SARCOFAGO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

Vedi SARCOFAGO dell'anno: 1966 - 1973 - 1997

SARCOFAGO (v. vol . VII, p. 2 e s 1970, p. 686)

G. Lilliu

Egitto. - Fra le scoperte di questi ultimi anni è da segnalare il rinvenimento di cinque s. egizi in situ durante i lavori dell'Università di Pisa nella tomba di Boccori, visir di Psammetico I, a Saqqāra. I s. sono stati trovati in una galleria laterale indagata negli anni 19751978, suddivisa in camerette funerarie destinate a ricevere le sepolture; dal punto di vista tipologico si tratta di esemplari caratteristici della bassa epoca, databili tra la XXVI dinastia e l'inizio dell'epoca tolemaica. Le iscrizioni consentono di restringere l'ambito cronologico tra la XXVII e la XXX dinastia. Il primo s., in calcare, apparteneva a un certo Horiraa; la parte inferiore è profondamente incassata nel pavimento della camera funeraria e si presenta con un lato arrotondato e con una rastremazione verso il lato opposto; l'interno è tagliato secondo un profilo mummiforme. Il coperchio, che rispecchia la forma della parte inferiore, presenta sulla faccia superiore, al centro, un'iscrizione geroglifica verticale disposta su cinque colonne. Nel secondo s. era sepolto il figlio di Horiraa, il visir Padineit: la forma è la stessa del s. del padre, ma è ricavata da un blocco di basalto nero. Di nuovo in calcare è il terzo s., più piccolo dei precedenti, della stessa forma, ma con un'iscrizione sul coperchio lunga tre colonne: apparteneva a un discendente di Padineit, di nome anch'egli Horiraa. Gli ultimi due s., in calcare, non sono incassati nel pavimento della camera funeraria, ma vi sono appoggiati sopra; la forma è la stessa dei precedenti, ma non è stata incisa alcuna iscrizione sul coperchio, e per questo motivo i destinatari rimangono sconosciuti. Interessante è la presenza di nicchie ricavate all'interno dei primi due s., destinate probabilmente a contenere oggetti cultuali del corredo funerario.

La ricerca sui s. egiziani ancora del tutto o in parte inediti, conservati già da lungo tempo in varî musei, negli ultimi anni si è in particolare indirizzata allo studio dei s. tebani, databili alla XXI e alla XXII dinastia. Si tratta di casse antropoidi in legno appartenenti prevalentemente ai Grandi Sacerdoti di Ammone, che durante queste dinastie ebbero non solo il potere religioso, ma anche quello politico a Tebe e in Alto Egitto. I s. si presentano di solito con il volto del defunto in rilievo, con ampia parrucca tripartita e sul mento Museo Archeologico, la barba posticcia rituale; le mani, in rilievo, sono incrociate sul petto e spesso tengono due rotoli di papiro; i piedi sono in rilievo. È molto frequente la presenza di un secondo s. più piccolo, contenuto nel primo, oppure di un secondo coperchio, che veniva posto direttamente sulla mummia, molto simile al primo, ma senza i piedi in rilievo.

Caratteristico dei s. della XXI e XXII dinastia è il tipo di decorazione, molto ricca e particolareggiata. Di solito il petto e le braccia sono completamente coperti da un complicato collare dipinto che arriva sotto i gomiti, composto da fasce di perle, petali di loto stilizzati, ecc.; una stola rossa che si incrocia sul petto è distintiva dell'epoca. Il resto della cassa è decorato con varie scene di carattere religioso (caratteristiche quelle con il defunto in atto di adorare diverse divinità) e iscrizioni con il nome e i titoli del defunto e formule ripetitive dedicate agli dei dell'oltretomba, cioè Osiride, Anubi, la dea Imentit e altri. Tipica dei s. della XXI e XXII dinastia è una specie di horror vacui presente in tutta la decorazione: anche il più piccolo spazio è riempito con un'immagine, come l'uccello Ba, una sfinge, vari geni mummiformi, o anche con un segno geroglifico con funzione decorativa.

Bibl.: S. Simonian, Untersuchungen zum Bilderschmuck der ägyptischen Holzsärge der XXI-XXII Dynastie, Gottinga 1973; A. Niwiński, Studies on the Decoration of the Coffins of the Priests of Amunfrom Thebes (21 Dyn.), Varsavia 1979; S. K. Doll, Texts and Decorations on the Napatan Sarcophagi of Anlamani and Aspelta, Ann Arbor 1979; E. Bresciani, S. el-Naggar, S. Pernigotti, F. Silvano, Saqqara I. La galleria di Padineit, visir di Nectanebo I, Pisa 1983; G. Lapp, Särge des Mittleren Reiches aus der ehemaligen Sammlung Khashaba, Wiesbaden 1985; M. C. Guidotti, Civiltà egizia nel Civico Museo Archeologico di Bergamo, Bergamo 1987; A. Niwiński, 21st Dynasty Coffins from Thebes. Chronological and Typological Studies, Magonza 1988.

(M. C. Guidotti)

s. antropoidi.

Per s. «antropoide» si intende un tipo di cassa per deposizione riproducente la forma umana.

Egitto. - L'origine dei s. antropoidi è probabilmente egiziana. Già nell'Antico Regno (2700-2190 a.C.) iniziarono i primi tentativi per evitare la decomposizione dei cadaveri, poiché si credeva che l'uomo continuasse a vivere con le proprie sembianze dopo la morte. Una scoperta riferibile alla IV dinastia a Meidum (2640-2520 a.C.) ha mostrato come, con l'aiuto di pezzi di tela, venivano conservati la forma e i lineamenti della testa, come erano imbottite le orbite e riprodotto l'organo maschile. Più tardi, per conservare l'intero corpo, si cominciò ad avvolgerlo in una tela impregnata di una sostanza resinosa, e inoltre si pose sulla faccia un tessuto sottile sul quale erano dipinti gli occhi e la bocca. Infine, si ideò per la mummia una copertura in gesso; ma nel I Periodo Intermedio (2190-1990 a.C.), la copertura del volto fu sostituita da una maschera, c.d. di cartonaggio. Durante l'XI dinastia (2080-1955 a.C.) essa fu allungata in modo da formare una fodera per tutto il corpo che, nel corso della XII dinastia (19381760 a.C.), fu divisa in due parti, cioè cassa e coperchio. In tal modo nacque il s. antropoide, presto realizzato anche in legno, e durante la XVIII e XIX dinastia (1539-1190 a.C.) in pietra e qualche volta in metallo. Come i cassoni di legno, esso rappresentava la mummia completamente avvolta, senza segnare alcun dettaglio; solo i piedi erano indicati da una debole prominenza.

Un nuovo tipo di s. antropoide, della XIX dinastia, fu creato per riprodurre persone viventi, p.es. un uomo barbuto vestito di una tunica a maniche corte e mantello lungo, increspati, con le mani accostate ai fianchi o incrociate sul petto con i simboli ankh e djed. Altri cassoni hanno la forma di una mummia con la faccia scoperta e le mani sporgenti dalle fasce di avvolgimento.

Durante la XXI e XXII dinastia (1075-730 a.C.) la città di Tanis sul delta del Nilo divenne la capitale dell'Egitto, e un certo numero di faraoni vi ebbe i suoi sepolcri. Un buon esempio è offerto da Psusennes I (c.a 1054 a.C.), il cui s. esterno di granito aveva sul coperchio una rappresentazione a rilievo del sovrano come Osiride. All'interno si trovava un s. antropoide dello stesso materiale, il quale ne conteneva un altro in argento.

Della XXVI dinastia (664-525 a.C.) sono una serie di s. antropoidi colossali scolpiti in pietra nelle officine di Gīza e Saqqāra. Appartenevano a funzionari militari e civili, e le iscrizioni menzionano i faraoni presso i quali prestavano servizio. Nondimeno, un s. del medesimo tipo, trovato a Gīza e ora a Pietroburgo, era adoperato per la sposa di Amasis, la regina Nekhtu-baste-ru, il cui nome è stato in parte cancellato. Un altro esemplare colossale molto simile è ora a Vienna; era appartenuto a Hedjeb-net-iretbinet, la moglie del re Nectanebo II della XXX dinastia (378-341 a.C.). I re della XXVI dinastia, la c.d. saitica, avevano la loro capitale e le loro tombe a Sais sul delta, dove però non si sono ancora rinvenuti sepolcri reali. Qualche informazione può essere desunta solo in base alla descrizione di Erodoto del santuario dove Apries e Amasis erano seppelliti. Le scoperte di s. antropoidi della XXX dinastia sono concentrate a Saqqara e Abido, ma più tardi tali monumenti si diffusero in tutto il paese. Da questa fase in poi anche i corpi dei membri femminili con relazioni di parentela con funzionari egiziani furono deposti in cassoni di questo tipo. In epoca imperiale romana cessarono di essere prodotti i s. di pietra, mentre continuò la produzione di quelli in legno; sembra che gli Egiziani, rinunciando a servirsi della pietra, riprendessero gli usi funerari del I Periodo Intermedio, quando soltanto le teste dei defunti venivano coperte con maschere. Venne allora di moda usare, in luogo di vere e proprie maschere, tavolette con ritratti dipinti dei defunti. Questa usanza prese l'avvio nei primi decenni dell'era cristiana e continuò almeno fino alle soglie del V sec. d.C.

Palestina. - La Palestina ha restituito s. antropoidi di terracotta databili al XIV e al XIII sec. a.C. Appartenevano a funzionari egiziani, militari e civili, di stanza sul territorio. La sommità del s. ha un coperchio sul quale alcuni dettagli modellati suggeriscono la faccia, le braccia e le mani di una persona. Poiché questi cassoni fittili sono assai fragili, il loro trasporto doveva seguire un tragitto molto breve; analisi chimiche hanno dimostrato, infatti, che l'argilla proveniva da giacimenti locali. I Filistei, che nel XII e XI sec. a.C. avevano assunto gli usi funerari egizi, imitarono anche tali s.; ma le imitazioni si distinguono per le maschere grottesche con copricapi tipicamente filistei.

Mondo fenicio. - Benché già nel XIII o nel X sec. a.C. il re Ahiram di Biblo avesse sul coperchio del suo s. due figure umane a rilievo, il vero tipo antropoide non apparve in Fenicia prima della fine del VI sec. a.C. Coadiuvato dai re di Arado, Sidone e Tiro e dai Greci di Cipro e della Ionia, il persiano Cambise nell'anno 525 a.C. conquistò l'Egitto; in questa occasione i Sidoni presero come bottino di guerra tre s. antropoidi saitici. Uno, oggi conservato a Parigi, fu scoperto nel 1855 in una camera funeraria a SE di Sidone, e l'iscrizione secondaria fenicia del coperchio indica come proprietario il re locale Ešmun'azar II. L'altro era, insieme con un s. egiziano incompiuto, collocato in un complesso sepolcrale a E di Sidone; entrambi sono ora nel museo di Istanbul. I testi geroglifici del s. compiuto danno il nome del proprietario originale, il generale egiziano Pen-ptah, mentre il fenicio menziona il re Tabnit di Sidone, il padre di Ešmun'azar II. Nel s. incompiuto giaceva uno scheletro femminile, probabilmente quello della sorella e moglie di Tabnit, Ammi'aštart. A Istanbul si trovano inoltre un s. antropoide fenicio e frammenti di altri due simili tra loro, tutti di basalto e con la provenienza «forse Tortosa» (in arabo Tartūš); effettivamente nella regione a S di questa città, presso Ṣafīta, esistono le cave della pietra utilizzata per la realizzazione di questi monumenti, il cui stile è greco. Da una necropoli presso Tortosa proviene anche la testa di un s. antropoide fittile a Parigi, eseguito da un artista fenicio o cipriota nei primi anni del V sec. a.C.; già nel X sec. a.C. i Fenici si erano stabiliti lungo la costa E di Cipro.

Dopo il 470 a.C. s. antropoidi di marmo cominciarono ad apparire in Fenicia. I più antichi hanno ancora tratti egiziani. Il marmo veniva dall'isola greca di Paro, dove i cassoni erano abbozzati. Arrivati a Sidone erano terminati da artisti greci ivi residenti che decoravano i coperchi con tratti umani, abiti e altri accessori in stile ellenizzante. Alcuni pezzi furono esportati nei domini fenici di Cipro, della Sicilia e della Spagna, e la categoria fu anche imitata da scultori ciprioti. Peraltro, non sono stati rinvenuti veri s. antropoidi a Cartagine o in Etruria, dove erano preferiti i tipi con figura giacente sul coperchio. L'esportazione nel Mediterraneo occidentale sembra terminare poco dopo il 450 a.C., probabilmente in seguito alla pace di Callia, con la quale solamente il bacino orientale del Mediterraneo restava aperto alla flotta perso-fenicia. Poi i s. puramente ellenizzanti divennero più rari, e la produzione assunse gradualmente un carattere meno artistico e più provinciale; a Sidone finiva nella seconda metà del IV sec. a.C.

