzione epigrafica di Roma.

In questo medesimo arco di tempo (e più precisamente tra il 382 e il 384), quale elemento sintomatico del processo di sistemazione e normalizzazione sollecitato da D. in relazione alla prassi liturgica, va registrato l'avvio della revisione dei vangeli e dei salmi per opera di Girolamo. Si trattava, almeno nelle intenzioni del pontefice, di unificare una molteplicità di versioni latine della Sacra Scrittura spesso non uniformi e talvolta discordanti. Girolamo sembra avere accolto quasi di malavoglia il compito prospettatogli; nella prefazione ai quattro vangeli (in P.L., XXIX, coll. 557-62) espressamente dedicata a D., non si nasconde le difficoltà sottese ad un'impresa di tal mole: "Tu mi spingi a realizzare un nuovo lavoro partendo dal vecchio, quasi che mi proponga come arbitro dal momento che gli esemplari delle Scritture sono diffusi per tutto il mondo; e poiché sono tra loro discordi (tu mi spingi) a discernere quali siano quelli più vicini al testo greco. Fatica meritoria, ma pericolosa presunzione! Giudicare gli altri, quando si sarà giudicati da tutti; obbligare i vecchi a cambiare lingua e ricondurre chi è ormai incanutito all'alfabeto dei fanciulli". Le critiche giunsero immediate e Girolamo se ne lamenta con Marcella (ep. 27, 1, pp. 223-24): "alcuni uomini di poco conto [homunculi] mi criticano aspramente. Contro l'autorità degli antichi e l'opinione di tutti io avrei cercato di modificare in qualche parte i Vangeli! [...] Ho soltanto voluto ricondurre all'originale greco, da cui peraltro erano stati tradotti, la cattiva traduzione dei codici latini". Durante il suo soggiorno romano, e probabilmente nel corso del 384, Girolamo avviò, sulla base della versione greca dei Settanta, anche la revisione del Salterio che presentava nella sostanza le medesime difficoltà dei testi neotestamentari, ed anzi il frequente uso dei salmi, nella liturgia e nella preghiera dei fedeli, rendeva ancora più facili e frequenti le diversità di lezioni (in P.L., XXIX, coll. 121-24). La presunta committenza di D. per la revisione del Salterio è notizia inattendibile, fondata soltanto su lettere apocrife del V-VI secolo.

In questo quadro di mutamenti e trasformazioni si sviluppa un rituale liturgico in cui sempre più emerge la caratteristica, tipicamente damasiana, di uno stile trionfale e magniloquente. L'Ambrosiaster (Quaestiones 101, 3, p. 195) ricorda la solennità della processione offertoriale nella basilica costantiniana del Laterano e l'estensione degli incarichi dei diaconi impiegati anche per il servizio presso l'altare. Anche per l'articolazione del tempo liturgico e per l'organizzazione della pastorale e della prassi sacramentale il pontificato di D. segna un momento particolarmente significativo. Girolamo testimonia dell'estensione del digiuno quaresimale parlando esplicitamente nel 384 di una "Quadragesima" (ep. 24, 4, p. 216) e, in relazione alla disciplina penitenziale, ricorda il rituale della pubblica riconciliazione dei penitenti che si svolgeva il Giovedì santo nella basilica lateranense (ep. 77, 4, p. 40). Per la disciplina battesimale, come testimoniato nell'Epistula ad Gallos (4, 10, col. 1188), D. aveva già decretato i tre scrutini pubblici per i catecumeni alla vigilia pasquale. Quanto poi all'istituzione del canto dei salmi in tutte le chiese di Roma, attribuita dal Liber pontificalis (I, p. 213) all'iniziativa di D., resta tuttora valido il giudizio già espresso da Duchesne che considera questa notizia come una anacronistica interpolazione, probabilmente indotta dalla tradizione della committenza di D. a Girolamo per la revisione del Salterio.

