VITALIANO, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

VITALIANO, santo

Umberto Longo

Secondo il biografo del Liber pontificalis, V. era originario di Segni e figlio di un certo Anastasio. Non si possiedono notizie che lo riguardino precedenti alla sua ascesa al soglio pontificio. Dopo la morte del predecessore, avvenuta il 2 giugno 657, la Sede romana rimase vacante solo per circa due mesi: V. fu consacrato il 30 luglio. Subito dopo il suo insediamento egli inviò a Costantinopoli per mezzo degli apocrisari la sua lettera sinodica, indirizzandola non solo al patriarca Pietro (654-656), ma anche a Costante II (641-668), ripristinando l'antica consuetudine di comunicare alla corte imperiale la consacrazione del nuovo papa. Si possiede la risposta del patriarca, che fu letta nel corso della XIII sessione del VI concilio ecumenico (Costantinopoli, 7 novembre 680-16 settembre 681). L'iniziativa diplomatica del neoeletto pontefice produsse il primo cauto riavvicinamento tra la Sede romana e Bisanzio, dopo la brusca rottura in seguito all'emanazione del Typos da parte di Costante II e la solenne condanna delle posizioni monotelite da parte di papa Martino. Nelle missive inviate a Bisanzio, V. non entrò in alcun modo nel merito di questioni dottrinali, ma le reazioni della corte imperiale e del patriarcato dovettero essere positive, poiché fu inviato a Roma un rescritto di conferma dei privilegi della Sede romana unitamente a ricchi doni, tra i quali il Liber pontificalis ricorda un evangeliario ornato di gemme e preziosi. Il clima di distensione che accompagnò l'insediamento di V. è testimoniato anche dal fatto che il suo nome fu inserito nei dittici della Chiesa costantinopolitana: era la prima volta dai tempi di papa Onorio e sarebbe stata l'unica fino a papa Agatone. Dopo il periodo di aspro conflitto si avviò così una cauta ripresa dei rapporti tra Bisanzio e la Sede romana, caratterizzati, in realtà, da un atteggiamento ambiguo da parte dell'imperatore Costante II, mentre V. era ispirato dall'imperativo di non far riesplodere la controversia dottrinale, conscio com'era della necessità di non tagliare i ponti con Bisanzio in funzione antilongobarda. In questo clima di relativo riavvicinamento l'imperatore partì alla volta dell'Italia. La spedizione di Costante II non può essere spiegata solo con la volontà dell'imperatore di contrastare i Longobardi, secondo la versione sostenuta nell'Historia Langobardorum da Paolo Diacono, ma presenta motivazioni politico-militari più complesse (P. Corsi, La politica italiana di Costante II, pp. 772 ss., fornisce, a partire dalle fonti sia occidentali che orientali, una serie di ipotesi). Va sottolineato che la permanenza italiana di Costante II occupò un numero non esiguo di anni del suo regno e ne segnò anche la fine. L'imperatore, infatti, morì assassinato in Sicilia il 15 settembre 668. La biografia di V. nel Liber pontificalis, pur non soffermandosi sulle cause di esso, è incentrata sul lungo soggiorno di Costante II in Italia e sui rapporti tra V. e l'imperatore. Dopo essere sbarcato a Taranto e aver assediato invano Benevento, Costante II giunse a Roma nel luglio del 663. La venuta dell'imperatore dovette suscitare enorme impressione nella città, poiché era la prima volta che un imperatore veniva a Roma dal tempo di Valentiniano III (450). Il Liber pontificalis narra che V. mise in atto il solenne cerimoniale di accoglienza, andando incontro all'imperatore con tutto il suo clero, al VI miliario della via Appia. La visita imperiale sembrava essere foriera di pace e avrebbe potuto attenuare lo sgomento suscitato a Roma dalle sanzioni adottate dall'imperatore contro papa Martino I e i rappresentanti della Sede romana, all'acme della crisi monotelita. Ma lo stesso soggiorno di Costante II a Roma fu il sintomatico riflesso degli ambigui rapporti tra la corte bizantina e Roma. L'imperatore, infatti, nei dodici giorni nei quali si fermò a Roma, visitò tutte le basiliche principali e presenziò a numerose cerimonie religiose, inaugurando "il cerimoniale medievale [...] dell'imperatore pellegrino" (G. Arnaldi, p. 65). Si recò in solenne processione alla tomba di Pietro e si intrattenne con V. al Palazzo Lateranense, dove fu dato un banchetto in suo onore nella sala detta basilica di Vigilio. Compì, inoltre, varie donazioni in onore dei santi titolari delle chiese visitate. Tale condotta non gli impedì però di ordinare al suo esercito la spoliazione dei rivestimenti bronzei di tutti i vetusti monumenti della città, non risparmiando neanche le lastre che ricoprivano il tetto di S. Maria ad Martyres, l'antico Pantheon. La partenza dell'imperatore dalla città