PAOLO, santo

Enciclopedia Italiana (1935)

PAOLO, santo

Leone TONDELLI
Umberto GNOLI

, Apostolo, nato a Tarso in Cilicia verso l'inizio dell'era cristiana, massimo propagatore dell'idea cristiana nel mondo ellenistico-romano, e a cui in gran parte si deve l'affermarsi e lo stabilirsi del cristianesimo nel mondo.

La vita e il pensiero di P. ci sono noti dagli Atti degli apostoli (v.; e v. Luca, santo) e dalle lettere che di lui ci sono state conservate, e che elenchiamo in ordine di data: due ai Tessalonicesi, due ai Corinzî, una ai Galati, ai Romani, agli Efesini, ai Colossesi, ai Filippesi, un biglietto a Filemone, una lettera a Tito, due a Timoteo, una agli Ebrei. Per la loro autenticità e le circostanze di origine, v. le singole voci.

Vita. - Alla sua nascita i genitori, ebrei, gli posero nome Saul. Cresciuto nella sua giovinezza in un grande emporio marittimo, poiché al tempo di P. anche le grandi navi risalivano a Tarso attraverso un breve tratto del fiume Cnydus, ne ebbe l'ardimento del viaggiare e la facilità di comunicare con i più svariati popoli. Alle sue generalità va aggiunta la cittadinanza romana avuta dalla sua famiglia, s'ignora in qual modo. I genitori suoi, di rigidità farisaica, lo dovettero iniziare al sapere nelle scuole ebraiche che ogni colonia importante aveva; poi lo mandarono a compiere gli studî a Gerusalemme, dove ebbe per maestro Gamaliele il Vecchio, onorato sia nel Talmud (Sota, IX, 15), sia dai cristiani per l'equità usata con loro (Atti, V, 34 segg.) e per il ricordo che ne serbò Paolo. Apprese, com'era costume nelle scuole ebraiche, anche un mestiere, quello di fabbricatore di tende, che gli giovò nel suo ministero apostolico. Le scuole ellenistiche fiorenti a Tarso, importante centro di studî, da P. non furono frequentate. La sua conoscenza della letteratura e filosofia greca gli venne più tardi, e indirettamente, attraverso il contatto e la polemica con i gentili.

Non conobbe personalmente Gesù Cristo. L'idea contraria, esposta recentemente da G. Weiss, Moulton, Ramsay nel commento a II Corinzî, V, 6, è seducente, poiché ci spiegherebbe meglio come P. partecipasse così fieramente alla lotta fra il cristianesimo e il giudaismo; ma P., se confessa spesso le sue persecuzioni contro i cristiani, non fa mai parola d'un suo contrasto con Gesù.

Quando Gesù insegnava, o si svolgeva la sua fine tragica, P. doveva essere assente da Gerusalemme; ma vi tornò poco dopo, perché partecipò attivamente alle prime lotte contro i cristiani di Gerusalemme, particolarmente al martirio di Stefano. La frase "i testimonî gettarono i loro mantelli ai piedi di Saulo" (Atti, VII, 57) può suggerire ch'egli avesse una parte organizzativa nell'esecuzione. Fu sua iniziativa la richiesta di lettere dal sommo sacerdote (che doveva essere ancora Caifa, deposto solo nell'anno 36) per portare la persecuzione fino a Damasco.

Il suo accanimento anticristiano, espresso in Atti, XXII, 4-5, è confermato dalle sue stesse frasi (Gal., I, 13-16). Giovane, di natura ardente, educato in famiglia e nella scuola alla rigidezza d'un sincero fariseismo, condivise le idee farisaiche su Gesù, e si oppose con tutte le forze a una riabilitazione e a una continuazione dell'opera del condannato dal sinedrio. L'ammissione nei circoli dominanti di Gerusalemme, in cui primeggiava il sommo sacerdote Caifa, forse poté contribuire a esaltarlo; la sincerità però del suo atteggiamento è da lui stesso attestata con un'umile frase: "ottenni compassione, perché agii per ignoranza nella incredulità" (I Tim., I, 13). Egli comprendeva esattamente l'incompatibilità della dottrina di Gesù con il fariseismo e con l'esaltazione della legge mosaica.

La sua conversione al cristianesimo avvenne all'improvviso, nel suo recarsi a Damasco (nell'anno 30 secondo Harnack, Blass; verso il 34 secondo i più). Un'apparizione di Gesù lo atterrò e lo mutò. Il racconto dell'apparizione è dato tre volte dagli Atti (IX, 3-27; XXII, 6-16; XXVI, 13-18); nel suo epistolario P. vi accenna a rapidi tratti spesso, sempre supponendolo noto ai corrispondenti (Gal., I, 13-16 e 22-24; I Cor., XV, 9-10; Rom., I, 5; Efesini, III, 7-8). A quell'apparizione P. sembra collegare la missione avuta da Cristo di evangelizzare e la legittimità del suo apostolato.

Segue un periodo di nascondimento. Tre anni di studio e di meditazione in Arabia gli dovettero servire a rifare la sua mente e a percepire le prove della messianità di Gesù dalla Bibbia. Dall'Arabia si recò a Gerusalemme per trattenervisi con Pietro, rimanendo con lui 15 giorni (Gal., I, 18). Ritornato a Tarso, lo distoglie dall'isolamento Barnaba, che lo riconduce ad agire nella comunità di Antiochia di Siria; ivi è decisa la prima spedizione evangelica, che si svolge dal 45 al 49. Barnaba e Paolo percorrono da un capo all'altro l'isola di Cipro, passano in Licaonia e in Pamfilia; cominciano regolarmente dal predicare nelle sinagoghe del luogo, fin quando il dissenso portato dal nuovo verbo non li costringa ad abbandonarla. Allora annunciano la parola ai gentili, e presso costoro ottengono i larghi successi che, ritornati ad Antiochia, esalteranno dinnanzi ai fedeli.

Ma le correnti ebraiche più rigide, che non mancano nella comunità, esigono che i gentili non si ammettano fra i cristiani se non a condizione che si sottomettano alla legge mosaica, e specialmente alla circoncisione, criticando vivacemente la facilità con cui essi furono accolti. P. e Barnaba s'oppongono non meno vivacemente a queste esigenze, che compromettono il successo dell'evangelizzazione. Vengono quindi mandati a Gerusalemme per trattarvi la questione con gli apostoli (Atti, XV, e con ogni probabilità Gal., III, 1-10, che presenta un accordo sostanziale). La tesi della libertà prevale, adottandosi soltanto alcune mitigazioni pratiche per ottenere la possibilità d'una pacifica convivenza di Ebrei e gentili in un'identica comunanza religiosa (anni 49-50).