Coerentemente al suo pragmatismo, in un momento in cui andava ormai riducendosi il sostegno economico degli imperatori, D. organizza capillarmente l'offerta collettiva (colletta) della comunità coinvolgendo in particolare, attraverso l'azione di un clero sempre più avido e invadente, gli elementi femminili dell'ambiente aristocratico. La crescita di questa pratica fece emergere in breve tempo tali contraddizioni e abusi da suscitare scandalo non soltanto tra i personaggi più in vista della comunità ma anche nell'ambito dell'amministrazione pubblica. E in tal senso, oltre ai preoccupati appelli di Ambrogio e Girolamo, appare sintomatica la già ricordata costituzione imperiale del 370 (Codex Theodosianus XVI, 2, 20; XVI, 2, 22) che vietava la captazione delle eredità con il pretesto della religione.

L'affermazione della sedes apostolica e l'esercizio della pastorale dovevano necessariamente prevedere una presenza visibile e fruibile della Chiesa nel territorio della città. Dopo le grandi imprese edilizie volute e finanziate dall'evergetismo imperiale (basilica lateranense, S. Pietro in Vaticano, S. Paolo sull'Ostiense, SS. Pietro e Paolo sull'Appia, SS. Marcellino e Pietro sulla Labicana, S. Agnese sulla Nomentana) è durante il pontificato di D. che a Roma il vescovo e la comunità possono contare su una sufficiente autonomia economica tale da consentire l'avvio di un piano organico di edilizia sacra. La capillare riorganizzazione della colletta e soprattutto il generoso intervento delle famiglie aristocratiche neoconvertite cominciano a dare i loro frutti: in età damasiana, come è stato osservato "le grandi famiglie convertite danno il cambio al principe" (Ch. Pietri).

Durante il pontificato di Liberio l'attività edilizia si era limitata alla costruzione di una basilica sull'Esquilino. Il programma di D. fu più ampio e articolato, frutto di una strategia ben definita nella scelta e nella utilizzazione delle aree. Il primo intervento urbano è probabilmente il "titulus Damasi", un edificio con funzioni parrocchiali insediato sull'impianto della casa paterna nel campo Marzio in prossimità del teatro di Pompeo: recenti indagini archeologiche nel cortile del palazzo della Cancelleria ne hanno messo in luce alcune delle strutture. Un'iscrizione dedicatoria (E.D. 57), composta dallo stesso D., ne ricorda implicitamente l'originaria funzione di "domus" e descrive i lavori compiuti. Una seconda iscrizione (E.D. 58), nell'abside, ricorda che D., per sciogliere un voto al martire Lorenzo, aveva dedicato a Cristo i "nova tecta". A questa prima impresa damasiana di edilizia urbana fa riferimento il Liber pontificalis (I, p. 212) aggiungendo anche l'elenco della suppellettile liturgica d'argento e di bronzo donata da Damaso. La copertura finanziaria di questa impresa fu evidentemente assicurata dalla stessa famiglia di D. che, come documenta il Liber pontificalis (I, pp. 212-13), poteva disporre di una discreta rendita (circa 270 solidi) proveniente da possedimenti nel territorio di Ferentino e Cassino e dalla gestione (o dall'affitto) di un bagno ubicato a Roma presso lo stesso titulus.

Sempre in ambito urbano D. dovette contribuire alla realizzazione del "titulus Anastasiae", alle falde del Palatino in prossimità del Circo Massimo, come attesta un'iscrizione del tempo di papa Ilaro, contestuale alla decorazione dell'abside (Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 1782). Non lontano da questo edificio, presso le terme di Caracalla, in età damasiana sorse un altro edificio di culto: lo documenta un'iscrizione funeraria del 377 posta sulla tomba di un Cinnamius Opas, definito "lector tituli Fasciolae" (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, Romae-In Civitate Vaticana 1935, nr. 4815), lettore cioè di un edificio parrocchiale fondato da una certa Fasciola e ricordato anche nel V secolo nella biografia di Felice III (Le Liber pontificalis, I, p. 252); nel VI secolo questo titulus fu dedicato ai ss. Nereo e Achilleo sepolti nella non lontana catacomba di Domitilla sulla via Ardeatina.

Di probabile fondazione damasiana, secondo le recenti indagini di Ph. Pergola, sembra anche essere la grande basilica semipogea a tre navate dedicata, nell'ambito del cimitero di Domitilla (via Ardeatina), ai ss. Nereo e Achilleo. Al centro dell'edificio doveva essere inserito un ciborio che accoglieva l'elogio damasiano in onore dei due martiri soldati (E.D. 8), le cui vicende erano sinteticamente rappresentate dal rilievo di una delle due colonnine frontali che appunto rappresentano la decapitazione di Achilleo.