fu salutata con una gioia pari a quella che aveva accompagnato il suo arrivo. Anche se la visita a Roma di Costante II comportò l'episodio della requisizione del bronzo, essa nondimeno sancì il riavvicinamento tra papato e autorità imperiale, costituendo una verifica diretta della politica di compromesso ricercata da entrambi gli interlocutori. Il soggiorno romano non si risolse solo in un cedimento di V. alle pretese dell'imperatore, ma costituì un momento importante della politica di equilibrio e compromesso attuata dal papa lungo tutto il corso del suo pontificato. In questa prospettiva vanno tenuti in considerazione gli episodi, appena accennati e in modo ambiguo dal biografo di V. nel Liber pontificalis, del lavacro di Costante II nel Laterano e del successivo banchetto nel quale dovette certamente discutere con V. dei problemi politici di fondo. Il prolungato soggiorno di Costante II in Italia ebbe per Roma e V. gravi conseguenze. Il Liber pontificalis narra che da Siracusa, che divenne la sede stabile della sua residenza italiana, Costante II, per finanziare la sua attività politico-militare, vessò con tasse ed imposte onerosissime le popolazioni di Calabria, Sicilia, Africa e Sardegna, colpendo in prima istanza anche i possessi e i beni della Chiesa, al punto che non avrebbe esitato a spogliare le chiese dei loro arredi sacri. A tale proposito va osservato che la biografia di V. nel Liber pontificalis si sofferma solo su alcuni aspetti del suo pontificato. In particolare, si limita a narrare esclusivamente dei rapporti tra il papa e l'imperatore. Tale fatto è indicativo dell'ottica e delle preoccupazioni che animavano il clero romano, di cui il Liber pontificalis riflette stati d'animo e intenti. Nessun accenno viene invece dedicato all'episodio, grave per la Sede romana, dell'autocefalia della Sede ravennate, così come sono taciuti completamente i rapporti, forieri di un grande futuro, tra V. e la nascente Chiesa anglosassone. Preoccupato di arginare l'autorità spirituale e politica di cui godeva in Italia la figura del pontefice romano, il 1° marzo del 666 l'imperatore concesse alla Chiesa ravennate nella persona dell'arcivescovo Mauro la cosiddetta "autocefalia", ossia l'indipendenza dall'autorità della Sede di Roma. Senza dubbio una tale risoluzione fu dettata a Costante II anche dalla volontà di sventare le potenziali insidie che un'eventuale alleanza tra l'esarca d'Italia, residente a Ravenna, e il papa rappresentava per l'autorità imperiale in Italia, come era accaduto al tempo dell'esarca Olimpio e di papa Martino. V. non replicò con veemenza alla decisione dell'imperatore, che poteva esser interpretata come un attentato alla sua autorità spirituale. Egli assunse un atteggiamento cauto e prudente per non perdere i risultati, indispensabili per la Sede romana, che una politica di distensione con Bisanzio avrebbe garantito. Dopo l'assassinio di Costante II nel 668, V. agì con risolutezza contro l'autocefalia della Chiesa di Ravenna fino alla sua morte avvenuta nel 672, anche se non si schierò mai contro il potere imperiale. Il pontefice convocò a Roma l'arcivescovo ravennate una prima e una seconda volta sotto pena di scomunica e destituzione. Mauro non si presentò, ma a sua volta minacciò di scomunica V., ciò che comportò l'immediata rottura dei rapporti tra le due sedi. Di fatto l'autonomia ravennate non sopravvisse a lungo e si concluse poco dopo la scomparsa dell'arcivescovo Mauro nel 673, con la sottomissione del vescovo di Ravenna e la successiva riconciliazione tra le due sedi; ma è stato tuttavia notato che la vicenda lasciò nei rapporti tra le due sedi un segno profondo, gravido di conseguenze anche per il futuro Stato della Chiesa (G. Arnaldi, p. 66). V. non abbandonò mai il proposito di evitare la riapertura di un pericoloso conflitto con l'Impero e intervenne con una netta presa di posizione a favore del figlio di Costante II, Costantino IV (668-685), la cui assunzione al potere era stata minacciata dalla rivolta dell'armeno Megezio. Tale atteggiamento di lealtà fece guadagnare al pontefice la riconoscenza del giovane imperatore, che, infatti, non assunse atteggiamenti di favore per l'autocefalia ravennate e si sarebbe opposto alla decisione del patriarca costantinopolitano Teodoro (677-679) di espungere il nome di V. dai dittici come reazione al suo rifiuto di accogliere la lettera sinodale del suo predecessore, Giovanni V (669-675), ritenuta dal pontefice inficiata da posizioni monotelite. Ma il risultato più duraturo dei rapporti cordiali tra V. e Costantino IV fu la decisione di quest'ultimo di indire una grande assemblea religiosa che avrebbe dovuto risolvere la