Da allora l'apostolato di P. non ha più tregua. Staccatosi da Barnaba, con Sila visita le comunità fondate in Licaonia e in Pamfilia; attraversa la Galazia, dove forse fin da allora costituisce nuove comunità, cui secondo una tesi dibattuta indirizza la lettera ai Galati (v.). L'intenzione sua di fissare come campo di apostolato la provincia romana dell'Asia è interrotta da una visione che lo invita in Macedonia. Passato l'Ellesponto può formare comunità cristiane a Troade, Berea, a Tessalonica (l'attuale Salonicco), scendendo ad Atene e poi a Corinto.

Importante la sua visita ad Atene, messa in rilievo dagli Atti. P. vede la città la prima volta, ma non sembra attratto dalla bellezza dei monumenti: quei monumenti sono in maggior parte templi pagani, che ripugnano al suo senso religioso. Egli parla nella agorà, discute con filosofi che lo conducono all'areopago, dove può esporre, sebbene incompletamente, le basi della sua dottrina. Egli fissa però la sua dimora a Corinto, centro più popoloso di Atene, dove più facilmente può incontrare connazionali o gentili convertiti al cristianesimo.

Vi rimane tre anni (anni 50-52), irradiando la propria evangelizzazione in tutta l'Acaia, e può fondarvi una comunità numerosa, che deve però sostenere contro il sorgere di abusi e dissensi, e contro le intromissioni dei cristiani giudaizzanti. L'aspro dissenso ebraico, che trascina P. innanzi al proconsole Gallione, si risolve a favore del cristianesimo, perché Gallione rifiuta d'interessarsi di questioni religiose estranee alle leggi romane. Un'iscrizione trovata a Delfo nel 1905 offre un importante punto di riferimento per la cronologia dell'apostolo, e fissa l'episodio all'anno 52 (o 53)

Dato stabile assetto alla nuova comunità, P. ritorna a Gerusalemme passando da Efeso, dove intravvede un terreno ben disposto; non vi si ferma per il momento, ma visitata Gerusalemme e rivedute le comunità di Antiochia, e poi della Galazia e della Frigia, vi torna facendola centro d'una terza spedizione apostolica (anni 53-58). Gli anni che vi stette furono così bene spesi che il culto ad Artemide, cui Efeso aveva eretto un grandioso tempio frequentato da tutti gli Elleni, aveva subito un notevole ribasso. Deve quindi allontanarsene, in seguito a una sommossa popolare, provocata da orefici interessati nella fabbricazione di oggetti votivi. Ch'egli vi fosse imprigionato ha recentemente sostenuto A. Deissmann, raccogliendo varî consensi; avrebbe scritto di là alcune lettere. Alcuni hanno dedotto dal testo I Corinzî, XV, 32, ch'egli vi fosse esposto alle fiere del circo: ma la frase può avere un senso metaforico. Allontanandosene, P. visitò ancora le cristianità della Macedonia e dell'Acaia, ritornando poi a Gerusalemme.

Quivi la sua posizione, in conseguenza della sua lotta aperta contro l'osservanza della legge mosaica nelle comunità cristiane, era divenuta quasi insostenibile. I suggerimenti della comunità gerosolimitana di recarsi al Tempio a manifestarvi la sua pietà inaspriscono ancora più gli animi: egli viene arrestato e deve la sua salvezza alla sua qualità di cittadino romano (anno 58). L'accanimento contro di lui è tanto che, secondo Atti, XXIII, 12-35, oltre quaranta persone avevano fatto voto di non mangiare prima di averlo ammazzato. Viene trattenuto in prigione due anni a Cesarea dai procuratori romani Felice e Festo, fino a quando volgendosi male il processo davanti a Festo, egli, come cittadino di Roma, appella a Cesare (Atti, XXV). Le peripezie del viaggio di mare, col naufragio a Malta, l'accoglienza dei cristiani a Pozzuoli e a Roma, le vicende dei due anni di custodia militare a Roma stessa (anni 60-61) sono narrati in un racconto vivo e particolareggiato, in Atti, XXVII-XXVIII, che si chiude inattesamente senza esporre l'esito finale del processo.

Una risoluzione favorevole di esso, non testimoniata esplicitamente da fonti, è presupposta da diversi dati. P. stesso nelle lettere ai Filippesi (I, 25-27; II, 24) esponeva il buon andamento del processo. Gli avvenimenti accennati dalle lettere dette "pastorali" (le due a Timoteo e quella a Tito), che la tradizione testuale e documentaria attribuisce a P., non entrano nel quadro degli avvenimenti già narrati. Infine il Frammento Muratoriano accenna a un viaggio di P. in Spagna, che poté svolgersi solo dopo il 61. Clemente Romario (I Cor., V) vi accenna quando, scrivendo da Roma nel 95, afferma che P. si era spinto nel suo apostolato "sino al termine dell'Occidente".

Tenendo calcolo dei dati forniti dalle lettere a Tito e a Timoteo, oltre ad essere passato in Spagna, come aveva da tempo progettato di fare (Rom., XV, 24), P. evangelizzò Creta, dove lasciò Tito per organizzarvi le comunità nascenti (Tito, I, 5); passò poi in Asia Minore, visitando Efeso (I Tim., I, 3), Mileto, Troade, Corinto, con l'intenzione di svernare a Nicopoli. Arrestato di nuovo, non si sa in quali circostanze, alla prigionia più dura della precedente s'aggiunsero per angosciarlo la lontananza e anche l'abbandono di alcuni tra i suoi stessi collaboratori, timorosi d'essere coinvolti nel processo, come lamenta in una lettera scritta di prigione (II Tim., IV, 9-12). Solo Luca era con lui. Condannato, subì la decapitazione lungo la Via Ostiense. La data del martirio dagli antichi scrittori ecclesiastici (Eusebio, S. Girolamo) è fissata all'anno 67: si ha allora maggiore spazio per le attività di cui fanno cenno le lettere pastorali. La morte avvenne nell'anno 65, se egli fu travolto nel primo scoppiare della persecuzione di Nerone, secondo la tesi di critici recenti.

Il pensiero. - P., cresciuto nella scuola farisaica, rimase, anche dopo che si convertì e si formò un pensiero proprio, assorbito dal pensiero della giustizia e della giustificazione. Problema fondamentale gli appare questo: come divenire giusti (e il termine è comprensivo d'ogni virtù morale e religiosa) e come essere giustificati presso Dio.