Un ulteriore intervento, in questo caso di "risanamento ambientale", venne realizzato sul colle Vaticano, ad ovest della città: ne parla diffusamente lo stesso D. in uno dei suoi epigrammi (E.D. 3): "Vene d'acqua avevano invaso la collina e, con sottili infiltrazioni / andavano a bagnare le ceneri e le ossa di molti defunti; / Damaso non sopportò che persone regolarmente sepolte, / dopo la morte, dovessero ancora sopportare miserevoli pene; / posta subito mano a superare questo grande disagio, / gettò giù dal colle una enorme quantità di terra; / prosciugò tutto quanto era stato invaso dall'acqua, / e trovò la sorgente che qui porge doni salutari. / Si occupò di questi lavori Mercurio diacono fedele".

Per il battistero vaticano D. compose un altro epigramma (E.D. 4, 4) nel quale, dopo aver presentato Pietro nella figura di "custode delle porte del cielo", propone il già citato parallelismo tra l'unicità del battesimo e l'unicità della sede petrina. Alla decorazione di questo edificio, come testimonia un'iscrizione non posteriore alla morte di D., contribuì una coppia di coniugi appartenenti all'aristocrazia senatoria (E.D. 4¹).

Intorno al 382, al VI miglio della via Portuense, D. fece edificare una piccola basilica a tre navate in onore dei martiri Faustino e Beatrice deposti nella vicina catacomba di Generosa: l'intervento damasiano, oltre che dalla cronologia delle superstiti testimonianze archeologiche, è soprattutto documentato da due frammenti di un epistilio iscritto con la dedica di D. ai due martiri eponimi. La realizzazione di questa impresa fornì a D. l'occasione per dimostrare il suo rispetto nei riguardi dei dismessi edifici di culto pagano che, in più di un caso, erano divenuti vere e proprie miniere di materiali nobili da costruzione (soprattutto marmi). L'area della costruenda basilica era infatti prossima al bosco della dea Dia dove era la sede, ormai non più in uso, del collegio dei Fratres Arvales; ma, come riferito da G.B. de Rossi che riportò alla luce la basilica di Faustino e Beatrice, "non un briciolo dei marmi tolti al contiguo tempio della dea Dia ed agli arvalici monumenti ed edifici del bosco allora confiscato e tagliato servì alla fabbrica o ai sepolcri di età damasiana". E in effetti nel corso degli eventi del 382-384, relativi alla questione della depredazione dei templi, non emerse alcuna responsabilità di D. e dei suoi ministri e, fino al V secolo, salvo episodi particolari e circoscritti, il principio che tutelava gli edifici della religione pagana in quanto opere d'arte (Codex Theodosianus XVI, 10, 18) fu sostanzialmente osservato.

Nel suo programma edilizio D. inserì anche la realizzazione di un degno sepolcreto per sé e per la sua famiglia. L'esistenza di questa area sepolcrale (probabilmente sopratterra) ubicata sulla sinistra della via Ardeatina in prossimità della sepoltura dei ss. Marco e Marcelliano, ma non ancora precisamente individuata sul terreno, è documentata dal Liber pontificalis (I, p. 212), dagli Itineraria del VII secolo (Notitia ecclesiarum, 25, p. 308), nonché dal ritrovamento nella catacomba dei ss. Marco e Marcelliano dell'impronta e di un frammento del già ricordato epitaffio della sorella di D. Irene. Eppure D. - non va sottaciuto - nel celebre elogio posto in onore dei vescovi e dei martiri del cimitero di S. Callisto, con toni di maniera, aveva solennemente dichiarato che suo desiderio sarebbe stato quello di farsi deporre vicino a quella "schiera di santi", ma che ne era stato dissuaso dal timore di profanare quelle sacre spoglie (E.D. 16, 10-11).