Bibl.: P. Montet, La nécropole royale de Tanis, i, Parigi 1947; E. Kukahn, Anthropoide Sarkophage in Beyrouth und die Geschichte dieser sidonischen Sarkophagkunst, Berlino 1955; M.-L. Buhl, Anfang, Verbreitung und Dauer der phönikischen anthropoiden Steinsarkophage, in ActaArch, XXXV, 1964, pp. 61-80; T. Dothan, The Philistines and Their Material Culture, New Haven 1982; M.L. Buhl, L'origine des sarcophages anthropoïdes phéniciens en pierre, in Atti del I Convegno Internazionale di Studi Fenici e Punici, Roma 1979, I, Roma 1983, pp. 199-202; ead., Les sarcophages anthropoïdes phéniciens en dehors de la Phénicie, in ActaArch, LVIII, 1987, pp. 213-221.

(M.-L. Buhl)

Grecia.

Oltre agli esemplari rinvenuti in Grecia, Asia Minore e Magna Grecia, verranno considerati tutti i s. decorati di ambito mediterraneo, prodotti sotto un influsso greco più o meno marcato.

I s. possono essere suddivisi seguendo le tre grandi fasi dell'arte greca: arcaica (600-480 a.C.), classica (480-320 a.C.) ed ellenistica (320-31 a.C.).

In questo arco di tempo i s. di pietra decorati costituirono un'eccezione: tra il 600 e il 31 a.C. ne sono attestati all'incirca solo 100 esemplari. Un numero decisamente esiguo se lo si raffronta ai circa 15.000 esemplari prodotti dall'inizio del -Il sec. d.C. sino al 310 d.C.

I s. greci sono quasi tutti completamente lisci, decorati solo da modanature; in età ellenistica compaiono anche ghirlande. Rispetto alle migliaia di s. di età romana decorati con rilievi figurati, meno di venti esemplari presentano scene figurate.

La distribuzione non è omogenea: accanto a località da cui proviene un gran numero di esemplari, sono ampiamente attestati pezzi unici, rinvenuti in un vasto ambito geografico, dalla Russia meridionale all'Asia Minore, alla Palestina e all'Egitto in Oriente, fino alla Spagna e a Cartagine in Occidente. Come materiale fu prevalentemente utilizzata la pietra, privilegiando il marmo, ma in alcuni casi vennero impiegati anche la terracotta e il legno.

Appartengono all'età arcaica (600-480 a.C.) solo pochi pezzi unici di varia provenienza e il gruppo di s. di terracotta di Clazomene (v. vol. vii, p. 8). L'esemplare probabilmente più antico proviene da Samo (metà del VI sec. a.C.): è in marmo e presenta una cornice aggettante e lesene con capitelli ionici posizionate sui quattro lati della cassa e un coperchio a forma di tetto. Non si conoscono confronti: non è certo se si tratti di un esemplare unico eseguito su precisa ordinazione oppure appartenga a una produzione di cui gli esemplari affini sono andati distrutti. La forma del tempio si fonde con quella del cassone: questo insolito tipo fungeva pertanto sia da tempio funerario, sia da cista per la sepoltura. Struttura simile, con l'eccezione delle colonne, presenta un s. marmoreo da Cuma (metà del V sec. a.C., oggi a Ginevra). Sulla base di questo dato si potrebbe supporre che i s. a forma di cassone fossero in età arcaica diffusi più di quanto oggi lascino ritenere i rinvenimenti di Samo e Cuma.

Altri s. marmorei hanno modanature sui bordi, in alto e in basso, come mostrano esemplari ad Atene e Paro (tardo VI sec. a.C.), che vennero utilizzati come modelli per copie realizzate anche in tufo (Taranto). Insolito è un esemplare in calcare rinvenuto a Megara Hyblaea (tardo VI sec. a.C.) che sul lato interno presenta un bordo sporgente riccamente profilato e decorato. Un esemplare eccezionale è infine rappresentato dal s. in calcare a forma di vasca da Agrigento (seconda metà del VI sec. a.C.), con orlo sporgente e pilastri aggettanti con capitelli eolici realizzati in bassorilievo. Pezzi simili sono probabilmente raffigurati nei rilievi funerari di Daskyleion (Asia Minore nord-occidentale) e sono stati sporadicamente rinvenuti anche in Asia Minore: essi dovevano dunque essere ampiamente diffusi in ambito mediterraneo.

In Sicilia si conservano numerosi s. in terracotta del tardo VI sec. a.C., che non formano tuttavia un gruppo definito, in quanto ognuno di essi sembra costituire un unicum. Per lo più imitano la struttura di cassoni lignei: il bordo superiore è modanato e decorato (p.es. ad Agrigento); il lato esterno di questo può inoltre presentare una ornamentazione figurata eseguita a stampo (esemplare già ad Agrigento), oppure, nella parte interna, modelli decorativi sempre a stampo (p.es. a Siracusa e a Gela). Frammenti rinvenuti in altre zone del mondo greco, p.es. a Chio, indicano chiaramente l'ampia diffusione di questi s. di terracotta.

Un grosso numero di s. in terracotta presenta strette analogie di forma e decorazione. La mappa dei rinvenimenti mostra come essi fossero prodotti a Clazomene, nell'Asia Minore occidentale, a SO di Smirne, e persino esportati in piccole quantità. Sono attualmente attestati più di 130 esemplari, ai quali probabilmente se ne possono aggiungere molti altri ancora inediti. Sono per lo più di forma trapezoidale e si rastremano alla base, mentre il bordo superiore è sporgente. Nella maggior parte dei casi la cassa viene lasciata esternamente grezza e soltanto il bordo ha sulla parte superiore una decorazione dipinta con tecnica a figure nere. A volte si tratta di motivi ornamentali, spesso di rappresentazioni figurate di tipo assai vario, tra cui sfingi, animali selvatici, scene di battaglia, cavalieri a volte impegnati nella caccia, tiri a due con il carro e l'auriga. Costituiscono delle eccezioni gli esemplari con rappresentazioni ornamentali o figurate anche sull'esterno della cassa o persino sulle sue pareti interne. I coperchi si conservano raramente: sembra siano state utilizzate relativamente spesso lastre di terracotta o pietra disadorne e talvolta anche una bassa copertura d'argilla. Sono eccezioni i coperchi a forma di tetto, che in casi estremamente rari presentano una ricca decorazione dipinta simile a quella dei bordi delle casse. Il pezzo più rappresentativo di questo tipo si trova a Londra. I s. fittili di Clazomene si possono suddividere, in base allo stile, in diversi gruppi, compresi tra il 550 e il 470 a.C. circa. In alcune zone sono ravvisabili copie locali, p.es. a Sardi, Lesbo o Abdera (Tracia).

Al periodo di transizione dall'età arcaica a quella classica sono databili due s. (entrambi a New York), difficilmente classificabili con più precisione in quanto di produzione locale cipriota. Entrambi presentano una decorazione figurata a fregio e rivestono dunque un particolare interesse. Il più antico, che rientra ancora completamente nella tradizione artistica arcaica, proviene da Golgoi (inizi V sec. a.C.); tre dei temi che vi sono raffigurati, un banchetto, una scena di caccia e una di partenza, derivano dall'ambiente principesco. A questi si aggiunge, su una faccia laterale, una rappresentazione mitologica con Perseo e Medusa. L'altro esemplare è stato rinvenuto ad Amatunte ed è cronologicamente più tardo (470 a.C.?). Esso mostra molto chiaramente l'originaria struttura del cassone e presenta una ricca decorazione con fasce ornamentali. Sui due lati lunghi è rappresentata, nei campi figurati, una scena di partenza con cavalli e carri; sui due lati corti vi sono quattro figure di Bes e quattro donne nude (forse raffigurazioni di Astarte). Ampi resti della colorazione mostrano che in origine il pezzo doveva essere magnificamente dipinto. Entrambi i s. hanno una copertura a forma di tetto, decorata rispettivamente con leoni e sfingi. Nella mescolanza di tratti orientali e greci i due s. sono opere di caratteristica produzione cipriota. Numerosi particolari richiamano la Fenicia, e precisamente il s. del re Ahiram di Biblo (ora a Beirut, XIII o X sec. a.C.), anche se la distanza cronologica è molto ampia e mancano tra queste opere esemplari di raccordo. I temi delle rappresentazioni sono in parte collegati anche con l'arte greco-persiana; ne esistono infatti confronti in Licia. I due esemplari sono i più antichi s. dell'arte greca, intesa nel senso più ampio, decorati da fregi figurati. E ancora da chiarire se questo tipo sia stato ideato a Cipro o se vi siano stati in ambito greco prototipi più antichi. Diversi indizi rendono probabile che i modelli dei s. di Cipro provengano dalla Grecia o forse piuttosto dall'Asia Minore. È probabile che i due esemplari ciprioti attestino l'esistenza di s. greci figurati di età tardo-arcaica, per noi altrimenti perduti. Rimane aperta la questione se si sia trattato di pezzi in pietra o in legno. Il s. di Amatunte riprende molto chiaramente la struttura lignea; è forse possibile desumere da ciò che i modelli fossero casse lignee con appliques (di legno o stucco?).

Un frammento di coperchio da Paro è l'unico esemplare dalla madrepatria greca che riporti ornamenti figurati, ed è forse databile nella fase di passaggio dall'età arcaica a quella classica: esso è tuttavia troppo piccolo e mal conservato per poter costituire un elemento di rilievo nella discussione critica.

Si conserva un maggior numero di s. di età classica (480-320 a.C.), ed è possibile riconoscere alcuni gruppi locali con le loro caratteristiche. Un pezzo unico in marmo ad Agrigento (tardo V sec. a.C.) presenta tutt'intorno una trabeazione dorica di eccellente lavorazione, derivante forse da quella degli altari. Una serie di esemplari presenta caratteristiche comuni: sono in marmo, con modanature superiori e inferiori e bassi coperchi a tetto, sui quali a volte sono rese le tegole. La maggior parte è stata rinvenuta a Cartagine, alcuni in Italia, altri a Cipro. Il marmo sembra provenire da Paro, dove probabilmente i pezzi sono stati realizzati e di qui esportati una volta completati.

Diverse volte i s. di questo tipo sono stati imitati in pietra locale, e cioè in arenaria (Ragusa, Siracusa) o travertino (Cerveteri), e anche in terracotta (Siracusa, Gela). In altri esemplari di tardo IV sec., il materiale utilizzato è probabilmente il marmo pario, e la cassa ha la forma tipica della produzione di Paro. Tuttavia i coperchi con i personaggi distesi hanno un aspetto completamente anellenico (diversi esemplari da Cartagine, uno da Tarquinia), anche se lo stile dei volti e delle vesti rientra nella tradizione greca ed è quindi possibile che i pezzi siano stati realizzati da Greci. Coperchi simili sono tipici dell'Etruria, mentre l'orecchino per gli uomini è caratteristico di Cartagine. Finora non è stato possibile stabilire con certezza il luogo di produzione; ci si chiede se vi fossero a Cartagine scultori pari o attici che realizzavano i coperchi secondo il gusto locale e, in tal caso, un unico esemplare venne esportato in Etruria, oppure se si possa ipotizzare l'attività di scultori itineranti.

Alcuni esemplari si differenziano, per la forma delle modanature, le proporzioni della cassa, il coperchio a forma di tetto e per il materiale adoperato, dal piccolo gruppo che forse può essere localizzato a Paro. Tra essi si contano un esemplare del tardo V sec. ad Agrigento, altri s. di tardo IV sec. a Egina, Megara e Daphni, in marmo probabilmente pentelico. Dato che mancano ritrovamenti ad Atene, non è certo se essi fossero là ultimati per il mercato esterno.

Su alcune lèkythoi attiche a fondo bianco di V sec. sono raffigurati monumenti funebri che in veduta laterale assomigliano a sarcofagi. Ma diversi dettagli indicano che si tratta di altri tipi di monumenti funerarî.

La cassa e il coperchio di un s. di tardo IV sec. da Taman' (a Mosca) sono riccamente decorati; dato il materiale utilizzato, il marmo, non si deve trattare di lavoro locale, ma di un pezzo importato. Tuttavia l'assenza di confronti impedisce di precisare il luogo di produzione.

I s. rinvenuti nelle tombe reali di Sidone (nel Libano odierno), ora a Istanbul, costituiscono eccezionali esempî dell'arte greca. Accanto a due pezzi importati dall'Egitto e ad alcune casse lisce, sono venuti in luce quattro pregevoli s. marmorei con fregi figurati: il «S. del Satrapo» (intorno al 400 a.C.), il «S. Licio» (390-385 a.C.), il «S. delle Piangenti» (tra il 367 e il 361/358 a.C.) e il «S. di Alessandro» (tra il 332 e il 312 a .C.); inoltre tre s. con pareti lisce ma con ricche fasce ornamentali. Ognuno dei s. figurati costituisce un pezzo unico, che venne eseguito su committenza di alcuni dei satrapi di Sidone o di qualche membro della famiglia reale. La tettonica, le rappresentazioni e le decorazioni sono molto differenti. Componenti greche di diversa provenienza regionale e particolarità microasiatiche e orientali si mescolano tra di loro in maniera sempre differente. Gli scultori erano sicuramente greci che, probabilmente di volta in volta, venivano chiamati per l'esecuzione dei s. nei paesi che si trovavano sotto il dominio persiano. Non è ancora possibile stabilire fino a che punto essi abbiano preso parte anche all'esecuzione di altre sculture in marmo rinvenute a Sidone, cioè i donarî nel tempio di Ešmun o i

s. antropoidi. Lo scultore o gli scultori del s. detto di Alessandro hanno realizzato almeno anche i tre esemplari con pareti lisce e ricche decorazioni. I s. non presentano iscrizioni; i quattro esemplari figurati sono però forse attribuibili ai seguenti sovrani:

- S. del Satrapo: intorno al 400, re Banana (400-386/85 a.C.);

- S. Licio: 390/85, re Ba'alšillem II (386/85-372 a.C.);

- S. delle Piangenti: 365/60 re Stratone I (372-359/58 a.C.);

- S. di Alessandro: 332-312 re Abdalonymos (332-312 a.C.).

