DIONIGI, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

Dionigi, santo

Manlio Simonetti

Fu eletto vescovo di Roma il 22 luglio del 259 (o, meno probabilmente, del 260), qualche tempo dopo il martirio di Sisto II avvenuto durante la persecuzione di Valeriano, perché per dargli il successore si attese la fine della persecuzione. Precedentemente, come si apprende da Eusebio (Historia ecclesiastica VII, 7, 6), era stato presbitero. Non appena eletto, D. (o Dionisio) fu chiamato a occuparsi di una questione che era stata proposta al suo predecessore ed era rimasta inevasa a causa della sua morte prematura. Il suo omonimo Dionigi, vescovo di Alessandria, era da qualche tempo duramente impegnato in una controversia con i sabelliani, che erano presenti in buon numero nella Pentapoli libica. Il contrasto verteva sulla dottrina cristologica: il vescovo alessandrino affermava la dottrina del Logos, quale era stata elaborata da vari dottori in diverse sedi nella seconda metà del II secolo e ad Alessandria sviluppata e arricchita da Clemente e soprattutto da Origene.

Con questa denominazione s'intende non genericamente ogni enunciato che faccia uso, in riferimento a Cristo, dell'appellativo giovanneo di Logos ma specificamente la dottrina che considera Cristo, in quanto parola e sapienza di Dio, preesistente all'incarnazione come entità divina distinta, anche se non separata, da Dio Padre, suo Figlio in senso reale e non metaforico. Origene aveva allargato la dottrina in senso trinitario, affiancando al Padre e al Figlio lo Spirito Santo e aveva precisato la distinzione tra loro mediante il termine ipostasi (ὑπόστασιϚ), indicativo di una entità individuale sussistente: questa dottrina, che viene definita delle tre ipostasi, fu recepita da Dionigi di Alessandria. Essa rilevava molto più la distinzione delle ipostasi divine che non la loro unità in un solo Dio, sì che le facevano opposizione altre dottrine che, in quanto affermavano più rigidamente l'unità di Dio, cioè, come si diceva allora, la monarchia divina, vengono definite dagli studiosi monarchiane. In questo ambito i sabelliani, eredi di Sabellio, che era stato attivo a Roma nei primi decenni del III secolo, identificavano il Padre e il Figlio come nomi, manifestazioni meramente esteriori di un'unica monade divina e perciò di fatto li identificavano. Impegnato contro i sabelliani della Pentapoli, Dionigi di Alessandria indirizzò a due vescovi locali una lettera di tono fortemente polemico, che suscitò la reazione di alcuni fedeli che, senza essere sabelliani, non approvavano neppure quello che consideravano l'eccessivo divisismo della dottrina del Logos nella formulazione radicale che le aveva dato il vescovo di Alessandria: inviarono perciò al vescovo di Roma, allora Sisto II, una lettera in cui elencavano quello che di non accettabile riscontravano nella lettera dell'Alessandrino, pregando il papa di intervenire.

Morto Sisto, fu il suo successore D. a occuparsi della questione, e lo fece inviando al suo omonimo di Alessandria due lettere, una di carattere privato e una da far conoscere pubblicamente, nella quale gli rinfacciava alcuni errori e lo invitava a ritrattarsi. L'Alessandrino replicò prima con una lettera e poi con uno scritto in quattro libri, Refutatio et apologia: è la questione detta dei due Dionigi. La si ricostruisce nelle linee generali e in alcuni dettagli soprattutto grazie a quanto ha tramandato Atanasio in due sue opere, De sententia Dionysii e De decretis Nicaenae synodi. La questione qui interessa da due diversi punti di vista: per quanto attiene alla primazia della Sede romana e per quanto riguarda la dottrina di D. di Roma. Quanto al primo punto, va rilevata la prassi seguita dai fedeli d'Egitto: costoro, la cui consistenza non si riesce in nessun modo a quantificare, erano entrati in contrasto con il vescovo di Alessandria e intendevano rinfacciargli quelli che essi consideravano i suoi errori. Ma a chi potevano rivolgersi? Presso di loro vigeva la prassi - unico caso nell'ambito di tutta la cristianità - che tutti i vescovi di Egitto e di Libia venissero nominati dal vescovo di Alessandria, sì che, in sostanza, erano a lui sottoposti. Dato questo rapporto di dipendenza, non era pensabile un ricorso all'episcopato egiziano, che molto difficilmente si sarebbe messo in urto con il vescovo di Alessandria. Al di fuori dell'Egitto, già dall'inizio del II secolo la Sede romana, distrutta ormai Gerusalemme dai Romani, emergeva come la sede dotata di maggior prestigio nell'ambito della cristianità. Fin quasi ad allora questo primato era stato considerato soltanto di onore e di dignità: ma già in precedenza c'era stato qualche caso di ricorso alla Sede romana da parte di altre comunità, e pochi anni prima di D. papa Stefano aveva più di una volta cercato di configurare la sua primazia come più che di onore, autorizzandosi a interferire in questioni riguardanti altre Chiese. I suoi interventi non erano stati bene accolti, ma d'altra parte, data la continua espansione della religione cristiana e, per conseguenza, anche della litigiosità all'interno delle comunità, ormai si cominciava ad avvertire l'esigenza di una sede d'appello, dotata di autorità e situata al di sopra delle parti. Tale sede alla metà del III secolo non poteva essere altra che quella romana. In tale contesto la questione dei due Dionigi rivestì particolare significato, perché per la prima volta si rivolgevano all'arbitrato della Sede romana membri di una Chiesa orientale.