E in effetti è proprio durante il pontificato damasiano che il fenomeno delle sepolture ad sanctos registra un forte incremento, effetto immediato e macroscopico della pastorale martiriale perseguita da D. per quasi un ventennio. Non sorprende pertanto che la stessa sepoltura del pontefice fosse divenuta polo di attrazione: un tale Victor acquistò una tomba a tre posti nella medesima area sepolcrale che aveva accolto le spoglie di D. e della sua famiglia (Inscriptiones Christianae [...]. Nova series, IV, nr. 12502).

Nella sua azione, insieme pastorale e ideologica, D. doveva rendere materialmente percepibile e fruibile, anche di fronte alla massa dei nuovi convertiti (e forse soprattutto per loro), la fonte che giustificava e alimentava il primato della Sede romana (E.D. 4, 5): la "riscoperta" delle autentiche tombe dei martiri e l'acquisizione della storicità delle loro imprese. Per conquistare, conservare e consegnare questo "patrimonio di santità" D. procede ad una preliminare azione ricognitiva, che è insieme storico-archeologica ed agiografica: organizza una impresa sistematica diretta alla monumentalizzazione delle tombe dei martiri e alla ricerca di quei sepolcri di cui si era smarrita l'ubicazione; contestualmente indaga a fondo sulle testimonianze, anche orali, che consentissero di ricostruire e autenticare le vicende degli eroi della fede. Questo aspetto caratterizzante del pontificato damasiano è esplicitamente ricordato dal Liber pontificalis (I, p. 212) e nell'iscrizione che papa Vigilio pose, dopo le incursioni di Vitige (537), a memoria della ristrutturazione del santuario dei SS. Vitale, Marziale e Alessandro il cui sepolcro "Damaso per divina illuminazione riconobbe e, posto un carme, volle che [i martiri] fossero debitamente venerati" (E.D. 41, 5-6).

Nel progetto damasiano erano previste non soltanto le composizioni poetiche incise su grandi lastre marmoree, ma anche organismi monumentali, in genere di modeste dimensioni e tipologicamente uniformi. Gli esiti delle ricerche di "archeologia damasiana", soprattutto dell'ultimo trentennio, consentono di ricostruire con sufficiente attendibilità l'apparato-tipo che D. fece realizzare per la gran parte delle tombe dei martiri. Si trattava di cibori o, più spesso, di pseudocibori marmorei costituiti da due colonnine frontali sormontate da un arco, da un timpano o da un'architrave e corredate da transenne o plutei. Di tali apparati, nei quali erano organicamente inserite le iscrizioni che illustravano i gesta martyrum, sono rimaste consistenti e sicure tracce sulle tombe di s. Gennaro e dei ss. Felicissimo e Agapito nel cimitero di Pretestato (via Appia), dei ss. Pietro e Marcellino nel cimitero ad duas lauros (via Labicana), dei ss. Nereo e Achilleo (via Ardeatina). Sistemazioni analoghe furono probabilmente realizzate anche per s. Agnese (via Nomentana), per i ss. Vitale, Marziale e Alessandro (via Salaria), per i ss. Felice e Filippo (via Salaria). Talvolta gli interventi di D. in prossimità delle aree sacre si rivolsero a trasformazioni strutturali di notevole impegno. Nella cripta di S. Cornelio, ricorda lo stesso D. (E.D. 19, 1), fu aperto un grande lucernario e costruita un'ampia scala; allo stesso modo si intervenne nella cripta dei papi nel cimitero di S. Callisto e in prossimità delle tombe dei ss. Proto e Giacinto nel cimitero di S. Ermete (E.D. 47², 1).

Il "conposuit tumulum sanctorum limina adornans" (E.D. 7, 7) del carme posto presso il sepolcro dei ss. Felice e Adautto nella catacomba di Commodilla (via Ostiense) definisce esattamente la logica degli interventi damasiani che miravano concretamente ad ottenere una degna e visibile sistemazione dei sepolcri venerati e a predisporre condizioni sufficienti per una reale utenza di queste aree sacre. Con questa azione di individuazione e monumentalizzazione delle sepolture martiriali - "sanctorum monumenta vides" (E.D. 47², 2) dice D. -, in cui "monumenta" viene ad assumere la valenza etimologica di "monimenta" proprio in virtù della memoria scritta costituita dagli elogia, viene fornita la documentazione di base, il monumento-memoria, che non solo integra le sintetiche ed ellittiche informazioni contenute nel più antico calendario liturgico romano (Depositio martyrum) ma di fatto, con l'inserimento di nuovi anniversari martiriali, arricchisce l'anno liturgico inserendo una serie di commemorazioni ben oltre i tempi tradizionali, precedentemente concentrati in circa venti giorni da giugno a settembre.