Oltre ai quattro s. di Sidone vi è, in ambito mediterraneo, ancora un unico s. figurato di età tardo-classica di stile greco, il s. detto delle Amazzoni a Vienna (verosimilmente databile all'ultimo quarto del IV sec. a.C.), rinvenuto probabilmente a Cipro, ma con una lavorazione prettamente greca. E singolare il fatto che i quattro lati riportino le stesse raffigurazioni, differenziandosi solo in piccoli dettagli.

In Etruria si conservano alcuni s. con raffigurazioni di Amazzoni (probabilmente anche di tardo IV sec. a.C.), come il s. dipinto da Tarquinia a Firenze, che si presentano tuttavia molto più semplici nella lavorazione e si distaccano fortemente dall'esemplare di Vienna. Forse costituiscono un indizio per supporre la produzione anche in ambito greco di s. con scene di amazzonomachia, cosicché l'esemplare a Vienna costituirebbe solamente un esempio fortuitamente conservatosi di una produzione più estesa.

E tipico di Sidone un gruppo di s. antropoidi (v. supra), che rientrano solo in parte nell'ambito dell'arte greca.

Caratteristico della Licia, nell'area sud-occidentale dell'Asia Minore, è un enorme numero di s., i c.d. s. licî: essi si differenziano da tutti gli altri esemplari di ambito mediterraneo sia per il modo di esposizione, sia per la forma, in particolare quella del coperchio. Presentano per lo più un basamento a gradini, sul quale poggia un cassone che funge da camera sepolcrale (hyposòrion) rifinito da una cornice; i coperchi hanno una forma insolita, sono decisamente alti e con i lati lunghi a profilo ogivale. Questa forma, che si trova solo in Licia, sembra venisse chiamata nel mondo antico «chelone» (tartaruga). Come materiale è generalmente utilizzato il calcare locale.

Il gruppo dei «s. licî» inizia, per quanto finora noto, nel V sec. a.C., aumenta fortemente di numero nel IV sec. e si protrae, attraverso l'ellenismo, fino all'età imperiale romana. Gli esemplari romani conservati nelle necropoli licie a centinaia, di regola privi di decorazione, non si datano facilmente. Quelli di età classica sono molto decorati, in particolare sulle pareti della camera funeraria, sulle cornici superiori e sul frontone, a volte anche sui lati lunghi del coperchio. In molti esemplari la costruzione lignea, che costituiva il prototipo delle tombe e dei s. liei, risulta riprodotta fedelmente nella pietra. Sui s. più tardi, al contrario, la forma è semplificata.

Già nel VI sec. a.C. si afferma un'altra forma di monumento funebre, la klìne. Uno degli esempi più antichi è stato rinvenuto nella Tomba Regolini-Galassi a Cerveteri, ed è realizzato in bronzo (seconda metà del VII sec. a.C.). Più tardi le klìnai vennero scolpite direttamente nella roccia all'interno della camera funeraria oppure costruite con lastre di pietra. Sono stati rinvenuti nelle sepolture frammenti di preziose klìnai di legno con decorazioni in avorio, p.es. a Verghina (v. aigai).

I defunti, particolarmente nel periodo più antico, venivano talvolta adagiati sulla klìne, ma spesso questa era utilizzata come un s. per la deposizione del cadavere o come contenitore per le ceneri. In alcune sepolture, soprattutto nel caso di klìnai preziose, vi erano urne cinerarie a parte e pertanto le klìnai non avevano più, all'interno della sepoltura, alcuna funzione.

Dal 400 a.C. circa si diffonde l'uso delle klìnai nelle sepolture, a partire dalla Macedonia e dalla Tracia, nella Grecia meridionale come in Asia Minore e più tardi in altre aree di cultura ellenistica, p.es. Alessandria.

È caratteristica per l'ambito greco la resa della klìne con un materasso, per lo più con cuscino, dove però non viene raffigurato il defunto; al contrario, in Etruria il morto vi viene rappresentato disteso.

In età tardo-classica si incontra a Taranto un gruppo di s. in legno decorati con appliques di terracotta dorata. La forma del s. è sconosciuta, in quanto non se ne conserva nessuno, mentre sono state rinvenute numerose appliques. Esse sono databili, in base allo stile, al terzo quarto del IV sec. a.C. Forse anche i «rilievi meli», realizzati tra il 475 e il 440 a.C. nell'isola di Melo, dovevano servire come decorazione di s. lignei. Essi però non sembrano ricollegabili a un più ampio contesto, cosicché è difficile ricostruire da questi rilievi decorativi la forma degli eventuali sarcofagi.

Si conservano numerosi s. di età ellenistica (320-31 a.C.). Sono quasi tutti pezzi unici; a parte alcune eccezioni, non è stata rintracciata una grossa produzione in una precisa località. Dall'Asia Minore proviene una serie di esemplari, la cui datazione è per lo più discussa. Sono da ricordare, per l'eccellente fattura, i s. a ghirlande a Burdur e Çanakkale (II sec. a.C.?), un esemplare con corone a Side (II sec.?), diversi esemplari ad Adana, osteoteche con porta funeraria e rappresentazioni figurate (II-I sec. a.C.) e un s. a struttura architettonica dai pressi di Eskişehir (I sec. a.C. ?). Molti altri s., già assegnati all'età ellenistica, non possono essere datati prima dell'età imperiale, come ha dimostrato la ricerca degli ultimi anni.

La serie dei s. liei continua in età ellenistica. Un esemplare da Trysa (a Istanbul) presenta sulla cassa una campitura con ghirlande e ha un coperchio abbondantemente decorato (III-II sec. a.C.). In genere, tuttavia, la decorazione figurata sembra essere rara.

Anche la serie dei s. a klìne continua in età ellenistica. Si prendano, p.es., la Tomba di Alketas a Termesso (tardo IV sec.) con la klìne ricavata nella roccia, e il s. a klìne del Mausoleo di Belevi, che dovrebbe risalire all'inizio del III sec. a.C. e che fu completato molto più tardi dal coperchio con personaggio maschile disteso.

Alcuni s. di pietra da Cipro imitano i s. lignei, e sono genericamente databili nel II sec. a.C.

Sono probabilmente da datare in età tardo-ellenistica numerosi s. dalle «tombe reali» di Gerusalemme e gli esemplari affini. La loro decorazione consiste in rosette o girali, ma sono difficilmente inquadrabili, in quanto mancano confronti o indizi per una datazione. Questo gruppo sembra protrarsi sino alla prima età imperiale.

E stata supposta per alcuni s. a ghirlande di Alessandria una datazione in epoca tardo-ellenistica, poiché presentano insolite raffigurazioni che non trovano confronti tra i s. di età imperiale; essi però sembrano meglio corrispondere a esemplari provinciali del I o dell'inizio del II sec. d.C.

Della Grecia possono ricordarsi solo pochissimi s. ellenistici. Le klìnai si incontrano ancora in molti casi. I numerosi s. e osteoteche da Rodi sono lisci e hanno solamente piccoli piedi. A Rheneia e Paro vi sono resti di insoliti monumenti funerari: su un alto zoccolo si ergono s. con coperchio a forma di tetto, che fungono da base a una stele funeraria o al busto del defunto.

Dall'Occidente greco sono da citare solamente due s. rinvenuti a Cefalù in Sicilia, di cui uno con struttura architettonica, il secondo solo con strigliature. Entrambi sono stati prodotti prima del gruppo principale dei s. di età imperiale e sono forse databili al tardo ellenismo.

In età ellenistica vennero realizzati due gruppi di s. lignei. Una grande quantità di pezzi è stata rinvenuta nella Russia meridionale. In parte essi presentano chiaramente la struttura della cassa lignea. Alcuni esemplari dovevano riportare pitture o appliques di stucco, i più un'architettura simulata applicata sulla fronte. Molti di questi s. sono realizzati in legno di cedro o cipresso, e non è ancora chiaro se sia stato importato solo il legno in tronchi o tavole, o se i s. siano pervenuti in Russia meridionale già lavorati. I pezzi sono difficilmente databili, in quanto molti sono andati perduti e sono noti solo da vecchi disegni. E possibile che questa serie si sia imposta già in età classica; essa attraversa l'ellenismo fino ad arrivare al I sec. d.C.

In Egitto si sono conservati, date le favorevoli condizioni climatiche, relativamente molti s. lignei. Essi sono difficilmente databili con precisione, ma sembrano inquadrabili cronologicamente dall'inizio dell'età ellenistica sino a quella imperiale, con alcuni esemplari che arrivano fino all'età tardoantica. Singoli campi e i frontoni dei coperchi risultano più volte dipinti; vi sono anche fasce ornamentali applicate di legno e appliques di stucco. Nelle forme e nelle decorazioni di tali s. sono a volte presenti dettagli tipici della tradizione dell'antico Egitto, che li differenziano in tal modo dagli esemplari della Russia meridionale.

S. lignei dovevano essere presenti non soltanto in Egitto e nella Russia meridionale, ma anche in altre regioni del mondo ellenistico, ma sono andati tutti perduti.

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(G. Koch)

Etruria. - Il paragrafo dedicato ai s. etruschi nella voce redatta da F. Matz nel 1966 documenta con estrema chiarezza il livello delle conoscenze allora raggiunto e soprattutto l'angolazione da cui si prendeva in esame un fenomeno artigianale già ben valutabile nella sua vasta portata. I rapidi cenni alle linee di sviluppo della classe sono desunti dall'opera dell'Herbig, ancora oggi imprescindibile strumento di lavoro, ma tutta la problematica è risolta cercando, da un lato, un aggancio concettuale e formale con le precedenti esperienze d'età arcaica e classica e, dall'altro, individuando in talune caratteristiche delle figurazioni delle casse i tratti tipici del rilievo italico che farebbero dei s. etruschi il precedente dei s. romani d'età imperiale.

Oggi il grande incremento dei materiali, garantito dalle scoperte o dalle «riscoperte» successive all'opera dell'Herbig, ha reso possibile la messa a punto, soprattutto da parte della scuola italiana, di una rinnovata metodologia d'indagine in cui alla sempre importante analisi stilistica, che un tempo costituiva l'unica forma di approccio al materiale, si affianca la considerazione dei corredi d'accompagno, l'esame delle strutture architettoniche e delle decorazioni della tomba, la valutazione dei dati derivanti dalla collocazione dei s. all'interno del sepolcro e, non ultima, l'attenzione alle epigrafi e, attraverso di esse, ai dati prosopografici utili per una più sicura cronologia relativa. L'esame condotto in questa luce permette oggi una conoscenza molto più approfondita e raffinata della classe dei s. etruschi, distinguendo nei loro caratteri peculiari le grandi scuole rappresentate dalle botteghe di Tarquinia e dei centri del suo territorio (Norchia, S. Giuliano, Tuscania, Musarna), di Vulci, di Orvieto e di Chiusi, e illuminando la trama dei rapporti reciproci (v. in part. G. Colonna).

Il massimo centro produttore dei s. in età tardo-classica ed ellenistica ê Tarquinia, la città dell'Etruria meridionale che con maggior decisione sembra avere la capacità di superare la crisi che nel V sec. a.C. coinvolge la politica estera e più ancora gli assetti interni delle grandi metropoli costiere (Colonna, 1990). I dati offerti dalle fonti storiche (Thuc., VI, 88, 6) ed epigrafiche (Elogia Tarquiniensia) attestano, già alla fine del V sec., la ripresa da parte di Tarquinia di un ruolo attivo nella politica internazionale, mentre l'evidenza archeologica documenta, agli inizi del IV sec. a.C., un grande sforzo di rinnovamento della pòlis. L'iniziativa assunse le forme di una vasta opera di ripopolamento della regione interna con la fondazione di nuovi centri (Norchia, Musarna) o il potenziamento di abitati di antica origine (Tuscania), per allentare le crescenti tensioni economico-sociali che fecero seguito alla crisi dei commerci marittimi.