Per usare una frase di Gesù, P. ha "fame e sete di giustizia": egli la cercò prima nel fervore della pietà giudaica, quale zelante osservatore della legge mosaica, rendendo testimonianza che i suoi connazionali ancora la perseguono, benché errando; poi la cercò nel cristianesimo. Abbandonò il fariseismo e il giudaismo, per una nuova giustizia, più abbondante e più vera. Penetrando nell'intimo del pensiero di Gesù, egli oppone all'osservanza della lettera ormai invecchiata, lo spirito nuovo della morale e della religione del Vangelo. L'antica vita, quella giudaica e farisaica, gli appare una servitù pesante: e canta l'inno della libertà, regolata questa stessa dalle leggi immanenti nella natura dello spirito divino comunicato all'uomo: "Voi foste chiamati alla libertà...; solo che la libertà non sia di licenza alla carne, ma per la carità siate servi gli uni agli altri... Perché la carne ha desiderî contrarî allo spirito, e lo spirito contrarî alla carne" (Galati, V, 13 segg.). L'amore (ἀγάπη: fuori del Nuovo Testamento, cui sembrava esclusivo, il vocabolo è stato trovato in alcuni papiri e iscrizioni, ma come il corrispondente latino charitas prese un significato nuovo e più riservato) è, per lui, come per Cristo, al centro della vita morale. L'inno all'amore, della I Cor., XIII, raggiunge le vette del sublime: oltre il nostro "conoscere" che vede un solo aspetto delle cose, oltre lo stesso "profetare" che è comunicazione divina di pensiero ma circoscritta dai limiti del nostro modo di conoscere, sta in un ordine di valore superiore ed eterno, l'amore. La conoscenza (γνῶσις), di cui ci vantiamo al presente, è come il pensare e il ragionare di un fanciullo, di cui ci si sveste arrivando alla maturità. "Vediamo oggi (il divino e le cause profonde delle cose) entro uno specchio, in enigma", nel riflesso di Dio nel creato. Nell'al di là, invece, la visione divina sarà diretta e immediata. La "fede", sulla quale pure P. insiste tanto e la "speranza" spariranno nella visione e nel raggiungimento delle realtà sperate; l'"amore" solo non decade e non muta.

L'amore, come per Cristo, riassume tutta la legge (Gal., V, 14). Esso cerca non le cose proprie, ma l'altrui bene. P. interpreta il pensiero di Cristo quando pronunzia la frase: "Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene".

L'amore si arricchisce degli altri frutti dello spirito: "gaudio, pace, pazienza, benignità, bontà, fede, dolcezza, temperanza" (Gal., V, 22). V'è onestà e purezza. La verginità (come la vedovanza) sono consigliate per quanto hanno di decoro in sé stesse, e come modo di mantenere l'unità dello spirito rivolto al Signore.

Questa morale è attinta all'insegnamento di Cristo, richiamato spesso nelle frasi, a volte esplicitamente. Essa ha come base e primo elemento il senso religioso. P. sente pienamente la novità della rivelazione della paternità divina. Non siamo più servi, ma figli. Lo Spirito effuso nei credenti grida nei loro cuori "Abba, Padre" (Gal., IV, 6). Gesù ne è il maestro, e insieme l'esempio. L'idea della redenzione, mediante il sacrificio volontario del Figlio di Dio, gli dà una specie di smarrimento di fronte all'abisso dell'amore divino, mistero insondabile. Si comprende come possa essere da lui giudicato, in questa luce morale e religiosa, non solo il mondo ellenico-romano, ma anche quello giudaico.

Di fronte al fariseismo, che reputa poter raggiungere la giustizia e si vanta di essa, P. formula come principio assoluto che nessuno può ritenersi giusto davanti a Dio. È la formulazione teorica dell'insegnamento contenuto nella parabola del "fariseo e del pubblicano".

Al mondo pagano egli fa una requisitoria terribile nella lettera ai Romani (I, 18-32). L'abbassamento della religione nell'idolatria e nel pullulare delle divinità d'ogni genere è giudicato "senza scusa", poiché ciò che può conoscersi di Dio, è in essi (i pagani) manifesto, avendolo Dio a loro manifestato" (Rom., I, 19).

Si deve a questo tramutamento del divino nell'umano, l'avere Dio abbandonato il gentilesimo alle passioni più nefande, contro natura. Tutti i vizî gli sono rinfacciati, in una enumerazione che pare esaurire il vocabolario pure ricchissimo di P.; ultimo rimprovero ai pagani quello di essere "senza misericordia, senza amore". La durezza verso i vinti e gli schiavi, l'indifferenza verso ogni sorta di sofferenti, l'egoismo brutale dominante non potevano suggerire parole meno acerbe al discepolo di quel Gesù, che aveva insegnato la beatitudine del dare esser maggiore di quella del ricevere, che era venuto a servire e non ad essere servito, che aveva accettato e insegnato il sacrificio della vita come suprema dedizione amorosa per i fratelli.

Come per Gesù, v'è una luce da fare risplendere nelle tenebre, v'è un mondo da salvare. Scrivendo dalla Grecia, culla dell'arte e del pensiero filosofico, alla metropoli del mondo, Roma, egli esclamerà: "Io non mi vergogno del Vangelo; è infatti potenza di Dio a salvezza di ogni credente, del Giudeo prima, e del Greco" (Rom., l, 16).

Il peccato entrò nel mondo per la disobbedienza del primo Adamo, e col peccato vi entrò la morte. P. segue in questo la Bibbia, come la segue, quale era interpretata anche dalle scuole rabbiniche, nell'attribuire a quella disobbedienza del capostipite umano la violenza dominatrice delle tendenze malvage negli uomini. La lotta interiore dell'uomo è descritta in termini vivacissimi: sono in noi due leggi, quasi due esseri distinti: l'io interiore che si diletta delle leggi di Dio, e l'io di carne "venduta al peccato" (Rom., VII, 14-25). Le catene del peccato sembrano infrangibili, e le frasi usate a tale riguardo sono tanto forti che sembrerebbero implicare perfino l'irresponsabilità morale, se non fossero d'altronde sì acerbi e privi di attenuanti i rimproveri al mondo pagano e giudaico.

A risollevare il mondo dall'abisso in cui è caduto è incapace l'uomo: occorre la "potenza di Dio".

