GIUSTINO, santo

Enciclopedia Italiana (1933)

GIUSTINO ('Ιοστῖνος), santo

Mario Niccoli

Martire e scrittore cristiano, il principale rappresentante della letteratura apologetica greca del sec. II (v. apologetica). Nacque a Flavia Neapolis (oggi Nablūs) in Samaria agl'inizî del secolo da un pagano greco di nome Prisco e visse alquanto tempo ad Efeso. Iniziatosi alla filosofia, specialmente al platonismo e allo stoicismo (le innegabili tracce platoniche e stoiche nel pensiero di G. sono state però assai spesso esagerate); vissuto a lungo in ambiente palestinese dove il monoteismo giudaico si respirava, per così dire, nell'aria, G. si convertì al cristianesimo all'epoca di Adriano, forse ad Efeso (o in Palestina?). Convertito, G. si diede tutto alla propaganda della nuova fede, peraltro più come maestro di una filosofia nuova che come apostolo. A Roma, dove G. si recò due volte, riuscì a radunare attorno a sé un certo numero di discepoli, fra i quali Taziano (v.), e sostenne dispute con il filosofo cinico Crescente. Con qualche probabilità su denuncia di questo, G. fu tradotto come cristiano davanti al prefetto di Roma Giunio Rustico (fra il 163 e il 167) e messo a morte. Gli atti del suo martirio sono considerati autentici.

Delle molte opere attribuite a G., tre sole fra quelle pervenuteci (smarrita è un'opera di G. su tutte le eresie) possono essere a lui attribuite con sicurezza: due apologie e il Dialogo con l'ebreo Trifone. La prima apologia è indirizzata ad Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero e fu scritta probabilmente verso il 150; di poco posteriore la seconda, più breve, e che va considerata piuttosto come una specie di aggiunta o appendice alla prima apologia, suggerita a G. dalla vicenda di Tolomeo e degli altri cristiani condannati dal prefetto Urbico. (Per il carattere generale di questi scritti apologetici. v. III, p. 693). Nelle apologie di G. manca un piano organico di esposizione: continue digressioni, lo stile singolarmente pesante e monotono, l'argomentazione spesso fiacca e lacunosa fanno sì che sia spesso arduo seguire lo sviluppo logico dell'opera e precisare le idee in essa espresse. Non molto superiore sotto questo riguardo è il Dialogo con l'ebreo Trifone (il primo scritto cristiano di polemica antigiudaica da noi posseduto) composto ad Efeso verso il 160. Le scarsissime notizie che abbiamo sull'Altercatio Iasonis et Papisci di Aristone di Pella (v.), vietano di precisare i rapporti di G., per quel che riguarda la polemica antigiudaica, con Aristone; del resto non è improbabile che le due opere siano a un dipresso contemporanee e quindi indipendenti. G. immagina un dialogo fra lui e il rabbino Trifone (un Rabbī Tarphōn insegnava effettivamente a Lydda ai tempi di G.); il dialogo si sarebbe svolto ad Efeso e avrebbe occupato due giornate, ma la divisione fra la prima e la seconda giornata è scomparsa: la lacuna è alla fine del capitolo LXXIV. Il dialogo (dedicato a un Marco Pompeio) è di tipo platonico; vi assistono anche altri personaggi; non si può dire fino a che punto vi si riflettano realmente una o più dispute che è plausibile G. abbia sostenuto con qualche rabbino.

Più che seguire G. nella sua argomentazione contro Ebrei e gentili, e in difesa del cristianesimo, si farà cenno di alcune delle idee da G. espresse nel corso di questa. Benché esse presentino incertezze e lacune nella loro formulazione, benché in G. manchi un profondo senso ecclesiologico (G., diversamente dalla tradizione del pensiero paolino, sembra considerare il cristianesimo esclusivamente come un fatto individuale), non è tuttavia possibile mettete in dubbio l'importanza degli scritti di G. nei quali si ha uno dei primi tentativi di sistemazione intellettuale e teologica della fede cristiana concepita in armonia con la ragione e la filosofia.

Per G. l'uomo è fornito di una ragione (ὁ λόγος) umana che, disseminata (G. parla di un λόγος σπερματικός: l'espressione, benché in altro significato, era già consacrata dalla terminologia stoica) in ogni individuo, gli consente, a prescindere da ogni rivelazione, di riconoscere certe verità essenziali quali l'esistenza di Dio e la distinzione del bene dal male. Ciò spiega come alcuni filosofi dell'antichità (Socrate, Eraclito, Musonio) facendo uso, in virtù della loro grande moralità, della loro ragione, abbiano potuto conseguire la salvezza, e, in certo senso, meritare il nome di cristiani. Del resto la coincidenza fra alcune affermazioni di filosofi greci (specialmente Platone) e le verità cristiane si spiega con il fatto che essi hanno attinto queste idee nei libri del Vecchio Testamento (G. attinge l'idea, destinata a una singolare fortuna, all'apologetica giudeo-alessandrina). Il λόγος di cui ogni uomo è fornito è peraltro necessariamente imperfetto e limitato, come imperfetta e limitata è la conoscenza cui può condurre: esso non è difatti che un semplice riflesso del λόγος, cioè della Ragione divina fonte di ogni verità, quello stesso che per bocca dei profeti ha comunicato verità impossibili ad essere intuite razionalmente. (G., pur affermando che nel Vecchio Testamento e specialmente nei profeti, è stata annunciata la rivelazione cristiana, nega qualsiasi valore alla legge giudaica). Ma il λόγος si è ora incarnato e rivelato in Cristo (G. vuol difendere il carattere di necessità all'Incarnazione) e attraverso la parola di questo la verità non ha più veli o lacune per gli uomini. In questo senso, per G., il cristianesimo è una filosofia, anzi la filosofia perfetta.