Una delle produzioni più rappresentative della nuova fase e più ricche di implicazioni per illustrare il carattere e l'intensità dei rapporti fra la metropoli e i centri del suo territorio, è quella dei s. in pietra. Il rinnovato fasto gentilizio, che a Tarquinia continua a manifestarsi nella secolare tradizione degli ipogei dipinti (Tomba dell'Orco I, II; degli Scudi), trova ora infatti una nuova espressione nella tomba con s. scolpiti. Che la sepoltura entro s. in pietra costituisse, intorno alla metà del IV sec. a.C., un tratto squisitamente aristocratico è dimostrato dal rinvenimento di esemplari in marmo greco, manufatti pregiati giunti in Etruria seguendo un circuito commerciale che muoveva dall'isola di Paro e toccava numerosi centri del Mediterraneo e soprattutto Cartagine e la Sicilia (Martelli, 1975). Fra i monumenti acquisiti in Etruria attraverso questa via si segnalano un esemplare dal coperchio a spioventi e cassa imitante un cofano ligneo, dalla Tomba dei Thansina di S. Giuliano a Heidelberg (Hitzl, 1991), con le specchiature dei quattro lati decorate da racemi policromi dipendenti da schemi pittorici diffusi nella ceramografia greca, magnogreca ed etrusca; il S. del Sacerdote dalla Tomba dei Partunu a Tarquinia (Herbig, n. 121; v. supra); due s. ora perduti, un tempo appartenenti alla Collezione Marzi e il S. delle Amazzoni al Museo di Firenze (Herbig, n. 27). Quest'ultimo, con cassa liscia e coperchio a doppio spiovente munito di acroterîangolari a testa umana e timpani ornati a rilievo, esibisce un'interessante decorazione pittorica, probabilmente eseguita in Etruria da un maestro cui erano ben noti gli schemi e le tecniche della pittura attica della fine del V sec. a.C. A Cerveteri un s. in marmo pario con cassa liscia e coperchio a doppio spiovente decorato sul bordo da un kỳma dipinto in rosso e blu è stato rinvenuto, nel 1982, nella Tomba dei Tamsnie (Proietti, 1985). Le opere di importazione e la locale produzione in pietre calcaree bianche e tufo attestano la circolazione in Etruria sia del s. di tipologia architettonica con coperchio a doppio spiovente, sia di quello con coperchio decorato da una figura umana (S. del Sacerdote). Il tipo architettonico, apertamente ispirato alla casa attraverso le cornici scolpite sulla sommità e alla base della cassa e la forma del coperchio riproducente un tetto con acroterîe frontoni decorati, discende probabilmente da esemplari in marmo greco, databili negli ultimi decenni del VI sec. a.C., finora documentati in Occidente da rinvenimenti di Roma (Colonna, 1977) e di Spina (Sassatelli, 1977). Se il richiamo alla casa si configura come una caratteristica greca di lunga durata cronologica (dagli esemplari arcaici di Roma e Siracusa, a quelli della prima metà del V sec. di Spina, Taranto e Gela, fino alle opere del IV sec. quali il s. delle Amazzoni: Hitzl, 1991), in Etruria sembra più familiare la tipologia a cofano ligneo, l’Holztruhentypus dell'Herbig, qualificata dalla cassa con le specchiature in ritiro, le zampe quadrangolari e dal coperchio a semplici spioventi, senza i partiti architettonici che lo assimilano a un tetto. Anche questo tipo vanta in Italia precedenti d'età arcaica (Andrén, 1965; Colonna, 1977) e alcuni esemplari da Norchia e S. Giuliano (Colonna, Di Paolo Colonna, 1978) aggiungono all’Holztruhentypus il particolare, originariamente estraneo, di modanature composte da un listello e un toro che sembrano creare una commistione fra il tipo a cassa di legno e quello architettonico. Esempî d'una analoga fusione sono offerti dai s. greci in legno e in pietra della Russia meridionale e, alla metà del IV sec. a.C., dal s. greco della Tomba dei Thansina che presenta in singolare abbinamento le zampe del cofano e la cornice architettonica alla base della cassa. D'altra parte, il mondo etrusco, già in età tardo-orientalizzante, aveva offerto un isolato esemplare di s. in cui si potrebbe riconoscere un incunabulo della futura commistione fra il tipo architettonico e quello a cofano. Si tratta del s. in terracotta, così detto dei Leoni, databile intorno al 620 a.C., rinvenuto in una tomba del Procoio di Ceri ed esposto al Museo di Villa Giulia (Colonna, von Hase, 1984). La cassa parallelepipeda, ornata sul davanti dalle figure in leggero rilievo di un leone e una pantera inquadrate da una cornice a toro che segue i margini delle lastre, richiama alla mente la tipologia degli scrigni in avorio con figure in rilievo, documentati successivamente in età tardo-arcaica; da parte sua il coperchio a doppio spiovente, con fila di leoncini a tutto tondo sulla linea del columen, sembra anticipare una soluzione decorativa documentata nel secondo venticinquennio del VI sec. a.C., dalla tomba monumentale con portico antistante rinvenuta a Tuscania nella necropoli di Pian di Mola.

Un'accezione della cassa tipicamente etrusca, e di probabile elaborazione tarquiniese, con isolate figure di demoni agli estremi del lato maggiore, in corrispondenza dei piedritti angolari dell'arca, si manifesta nelle botteghe d'età tardo-classica, ove il tipo a cofano ligneo si manterrà fino a tutta la seconda metà del IV sec. a.C., registrando anche un isolato attardamento nella prima metà del III sec. con un s. della Tomba dei Velisina a Norchia (Colonna, 1984). Agli originari tipi inornati o forniti solo di figure angolari, le officine tarquiniesi associano esemplari di pregio decorati da scene di Tierkampf con animali reali e fantastici, probabilmente desunti dai repertori della grande ceramica apula e di quella falisca (Cratere dell'Aurora).

Molto vario e complesso è il quadro tipologico dei coperchi. Alla tradizione del tetto displuviato applicato sia alle casse di ispirazione architettonica sia al tipo a cassone di legno, si associa precocemente in Etruria un'immagine umana sovrapposta alle falde spioventi. L'ipotesi generalmente accreditata della dipendenza di questa singolare soluzione dai s. greco-punici, del tipo del S. del Sacerdote, con figura umana rappresentata stante sul coperchio (Matz, 1973), potrebbe forse essere rivista attribuendo la giusta importanza al cosiddetto S. del Magistrato di Cerveteri al Museo Vaticano (Herbig, n. 83). La sua cronologia infatti si può fissare al primo quarto del IV sec. a.C. (v. etrusca, arte) anche per il rinvenimento, recentemente puntualizzato, non nella Tomba dei Sarcofagi, ma in una camera a essa attigua e più antica almeno di una generazione (Gilotta, 1989). In questo modo, l'esemplare etrusco sembra precedere di un quarto di secolo tutti i s. greco-punici conosciuti, riaprendo la discussione sull'origine del tipo e forse rivalutando l'ipotesi che si tratti di una creazione originale etrusca (Pallottino, 1972-1973). A ben vedere, nella produzione cartaginese il tipo con cassa parallelepipeda e coperchio a doppio spiovente non trova precedenti e quello con figura distesa sulle falde del coperchio non mostra alcun rapporto di dipendenza formale dal filone dei s. antropoidi fenicio-punici, qualificandosi piuttosto come un ben delimitato caso di influsso esterno su Cartagine nella seconda metà del IV sec. a.C.

La persistenza delle falde inclinate nei coperchi dei s. etruschi del IV sec. che accolgono la figura umana supina o già nell'atteggiamento del banchettante (Herbig, n. 84), dipende probabilmente dalla durevole assimilazione del s. alla cassa contenitore, allo scrigno con il coperchio a due falde che, nelle riproduzioni in tufo all'interno delle tombe ceretane d'età arcaica era attribuito alle deposizioni femminili, in antitesi al letto di quelle maschili. In età tardo-classica, all'avvio della produzione dei s. in pietra su vasta scala, l'antica tradizione del contenitore ligneo, ora applicata a entrambi i sessi, si stabilisce al Sud, mentre la sagoma del letto perdura al Nord, ove esisteva una robusta tradizione locale di rappresentazione del defunto come banchettante.

Un importante coperchio tarquiniese, conservato nella Villa Bruschi Falgari e databile nella prima metà del IV sec. a.C., sembra confermare, nella posa del corpo molto sollevato, con le gambe retratte e nell'assenza delle testate a frontoncino, il diretto collegamento all'esperienza dei cinerari chiusini, probabilmente mediato dall'ambiente volsiniese cui richiama il tipo della testa barbata.

Se l'ipotesi dell'influsso greco-punico deve essere in parte ridimensionata, l'origine del tipo etrusco tardo-classico con immagine umana supina costituisce un problema ancora da chiarire del tutto, ma certo la presenza nel S. del Magistrato di Caere dell'abbigliamento con il solo mantello, della patera e della corona conviviale intorno al collo, emblematicamente allusivi al banchetto, sembra corroborare l'ipotesi di una elaborazione locale, con ripresa di un patrimonio ideologico già sperimentato.

Il tipo proposto per la prima volta dal s. ceretano trova la migliore ambientazione nel territorio tarquiniese; qui il s. della tomba PA 14 di Norchia (Colonna, Di Paolo Colonna, 1978), databile intorno al 340 a.C., propone una cassa ascrivibile al tipo a cassone di legno con coperchio a tetto fornito di columen rilevato e acroterî angolari cui si sovrappone la figura distesa del defunto che stringe la patera nella mano destra. Mentre le botteghe locali elaborano questa singolare tipologia, l'arrivo a Tarquinia del S. greco-punico del Sacerdote, intorno al 350 a.C., introduce senza dubbio il tipo di coperchio con figura rappresentata stante anche se ancora abbinata alle falde inclinate di un tetto. Una o più botteghe tarquiniesi che lavorano nella seconda metà del secolo ne offrono alcuni esemplari di grande interesse, prevalentemente applicati a soggetti femminili. Il più nobile, e il più antico (340 a.C. circa), è un s. al British Museum con defunta nell'abbigliamento della mater thiasi (Herbig, n. 64), fornita di tirso, di craterisco e accompagnata dal cerbiatto, l'animale prediletto delle baccanti. Il tipo con immagine femminile stante o supina rimarrà in uso fino al 300 a.C. circa, età cui si ascrivono alcuni s. della Tomba Bruschi e uno forse della Tomba dei Partunu (Bartoloni, Baglione, 1987). D'altra parte, nell'Etruria meridionale interna, il s. di Vel Cae da Norchia, databile intorno al 340 a.C., ricorda come le botteghe locali fossero intente a elaborare anche il tema specifico dell'esposizione del defunto prima del trasporto funebre. La tematica, già presente in un limitato numero di urne fittili del VI sec. a.C., prevede la trasformazione del piano superiore del coperchio in una tavola piatta e sottile da intendere come il coperchio della cassa o, piuttosto, come il piano mobile della bara che, rimosso, permetteva di esporre la salma. La raffigurazione della vera e propria immagine del defunto avvolto nel sudario si qualifica come una particolare ispirazione delle botteghe attive nei centri dell'interno e qui dà luogo a un'ulteriore evoluzione nella conformazione dei coperchi. Intorno a questo s. infatti si può riunire, per affinità stilistiche, un certo numero di esemplari da Norchia, da S. Giuliano e da Tarquinia stessa, in cui il personaggio sul coperchio, raffigurato con la patera in mano, è supino su un piano orizzontale cui si sovrappone un materasso. La scomparsa delle falde inclinate del tetto e la presenza della patera e dello stròma indicano che ormai nelle botteghe meridionali predomina l'ideologia del defunto banchettante anche se la figura permane distesa e, negli esemplari citati, mancano le testate del coperchio conformate a timpano che, immancabili dagli ultimi decenni del IV sec., sanciscono l'assoluto distacco dalla semplice tavola per la pròthesis. Il concetto del defunto come banchettante o simposiasta, ignoto ai s. greci salvo che all'esemplare dal mausoleo di Belevi, databile però nella seconda metà del III sec. a.C., sarà ribadito sempre meglio dalla posizione del personaggio sul coperchio. Nello stadio successivo infatti, pur rimanendo distesa, la figura accenna a volgersi sul lato sinistro e, in alcuni esemplari da S. Giuliano, il personaggio alza una mano sul cuscino verso la testa, immediato precedente di alcuni s. monumentali dell'ultimo trentennio del IV sec., fra cui il più insigne è il s. del Magnate dalla Tomba dei Partunu a Tarquinia (Herbig, n. 120). In queste opere il busto del recumbente presenta una più marcata rotazione verso l'osservatore e soprattutto si assiste al sollevamento della spalla destra dal giaciglio e al gesto della mano sinistra che sorregge il capo. Il braccio destro è disteso lungo il fianco e la patera è appoggiata sull'anca, mentre le gambe parallele accennano a una flessione delle ginocchia.

Anche la tipologia delle casse accoglie elementi di novità. Se infatti il s. del Magnate conserva la tipologia a cofano ligneo, altri esempi, come un eccezionale s. tarquiniese con defunto che abbevera un cerbiatto (Herbig, n. 119) o il più antico s. della Tomba dei Vipinana a Tuscania (Colonna, 1978), documentano il tipo di cassa «a portico», con fregio narrativo inquadrato agli angoli da lesene o colonne con capitelli ionici, lo Hallentypus (s. a portico) dell'Herbig.