La filosofia o, come egli la chiama, la "sofia" del mondo (ch'è insieme filosofia e "sapienza" della vita nel senso orientale), ha per P. il grande torto di non avere percepito l'idea, ch'è pur naturale, della deità incorruttibile ed eterna. È una sapienza di parole (la retorica), ed è priva di quella potenza ch'è insita e congiunta con la sapienza di Dio. Gli sforzi compiuti per secoli da retori e da sofi non sono riusciti che a diffondere lo scetticismo. Di fronte a questa "sofia" P. esalta la sapienza dello Spirito, di Cristo divenuto "nostra sapienza da Dio", la quale segue le leggi dello Spirito e scruta sino all'intimo di Dio.

Nel mondo giudaico l'ideale della giustizia è rappresentato dalla "legge" di Mosè. L'insegnamento più preciso di essa, l'osservanza meticolosa delle sue minute prescrizioni e delle tradizionali interpretazioni dei rabbi, erano considerati la perfezione della vita conformata alla volontà divina: erano la gloria del giudaismo. Gesù aveva rotto quell'incantesimo di perfezione, raggiunta mediante la scrupolosità esteriore, e aveva combattuto nel fariseismo la meticolosità dell'esecuzione materiale della legge presa come perfetta giustizia, opponendo alla legalità rigida la misericordia e l'amore. Contro l'espansione del cristianesimo fra i gentili, quelli fra i Giudei ch'erano pervasi di questo spirito legale-farisaico creavano le maggiori difficoltà (v. Giudeo-Cristianesimo). Il mondo non avrebbe accettato di farsi giudeo, aggregandosi mediante la circoncisione al popolo d'Israele. P. ha il coraggio di proclamare apertamente che la lettera della legge è invecchiata: occorre camminare nella novità dello spirito. Le prescrizioni mosaiche, aggravate nei secoli dalle tradizioni, sono divenute un peso insopportabile e una servitù (Gal., IV, 21-31). A tale servaggio P. contrappone la libertà del "figlio di Dio", guidata dalla legge interiore dello spirito. Mentre lo spirito è, per sua definizione e natura, "vita", la lettera della legge, moltiplicando le obbligazioni, contribuisce indirettamente ad aumentare in proporzione le trasgressioni, ed è quindi ministra di condanna e di "morte".

La legge è, in sé, santa e giusta: ma dona la conoscenza del peccato, non la forza di evitarlo. Data la tendenza maligna dominante nell'uomo dopo il peccato d'Adamo, la conoscenza del male che essa fornisce diventa un'esca al male. Infine la legge sanziona con la condanna e la morte i suoi precetti, mentre l'uomo, trasgressore com'è nella realtà, ha bisogno di redenzione e di perdono.

Le pagine di questa polemica contro la legge giudaica, considerata quale mezzo di giustificazione, sono tra le più difficili, essendo le più estranee alla mentalità odierna.

La salvezza non deriva dalla filosofia, e nemmeno dalla legge di Mosè o da altra legge qualsivoglia che lasci l'uomo qual è, limitandosi a mostrargli esteriormente il dovere. La salvezza deve venire dal perdono di Dio, e da un'effusione dello Spirito rinnovatore divino.

P. ha accettato la messianità di Gesù, e l'ha spiegata con lirismo. A Gesù ha sottomesso il suo pensiero, inibendosi di predicare altri fuori di Gesù crocifisso e gloriandosi di esserne apostolo e umile collaboratore. Fu vinto dall'apparizione avuta da lui stesso sulla strada di Damasco; ma radunò anche le testimonianze delle altre apparizioni di Gesù risorto. Esse sono la testimonianza irrefragabile di Dio a favore di Gesù: e P. vi insiste, come su uno dei precipui argomenti della fede cristiana: "Se Cristo non è risorto... ci troviamo falsi testimoni contro Dio...; se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede... siamo i più miseri dei mortali" (I Cor., XV, 12-19).

Ma, insieme, egli fa conquiso dal pensiero di Cristo. Sotto questa visuale P. considera Cristo e la sua opera. A Gesù egli attinge la luce del suo insegnamento, che non è un'altra filosofia, umana, come le altre, ma rivelazione divina. Da lui deriva questo spirito nuovo, che spezzata la materialità della lettera, rinnova le anime e il mondo. È la "legge" dell'amore, la comunicazione dello Spirito fonte d'ogni elevazione spirituale, derivante dalle profondità abissali dell'amore divino. "Chi infatti conosce il pensiero del Signore e potrà dirigerlo? Tra noi possediamo il pensiero di Cristo" (I Cor., II, 16). "Noi non parliamo in parole che detta l'umana sapienza, ma in quelle che detta lo Spirito"; ora "lo Spirito scruta ogni cosa, anche gli abissi di Dio" (I Cor., II, 10; cfr. 13).

Gli "abissi" sono gl'imperscrutabili disegni divini, e soprattutto il mistero d'amore della redenzione umana. La nuova dottrina morale è solo una parte del Vangelo, e ciò che è più importante in esso è la rivelazione del mistero della redenzione.

Il Figlio di Dio, nato da donna del seme di David secondo la carne, espiò nelle sue membra le iniquità umane, morendo per gli uomini sulla croce. Egli, unico giusto, solo sacerdote che non aveva bisogno di offrire vittime espiatorie prima per sé che per i peccati del popolo, affrontò il supplizio per amore dei fratelli. P. esalta questo amore di Cristo, come più tardi il IV Vangelo. Il Figlio di Dio, "essendo in forma di Dio", spogliò sé stesso "prendendo forma di schiavo" fra gli uomini (Filippesi, II, 5-11); essendo infinitamente ricco si fece povero, per arricchirci d'ogni dono spirituale. Sentì in sé il dolore dei traviamenti umani, e offrì la vita in riparazione, per ridonare agli uomini la vita. Se nel IV Vangelo Gesù pronuncia la frase che "non v'è maggiore amore di quello di dare la vita per chi si ama", P. rileva che forse per un innocente qualcuno farà il sacrificio della vita, mentre Cristo l'offrì per noi peccatori (Rom., V, 7-9).

Quest'esempio di dedizione amorosa del Figlio di Dio per i fratelli non lascia tregua all'animo dell'apostolo: "La carità di Cristo mi sospinge... Cristo morì per noi, perché noi viviamo per lui..." (II Cor., V, 14); "chi non ama il Signore sia anatema..." (I Cor., XVI, 22). Ormai non si celebrerà la Pasqua col rito antico. L'agnello, vittima innocente, era figura simbolica di Gesù; al simbolo si sostituisce la realtà; "la Pasqua nostra fu uccisa, Cristo" (I Cor., V, 7).