Quanto alla questione dottrinale, il testo che qui più interessa, un superstite lungo frammento della lettera pubblica indirizzata da D. a Dionigi di Alessandria, è tramandato nel De decretis Nicaenae synodi atanasiano, 26. Non si può precisare con sicurezza a quanta parte della lettera originaria questo frammento corrisponda, ma dal suo contenuto non è arbitrario ipotizzare che esso contenga la parte essenziale, quella più propriamente argomentativa, della lettera di Dionigi. In esso sono presenti termini e concetti fino allora estranei all'ambiente dottrinale romano e che invece appaiono tipicamente origeniani: si può perciò ipotizzare che D., nel mettere sotto accusa il suo omonimo alessandrino, abbia abbondantemente sfruttato il testo della lettera che contro di quello gli avevano fatto pervenire i fedeli d'Egitto. Nella parte iniziale del testo a noi giunto D. rifiuta da una parte la dottrina sabelliana che identificava il Padre e il Figlio, e dall'altra la dottrina che affermava tre ipostasi divise del Padre Figlio e Spirito Santo, il che - egli afferma - significa professare tre divinità. Nella seconda parte rinfaccia all'Alessandrino di aver definito il Figlio ποίημα, cioè creatura, implicando così la sua non coeternità con il Padre, mentre egli è da considerare Figlio di Dio reale e coeterno con lui: è soprattutto qui che sono ravvisabili concetti ed espressioni di diretta derivazione origeniana, che difficilmente D. potrebbe aver derivato da fonte diversa dalla lettera che gli era stata recapitata dall'Egitto. Ancora in opposizione all'Alessandrino, che aveva confortato la sua definizione del Figlio quale creatura con la citazione di Proverbi 8, 22 "il Signore mi ha creato [ἔκτισε] inizio delle sue vie", D. interpreta il passo nel senso che Dio aveva sempre posseduto il Figlio, sua parola e sapienza sussistente. Alla concezione di Dio proposta dall'Alessandrino, che egli, come si è visto, considera eccessivamente divisiva, D. ne oppone una fortemente unitaria, ribadita dal ripetuto impiego del termine "monarchia". Egli afferma che il Logos divino è unito con Dio e in questo ha dimora lo Spirito Santo, sì che "necessariamente la divina Trinità si ricapitola e si assomma in uno [εἰϚ ἕνα] come in un vertice: dico Dio signore di tutte le cose". Il concetto che il Figlio e lo Spirito Santo, strettamente uniti con Dio Padre, si assommavano in lui come in un vertice poteva (non doveva) essere interpretato nel senso che la loro realtà s'identificava con la sua, in una concezione di Dio in cui la distinzione dei tre era puramente verbale: in definitiva, una formulazione ambigua ma senza dubbio fortemente unitiva, fino a una possibile interpretazione monarchiana radicale, nonostante la precedente presa di distanza da Sabellio. In questo senso si poteva anche aggiungere che nulla nel testo rileva la distinzione del Figlio e dello Spirito Santo rispetto al Padre, là dove i rappresentanti della dottrina del Logos la indicavano in Occidente (Tertulliano, Novaziano) mediante l'uso del termine persona, corrispondente al greco πρόσωπον, per altro meno individualizzante di "ipostasi", termine di cui Dionigi di Alessandria aveva fatto uso sulla traccia di Origene e che si è visto D. respingere come troppo divisivo. Nel complesso, la concezione di Dio, molto unitiva, di D. era molto lontana dalla dottrina del Logos allora rappresentata da Dionigi di Alessandria e che solo pochi anni prima proprio a Roma Novaziano aveva ribadito, sulla traccia di Tertulliano, nel suo De trinitate.