Molto interessante è il panorama tipologico offerto dalle teste. Si tratta sempre di ritratti intenzionali, semplicemente allusivi all'età e allo stato sociale del personaggio, ma costituiscono una galleria di tipi che nell'arco del suo sviluppo rispecchia la ricchezza di esperienze stilistiche emananti da modelli primari di matrice ellenica, accolte e variamente rielaborate in Etruria. Alcuni esemplari mostrano espressioni di estrema semplificazione, con occhi e bocca accentuati e una generale tendenza all'interpretazione geometrica dei volumi, ma nelle opere delle migliori botteghe tarquiniesi è subito evidente il ricorso a modelli colti. Particolarmente istruttiva è la Tomba dei Partunu in cui il più volte citato S. greco-punico del Sacerdote è seguito, intorno al 320 a.C., dal S. del Magnate che conserva nel volto incisivo uno dei migliori esempi di quella ritrattistica definita medio-italica, di sicura impronta tardo-classica, assai diffusa nell'ambito del ritratto onorario e votivo. Fra il 300 e il 290 a.C. la stessa tomba accoglie il c.d. S. dell'Obeso (Herbig, n. 107), in cui comincia ad apparire il richiamo ai modelli «eroici» offerti dalla ritrattistica dinastica del primo Ellenismo, che troverà proprio in ambito funerario la sua migliore ambientazione (Colonna, 1989-1990). Esemplari di pregio, quali il s. tarquiniese con cerbiatto, il S. di Arnth Churcles da Norchia (Herbig, n. 3, 290 a.C.), fino all'importantissimo S. di Laris Pulenas (Herbig, n. in, secondo quarto III sec. a.C.), nella forte caratterizzazione somatica non aliena da un certo compiacimento per i segni dell'età avanzata, aiutano a individuare i modelli ispiratori nei ritratti dei Diadochi, come quelli di Seleuco e di Tolemeo I.

A tanta ricchezza creativa delle botteghe tarquiniesi corrisponde il quadro piuttosto limitato di Cerveteri. Dopo l'interessante e precoce esordio del S. del Magistrato, nel secondo quarto del IV sec. si pongono i tre esemplari della contigua Tomba dei Sarcofagi (Herbig, nn. 7-9), eseguiti in travertino alabastrino. Si tratta di un s. di tipo architettonico con coperchio imitante un tetto con tegole e coppi e di due con figura semidistesa sul coperchio, stilisticamente affini al s. vaticano per la realizzazione sommaria del panneggio e il tipo della testa maschile barbata, forse dipendente da modelli attici della prima metà del IV sec. a.C. Allo stesso contesto urbanistico della Tomba dei Sarcofagi, nel settore occidentale della Necropoli della Banditaccia detto «del Comune», appartiene la Tomba dei Tamsnie, già citata per la presenza in essa di un s. in marmo pario. Accanto a esso fu rinvenuto un secondo esemplare in pietra calcarea. Anche questo è del tipo architettonico con coperchio a tetto decorato da piccoli acroterî a triangolo, ma la sua importanza storica è data da una iscrizione che corre dipinta sul bordo di uno dei lati lunghi del coperchio. Si tratta dell’elogium di Venel Tamsnies che fu zilχ a Caere nella seconda metà del IV sec. e contiene, fino a ora, la più antica attestazione etnisca del nome di Cerveteri, espresso nella forma aggettivale di Caisriva (Proietti, 1985).

Contemporaneamente a queste manifestazioni si sviluppa la raffinata e singolare scuola vulcente, certamente legata alle forme che si andavano elaborando a Tarquinia, ma anche capace di una propria originalità e protesa più verso l'Etruria tiberina, Orvieto e Chiusi, che verso il meridione. L'esordio dell'officina è segnato dai due imponenti s. al museo di Boston, con coperchio bisomo, su cui sono raffigurate, distese in un abbraccio, le coppie coniugali di Arnth Tetnies e Ramtha Visnai e di Larth Tetnies e Thanchvil Tarnai. Il più antico dei due (Herbig, n. 5), eseguito in nenfro e databile nel secondo quarto del IV sec. a.C., richiama, nelle teste dei due recumbenti e soprattutto nell'acconciatura della donna, l'esperienza chiusina di ricezione dello stile classico maturata nell'officina delle statue-cinerario (Cristofani, 1975), ma ricorda anche, per la struttura tondeggiante dei crani, le pitture della Tomba Golini I di Orvieto. Specialmente la testa maschile ribadisce la dipendenza dalla cultura volsiniese attraverso il confronto con la nota testa di statua bronzea, rinvenuta nel lago di Bolsena. Il s. più recente, in «alabastro», databile nel terzo venticinquennio del IV sec. (Herbig, n. 6), conserva la forte impronta classica e anzi ne precisa la matrice, stabilendo attraverso le teste e i panneggi un confronto con le figure delle stele funerarie attiche create dal 350 a.C. in poi. Una peculiarità piuttosto rara del s. è costituita dalla nudità della donna. La possibilità di riscontrare lo stesso particolare in un'urna chiusina bisoma del pieno IV sec. conferma la gravitazione settentrionale di Vulci e la funzione storica, condivisa con Volsinii, di tratto d'unione fra Tarquinia e Chiusi. Un ulteriore elemento ribadisce il ruolo di Vulci nei confronti del Nord. Nel s. alabastrino l'iscrizione conserva un'attestazione del verbo farΘnaχe nel significato di «è stato generato da...» per indicare, con una ricercata parafrasi, la discendenza di Larth dai genitori senza ricorrere ai più comuni patronimico e matronimico introdotti dal sostantivo clan (figlio). L'inconsueta espressione trova un significativo riscontro in un epitaffio dipinto nella Tomba Golini I di Orvieto (Colonna, 1980). Ancora la tipologia del defunto disteso sul coperchio ritornava in un s. a cassa liscia, oggi perduto, rinvenuto nella tomba n. 3 della necropoli di Ponte Rotto, documentato da una foto dell'Archivio Ferraguti (Buranelli, 1994). Alla fine del IV sec. l'officina vulcente produce l'interessante S. delle Amazzoni a Villa Giulia. La cassa propone il tipo Holztruhe di osservanza tarquiniese, con figure di demoni agli angoli e a esso associa un incongruo apparato di cornici architettoniche. Tuttavia il dato più interessante è costituito dal fregio con amazzonomachia disposto sui quattro lati. In uno dei lati maggiori la narrazione è arricchita dalla singolare presenza di una «lasa» che, anziché scendere nella mischia, come nella scena dipinta da mano etrusca sul S. del Sacerdote, osserva dall'alto affacciandosi da una nube.

Il particolare richiama la complessa iconografia di un'anfora dalla Tomba Golini I, attribuita al Gruppo della Centauromachia, ove ricorrono nuvole con teste di personaggi, forse appartenenti all'aldilà. La circolazione del motivo figurativo in ambito volsiniese è attestata dai rilievi del s. di Torre S. Severo (Herbig, n. 73) ove, sul lato con la scena del sacrificio dei prigionieri troiani compare, in alto, una testa di Charun. Nella produzione vulcente i s. riccamente decorati costituiscono tuttavia un'eccezione rispetto ai più tipici e diffusi s. lisci eseguiti ininterrottamente dalla fine del IV sec. a.C. (Bonamici, 1980). Il tipo, che accomuna le scelte di Vulci a quelle di Orvieto e di Chiusi, prevede semplici casse parallelepipede con coperchio a doppio spiovente in cui i soli partiti decorativi sono rappresentati, a volte, da una fascia a meandro sul bordo dei lati lunghi e dall'ornato degli spazi frontonali sui lati brevi. Qui si annoverano esempî di teste gorgoniche, rosoni e altri motivi floreali, figure animali e composizioni con figure umane semidistese in posizione speculare, molto vicine alle decorazioni delle edicole funerarie vulcenti. La produzione dei s. decorati si arresta alla metà del III sec. a.C., nel clima di generale recessione che colpisce la città dopo la conquista romana, mentre l'officina dei s. lisci sembra perdurare fino alla fine del II sec. a.C.

Il quadro parallelo delle botteghe volsiniesi offre, fino a ora, un limitato numero di esemplari, ma di grande interesse (Colonna, 1985). La produzione inizia nella prima metà del IV sec. a.C., età cui è ascrivibile un s. da Canale a cassa di legno con coperchio a tetto fornito di columen e acroterî (Herbig, n.22). Il clima culturale in cui prende avvio l'officina riflette l'evoluzione interna della società volsiniese, nella quale emerge un ceto aristocratico che favorisce il progressivo distacco dall'antica intesa con Chiusi, patrocinata da Porsenna, e si volge piuttosto verso le metropoli meridionali di Vulci e Tarquinia. Di questa posizione della città, in un certo senso equidistante tra il focolaio culturale di Chiusi e quello di Tarquinia, è esempio emblematico un s. della avanzata prima metà del IV sec. (Herbig, n.84): su una cassa Holztruhe di tipo tarquiniese con fregio animalistico è posto un coperchio a doppio spiovente con acroterî a disco simile a quello dell'esemplare da Canale, cui si sovrappone l'immagine a tutto tondo del defunto raffigurato come banchettante secondo il modello chiusino, in una posizione semisollevata non ancora raggiunta dalle botteghe meridionali. Alla seconda metà del IV sec. risale il s. da Torre S. Severo (Herbig, n. 73), riconducibile al tipo a cofano per i larghi piedritti con figure di demoni e qualificato come opera d'eccezione dall'affollato rilievo che ne fascia i lati. Se il linguaggio stilistico appare vicino alle espressioni della ceramica a rilievo argentata, di produzione orvietana, la conformazione del coperchio e la decorazione delle testate, con maschere di Acheloo e figure umane semidistese, richiamano la bottega vulcente. Al coperchio iconico si torna con il s. rinvenuto in località Pietra Campana (Herbig, n. 72), databile intorno al 300 a.C. (Colonna, 1985). Anche questo esemplare di indubbio valore, soprattutto per il piglio «ritrattistico» della testa, mostra una singolare commistione di ispirazioni: al coperchio che richiama la tradizione chiusina nell'immagine del banchettante e nell'assenza di entrambi i frontoncini delle testate, si associa una cassa a cofano ligneo in cui la tipologia tarquiniese si mescola all'ispirazione architettonica, risolta tuttavia in modo ben diverso da quanto si osserva nel meridione. In luogo delle cornici modanate qui appare, sulla sommità della cassa, un kymàtion ionico e, sul fondo, una fila di grossi dentelli. Alla fine del IV sec. a.C. risalgono altri due esemplari aniconici rinvenuti, uno a Bomarzo (Herbig, n. 62), e uno a Surripa (Colonna, 1985). Il primo abbina un coperchio a tetto con sfingi acroteriali, fila di coppi e antefisse terminali, a un raffinato esempio di cassa a cofano con la specchiatura decorata da un motivo vegetale di tralci e viticci, di antica origine pittorica, che avrà fortuna nelle decorazioni architettoniche di Vulci, Caere, Falerii, e in quelle della Tomba Ildebranda di Sovana; il secondo mostra invece una semplice fila di rosette nelle testate del coperchio, arieggiante gli schemi vulcenti.

Al quadro limitato di Vulci e Volsinii fa riscontro la continuità ininterrotta della bottega tarquiniese. In essa ormai trionfa la figura del defunto nell'atteggiamento del banchettante che, ai primi del III sec. a.C., raggiunge la posizione canonica con il busto ben sollevato, il gomito sinistro sui cuscini, il braccio destro non più disteso sul fianco ma ricadente sull'addome e le gambe incrociate e flesse. Ma l'allusione al banchetto non è solo affidata alla posizione. Si può dire infatti che essa sia contenuta più che altro in una serie di richiami alla sfera simposíaca, quali l'abbigliamento maschile con il solo mantello e i corrispondenti piedi scalzi, la presenza delle corone conviviali sul capo, intorno al collo e talora nella mano destra, la patera in bella vista. I coperchi con figure femminili e quelli con figure infantili, pur assumendo la stessa posa semirecumbente, sembrano concettualmente esclusi dall'ideologia del banchetto, poiché nei primi non sono mai presenti gli attributi specifici delle patere e delle corone conviviali e spesso le defunte appaiono calzate (la cosa è specialmente evidente nella produzione in terracotta ove a volte le figure femminili indossano elaborati tipi di sandali), mentre i secondi recano in mano giocattoli o piccoli animali, allusivi al gioco e alla giovane età. Anzi, l'estraneità dei fanciulli alla sfera del banchetto «alla greca» è dimostrata da un bel coperchio della Tomba dei Partunu (Herbig, n. 122), databile nella prima metà del III sec. a.C., in cui compare per la prima volta l'abbigliamento completo di tunica e mantello. Questo nei s. maschili comincerà ad apparire tra la fine del III e l'inizio del II sec. a.C. (p.es. il coperchio maschile III della Tomba degli Anina a Tarquinia: Colonna, 1984). I s. elaborati dalla scuola tarquiniese negli ultimi decenni del IV sec. a.C. rappresentano gli esempi più alti e raffinati di tutta la produzione; a coperchi con immagine del defunto supina o semidistesa corrispondono spesso casse nello schema dello Hallentypus (Herbig, nn. 63, 79, 80; Blanck, 1992) con ricorrenti episodi mitici di carattere cruento (sacrificio dei prigionieri troiani, sacrificio di Ifigenia, miti delle Danaidi e dei Niobidi) e singolari scene di sacrificio umano (Herbig, n. 85), alla cui scelta potrebbe non essere del tutto estraneo il ricordo del livello di efferatezza raggiunto dalla guerra fra Tarquinia e Roma della metà del IV secolo.