Il valore dell'espiazione del Giusto per i peccati dei fratelli era già insegnato nell'Antico Testamento, specialmente in Isaia; P. che non svolge le profezie relative, vi accenna: "Cristo morì per i peccati nostri, secondo le Scritture" (I Cor., XV, 3). Affermato il principio, non riusciva difficile estenderlo all'umanità intera, se colui che espiava era il Messia, Figlio di Dio. Egli aveva titolo per rappresentare l'umanità. Il racconto biblico della caduta dell'uomo (Gen., III) offriva un altro appoggio; e P. lo svolge con ampiezza, rilevando la trasmissione del peccato. Se per la disobbedienza di uno solo, Adamo, entrò negli uomini il peccato e col peccato la morte, così anche per l'obbedienza di uno solo saranno resi giusti i molti. Cristo è considerato come novello Adamo, perché capostipite dell'umanità rigenerata (Rom., V). Cristo è allo stesso scopo presentato come mediatore d'una nuova alleanza tra Dio e l'uomo, come sommo "sacerdote" che rappresenta dinnanzi a Dio non una parte dell'umanità, ma l'umanità intera. P. insiste logicamente su questo legame che avvince l'umanità a Cristo. Uniti a lui nella morte sulla croce partecipiamo della sua espiazione, come uniti a lui nella resurrezione partecipiamo della sua vita. Uniti con lui, che è il Figlio di Dio, noi diventiamo pure figli, quindi coeredi di Dio.

Tutta l'umanità, anzi tutto il creato, comprese le esistenze angeliche buone o malvage, sono "ricapitolate" in Cristo, legame spirituale dell'universo. Di qui l'idea, così importante nella teologia di P., di Cristo impersonato nell'unione di tutti i credenti in lui. Questi formano il corpo di Cristo, o semplicemente il Cristo. Nell'uomo redento scompare la personalità primitiva: "non c'è più né giudeo né greco, né servo né libero, né maschio né femmina: tutti siete uno, in Cristo Gesù" (Gal., III, 28). Da questa unione P. trae elevate conclusioni morali.

I riti che distinguono la nuova religione sono messi in rapporto con questa unione mistica a Cristo. Il battesimo soprattutto è destinato a identificarci con Cristo nel suo seppellimento, simboleggiato dall'immersione nell'acqua, e nella sua resurrezione, espressa dal sorgere dalle acque purificatrici. L'imposizione delle mani (v. confermazione) comunica al fedele lo Spirito, chiamato Spirito di Dio e di Cristo indifferentemente. Quell'unione si avvera in modo speciale nell'Eucaristia (v.), comunione del corpo e del sangue di Cristo, partecipazione alla mensa divina.

Questi riti nell'unione con Cristo infondono una vita nuova, che viene da Dio ed è comunicazione di Dio. In ogni individuo, come nel mondo, lavora per una rigenerazione lo Spirito di Dio. P. parla spesso di questa forza nuova che forma uomini nuovi. Nulla vale la circoncisione, ma la creatura nuova. Lo Spirito trasforma tutto l'uomo, anche il corpo, rendendolo spirituale in quanto il dominio dello Spirito subentra al dominio del peccato e lo eleva sulle tendenze comuni della psiche umana. Se c'è un corpo psichico, ce n'è pure uno spirituale (πνευματικόν). "Così appunto è scritto: Divenne il primo uomo, Adamo, anima (ψυχή) vivente; il novissimo Adamo, spirito vivificante. Ma non prima lo spirituale, bensì lo psichico; poi lo spirituale" (I Cor., XV, 44-46).

Quest'effusione dello Spirito rinnovatore divino non è però un particolare carisma; di questi doni carismatici frequenti nelle prime comunità cristiane P. ci fornisce un'enumerazione e una descrizione; ma v'è un dono dello Spirito comune a tutti i credenti, partecipato ad essi nel battesimo, e soprattutto mediante il rito dell'imposizione delle mani. Se non si ha questo Spirito, non si è cristiani. "Voi non siete nella carne ma nello Spirito: se pure lo Spirito di Dio abita in voi. Che se alcuno non ha lo Spirito di Cristo, questi non è di lui" (Rom, VIII, 9). Perciò P. ha una limpida visione del rinnovamento spirituale del mondo, in quanto Dio supplisce all'impotenza dell'uomo. A questa rinascita egli associa tutto il creato, che per colpa dell'uomo fu deviato dal suo fine, e contro le sue inconscie ma naturali aspirazioni a esaltare il Creatore fu asservito al peccato e alla corruzione. "La vigile attesa del creato sospira la rivelazione dei figli di Dio. Alla vanità esso fu infatti sottomesso, repugnante ma obbediente a Chi lo sottomise, con la speranza che il creato anch'esso sarà redento dalla servitù della corruzione nella libertà gloriosa dei figlioli di Dio. Sappiamo infatti che tutto il creato è in gemito e in travaglio di parto sino a ora" (Rom., VIII, 19-22).

Tutto ciò però non sembra oltrepassare le condizioni della vita presente, se non per la rinnovazione interiore dell'uomo dovuta allo Spirito e alla sua azione. Ma verrà pure la fine delle cose presenti, e allora saremo con Cristo per sempre. La resurrezione di Cristo è arra della nostra resurrezione: lo spirito di vita che si comunica da lui a noi è germe dell'eterna vita, anche fisica (Rom., VIII, 11). L'attesa, come la descrizione del ritorno di Cristo, sono comuni alle forme note dai Vangeli: i testi più importanti sono nelle lettere ai Tessalonicesi. Nella seconda, che è una chiarificazione dei timori sorti in occasione della prima, P. afferma che il ritorno (παρουσία) di Cristo non deve giudicarsi imminente: deve prima avvenire l'apostasia, e rivelarsi "l'uomo del peccato, che avversa e s'innalza sopra ogni Dio". Ora, se il "mistero d'iniquità già lavora", esso non può rivelarsi completamente per una forza misteriosa che lo trattiene (II Tessal., II, 3-8). Che cosa sia ciò con precisione, P. non dice, essendo già noto ai suoi corrispondenti: donde le odierne interpretazioni più svariate. Di consueto vi si vede un richiamo all'idea dell'Anticristo (v.), epigono di lotte finali contro il cristianesimo, ma non si riesce a identificare l'ostacolo che ne ritarda la manifestazione (l'autorità civile? la Chiesa? una potenza angelica?). Forse, come altri vuole, P. scrivendo quasi due decennî avanti la distruzione di Gerusalemme dell'anno 70 d. C., non faceva che ripetere sotto altra veste ciò che i Vangeli dicono circa i segni delle lotte predette da Gesù avanti la fine della città santa: e allora l'ostacolo al violento trionfo del mistero d'iniquità doveva essere l'impero, forza d'ordine e di giustizia, favorevole al cristianesimo quando P. scriveva ai cristiani di Tessalonica.