La realizzazione di una nuova geografia martiriale della città imponeva che fossero adeguatamente affrontati anche problemi di ordine organizzativo e gestionale. È soprattutto con D. - lo testimoniano i suoi epigrammi - che comincia a emergere la figura dell'ecclesiastico imprenditore cui il vescovo delega la sorveglianza sull'esecuzione dei progetti. Sul colle Vaticano interviene il diacono Mercurio (E.D. 4, 10) e nei santuari dei SS. Felice e Adautto sull'Ostiense, di Proto e Giacinto sulla Salaria e di S. Ippolito sulla Tiburtina sovrintendono alle opere di ristrutturazione i presbiteri Vero (E.D. 7, 6), Teodoro (E.D. 47¹, 1) e Leone (E.D. 35¹, 6). In questo quadro un'altra figura, strettamente e direttamente funzionale alla realizzazione e alla gestione del progetto damasiano, assume una sempre maggiore evidenza: è il fossore, colui al quale era materialmente demandata l'escavazione degli ambienti cimiteriali e l'allestimento delle sepolture. Con D. a questo operaio viene affidata la gestione diretta delle sepolture, come indicano molte testimonianze epigrafiche nelle quali, proprio a partire dall'età damasiana, il fossore assume anche formalmente il ruolo di attore e garante nei contratti di acquisto delle tombe e soprattutto di quelle più vicine ad una tomba venerata. In questa crescita di ruolo e di funzioni, oltre all'ovvia immediata incidenza del culto dei martiri e del connesso macroscopico fenomeno delle sepolture ad sanctos, è forse anche da cogliere il frutto (la concreta riconoscenza di D.) di quanto i fossori si erano guadagnati sul campo durante lo scisma ursiniano.

Il fulcro della pastorale martiriale di D. è sicuramente costituito dagli elogia martyrum che, come opportunamente è stato sottolineato (J. Fontaine), non possono essere valutati solo alla luce di un'estetica letteraria. In questa ottica si rivelerebbero poco più che mediocri esercitazioni retoriche strettamente ancorate al modello virgiliano, che (E.D. 2, 1-2) talvolta irrompe pesantemente come nel caso limite dei Versus ad fratrem corripiendum il cui esordio non è altro che la ripresa appena modificata dei primi due versi della prima ecloga: "Tytire, tu fido recubans sub tegmine Christi / divinos apices sacro modulatus in ore". In realtà questi epigrammi, anch'essi frutto coerente della strategia politico-religiosa perseguita da D. per un ventennio, vanno soprattutto considerati alla luce della loro funzionalità agli scopi immediati per i quali erano stati concepiti e realizzati: essi, oltre ad esprimere la sincera fede del loro autore, rivelano decisamente il loro peculiare carattere di strumento di propaganda. D., attraverso queste composizioni, presenta ai fedeli gli exempla dei martiri che non solo nobilitano l'origine e la storia della Chiesa romana, ma costituiscono un esempio costante di fede ed eroismo: non a torto in queste composizioni si è voluta vedere una sorta di liturgia perenne.

Le solenni, e spesso ripetitive, cadenze del dettato damasiano, talvolta evocative di un'atmosfera di liturgica sacralità, manifestano un accentuato carattere celebrativo anche in virtù del ritmo dell'esametro eroico virgiliano, in passato impiegato per celebrare l'origine e i fasti dell'Impero e ora ripreso per la glorificazione dei nuovi eroi. In questa direzione D. elabora una specifica gamma espressiva che fissa temi e momenti topici delle sue narrazioni.