Nel primo venticinquennio del secolo successivo inizia la produzione di casse del c.d. tipo a facciata (.Fassadentypus) con rilievi narrativi compresi all'interno di una semplice riquadratura o uniformemente estesi su tutto il lato frontale dell'arca. Le scene di battaglia (Herbig, nn. 91, 196) che ricorrono fra di essi, ben presto lasciano il posto a quella che, da ora fino alla metà del II sec., sarà la tematica dominante: il viaggio agli inferi.

La prima apparizione del tema, in forme ancora embrionali, è nel S. ceretano del Magistrato, ove un personaggio su biga è preceduto da un eterogeneo corteo di cui fanno parte un giovinetto, una coppia di uomo barbato e donna riccamente adorna, riconoscibili come il defunto e la sua consorte, musici e un personaggio che brandisce una verga con una serie di occhielli sulla sommità, in cui si potrebbe forse riconoscere una prima rappresentazione del flagellum, l'arma dei littori, in seguito più volte ricorrente nella decorazione pittorica delle tombe d'età ellenistica (a Tarquinia: Giglioli, Convegno, Tifone; a Orvieto: Hescana). Nel più antico s. bisomo da Vulci il centro della cassa è occupato da una «dextrarum iunctio» dei coniugi, seguiti ciascuno da un proprio corteo di personaggi recanti i segni del rango aristocratico degli sposi, mentre un altro s. vulcente a Copenaghen (Herbig, n.49) affronta direttamente la tematica della discesa agli inferi con l'incontro di due bighe guidate dal defunto e da una dea. Tuttavia ben presto il tema del viaggio si precisa in un vero e proprio corteo magistratuale. E questo il momento in cui, tramontati gli antichi valori domestici del simposio, la riaffermazione dell'egemonia gentilizia passa attraverso la tematica del potere magistratuale e la celebrazione del defunto nelle sue virtù di uomo pubblico. La più antica raffigurazione di un corteo di tale genere si incontra in una cassa da Tuscania al Museo Vaticano (Herbig, n. 8i), della prima metà del III sec. a.C., in cui il magistrato su biga è preceduto da un portatore di lancia (?), due littori con flagella ed è seguito da uno scriba con le tavolette. Il viaggio in carro è spesso riferito anche a soggetti femminili: due casse dalla tomba tarquiniese dei Camna (Cataldi, 1988; Colonna, 1991) raffigurano, uno la defunta seduta in calesse e, l'altro la defunta distesa all'interno di un carpentum, il mezzo di trasporto usato nelle campagne e forse, nel caso della gens Camna, allusivo alla vasta proprietà terriera nei dintorni di Tarquinia.

Al fianco di questi temi prosegue la decorazione delle casse con motivi araldici di grifi ed esseri fantastici affrontati, già in voga alla fine del IV sec. a.C. (Moretti, Sgubini Moretti, 1983), e progressivamente sostituiti, dagli inizi del III sec., da mostri marini, tritoni (Herbig, n. 187 a), delfini (Herbig, nn. 35, 65) e, nel caso di due s. infantili (Herbig, nn. 79, 122), da eroti volanti. Un esempio di notevole finezza formale è offerto da un s. rinvenuto alla Cipollara, nel settore nord-orientale dell'agro tuscaniese, databile intorno al 280 a.C. (Proietti, 1977). Sul lato frontale della cassa è un motivo di delfini guizzanti su onde correnti, disposti specularmente ai lati di un cratere a volute, in una disposizione che trova accoglienza e favore nella decorazione delle contemporanee tombe dipinte (Grotta Dipinta di Bomarzo; Tomba Bruschi di Tarquinia). Già alla metà del III sec. a.C. agli esempî figurati si accompagnano casse lisce (Colonna, 1978; Moretti, Sgubini Moretti, 1983) o semplicemente decorate con pitture che ripropongono il tema del corteo o il motivo dei grifi affrontati ai lati di una patera. Sostanzialmente estranea alle botteghe meridionali è la cassa conformata a klìne (Klinentypus) che, fino a ora, trova solo un'importante attestazione nel S. tarquiniese di Ramtha Apatrui (Herbig, n. 109), della metà del III sec. a.C., e in un lato anteriore di cassa fittile rinvenuta a Tuscania, databile alla fine del III sec. a.C. (Gentili, n. Β 182).

Il quadro offerto dai ritratti, dopo la metà del III sec., mostra un repertorio ormai fisso: i tipi maschili continuano a elaborare le formule della ritrattistica dinastica, accogliendo suggestioni medio-ellenistiche e accentuando

vieppiù il patetismo. Le teste sollevate verso l'alto o incassate nelle spalle hanno volti massicci con orbite profonde, occhi spioventi e bocche arcuate (Herbig, n. 249). I volti femminili, ancora alla metà del III sec. a.C., mantengono tratti corretti, immutabili in un ideale di bellezza risalente ai modelli tardo-classici dominanti in tutti i settori della ritrattistica femminile e perpetuati da qualche particolare dell'acconciatura o dall'eccessiva grandezza degli occhi anche negli esemplari databili nel corso del II sec. (Tomba dei Sarcofagi di Norchia: Colonna, Di Paolo Colonna, 1978; Tomba dei Vipinana a Tuscania: Colonna, 1978). Questi, al pari di quelli maschili, presentano vistose sproporzioni tra la fronte troppo bassa e la parte inferiore del volto allungata e pesante.

Anche nei corpi, dalla fine del III sec., si colgono segni sempre più evidenti di un progressivo scadimento formale. All'inizio il processo si manifesta nelle forme di un'accentuata stilizzazione delle pieghe dell'abito che assumono una tipica disposizione a ventaglio dal ginocchio destro in giù; nei coperchi femminili, il bordo inferiore dell’himàtion diviene una linea retta da cui si dipartono le pieghe parallele del chitone, più simili a costolature architettoniche che a un panneggio. Ma ben presto la crisi investe anche la struttura anatomica delle figure: i corpi s'allungano a dismisura, il torace si deforma nel senso della larghezza e la posizione del tronco, un tempo ben sollevata, s'abbassa fino quasi a riportare la testa sul cuscino. L'origine del decadimento delle produzioni artistiche, che coinvolge dalla metà del III sec. a.C. non solo l'officina dei s., può essere individuata nella rescente pressione della conquista romana che avanzava nei territori dell'antica Etruria meridionale tra confische territoriali e deduzioni coloniarie. A questi motivi di crisi, alla fine del III sec. a.C., s'aggiunge il grave dissesto della guerra annibalica che conduce al tracollo definitivo delle officine meridionali. In questa luce si spiega un coperchio della Tomba dei Velisina di Norchia (Colonna, 1982), databile nel terzo venticinquennio del II sec. a.C., predecessore del livello di completa dissoluzione formale raggiunto dai

S. dei Salvii a Ferento (Herbig, nn. 253-258) tra la prima e la seconda metà del I sec. a.C.

Tuttavia il territorio tarquiniese è teatro di un estremo tentativo di reazione al clima di generale decadenza. A Tuscania infatti, dalla metà del III alla fine del II sec. a.C., fiorisce un'intensa produzione di s. fittili. Le opere più antiche, scarse numericamente, ma di notevole impegno stilistico soprattutto nelle teste che riflettono la ricchezza dei mezzi espressivi della ritrattistica medioellenistica, si qualificano come esemplari di carattere eccezionale, probabilmente commissionati a un maestro proveniente dall'esterno.

Già alla fine del III sec. a.C. l'incremento numerico e la ripetizione di maschere facciali elaborate un ventennio prima, attestano l'impianto di una vera e propria produzione industriale. La documentazione offerta dalla Tomba dei Treptie, con diciotto s. in terracotta e due in nenfro, di qualità stilistica nettamente inferiore, attesta come la prima produzione di s. tuscaniesi sia stata sollecitata dalla piccola aristocrazia locale per colmare il vuoto stilistico delle botteghe della pietra. L'analisi dei caratteri stilistici e tecnici dei s. fittili permette di riconoscere cinque botteghe che hanno dispiegato la loro attività a Tuscania nel corso dei 150 anni attribuibili all'uso dell'arca in terracotta. La produzione, affidata a non più di due botteghe contemporanee, raggiunge il massimo punto di sviluppo tra la fine del III e l'inizio del II sec. a.C., ma ben presto emerge una forte tendenza alla standardizzazione, dapprima contenuta in corrette forme classicheggianti, e infine avviata verso un vero e proprio scadimento. L'atteggiamento dei personaggi sui coperchi, raffigurati come banchettanti, trae spunto dalle soluzioni elaborate nelle officine lapidarie, ma i coperchi fittili documentano anche una posa con il personaggio supino, un braccio sollevato e ripiegato sotto la nuca. L'atteggiamento, alludente al riposo, è molto diffuso tra i coperchi fittili e annovera invece tra quelli in pietra tin solo esemplare incompiuto nella Tomba degli Anina a Tarquinia (Colonna, 1984).

Se l'avvio della produzione fittile può essere considerato, in senso lato, un tentativo di reazione del centro più attivo della chòra tarquiniese al decadimento delle officine scultoree, la pressione romana, che ne era la causa, può essere vista anche tra le ragioni storiche dell'intensa fioritura delle botteghe chiusine dei s. in pietra che, intorno alla metà del III sec. a.C., superano in qualità stilistica la contemporanea produzione meridionale (Colonna, 1993). Di recente si è infatti collegato l'innalzamento del livello delle officine chiusine e soprattutto la loro compiuta organizzazione produttiva, alla migrazione delle migliori maestranze meridionali, attratte verso la più stabile Etruria del Nord, non ancora investita dalle confische territoriali e dalla colonizzazione.

Nell'Etruria settentrionale la limitata fortuna del s., come contenitore dei resti del defunto, è intimamente legata alla scarsa diffusione del rito inumatorio. A Chiusi esso è testimoniato in età tardo-arcaica dalle tombe con banchine per la deposizione; a Perugia, più o meno nello stesso periodo, si colloca il noto s. di officina chiusina, rinvenuto nella necropoli dello Sperandio (Giglioli, 1952), con scena figurata riproducente un lungo corteo di uomini e animali. La ripresa del rito si fa particolarmente evidente a Chiusi alla fine del IV sec. a.C., età cui risalgono alcuni esemplari di s. lisci che accoglievano le prime generazioni di inumati in tombe di livello gentilizio, quali la Tomba della Pellegrina e quelle dei Velu e dei Matausni, mentre Perugia offre un s. a cassa lignea dalla specchiatura molto stretta e coperchio a spioventi (Paoletti, 1923) e un s. liscio dall'ipogeo della gens Cai Cutu, di recente rinvenimento, in cui il pezzo di maggior pregio è rappresentato dalla seconda deposizione entro urna cineraria rispecchiante, nel volto del personaggio sul coperchio, i modi della ritrattistica attica del primo ellenismo.

Se la tipologia dei s. lisci avvicina, in questa fase, le scelte di Chiusi a quelle di Vulci e Volsinii, una decisa dipendenza dai modelli tarquiniesi si manifesta già nell'ultimo venticinquennio del IV sec., età cui è ascrivibile un primo sperimentale esempio di s. con coperchio figurato. Su una cassa conformata a klìne con zampe tornite e suppedaneo, in cui si perpetua l'antica tradizione locale della trasposizione funeraria del tema del banchetto, è posto un coperchio in cui il defunto è connotato come simposiasta dall'abbigliamento con il solo mantello e dalla patera, ma ha abbandonato la posa con il busto molto sollevato degli antichi cinerari, per assumere l'atteggiamento quasi supino, con la testa sostenuta da una mano, documentato dai contemporanei esemplari tarquiniesi. Il carattere ancora sperimentale dell'officina, evidente nello schematismo dei panneggi e nel trattamento anatomico a grandi masse tese, si stempera un po' nel S. di Ravnthu Vetanei al museo di Berlino (Herbig, n. 4), databile all'inizio del III sec. a.C. La cassa, imitante una klìne riccamente decorata, accoglie anche un fregio con pantere alate contrapposte ai lati di una Scilla. La defunta, completamente avvolta nel manto, è reclinata su due alti cuscini, ha le gambe incrociate e il braccio destro ripiegato sul petto secondo un modello attestato, un quarto di secolo prima, da un s. femminile della Tomba II dei Curuna a Tuscania (Moretti, Sgubini Moretti, 1983), significativamente appartenente a una Calisnei il cui gentilizio riconduce verso l'Etruria settentrionale (Monteriggioni). Ancora a questa prima fase di elaborazione dei s. chiusini, che si conclude entro il primo quarto del III sec. a.C., appartiene un s. maschile al museo di Palermo (Herbig, n. 74). La severa cassa tipo Holztruhe e il coperchio con il personaggio assai reclinato all'indietro ribadiscono la dipendenza dai modelli meridionali, ma questo, come i suoi predecessori, propone una caratteristica del coperchio che sarà sempre tipica delle officine chiusine: la mancanza delle testate a doppio spiovente e il piano d'appoggio rappresentato da una tavola rigida, che non assume le morbide forme di uno stroma, ma su cui sono i cuscini, spesso ripetuti anche da piedi.