Al termine della storia umana, Cristo, assoggettati tutti i nemici, compiuta l'opera sua salvatrice, "rimetterà il regno a Dio Padre" affinché "sia Dio tutto in tutti" (I Cor., XV, 22-28).

Per tal modo Cristo è al centro di tutta la storia umana, cui viene associata l'angelica. P. si studia di penetrare oltre il velo dell'umana carne assunta da Cristo, e di fissare oltre la sua missione messianica la sua intima persona. Riallacciandosi a espressioni di Gesù, lo riconosce non solo Messia (il Cristo) ma "il Figlio di Dio". Da questo concetto di Figlio proviene l'ideare Gesù come "l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni natura" (πρωτότοκος πάσης κτίσεως: Col., I, 12-20). Avanti di prendere "forma di servo" egli sussisteva "in forma di Dio" (Filipp., II, 6-7); "in lui abita tutta la pienezza della deità corporalmente" (Col., II, 9). Il titolo, cioè, di "Figlio di Dio" datosi da Cristo è inteso non in senso morale, comunicabile in grado diverso a tutti i credenti, ma in un significato trascendentale che riuscirà, con la distinzione personale dello Spirito, a una trinità divina.

Superando i confini della sua breve comparsa, P. contempla Cristo alle origini delle cose: "In lui furono create tutte le Cose nei cieli e nella terra,... tutto per mezzo di lui e in lui fu creato: e lui è prima di ogni cosa, e ogni cosa in lui sussiste" (Col., I, 16-17). Le formule usate presuppongono una teoria in pieno e chiaro sviluppo, che noi però non scorgiamo. Si può argomentare, come per l'idea del Logos nel Vangelo di Giovanni, che v'influissero specialmente le concezioni dei libri sapienziali dell'Antico Testamento, in cui la Sapienza appare personificata e figura a fianco di Dio come l'"operaia" di quanto esiste. Sono state pure ricordate le speculazioni platoniche e filoniane sul "mondo intelligibile" preesistente a quello reale, e del "Logos" legame dell'universo nella filosofia stoica; ma le analogie sembrano più lontane, per quanto da non escludersi completamente.

Come titolo personale il titolo di Dio viene attribuito nell'epistolario a Cristo due volte sole, in Rom., IX, 5, e in Tito, II, 13 (sebbene altri, in ambedue i passi, non intenda il titolo come riferito a Cristo). Di solito "Dio" è apposizione del "Padre", mentre Cristo è "il Signore" (ὁ κύριος). È da notarsi che ambedue i termini (Θεός e Κύριος erano usati nell'Antico Testamento come espressioni della divinità, il primo rispondendo ad Elohim e il secondo ad Adonai.

Gesù Cristo viene ad assumere questa parte di mediatore anche nel culto nuovo che si va svolgendo (v. I Cor., XI-XIV) con una netta distinzione delle nuove comunità dal servizio giudaico. Il giorno del culto settimanale è spostato dal sabato alla domenica, e il nome stesso delle adunanze è ἐκκλησία "chiesa" in luogo di συναγωγή "sinagoga". Pur mantenendosi ancora la lettura dell'Antico Testamento, con parte prevalente data ai Profeti invece che alla Legge, primeggia l'insegnamento nuovo di Cristo che si svolgerà nel Nuovo Testamento, e come rito di culto si afferma l'Eucaristia, rinnovazione del rito compiuto e stabilito da Cristo avanti di morire quale ricordo perenne dell'amore che lo condusse al sacrificio di sé.

Alle chiese non manca una direzione. A capo vi sono gli apostoli, menzionati costantemente come primi negli elenchi dei ministeri a servizio della comunità (I Cor., XII, 28; Efesini, IV, 11). P. stesso difende per sé questa autorità, benché sia "il più piccolo" tra gli apostoli, avendo perseguitata la Chiesa di Dio (I Cor., XV, 9). Essa gli fu riconosciuta da Pietro, Giacomo e Giovanni, "le colonne della Chiesa", che si divisero con lui il campo dell'apostolato (Gal., II), pur essendoci noto un vivace dissenso avuto con S. Pietro. Ma poi l'estendersi rapido e il moltiplicarsi delle comunità esige e provoca uno sviluppo non meno rapido dell'organizzazione. I collaboratori, anche per le sue lunghe prigionie e l'avvicinarsi della vecchiaia, vengono ad assumere maggiore importanza, preludente alla sostituzione di lui e dei Dodici. Nella lettera ai Filippesi egli porge il saluto a "episcopi" e "diaconi", e norme diffuse per la scelta e lo stabilimento di "episcopi" e "presbiteri" sono nelle lettere a Timoteo e Tito. Il cristianesimo, al termine della carriera di P. e in grande parte per suo merito, è individuato e organizzato come dottrina e come religione nuova, come una società avente un corpo e capace di resistere alla persecuzione di Nerone e di riprendere dopo di essa trionfalmente il suo cammino.

I rapporti di S. Paolo con Gesù Cristo. - In questo rapidissimo affermarsi del cristianesimo, sia in estensione, sia all'interno come religione differenziantesi profondamente dal giudaismo e dai culti pagani e già in possesso, dopo un trentennio dal suo sorgere, di un culto, di una gerarchia, di una teologia, quale parte deve attribuirsi a Paolo? E questo sviluppo del cristianesimo, considerato interiormente, rimane sulla direttiva segnata da Cristo stesso, o ne è una deviazione, sia pure per una evoluzione dovuta alla logica della storia? E se nel pensiero di Paolo sono nuovi elementi, donde derivano essi? Sono le questioni che la critica indipendente ha collocato al primo piano, pur arrivando a conclusioni svariate.