Così i martiri sono "turba piorum" (E.D. 16, 1), "martyres sancti" (25, 8; 42, 5), "martyres beatissimi" (24; 46, 1), "martyres egregii" (33, 4), "martyres inclyti" (37, 10; 48, 5), "confessores sancti" (16, 7) e le loro venerate reliquie "caelestia membra" (25, 2), "cineres piorum" (16, 11), "sanctissima membra" (28, 9); l'aldilà è reso con le immagini di "regia caeli" (16, 3; 25, 2; 47, 3) e "regna piorum" (20, 5; 25, 5; 35, 5; 39, 8; 43, 5); la vittoria del martire è presentata come "Christi triumphos" (8, 8; 25, 7), "Christi coronas" (39, 9), "praemia caelestia" (15, 2), "palma" (47, 6), "praemia vitae" (17, 8); il persecutore è "carnifex" (21, 2), "carnifex rabidus" (28, 3); la persecuzione "iussa tyranni" (8, 3; 35, 1), "crudelia iussa tyranni" (21, 1), "feritas tyranni" (18, 5; 40, 6; 43, 2), "rabies tyranni" (37, 4). Si tratta, come si vede, di espressioni fortemente evocative, spesso poste in clausola di verso e quindi più facilmente memorizzabili; veri e propri formulari ripetuti ossessivamente, quasi a creare un nuovo linguaggio "martiriale" che potesse fissarsi indelebilmente nell'immaginario dei lettori.

In questa tensione alla glorificazione dell'eroe della fede si inserisce e si sviluppa il concetto della cristianità romana e del suo primato: il martire, in virtù del supplizio subito a Roma, diviene civis romanus. Così Roma può rivendicare a sé Pietro e Paolo (E.D. 20, 6), s. Ermete (E.D. 48, 1-2), s. Saturnino (E.D. 46, 2-5). D. inoltre con le sue composizioni concorre a stabilizzare e rendere ufficiali le gesta dei martiri. Le narrazioni vengono presentate come accuratamente documentate e talvolta in esse viene esplicitamente menzionata la fonte sulla quale il pontefice si fonda. Sintomatico è il caso dei ss. Marcellino e Pietro la cui storia D., ancora fanciullo, dice di aver appreso dalla viva voce dello stesso carnefice (E.D. 28, 2); altrettanto significativi in tal senso i carmi dei ss. Nereo e Achilleo (E.D. 8), di s. Eutichio (E.D. 21), dei ss. Pietro e Paolo (E.D. 20) nei quali D., pur non menzionando espressamente le testimonianze a cui fa riferimento, si esprime con affermazioni perentorie con le quali sembra voler impegnare tutta la sua autorità spirituale e morale a garanzia della veridicità delle vicende narrate: "credite per Damasum" (E.D. 8, 9), "expressit Damasus" (E.D. 21, 12), "cognoscere debes" (E.D. 20, 1). Laddove non può disporre di notizie dirette o comunque non compiutamente documentate, fa chiaramente capire di avere raccolto gli elementi del suo racconto dall'opinione corrente: in questi casi impiega espressioni cautelative come "haec audita refert Damasus" (E.D. 35, 8), "haec breviter Damasus voluit conperta referre" (E.D. 40, 7), "fama refert" (E.D. 37, 1; 48, 1).

D. elegge a interlocutore diretto dei suoi epigrammi il popolo di Dio ("plebs dei": E.D. 53; "plebs sancta": E.D. 63, 1-2; "plebs Christi": E.D. 67, 9) che talvolta - secondo una consolidata tradizione dell'epigrafia funeraria - viene direttamente interpellato in prima persona con locuzioni di tipo colloquiale come "si quaeris" (E.D. 11, 2; 16, 1), "quicumque legis cognosce" (E.D. 15, 1), "quicumque legis venerare" (E.D. 42, 1), "nomina quisque [...] requiris" (E.D. 20, 2), "quisque vides" (E.D. 68, 1), "cognoscere debes" (E.D. 20, 1).