Il trentennio fra il 280 e il 250 a.C. è il momento in cui la sepoltura entro s. sembra godere il maggior favore in un distretto culturale tradizionalmente dedito all'incinerazione, quale l'Etruria settentrionale. Ora infatti si ha la possibilità di registrare l'isolata apparizione di s. anche a Volterra e a Populonia. Gli esemplari volterrani (Herbig, nn. 260-261), appartenenti a esponenti della gens Flave di probabile origine meridionale, hanno casse a intelaiatura lignea con piedritti scanalati desinenti a zampa leonina, spesso imitati nella produzione delle urne, e coperchi con figura semirecumbente con testa sollevata verso l'alto e, solo nell'esemplare femminile, gambe parallele. Mal conservati sono gli esemplari populoniesi, rappresentati da un frammento di torso virile dalla necropoli ellenistica di Poggio Malassarto e da una testa rinvenuta nella necropoli di Le Grotte (Fedeli, 1983).

A Chiusi in questa fase l'officina dei s. comincia a manifestare una più marcata omogeneità produttiva. I tre esemplari a essa ascrivibili, tra cui il noto «Obeso» del museo di Firenze (Herbig, nn: 161, 21, 12), pur mostrando ancora una certa sproporzione nei corpi allungati, raggiungono la posizione del personaggio con il busto decisamente rivolto verso l'osservatore, secondo la formulazione maturata nelle officine tarquiniesi, attraverso la quale ora si attua il recupero dell'antico concetto del defunto come banchettante. L'unitaria impronta di «scuola» è data dalle teste, marcatamente tondeggianti e con volti dai grandi occhi ombreggiati dalle arcate sopracciliari profonde e le bocche piccole, con labbra poco modellate e leggermente spioventi, una somma di caratteri che sembra attuare una commistione tra i principi strutturali della ritrattistica medio-italica e la ricerca espressiva del primo ellenismo. Il s. più recente del gruppo, l'esemplare femminile del museo di Chiusi, databile intorno alla metà del III sec. a.C., tramanda il più antico esempio di cassa con il fregio narrativo, sul modello del Fassadentypus meridionale. Il tema prescelto, che in seguito avrà grande fortuna nel repertorio delle urne chiusine, si identifica con una galatomachia il cui canovaccio fondamentale deriva probabilmente dalle pitture del Tempio di Atena Nike sull'Acropoli di Atene, celebranti la vittoria sui Galati riportata dal re Antigono di Macedonia a Lisimachia nel 278 a.C. Nell'iniziale seconda metà del III sec. a.C. la scuola chiusina raggiunge la sua «fase matura» (Colonna, 1993). Le prime opere a essa ascrivibili sono il S. di Laris Sentinate Larcna (Herbig, n. 14) e una cassa al museo di Palermo (Herbig, n. 78), evidentemente eseguite dalla stessa mano che, per le casse figurate, sceglie un Hallentypus con fregio superiore di rosette. La figura del coperchio conservato, esposta al museo di Chiusi con una testa in gesso eseguita nell'800, propone una trattazione anatomica piuttosto superficiale, ma un buon rendimento del panneggio e soprattutto una migliore articolazione della figura per l'accentuata flessione delle ginocchia che, visivamente, mitiga l'ancora eccessivo allungamento del corpo. A diverse personalità d'artisti, operanti nell'ultimo quarto del secolo, sono attribuibili un s. maschile della Collezione Casuccini a Palermo (Herbig, n. 77) e uno femminile a Chiusi (Herbig, n. 13) esibenti sulla cassa, il primo, l'agguato di Achille a Troilo, e il secondo, il diffuso tema della hierosỳlia. Particolare interesse rivela il coperchio maschile acefalo, per l'efficacia del rendimento anatomico. Allo stesso filone produttivo, soprattutto per la cassa priva di cornice, con il mito di Achille e Troilo, è riconducibile il s. di Thania Sentinati Cumerunia al Louvre (Briguet, 1993); la sontuosa figura sul coperchio trova il suo momento più alto nel volto, interpretato secondo i canoni dell'arte attica tardo-classica. E questo il momento in cui un confronto fra le opere della scuola chiusina e quelle del distretto tarquiniese rivela la netta superiorità delle prime. Ancora alla fase matura si riferiscono un s. a Firenze (Herbig, n. 19) con cassa «a portico» dotata di un fregio dorico di triglifi e rosette e decorata da un'affollata scena di galatomachia; il coperchio presenta, nel lato di testa, un'elaborata sponda ispirata a un tipo raffinato di klìne. Il culmine della fase matura, intorno al 200 a.C., è rappresentato dal S. di Hasti Afunei a Palermo (Herbig, n.76). La figura sul coperchio mantiene una solida e corretta struttura anatomica nonostante le infinite vibrazioni del panneggio e il carico ridondante dei gioielli. La cassa, distaccandosi dalla tradizione ormai consolidata, propone una scena di commiato della defunta dalla famiglia, in vista della Ianua Orci da cui irrompe un demone femminile (Colonna, 1989-1990).

Già nei primi anni del II sec. a.C. la produzione chiusina dei s. manifesta segni di crisi, mentre cala la lavorazione delle urne in alabastro in favore delle più economiche urne fittili. Il mutamento è legato alle trasformazioni sociali in atto nel territorio, trasformazioni che determinano l'ascesa di categorie di limitate possibilità economiche e culturali. Di questa fase finale della produzione in pietra è testimone il S. di Vel Tlesna (Herbig, n.15), con defunto rappresentato come banchettante ma abbigliato con tunica e mantello.

Tra la fine del III e gli inizî del II sec. a.C., la residua committenza di rango anche a Chiusi volge la richiesta verso le officine coroplastiche. Significativo esempio della svolta è offerto dalla Tomba dei Larcna, più nota come Tomba di Larthia Seianti, nella necropoli della Martinella, donde provengono tre esemplari fittili (Colonna, 1993; Gentili, 1994). A questi si aggiungono il S. di Hanunia Seianti da Poggio Cantarello e quello di Vetus Tius dalla Tomba della Tassinaia. Con quest'ultimo si torna alla piena concordanza fra coperchio e cassa nell'esprimere l'ideologia del banchetto; benché la figura di Vetus Tius sia supina e rechi in mano un rotulo, privo di attinenze con la sfera simposíaca (Gentili, n. A 70), alludono al banchetto le corone conviviali di cui è adorno e le zampe di klìne ben tornite ai lati della cassa. Ancora due zampe di klìne sono dipinte sulla cassa del S. aniconico di Laris Larcna (Gentili, n. A 68), decorata da figure quasi evanidi in cui si può forse riconoscere una scena di commiato o di introduzione all'Ade, spesso ricorrente fra i temi della pittura tarquiniese dell'ultimo quarto del III sec. a.C. (Colonna, 1984). Il tipo del s. fittile con coperchio a quattro falde, due maggiori per i lati lunghi e due minori per quelli brevi, si ripete in un esemplare inornato e di provenienza ignota, esposto a Firenze nella Tomba di Poggio all'Abate a Chianciano, ricostruita nel giardino del museo (Gentili, n. 183). Il vertice della produzione fittile chiusina, tra la fine del III e l'inizio del II sec. a.C., è toccato dai s. delle due Seianti (Gentili, nn. A 66, A 69). Entrambe le matrone, con il busto eretto, lo specchio nella mano sinistra e la destra alzata per sollevare il velo dal capo, richiamano il S. di Hasti Afunei per la cura riservata all'articolazione anatomica, per la trattazione naturalistica del panneggio e la profusione dei gioielli.

Tuttavia il precedente diretto che ha fornito l'ispirazione al coroplasta chiusino è costituito da un coperchio tuscaniese della Tomba dei Treptie (Gentili, n. A 29) che, nei decenni finali del III sec. a.C., inaugura il modello della figura femminile con un braccio sollevato, la cui rarità tra i s. e le urne è la diretta conseguenza delle difficoltà tecniche d'esecuzione. Le casse dei due s. dei Seianti (tra cui quello di Larthia raggiunge livelli di grande cura esecutiva) richiamano genericamente il principio decorativo dell'ordine dorico, con alternanza di triglifi (che nel S. di Larthia divengono pilastrini con capitello eolico) e phiàlai in forma di rosone. Dalla Tomba dei Larcna proviene l'ultimo esemplare di s. fittile chiusino (Gentili, n. A 67), attribuito a una Seianzi Villania dall'iscrizione della tegola di chiusura del loculo. La cassa imita una tinozza con un lato stondato, mentre il coperchio ripropone una figura supina completamente avvolta nel manto da cui sporge solo la mano sinistra appoggiata sul cuscino. La posa, la struttura del corpo del tutto appiattita e il volto largo con i grandi occhi sbarrati trovano un diretto termine di confronto in alcune urne chiusine a stampo prodotte dalla metà del II sec. a.C. in poi, di cui il S. di Seianzi Villania sembra una versione ingigantita e di cui, probabilmente, condivide la cronologia.

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(M. D. Gentili)

Roma. - Il rito dell'inumazione, mai interrotto anche se in determinati periodi retrocesso in secondo piano, garantisce il legame di continuità tra i s. romani e la produzione dei s. greci ed etruschi, rappresentato da una serie piuttosto rada di esemplari. Nella prima metà del II sec. d.C. d'altra parte si registra una sorprendente ripresa nella produzione dei s. in marmo decorati con rilievi figurati, tale da indurre a ipotizzare l'azione di un complesso processo socio-culturale e a parlare di un nuovo inizio nell'arte dei sarcofagi. I più antichi s. a rilievo romani fanno la loro comparsa nella fase tarda della produzione delle urne cinerarie e degli altari cinerari a bordo modanato; da questi gruppi i s. più riccamente decorati, quali il s. Caffarelli, traggono inizialmente le ghirlande, cui si aggiungono in un secondo momento anche le figurazioni a rilievo entro le lunette.

I più antichi s. a rilievo figurato mostrano un fregio con eroti che bevono, danzano o suonano, e possono essere correlati al fregio del tempio consacrato nell'anno 113 d.C. a Venus Genetrix, nel Foro di Cesare a Roma. In tali esemplari si riscontrano quelle caratteristiche che rimarranno costanti in tutta la produzione imperiale. Le casse, che potevano accogliere un corpo in posizione distesa, vengono decorate soltanto sulla faccia anteriore con una composizione a figure accostate una all'altra, che occupano in altezza tutto il campo figurato e si dispongono a ricoprire quasi interamente lo sfondo. In alto e in basso, i s. presentano un listello, ma solitamente nessuna cornice sulle estremità laterali del fregio, segnate dalle stesse figure rappresentate ai margini. Le facce laterali sono per lo più decorate a basso rilievo o non recano alcuna decorazione, mentre la faccia posteriore è liscia. Da ciò si evince che i s. erano concepiti per essere addossati a un muro. Il valore predominante della veduta anteriore è confermato dal fatto che, nella maggioranza dei casi, il coperchio, anche quando assume una rudimentale forma di tetto, presenta sull'orlo anteriore una bassa alzata con maschere angolari e uno stretto campo figurato, che di solito sviluppa ulteriormente il tema del s., ed è a sua volta bordato tutt'intorno da un listello.

Da questo tipo di s., strutturalmente «a facciata», dominante a Roma, si distinguono chiaramente, per l'impianto di tradizione greca, i s. prodotti negli altri due centri di maggiore spicco, Atene e Dokimeion in Frigia, sviluppatisi in contrapposizione ai modelli romani. Essi si differenziano non tanto per le loro caratteristiche strutturali quanto per lo schema decorativo.

Agli inizî della produzione attica i s. sono a forma di casa. Le casse hanno base e cornice modanate, i coperchi presentano forma a tetto a ripidi spioventi, spesso con acroterî angolari. Determinante per la differenza con la produzione urbana è il fatto che i s. fossero concepiti come insiemi unitari e decorati su tutti i lati. All'inizio troviamo anche qui le ghirlande, quindi gli eroti e ben presto tutti gli altri possibili rilievi figurati a soggetto mitologico adatti a decorare tutt'intorno le pareti della cassa, quando il lato posteriore non sia occupato da gruppi araldici di grifoni o simili. Non di rado il lato principale e uno dei lati minori dei s. attici presentano una lavorazione a rilievo più alto rispetto a quella dell'altro lato e della faccia posteriore. Nella loro forma di corpo cubico, quindi, tali s. sono concepiti per una visione diagonale, in modo analogo a quella dei templi greci, di cui erano visibili, a chi accedeva all'area sacra dal pròpylon sensibilmente spostato rispetto all'asse del tempio, le diagonali e i tre angoli delimitanti un lato maggiore e un lato minore. Al contrario, il tempio romano, accessibile da un'entrata assiale, si prestava a una visione frontale. Con i s. microasiatici il confronto con l'architettura templare si spinge ancora oltre, in quanto già intorno alla metà del II sec. d.C. essi sviluppano il tipo a pilastri, che assimila il s. a un heròon.