Secondo la tendenza fino a pochi anni or sono la più frequente, il costituirsi d'una religione separata dall'ebraismo e accentrata nel culto di Cristo Signore Figlio di Dio oltrepasserebbe il pensiero e l'aspettativa di Gesù, non solo, ma il pensiero stesso dei diretti discepoli del Maestro quali Pietro e Giacomo, con i quali P. sarebbe stato in lotta aperta (v. baur; Giudeo-cristianesimo). Rompendo per primo decisamente le barriere della legge mosaica e della religione ebraica, P. dovrebbe dirsi il vero fondatore del cristianesimo, non il suo principale banditore. La teologia complessa dell'apostolo, che poi divenne definitivamente dottrina del cristianesimo, oltrepassante la semplicità di linee dell'insegnamento morale e religioso di Cristo, sarebbe stata una creazione di P. La sua dottrina dovrebbe valutarsi come la prima ellenizzazione del cristianesimo, specialmente per l'introduzione nell'etica del dualismo di carne e spirito (tesi di O. Pfleiderer, K. J. Holstein, G. Heinrici e altri; assai più guardingo è A. Harnack). L'idea della salvezza in Cristo secondo H. J. Holtzmann, che cercò di approfondire il dramma interiore di P., deriverebbe fondamentalmente dall'esperienza vissuta da lui stesso, che pensò e cercò di rendere universale. Questa interpretazione etico-subiettiva dell'opera della redenzione non ripudia elementi ellenistici nell'antropologia, mentre la dottrina sulla persona di Cristo è interpretata come un'assimilazione delle idee greco-alessandrine di Filone (v.). Una tesi analoga era già stata divulgata da A. Sabatier.

L'avvento della scuola esegetica escatologica (v. gesù cristo) mutò profondamente lo stato della questione. Si ritenne minore o addirittura insussistente l'influsso del pensiero ellenico su P., e piuttosto lo si riallacciò strettamente a quell'attesa d'una prossima rinnovazione apocalittica del mondo, quale era attribuita a Cristo. P., più ancora di Cristo, avrebbe mutuate, approfondendole e dando loro sistema, le idee della escatologia giudaica. Il più tenace assertore di tale interpretazione rimane A. Schweitzer, e in Italia essa è seguita da A. Omodeo, più eclettico.

Recentemente la nuova scuola comparatista delle religioni, approfittando della riesumazione di molti documenti non letterarî, spesso a tendenze religiose, come del più attento esame portato sulle religioni misteriche del mondo greco e orientale, ne illustrò alcuni concetti analoghi nelle lettere paoline; tali i concetti di carne e spirito, di gnosi, di rivelazione e giustificazione, di vesti celestiali, di mistero, e soprattutto l'idea della salvezza mediante la morte e la resurrezione di Cristo (Reitzenstein; Gunkel). Il Bousset insistette molto sul titolo riservato a Cristo di "Signore", che sarebbe in connessione con i culti di Siria e col culto stesso degl'imperatori. Col misticismo ellenico P. fu messo in stretti rapporti anche dal Deissmann.

Le tesi sono svariate e opposte, perché ogni valutazione del nuovo apporto di P. al cristianesimo è condizionata all'idea che si ha della dottrina e della figura di Gesù. Se nel tracciarla si seguono i Vangeli canonici, P. ha dato al cristianesimo uno sviluppo teorico e di espansione geografica, mantenendosi fedele al pensiero di Gesù ch'egli annuncia al mondo. Del resto questa fedeltà al pensiero del Maestro, verso il quale egli ha e trasmette ai secoli un vero culto sacro, è continuamente da lui affermata. Per giudicare quanto sia proprio di P., va pure tenuto conto di quanto è comune a lui e ai dodici apostoli.

Una comunanza d'idee si ha sull'attesa messianica e il suo avveramento in Cristo, sulla morte del Messia e sul significato espiatorio di essa, sulle Scritture che la preannunziavano, sulla resurrezione di Cristo: "O io, dunque, o loro: questa è la predicazione nostra, questa la vostra fede" (I Cor., XV, 11). Vi è pure unità di tradizione risalente a Gesù circa il rito e il concetto dell'Eucaristia: "Io appresi dal Signore quel che appunto trasmisi a voi...". Nel rito eucaristico, che egli trasmette quale istituzione di Cristo, P. aveva la sostanza della sua idea centrale, la redenzione nel sangue di Cristo, e anche dell'altra idea sì rilevante dell'unione e della vita nuova dei credenti in Cristo. Quel rito, cui sono legate le origini del culto cristiano e l'individuarsi del cristianesimo come religione, P. lo trovò già nelle comunità cristiane. Vi è pure una tradizione sul ritorno di Cristo, sulla resurrezione dei morti, ecc. (II Tess., II, 15). Sulla persona di Gesù il pensiero di P., che ha notevoli sviluppi, attinge, come si è visto, soprattutto alle sue affermazioni di Messia e Figlio di Dio. Sulle basi stesse della giustificazione per la fede, che pare la tesi più singolare, P. afferma d'essere concorde con Pietro, nel momento stesso d'una sua decisa diversità di atteggiamento pratico da tenersi di fronte ai giudei e ai gentili nei loro rapporti. P. lo ricorda ancora vivacemente nella lettera ai Galati: "Noi, giudei di razza e non peccatori di origine gentile, ben sapendo che non viene giustificato l'uomo dalle opere della Legge, bensì per la fede di Cristo Gesù e (Gal., II, 15-I6); dove peraltro la formulazione è di P.

P. infatti ha dato spesso una forma diversa e personale ai concetti del Vangelo; egli è rabbino di formazione e conoscitore profondo di problemi giuridici. Raramente, a parte l'insegnamento morale, P. riporta parole di Gesù, che è pure riconosciuto "nostra sapienza da Dio" e "luce nuova"; tuttavia P. conosce e comunica la "mente di Cristo" (I Cor., II, 16). Si addentra volentieri nelle discussioni, tiratovi del resto dalle circostanze; vi è nelle sue lettere una nuova presentazione apologetica del cristianesimo di fronte ai gentili, e uno sforzo di chiarificazione teologica delle sue tesi. P. dà al cristianesimo un sistema dottrinale. Togliendo alla religiosità giudaica il fardello pesante della Legge mosaica e denudandone l'intima spiritualità, egli ha seguito Gesù; ma la tesi esplicita della decadenza della Legge per i giudei stessi è dell'apostolo, come di lui sono soprattutto le motivazioni profonde dedotte dallo stato dell'uomo irredento e dal concetto della redenzione. A questo riguardo egli abbozza a grandi linee una filosofia religiosa della storia umana, illuminando il disegno divino che ne interrompe il decadere progressivo religioso e morale, e ne traccia la nuova strada nel Cristo.