Per completare l'analisi del testo dottrinale di D., deve essere preso in considerazione un dettaglio, per altro importantissimo, del superstite testo di Dionigi di Alessandria. Questi, tra le varie accuse che gli erano state rivolte, si difende (presso Atanasio, De sententia Dionysii 6) anche da quella che gli faceva carico di non considerare Cristo consustanziale (ὁμοούσιοϚ) con Dio, cioè partecipe della sua stessa sostanza, essenza. Egli obietta che il termine non è attestato nella Sacra Scrittura, fonte diretta della dottrina cristiana, afferma per altro di non avere difficoltà ad accoglierlo, intendendolo nel senso di ὁμοϕυήϚ e ὁμογενήϚ, cioè "della stessa natura, dello stesso genere", perciò con significato molto generico, là dove gli avversari lo intendevano in senso molto più unitivo. È questa, secondo le attuali conoscenze, la prima attestazione sicura dell'uso, in ambito trinitario, di homoousios, cioè di un termine allora di ben scarso rilievo in quel contesto dottrinale ma destinato alla più grande fortuna, in quanto nel simbolo pubblicato dal concilio di Nicea nel 325 proprio di questo termine gli estensori della formula di fede avrebbero fatto uso per indicare la stretta affinità del Figlio col Padre contro Ario; proprio homoousios sarebbe diventato più tardi, grazie ad Atanasio, la parola d'ordine dell'ortodossia antiariana e si sarebbe definitivamente imposto nel concilio di Costantinopoli del 381. Dato che sullo svolgimento del concilio di Nicea si è scarsamente ragguagliati, non si sa da quale dei personaggi di spicco presenti al concilio sia stato proposto l'impiego, in senso antiariano, di homoousios: di qui varie ipotesi e proposte degli studiosi, alcuni dei quali, fondandosi sul passo sopra ricordato in cui Dionigi di Alessandria si difende dall'accusa di non aver considerato il Figlio homoousios col Padre, ne hanno inferito che il termine fosse presente nella lettera d'accusa a lui inviata da D. e, dato che nel testo della lettera a noi pervenuto di questo argomento non si tratta, hanno ipotizzato che D. ne avesse trattato in un passo della lettera che Atanasio non ha riportato. Una volta accettata questa ipotesi, le conseguenze sono molto importanti: se ne ricava infatti che homoousios fosse termine in uso per definire il rapporto tra Padre e Figlio nel contesto della dottrina trinitaria professata dalla comunità di Roma e che perciò nel concilio di Nicea esso sarebbe stato proposto da qualcuno dei pochissimi occidentali che vi furono presenti, in definitiva da Ossio, vescovo di Cordova, personalità assai autorevole in quanto allora molto vicino a Costantino, e che certamente ebbe a giocare al concilio un ruolo di primo piano.