Nella narrazione delle gesta è frequente il ricorso al registro patetico: l'età delle persecuzioni è così presentata con l'immagine della spada che squarcia il santo ventre della madre (la Chiesa) (E.D. 17, 1; 31, 1; 35, 3; 43, 1; 46, 2). I mille modi di tormentare, le "viae mille nocendi" (E.D. 21, 1), vengono descritti da D. con dovizia di particolari, quasi con compiacenza: Eutichio, oltre allo squallore del carcere, deve subire la mancanza di cibo e i frammenti di coccio che gli impediscono di prendere sonno per dodici giorni (E.D. 21, 4-6); Lorenzo solo con la sua fede può vincere "i flagelli, i carnefici, le fiamme, le torture, le catene" (E.D. 33, 1-2); Agnese (E.D. 37), la più celebre e venerata delle martiri romane, uditi i lugubri squilli delle trombe dei praecones, si offre spontaneamente alla rabbia e alle minacce del tiranno e copre con i propri capelli la nudità del corpo destinato alle fiamme; Tarcisio si fa uccidere piuttosto che consegnare ai cani rabbiosi le specie eucaristiche che recava con sé (E.D. 15, 8-9); per Marcellino e Pietro l'ordine del persecutore è la decollazione in mezzo ai cespugli perché nessuno potesse ritrovare i loro sepolcri (E.D. 28, 4-5).

Accanto ai martiri protagonista degli epigrammi è D. stesso: la sua figura non è mai in trasparenza ma è sempre visibilmente presente non soltanto nella canonica veste di dedicante (E.D. 4, 7, 15, 18, 22, 25, 28, 32, 44) ma anche in quella di autore (E.D. 4, 20, 21, 46, 59), di committente primario dei lavori realizzati (E.D. 42, 7, 58), di offerente di donativi (E.D. 33), di garante delle vicende narrate (E.D. 35, 40, 8), di semplice fedele che rivolge la sua preghiera al martire o ad esso scioglie i suoi voti (E.D. 37, 10). Questa continua autoreferenzialità è parte integrante e peculiare della ideologia damasiana e D., senza falsi pudori, lo dichiara espressamente in quello che può definirsi una sorta di manifesto programmatico, l'ultimo verso dell'epigramma posto all'ingresso del "titulus Damasi" (E.D. 57, 7): "ho voluto qui realizzare queste nuove opere con archi e aggiungere a destra e sinistra colonne, perché queste [opere] conservino nei secoli il mio nome, Damaso".

Il tramite materiale scelto da D. per diffondere e fissare durevolmente nel tempo la figura del martire e le sue gesta fu - né poteva essere altrimenti - l'iscrizione monumentale di apparato, la quale nella seconda metà del IV secolo costituiva ancora uno strumento sufficientemente idoneo di diffusione pubblica. La confezione grafico-epigrafica di queste iscrizioni fu affidata da D. al più celebre calligrafo dell'epoca, Furio Dionisio Filocalo, la cui attività a Roma è confermata anche dal cosiddetto Corpus Filocalianum che comprende, tra l'altro, un calendario riccamente illustrato dell'anno 354, un indice consolare fino al 354, un elenco delle date pasquali a partire dall'anno 312, un doppio calendario delle commemorazioni dei martiri e dei papi dal 255 al 335 e un indice dei papi da Pietro a Liberio (Catalogo Liberiano). L'alfabeto creato da Filocalo per le iscrizioni damasiane può senz'altro assumersi come una nuova stilizzazione grafica: "in mezzo alla decadenza generale della capitale epigrafica del sec. IV Filocalo seppe far rivivere le migliori tradizioni dei lapicidi e dei calligrafi del primo secolo e crearsi un tipo di scrittura monumentale, che mentre a quelli si ispirava, restava profondamente originale, anzi totalmente nuova" (A. Ferrua). Un effetto di grande suggestione dovevano suscitare le eleganti e nitide capitali filocaliane incise su grandi lastre marmoree (mediamente 2-3 m di lunghezza, oltre 1 m di altezza) opportunamente ubicate in punti strategici delle cripte e delle basiliche cimiteriali. Così in un ambiente sotterraneo come la cripta dei papi nel cimitero di Callisto, la celebre iscrizione "hic congesta iacet" (E.D. 16), nella sua ubicazione sulla parete di fondo, veniva a proporsi come fulcro, materiale e concettuale, dell'intero impianto cultuale e catturava l'attenzione del visitatore, sollecitata anche dall'iniziale colloquiale "si quaeris" e dalla ripetizione quasi ossessiva all'inizio di ciascun verso del locativo "hic": un espediente per ricordare al visitatore-lettore che lì, nel cimitero di Callisto, c'era realmente una "turba piorum".