Quali i rapporti fra il Verbo e Dio, e quale l'idea che G. si fa di Dio? Dio è un essere trascendente, privo di colore, di forma, di grandezza; un essere al di là di ogni essere, il solo buono e bello, che fa apparire nelle anime bennate un'affinità di natura e il desiderio che hanno di vederlo. È un dio unico, vivente, che per bontà e a causa degli uomini ha creato il mondo e lo governa mediante la sua provvidenza. Per quanto Dio sia causa (αἴτιος) di ogni cosa esistente, mezzo e strumento della creazione è stato il Verbo divino che è il Figlio primogenito di Dio, l'unico che può essere chiamato Figlio, che era col Padre prima di tutte le creature, e che fu generato quando al principio il Padre fece e ordinò tutte le cose per suo mezzo. Non sempre G. distingue nettamente la funzione del Padre e del Verbo nella creazione e spesso il Padre interviene nella creazione con la stessa funzione di demiurgo da G. ordinariamente assegnata al Verbo. Al contrario, esclusivamente al Verbo è affidata la funzione di rivelatore: il Padre non appare mai sulla terra, ma al Verbo vanno assegnate le teofanie del Vecchio Testamento, è il Verbo che si è incarnato, è il Verbo che si rivela nei profeti; egli è Jahvè. Identificato il figlio di Dio con il Verbo, mostrata quindi la sua preesistenza, facile era giungere a identificare questo con il Gesù storico. Il quale esso stesso è Dio. Ma come conciliare il monoteismo con la divinità del Verbo? Ignoto ancora il concetto di persona, G. parla del Figlio come di un secondo Dio subordinato al Padre e generato nel tempo, senza però che fra i due vi sia disaccordo e senza che la generazione, come quella di un fuoco che dia origine a un altro fuoco, alteri in qualche cosa, diminuendola, la divinità del generante. Se poco chiari sono nella teologia di G. i rapporti fra Padre e Figlio anche più oscura è la posizione e la funzione dello Spirito Santo. G. non lo ignora e lo colloca anzi ἑν τρίτη τάξει, ma è evidente che egli, confondendo fra i due. attribuisce allo Spirito quelle stesse funzioni che ha attribuite al Figlio.

Quale la funzione e il valore dell'Incarnazione del Verbo? La questione ha tanto maggiore importanza se si pensa che G. considera l'uomo come essere perfettamente libero, e il peccato originale non come un vizio che abbia con Adamo contaminata l'umanità tutta; l'uomo, per G.. è in peccato per sua propria colpa, e il battesimo non lo lava dalla colpa originale, bensì dalle colpe commesse prima di ricevere il sacramento. L'incarnazione del Verbo (G. afferma nettamente la verginità della Madre) ha avuto innanzi tutto per effetto quello di comunicare agli uomini la Ragione divina. In questo senso Cristo è soprattutto il maestro. Ma Cristo ci ha anche riscattato dal dominio degli angeli perversi. Questi erano in origine esseri intelligenti e liberi, permanenti e indipendenti, ma essi disubbidirono a Dio accoppiandosi a donne e generando i demoni. Satana indusse Adamo in peccato. Da allora i demonî dominarono l'umanità, pervertirono il libero Volere dell'uomo, indussero questo in colpe d'ogni genere, organizzando il paganesimo, creando le leggi perverse dell'umanità. Venuto Cristo essi cercarono di resistergli, eccitando le persecuzioni, suscitando gli eretici; ma Cristo ha sottratto gli uomini al loro dominio. Maestro, vincitore dei demonî, Cristo è il vincitore della morte, in quanto l'anima dell'uomo è per sua natura mortale e solo l'incarnazione del Verbo ha permesso che la morte sia umiliata e che alla seconda venuta del Cristo (G. è millenarista) essa cessi completamente per quelli che credono in lui. Del resto l'efficacia dell'incarnazione e della morte del Cristo è garantita dai sacramenti da lui istituiti: il battesimo e l'eucaristia.

Ediz. e trad.: Oltre quelle comprese nelle edizioni generali degli apologisti (v. apologetica, III, p. 693), v., per le apologie, quella di Rauschen, 2ª ed., Bonn 1911; quella di L. Pautigny, con trad. francese, Parigi 1904; G. Krüger, 4ª ed., Tubinga 1915. Per il Dialogo, quella di G. Archambauld, con trad. francese, Parigi 1909. Trad. italiana delle Apologie e di passi scelti del Dialogo a cura di I. Giordani, Firenze I929.

Bibl.: Una bibliografia di circa 500 numeri è contenuta nel saggio, fondamentale, di E. Goodenough, The Theology of Justin Martyr, Jena 1923. Oltre questa, quella citata sotto apologetica e quella citata in A. Puech, Hist. de la lità grecque chrétienne, II, Parigi 1928, pp. 131-170; v.: K. Kubik, Die Apologien des hl. Justinus, in Literar.-hist. Unters., Vienna 1912; G. Bardy, Saint Justin et la philos. stoïcienne, in Rech. Sc. religieuses, 1923-24, pp. 33-45; bibl. su G. per gli anni 1916-1925, in Jahresber. über die Fortschritte der klass. Altertumswiss., CCXX (1929), pp. 169-176. V. pure le introd. alle ed. citate.