Questa interpretazione di homoousios e dei fatti di Nicea è stata riproposta anche di recente da più parti. Le osta per altro la completa assenza del termine in tutta la superstite letteratura dottrinale del III secolo di provenienza romana e africana, che non è poca, e soprattutto una più attenta considerazione del De decretis Nicaenae synodi atanasiano. Dato infatti che in quest'opera Atanasio ha cercato di accreditare il discusso termine adducendo anche i passi di autori precedenti che avevano fatto uso diretto del termine o avevano espresso in altre parole lo stesso concetto, diventa inspiegabile perché, citando il lungo passo che si conosce della lettera di D., egli ne avrebbe omesso proprio il punto in cui veniva addotto quel termine e che perciò per lui era di gran lunga il più importante di tutto quel testo. In realtà Atanasio lo ha addotto in quanto non a torto ha ritenuto che esso esprimesse con altri termini il concetto significato in modo specifico da homoousios. Si può perciò concludere che in nessun punto della lettera di D. era nominato homoousios, termine estraneo alla teologia trinitaria in Occidente e la cui origine va probabilmente ricercata proprio ad Alessandria, negli ambienti avversi all'impostazione dottrinale del vescovo Dionigi. Ma anche se la lettera di D. non ha mai contenuto homoousios, nondimeno essa rappresenta un testo di importanza fondamentale per l'apprezzamento delle controversie dottrinali d'ambiente romano nel III secolo, in quanto, a stare alle attuali conoscenze, costituisce il punto d'arrivo di un complesso e contrastato itinerario dottrinale che aveva preso l'avvio all'inizio del secolo. Allora, nel contrasto tra i monarchiani radicali e i sostenitori della dottrina del Logos, i papi Zefirino e Callisto avevano cercato di proporre una linea mediana, proprio come successivamente avrebbe fatto papa Dionigi. Ambedue, per altro, di fatto si erano dimostrati molto più sbilanciati a favore della dottrina monarchiana, e se Zefirino sembra essersi limitato in argomento a poche e confuse affermazioni, Callisto aveva suffragato a livello di teoria la sua azione politica, tesa all'emarginazione di ambedue i contrapposti estremisti dalla comunità, elaborando una formula dottrinale fondata sulla valorizzazione del concetto di un unico spirito divino, in cui Padre e Figlio s'identificavano, distinguendosi soltanto nell'incarnazione. Soluzione, come si vede, di tono chiaramente monarchiano, anche se presentata in modo meno radicale rispetto a Sabellio. Rispetto ad essa, il testo di D. è molto meno esplicito nel presentare i rapporti intradivini e perciò, in sostanza, meno impegnato, ma vi ha in comune il tono fortemente unitivo e l'esplicito rifiuto degli esiti, considerati eccessivamente divisivi, della dottrina del Logos. È sintomatica in questo senso l'insistenza di D. nel rilevare il significato della sua dottrina mediante il termine "monarchia", che fino allora - per quanto consta attualmente - era stato in uso soltanto presso i monarchiani radicali e per questo era avversato dai sostenitori della dottrina del Logos. Se si tiene conto del fatto che Zefirino, Callisto e D. furono a capo della comunità cattolica di Roma e perciò i loro testi avevano valore ufficiale e rispecchiavano, al tempo loro, l'ortodossia della comunità, risulta evidente che a Roma nel corso del III secolo la dottrina del Logos non riuscì mai a imporsi come espressione ufficiale dell'ortodossia romana. È vero che questa stessa dottrina fu rappresentata, a metà secolo, dal De trinitate di Novaziano: ma, alla luce di quanto fin qui rilevato, il contenuto di tale testo va considerato quale espressione delle convinzioni dottrinali del suo autore e dei fedeli di Roma che gli erano più vicini, non certo come significativo dell'indirizzo dottrinale della comunità.

Per concludere sulla questione dei due Dionigi, basterà accennare che l'Alessandrino, nel replicare a D., non ha difficoltà a riconoscere che nella foga della polemica alcune espressioni avevano tradito il suo pensiero: precisa perciò che la definizione del Figlio come creatura (ποίημα) era da respingere, in quanto impropria per definire la condizione di Cristo, che invece andava considerato Figlio di Dio in senso reale e, come tale, coeterno col Padre. Ma in ambito trinitario l'Alessandrino fu irremovibile nel difendere la dottrina delle tre ipostasi, che pure D. aveva tacciato di triteismo: "se togliamo le ipostasi [egli dichiara] togliamo di mezzo la Trinità", con implicito ma evidente rimprovero a D. di aver salvaguardato la "monarchia" divina a discapito della distinzione personale delle tre entità trinitarie. Non si hanno altre notizie sulla polemica: vale a dire, non si sa se e in quali termini D. abbia replicato alla risposta dell'Alessandrino, che solo molto parzialmente aveva accolto la sua critica. Probabilmente la questione si chiuse con questa replica. Quel che è certo è che la dottrina delle tre ipostasi continuò a rappresentare l'indirizzo dottrinale ufficiale della sede di Alessandria e gradualmente, tra la fine del III e gli anni iniziali del IV secolo, si diffuse nelle comunità cristiane di Siria, Palestina e regioni circostanti. Nel contempo non consta che la Sede romana abbia avuto più occasione di trattare questioni riguardanti la dottrina trinitaria: in sostanza, essa rimase ferma sulla posizione che si può definire monarchiana moderata, in quanto professava una concezione unitiva della Trinità divina, rifiutando la distinzione per ipostasi (cioè per persone) affermata dalla dottrina del Logos. Dato che, col passare del tempo, sempre più le Chiese d'Occidente, soprattutto in questioni di dottrina e nel rapporto con le Chiese d'Oriente, si sarebbero allineate con la posizione della Sede romana, questa divaricazione di fondo tra il complesso delle Chiese occidentali e buona parte di quelle orientali avrebbe orientato in modo decisivo lo svolgimento della controversia trinitaria del IV secolo.