D. e Filocalo in definitiva, nelle diverse ma confluenti sfere di competenza, mostrano di esser consapevoli di agire in un ambiente urbano - quello della Roma della seconda metà del IV secolo - ancora in grado di accogliere un messaggio nuovo trasmesso con uno strumentario lessicale ed espressivo proprio della cultura tradizionale: l'esametro eroico, la ripresa testuale di moduli espressivi dell'epica virgiliana e l'impiego delle iscrizioni monumentali di apparato come vettore immediato. Mai nel mondo romano vi era stata una operazione di propaganda di così vasta portata impostata sulle iscrizioni: gli unici antecedenti che forse possono richiamarsi sono gli epitaffi degli Scipioni e le Res Gestae divi Augusti, strumenti, gli uni e le altre, di propaganda ideologica. Contestualmente all'allestimento del sepolcro di famiglia, nei primi anni del suo pontificato D. compose un autoepitaffio la cui peculiarità, oltre che nei toni quasi dimessi, consiste nell'assenza di qualsiasi accenno alle sue res gestae perché è una confessione di fede individuale tutta costruita sulla ripresa di passi neotestamentari con i quali D. richiama il potere soteriologico di Cristo: "Colui che camminando calcò gli amari flutti del mare, / colui che ridà vita ai semi della terra destinati a morire, / colui che poté sciogliere dopo la morte i lacci letali della morte / e, trascorsi tre giorni, rendere vivo il fratello alla sorella Marta, / dalle ceneri - credo - farà risorgere Damaso" (E.D. 12).

L'epitaffio di D. ebbe immediata fortuna già all'indomani della sua morte, come indica per esempio un'iscrizione del cimitero di Panfilo sulla via Salaria, nella quale sono integralmente ripresi i versi 2 e 3. Ma notevole e vasta fortuna ebbero anche molti luoghi degli elogia martyrum che, come indicato soprattutto da C. Weyman e da A. Ferrua, furono frequentemente ripresi sia nella poesia cristiana (Prudenzio, Arnobio il Giovane, Venanzio Fortunato), sia nella letteratura agiografica (per esempio gli Acta Tarcisii e Xysti, la Passio di Marcellino e Pietro), sia nell'epigrafia funeraria nella quale la presenza di luoghi damasiani è attestata fino al VII secolo come indica eloquentemente, tra i molti esempi, l'epitaffio di una certa Giulia la cui sepoltura tra la fine del IV e l'inizio del V secolo fu allestita in prossimità di quella della sorella di D.; l'epitaffio damasiano di Irene recava al primo verso: "hic soros est Damasi, nomen si queris Irene" (E.D. 11).

L'ultima memoria epigrafica di D. è nell'epitaffio del suo successore Siricio. L'iscrizione, tramandata attraverso le sillogi medievali (Inscriptiones Christianae [...]. Nova series, IX, nr. 24832 da emendare con Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, pp. 102, nr. 30; 138, nr. 21), sottolinea nei primi due versi la continuità e la legittimità della successione: "[Siricio] subito seguì Liberio come lettore e come diacono e, dopo Damaso, famoso per tutti gli anni in cui visse, meritò di sedere nella sacra fonte come pontefice [magnus sacerdos], tanto che allora tutto il popolo solo lui acclamò [...]". Anche Siricio dovette far fronte alle ostilità dei superstiti del partito ursiniano il cui atteggiamento risultò nei fatti poco più che velleitario come pure velleitarie si rivelarono le illusorie pretese di Girolamo alla successione di Damaso. Ancora una volta l'oligarchia diaconale era riuscita ad imporsi e, in questa circostanza, anche con l'aperto sostegno della gran parte della comunità romana, ostile al monachesimo e a qualsiasi forma di ascetismo. Girolamo, preso atto di questa situazione, nell'agosto del 385 con Paola ed Eustochio abbandona Roma e ritorna in Oriente, non senza prima aver manifestato amarezza e protesta: eppure - dice Girolamo ad Asella - "[...] tutti a Roma erano concordemente a mio favore. Le parole pronunciate da Damaso erano le mie; mi chiamavano santo, mi ritenevano umile e sapiente" (ep. 45, 3, p. 325).

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