controversia dottrinale minante l'unità della Chiesa. La conferenza indetta dall'imperatore si sarebbe evoluta nel VI concilio ecumenico, nel cui corso venne solennemente condannato il monotelismo. L'importante concilio si svolse a Bisanzio quando V. era già morto da tempo, ma è innegabile che il pontefice con la sua azione costante lungo tutto il corso del pontificato creò le basi per la sua realizzazione. L'azione di V. non si rivolse solo a Oriente, ma si esplicò anche a favore della Chiesa anglosassone, la cui giovane storia, come è testimoniato dalla Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda, era intessuta di contrasti tra le tradizioni e gli usi importati dai diversi gruppi che avevano presieduto all'evangelizzazione dell'isola. In particolare si registravano divergenze tra gli usi importati dai missionari romani e quelli degli antichi abitanti cristiani della Britannia e, soprattutto, quelli dei missionari Scoti venuti dal nord. I contrasti non afferivano al piano dottrinale, ma vertevano su quello disciplinare. Si trattava di differenze in alcuni riti liturgici e nel calcolo della data per la celebrazione della Pasqua, oltre che su aspetti più marginali come la forma della tonsura. Il pontificato di V. risultò di fondamentale importanza nella storia della Chiesa inglese. Nel sinodo di Whitby del 664 fu sancita l'adozione dell'uso romano nella Chiesa anglosassone grazie soprattutto all'azione del re Oswy di Northumbria (655-670), che coltivava una speciale devozione per s. Pietro. La devozione per il principe degli apostoli e, quindi, per la Sede romana prese rapidamente piede nella Chiesa anglosassone ed è testimoniata dai frequenti viaggi a Roma di numerosi monaci ed ecclesiastici insulari, che al ritorno in patria organizzarono la Chiesa locale prendendo a modello ciò che si praticava a Roma. Durante il pontificato di V., Benedetto Biscop († 689-690) vi si recò a più riprese. I suoi viaggi erano motivati dalla volontà di compiere un pellegrinaggio alla tomba degli apostoli Pietro e Paolo, dall'esigenza di studiare l'ordinamento monastico e di acquistare codici per il monastero di S. Pietro a Wearmouth, da lui fondato e diretto. Il re Oswy di Northumbria e il re Egbert di Kent inviarono a Roma il presbitero Wighard per ricevere da V. la consacrazione ad arcivescovo di Canterbury. Essendo Wighard morto a Roma prima della celebrazione della cerimonia, V. ordinò al suo posto e inviò alla sede di Canterbury il monaco Teodoro di Tarso (668-690) affiancandogli l'abate del monastero di Nisida Adriano. La scelta dei dotti monaci e la loro pluriennale attività si rivelarono assai proficui per la Chiesa insulare. I due monaci inviati da V. contribuirono in maniera determinante a dotare la Chiesa anglosassone di una struttura gerarchica salda e a legarla strettamente alla Sede romana. L'avvento di Teodoro e Adriano in Inghilterra è ricordato da Beda come un fatto essenziale per lo sviluppo culturale dell'isola, che mai aveva conosciuto un'età così felice come quella che si aprì con l'arrivo dei due monaci istruiti tanto nelle lettere profane che in quelle cristiane. Teodoro riorganizzò la scuola cattedrale di Canterbury e Adriano fondò scuole monastiche sul modello romano, dove si studiava anche il greco. Durante il pontificato di V. non solo si radicarono nella comunità ecclesiastica anglosassone i riti liturgici romani, ma si gettarono le basi di una salda presenza culturale e spirituale romana in una Chiesa che presto avrebbe dato i suoi frutti migliori contribuendo in maniera sostanziale a creare i presupposti della rinascita carolingia con personalità del calibro di Bonifacio e Alcuino. A Roma V., sulle orme del suo illustre predecessore Gregorio Magno, arricchì le cerimonie liturgiche, promuovendo in particolare lo sviluppo della "schola cantorum" del Laterano. Morì il 27 gennaio 672 e fu sepolto a S. Pietro. Il suo nome fu inserito nel Martyrologium Romanum alla data del 27 gennaio. Il culto per V. si è sviluppato a Roma e soprattutto nella diocesi di Segni. Fonti e Bibl.: Acta Sanctorum [...], Ianuarii, II, Antverpiae 1643, pp. 779-81; I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, pp. 196-200; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 343-45; Agnelli Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis, a cura di O. Holder-Egger, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, a cura di G. Waitz, 1878, pp. 265-391; Pauli Diaconi Historia Langobardorum V, 6-14, a cura di L. Bethmann-G. Waitz, ibid., pp. 149 ss.; P.L., LXXXVII, coll. 997-1010; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. 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