Il principio del peccato che domina sull'uomo prima della redenzione di Cristo, ed è particolarmente legato alla carne in contrapposizione allo spirito e viene trasmesso da Adamo, è ancora costruzione sistematica con elementi d'origine svariata, sulle basi del pensiero di Gesù. Se P. afferma decisamente che ogni uomo è peccatore e ha bisogno della misericordia di Dio, concorda sostanzialmente col pensiero espresso da Gesù nella parabola del fariseo e del pubblicano nel tempio; chi si vanta della propria giustizia davanti a Dio, non trova quella "giustificazione" che è riservata a chi invoca umilmente il perdono.

L'unione mistica con Cristo nel battesimo e nell'Eucaristia, e la loro efficacia sacramentale, cui P. dà speciale sviluppo, è implicita nel rito eucaristico, ch'egli ebbe da Cristo attraverso la liturgia della Chiesa. Se egli parla talvolta di un "suo Vangelo", si oltrepasserebbe il suo pensiero volendo ricercare una sostanza nuova di concezioni, estranea o contraria al pensiero di Cristo. Quel "suo Vangelo" allude a visuali nuove sulla Provvidenza divina riguardo alle "genti" e sui rapporti dell'economia divina dell'Antico Testamento con quella instaurata da Cristo. Non si può quindi staccare P. da Gesù Cristo: egli volle essere e fu il più grande apostolo del pensiero e della figura di Gesù.

Bibl.: Versioni recenti italiane dell'epistolario con breve commento: P. Genocchi, Ceresi, Costantini, S. P., Milano 1926; G. Re, Le lettere di S. P., Torino, 2ª ed., 1931; vedi inoltre la bibliografia alle voci delle singole lettere di San P. - Biografie: A. Sabatier, L'apôtre Paul. Esquisse d'une histoire de sa pensée, 4ª ed., Parigi 1912; P. Fouard, Saint Paul, voll. 2, 7ª ed., ivi 1907; E. Le Camus, L'øuvre des apôtres, voll. 3, ivi 1905 (trad. it., Brescia 1912); É. Baumann, Saint Paul, Parigi 1925.

Per uno studio approfondito cfr., per l'antichità, specialmente S. Giovanni Crisostomo, il più sicuro commentatore di S. Paolo (in Patrol. Gr., XLVII-LXIV). Inoltre S. Agostino, e l'Ambrosiastro che per alcuni lati lo precedette, approfondì in controversia con Pelagio e i suoi seguaci le concezioni di P. soprattutto sulla grazia, sul peccato di Adamo e sulla predestinazione; dati nuovi a tal riguardo in A. Souter, The earliest latin Commentaries on the Epistles of St Paul, Oxford 1927. Tali questioni furono ardentemente riprese dal protestantesimo (v. lutero), e dal giansenismo.

Per il periodo moderno una bibliografia ampia e discussa, oltre che nei manuali introduttivi al Nuovo Testamento, si troverà in F. Prat, La théologie de Saint Paul, voll. 2, 11ª ed., Parigi 1924-25 (trad. ital., Torino 1932), e in A. Schweitzer, Geschichte der paulinischen Forschung, Tubinga 1911. Qui vengono segnalati lavori più notevoli per la storia dell'esegesi (viene indicata la prima ed.) e pochi studî più recenti. Primo lavoro sistematico del pensiero di P. è quello di L. Usteri, Entwickelung des paulinischen Lehrbegriffes, Zurigo 1824; per i cattolici il primo lavoro di sintesi è quello di H. T. Simar, Die Theologie des hl. Paulus, Friburgo in B. 1883. Per i varî sistemi di critica indipendente, notevoli: F. C. Baur, Paulus, der Apostel Jesu Christi, Stoccarda 1845; H. J. Holtzmann, Lehrbuch der neutest. Theologie, 2ª ed., Friburgo in B. 1911; K. Holsten, Das Evangelium des Paulus, voll. 2, Berlino 1880-98; K. Clemen, Religiongeschictliche Erklärung zum Christentum, Giessen 1909; A. G. Headlen, St Paul and Christianity, Londra 1913; per la scuola escatologica, A. Schweitzer, op. cit., e il suo recente studio, Die Mystik des Apostel Paulus, Tubinga 1930. Lavori recentissimi: E. Dobschütz, Der Apostel Paulus, Halle 1920; J. G. Machen, The Origin of Paul's Religion, New York 1921; A. Omodeo, Paolo di Tarso, Messina 1922; A. Deissmann, Paulus, 2ª ed., Tubinga 1925; K. Pieper, Paulus, Münster in W. 1926; F. Ferrari, S. P. e la sua dottrina di vita e d'amore, Milano 1929; E. Lohmeyer, Grundlagen paulinischer Theologie, Tubinga 1929.

Quali rappresentanti dell'esegesi cattolica, oltre ai recenti commentarî di J.-M. Lagrange alle lettere ai Romani e ai Galati, e all'ampio studio citato del Prat, vedi: L. Murillo, Paulus et Pauli scripta, Roma 1926; L. Tondelli, Il pensiero di Paolo, Milano 1928.

Iconografia. - Nel sec. IV sono chiaramente distinti Pietro e Paolo, quest'ultimo con barba lunga e testa calva. Il tipo, come lo descrisse anche Niceforo, con fronte alta, naso aquilino, volto allungato, barba scura e a punta, si perpetuò invariato. Nei sarcofagi del sec. IV, dove è rappresentato o a sinistra del Redentore, o con Tecla o nella scena della prigionia, come in quelli di Giunio Basso (anno 359), di Marsiglia, del Laterano, di S. Valentino di Roma, S. Paolo veste sempre il costume classico. Suoi più antichi attributi sono il volume, il rotulo oppure cartigli alludenti alle epistole. La spada, sua caratteristica principale, non appare prima del sec. XII, e quella che si vede nel musaico di Onorio dell'arco trionfale della basilica di S. Paolo fuori le mura, è un'aggiunta posteriore. Generalmente associato a S. Pietro, simboleggia con lui tutto il sacro collegio apostolico. Le figurazioni della leggenda, derivate dagli Atti, da apocrifi, dallo Pseudo-Abdias e più tardi da Iacopo da Varazze, s'iniziano per lo più con la conversione e illustrano il suo soggiorno in Roma. Fra le numerose rappresentazioni della sua leggenda ricordiamo l'avorio del Museo nazionale di Firenze, i musaici di Monreale, il polittico giottesco della sacristia di S. Pietro, i dodici arazzi di Raffaello per la Cappella Sistina, la decorazione michelangiolesca della Cappella Paolina in Vaticano.