L'attuale conoscenza di D. è in massima parte limitata al suo contrasto con l'omonimo alessandrino. Poco altro si può aggiungere grazie all'epistola 70 che nel 371 Basilio di Cesarea inviò a Damaso di Roma. Nel chiedergli di venire in soccorso delle Chiese orientali, allora molto travagliate dai contrasti di vario genere innescati dalla controversia ariana, Basilio ricorda al collega il precedente di D., che a suo tempo aveva inviato una lettera consolatoria alla comunità cristiana di Cesarea di Cappadocia e anche una somma di denaro per il riscatto dei prigionieri. L'episodio va collocato cronologicamente nel contesto degli avvenimenti successivi alla sconfitta dell'imperatore Valeriano da parte dei Persiani (258), che ebbe come conseguenza il venir meno, per alcuni anni, del dominio romano in molte regioni d'Oriente. Due lettere (falsi pseudoisidoriani) tramandate sotto il nome di D. e indirizzate al prefetto Urbano e al vescovo Severo sono da considerare non genuine. Secondo la notizia del Liber pontificalis (nr. 26) D. avrebbe preposto i presbiteri alla direzione delle chiese di Roma, e avrebbe costituito cimiteri, parrocchie e diocesi, notizia questa largamente anacronistica e perciò di difficile decifrazione. Morì il 26 dicembre del 268 e fu seppellito nel cimitero di Callisto, come attestato dalla Depositio episcoporum - dove il suo latercolo ("VI Kalend[as] ianuarias. Dionisi in Calisti") occupa il primo posto -, e come indicato dall'epigrafe commemorativa fatta collocare da Sisto III nella cripta dei papi (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, nr. 9516: "Xystus Dionysius Stephanus Urbanus / Cornelius Felix Lucius Manno / Pontianus Eutychianus Anteros Numidianus / Fabianus Gaius Laudiceus Iulianus / Eusebius Miltiades Polycarpus Optatus"). Una traslazione, evidentemente parziale, delle spoglie di D., è indirettamente testimoniata da un documento epigrafico, una lastra marmorea collocata nell'atrio della chiesa di S. Silvestro in Capite: l'epigrafe è stata attribuita da A. Silvagni al pontificato di Paolo I. Un'altra iscrizione, gemella della precedente, in origine pertinente alla basilica di S. Pietro, è ora conservata nelle Grotte Vaticane. La sua memoria liturgica si celebra il 26 dicembre.

fonti e bibliografia

Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, p. 157. Il Catalogo Liberiano, in esso contenuto, dà le coordinate cronologiche; poco più, e di non acclarata attendibilità, aggiunge l'edizione del Liber curata dal Duchesne. Le notizie sulla questione dei due Dionigi si ricavano soprattutto da Atanasio, De sententia Dionysii, a cura di H.-G. Opitz, in Athanasius Werke, II, 1, Berlin-Leipzig 1936, pp. 46-67; la lettera di D. a Dionigi di Alessandria è riportata da Atanasio, De decretis Nicaenae synodi 26, a cura di H.-G. Opitz, ibid., ivi 1935, pp. 21-3. Altra notizia si legge in Basilio, Epistula 70, in Id., Lettres, a cura di Y. Courtonne, I, Paris 1957, pp. 164-66.

Su D. cfr. E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 92-3; in partic., sulla questione dei due Dionigi v.: J. Zeiller, in Histoire de l'Église, a cura di A. Fliche-V. Martin, II, Paris 1948, pp. 417-18; H.-I. Marrou, L'arianisme comme phénomène alexandrin, "Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, Comptes Rendus", 1973, pp. 533-42; W.A. Bienert, Dionysius von Alexandrien. Zur Frage des Origenismus im dritten Jahrhundert, Berlin-New York 1978, pp. 200-21; L. Abramowski, Dionys von Rom (†268) und Dionys von Alexandrien (†264/5) in den arianischen Streitigkeiten des 4. Jahrhunderts, "Zeitschrift für Kirchengeschichte", 93, 1982, pp. 240-72; M. Simonetti, Aspetti della cristologia del III secolo: Dionigi di Alessandria, "Bessarione", 1989, nr. 7, pp. 37-65, ripubblicato in Id., Studi sulla cristologia del II e III secolo, Roma 1993, pp. 273-97; sulla dottrina di D., cfr. A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, Brescia 1982, pp. 369-70; M. Simonetti, Il problema dell'unità di Dio a Roma da Clemente a Dionigi, "Rivista di Storia e Letteratura Religiosa", 22, 1986, pp. 466-69, ripubblicato in Id., Studi sulla cristologia, pp. 208-11.

Monumenta epigraphica christiana saeculo XIII antiquiora quae in Italiae finibus adhuc extant [...], a cura di A. Silvagni, I, Roma, Città del Vaticano 1943, tav. XXXVII, 1, 3; Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, IV, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, ivi 1964.

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