Nell'ambito della produzione romana il grande s. di Velletri rappresenta una creazione del tutto particolare, in quanto sembra anticipare le caratteristiche strutturali dei s. attici e microasiatici. La sua alta cassa, a forma di casa, poggia su una base modanata, lavorata a parte, e la cassa stessa presenta su tutti e quattro i lati una facciata architettonica a tre zone simile al fondale di un palcoscenico (scaenae frons), mentre il coperchio ha la forma di un tetto a due spioventi sul cui orlo siedono eroti con ghirlande. Questo s., che non ha precedenti né sviluppi successivi, va considerato un'opera di carattere eccezionale, realizzata su commissione, in cui sembrano mescolarsi tratti orientali e occidentali. E la rilevante e insolita testimonianza di una fase sperimentale nell'evoluzione che avrebbe portato alla definizione di determinate tipologie di s., tramandate da ora in poi nelle officine e suscettibili di ulteriori sviluppi stilistici, pur nell'ambito della loro concezione strutturale di base.

Con breve scarto cronologico rispetto all'Asia Minore, anche nelle officine romane si diede inizio alla produzione di s. a colonne, che tuttavia, secondo la concezione strutturale tipicamente romana, erano provvisti di colonne o pilastri soltanto sul lato lungo principale, mostrando in tal modo una facciata ad arcate. Se ne possono distinguere undici tipi.

Oltre a s. a cassa e a colonne, nella produzione romana si incontrano di frequente anche s. a tinozza, ispirati alla forma delle vasche per la pigiatura dell'uva (greco lenòi). Caratteristiche della decorazione di tali s. sono le teste di leoni situate in alto verso le estremità del lato lungo, derivanti dai versatoi di scarico dei torchi, anch'essi foggiati a teste di leone, ma fissati in basso, analogamente agli sbocchi di fontane e ai doccioni. Col tempo, nei s. a tinozza le protomi leonine possono scomparire e la decorazione a rilievo si estende uniformemente dal lato posteriore piatto sui lati brevi convessi e sul lato frontale. La loro evoluzione stilistica procedette di pari passo con quella dei s. a cassa e a colonne.

I soggetti rappresentati sono molteplici, ma di chiara lettura. Oltre a temi funerari, essi spesso mostrano riferimenti più specificamente biografici. Accanto a tematiche ispirate alla vita quotidiana, ne troviamo altre intese a esprimere un'aspettativa di felicità ultraterrena.

La catalogazione e la documentazione dei s. a rilievo nell'ambito del Corpus si è ispirata a un criterio tematico, che in primo luogo raggruppa i soggetti tratti dalla vita umana: battaglia, caccia, nozze, generali, magistrati, filosofi, pastori, circo, banchetto, defunto steso sulla klìne, viaggio sul carro o in nave, attività atletiche, rappresentazioni teatrali, mestieri. Nell'ambito del repertorio mitologico i cicli relativi alle saghe di Troia e di Tebe vennero già distinti dai miti incentrati su singoli personaggi, ordinati alfabeticamente. Tuttavia, per un'esigenza di semplificazione il suddetto criterio di classificazione è stato abbandonato e i miti sono stati ordinati secondo la seguente successione, basata sulla dizione latina dei nomi: Achille, Adone, Enea, Atteone, Alcesti, Amazzoni, Apollo, Ares e Afrodite, Bellerofonte, Dedalo, Dioscuri, Endimione, Ganimede, Giganti, Grazie, Ercole, Ippolito, Giasone,

Ilioupèrsis, Centauri, Cleobi e Bitone, Leda, Leucippidi, Marsia, Medea, Meleagro, Narciso, Neottolemo, Nike, Niobidi, Odisseo, Edipo, Oreste, Orfeo, giudizio di Paride, Peleo e Teti, Pelope, Persefone, Perseo, Fetonte, Prometeo, Protesilao, Rea Silvia, Romolo e Remo, ratto delle Sabine, guerra dei Sette contro Tebe, Teseo, Trittolemo, Inferi. Da questi singoli miti si distinguono altre rappresentazioni sempre radicate nell'ambito mitico, quali la cerchia dionisiaca, i mostri marini, gli eroti, le Muse, le Stagioni, a loro volta articolati in grandi raggruppamenti.

Insieme ai ritratti e ai rilievi storici, i s. rappresentano uno dei generi più importanti della scultura romana. Nel III sec. d.C. essi sono da annoverare tra le più alte realizzazioni artistiche dell'epoca, occupando così il posto che nella prima epoca imperiale era stato riservato ai grandi rilievi storici. Questi sembra abbiano esercitato influssi e stimoli diretti sui s., p.es. nelle processioni consolari, che ricordano la processione dell'ara Pacts, e nelle scene di caccia al leone, da porre in relazione al grande fregio traianeo successivamente reimpiegato nell'Arco di Costantino.

Oltre all'analisi degli aspetti iconografici, per una comprensione della complessa evoluzione dell'arte dei s. romani è necessario interrogarsi sul tipo di rapporto che legava le officine di s. alla tradizione, all'attività di altre botteghe e alla committenza. In effetti i s. romani sono opere eseguite in bottega e in una certa misura rappresentano addirittura una produzione di massa. Tuttavia, non vi sono due s. romani figurati assolutamente identici; ogni esemplare si distingue dagli altri anche all'interno di una stessa tipologia. In tal senso essi possono essere considerati opere d'arte, pezzi unici realizzati in base a una precisa intesa con i committenti e non in serie.

Questa constatazione sembra essere contraddetta dal fatto che in molti esemplari il ritratto del defunto è solo abbozzato. Un confronto tra le diverse casistiche di ritratti incompiuti induce ad accantonare l'ovvia spiegazione che in tali opere, eseguite in serie, il ritratto sarebbe stato ultimato soltanto in un secondo momento, ipotesi che presuppone modi di produzione industrializzata di tipo moderno. Sembra molto più plausibile che i s. venissero ordinati, mentre era ancora in vita, dal committente, che tuttavia non desiderava vedersi ritratto sul proprio monumento sepolcrale; oppure che i ritratti non dovessero affatto essere ultimati per la precisa volontà del committente di essere immortalato in modo aniconico, con i tratti del viso, per così dire, non definiti. Da tali considerazioni riceve ulteriore conferma l'ipotesi che i s. fossero opere eseguite su ordinazione e che le officine dovessero tener conto dei mutamenti del gusto del cliente e della sua posizione sociale. In tal senso, quindi, i s. non sono soltanto testimonianze di uno sviluppo stilistico autonomo. Le cinque fasi in cui si suddivide la produzione dei s. a Roma coincidono, in una certa misura, con determinate epoche storiche: periodo degli imperatori adottivi (98-161), fase tardo-antonina e severiana (161-235), epoca degli imperatori-soldati (235-284), Tetrarchia (284-312), periodo costantiniano e tarda antichità (dal 312).

Lo sviluppo artistico dei s. risulterà meglio comprensibile se, oltre alla differenziazione delle tematiche figurative, si terrà conto dell'esistenza del nesso formale che li unisce. Battaglie storiche contro barbari e battaglie mitiche di Amazzoni sono accomunate dal motivo della mischia tra cavalieri e figure appiedate. Cavalli e cavalieri si incontrano accanto a personaggi appiedati in scene di caccia, ma anche nei miti di Meleagro, Adone, Ippolito e Bellerofonte, nonché nelle scene di caccia al leone e al cinghiale, di carattere apparentemente realistico, sviluppatesi da quelle mitiche. Bighe e quadrighe costituiscono elemento comune nelle rappresentazioni dei miti di Pelope, Proserpina, Fetonte, Endimione, e nella formulazione iconografica, da questi sviluppatasi, dell'incontro di Marte con Rea Silvia. Nei s. con rappresentazioni di ambiente marino si incontrano tritoni, ittiocentauri, ippocampi e simili. Tuttavia, comune al più ampio gruppo di s., sia basati su tematiche mitologiche che con scene di vita humana, è lo schema a file di figure caratterizzate da una severa isocefalia: in linea di massima i s. non prevedono infatti uno spazio vuoto al di sopra delle figure e in basso, al di sotto del campo figurato delimitato dal listello.

Fatte queste premesse, si può procedere ad analizzare il rapporto esistente tra epoche storiche e stili.

Il nuovo impulso dato alla produzione dei s. durante il regno di Traiano (98-117), il primo provinciale salito al trono imperiale, è da porre in relazione a una più forte penetrazione di idee orientali a Roma e a una rivalutazione del corpo umano in una fase di nuova e intensa aspira-

zione alla trascendenza. La trasformazione in seno alla struttura sociale è archeologicamente desumibile proprio dall'aumento delle sepolture in s. in rapporto alla pratica della cremazione, fino allora dominante a Roma. L'evoluzione tipologica dei s. procede di pari passo con la nuova forma di sepoltura. I loro rilievi rispecchiano lo stile classicistico dei rilievi architettonici e decorativi coevi. Non è da escludere l'ipotesi che l'officina che eseguì il fregio con eroti del Tempio di Venere nel Foro di Cesare, ultimato nell'anno 113 d.C., abbia realizzato anche i primi s. con kòmos di eroti. Indubbiamente, la stessa bottega cui sono da attribuire un rilievo funerario decorativo con le fatiche di Ercole proveniente da Velletri e facente parte della Collezione Borgia, oggi a Napoli, e un rilievo da Ostia con lo stesso soggetto al Museo Gregoriano Profano del Vaticano (già Laterano), si assunse il singolare compito di realizzare il grande s. di Velletri, secondo i dettami del committente.

In epoca adrianea ha inizio il processo di rielaborazione e trasposizione di modelli neoattici ed ellenistici, soprattutto dipinti, sul rilievo dei sarcofagi. Parallelamente all'atteggiamento conservatore e filoellenico degli 159.

imperatori Adriano e Antonino Pio culmina sull'arte dei s. il classicismo retrospettivo, che si esprime nella religiosità, nelle allusioni a un ideale eroico e nella rinnovata predilezione per le immagini mitiche. Le figure vengono composte in maniera sciolta e non affastellate. Lo stile è plastico, il rilievo non è scavato; prevale la lavorazione con lo scalpello, il trapano è impiegato come ausilio tecnico, ma i valori chiaroscurali, ottenuti grazie all'impiego di questa tecnica, appaiono introdotti come mezzo stilistico solo con moderazione; la forma della cassa è solitamente bassa e lunga.

I segni della crisi dell'impero, provato dalla guerra contro i Parti nel 162, dall'irruzione dei barbari sulla frontiera del Danubio nel 167, nonché dalle successive guerre di Marco Aurelio contro Quadi, Marcomanni, Iazigi e Sarmati, si riflettono nella produzione dei s. in cambiamenti che interessano sia la forma sia i contenuti, nella seconda parte del regno di Marco Aurelio e all'epoca di Commodo. La fine del periodo di pace garantito dal regno di Antonino Pio produce, negli anni a cavallo tra il 161 e il 193 d.C., un mutamento stilistico che è all'origine della struttura formale post-antica. Si introduce nell'arte un elemento non classico, che in un certo modo, secondo alcuni studiosi, rispecchia i rivolgimenti all'interno della compagine sociale ed etnica dell'impero. Non si può fare a meno di percepire un certo imbarbarimento. Il contrasto esistente fra le attività artistiche della capitale e quelle innovatrici dei centri sviluppatisi nelle provincie conduce, in connessione anche al progressivo declino degli strati sociali elevati e all'accesso di nuove forze dai ceti inferiori tramite la carriera militare, a un allontanamento dalle forme classiche e all'introduzione nell'arte colta di elementi proprî della tradizione popolare. Inoltre, le impressioni immediate prodotte da eventi drammatici - invasioni barbariche, guerre, fame, rivolte, minacce alla sicurezza personale - possono aver indirizzato gli artisti verso la creazione di forme particolarmente espressive comprese sotto la definizione coniata da G. Rodenwaldt di «Stilwandel in der spätrömischen Kunst», ovvero «mutamento dello stile nell'arte tardoromana», dove l'accento è sul concetto di crisi. Oltre che con soggetti mitologici, i s. vengono ora decorati con scene realistiche tratte dalla vita di personaggi romani, ognuna atta a simboleggiare una particolare virtù. Scene di caccia e di battaglia esprimono il concetto della virtus militare ed eroica, la sottomissione di una popolazione sconfitta definisce la clementia, il sacrificio la pietas, il matrimonio tramite la dextrarum iunctio simboleggia la concordia.

Sempre più di frequente, immagini ed elementi stilistici di derivazione greca vengono combinati con un

nuovo linguaggio formale che trova i suoi tratti caratteristici nell'espressionismo, nel mancato rispetto delle proporzioni, nella passionalità e, fondamentalmente, nella trascendenza. L'epoca dei Severi conduce, in due fasi separate da un periodo di stasi in cui ha luogo il consolidamento e la chiarificazione del linguaggio formale, all'affermazione del nuovo stile, che assume validità generale, e alla distruzione della forma plastica; in questo processo trovano espressione figurativa l'affermazione del potere militare nello stato e la disgregazione dell'equilibrio fra rivendicazione del potere ed effettivo potere del princeps, fra l'autorità assoluta del «dominato» e la precaria posizione del singolo imperatore: in breve, vi si trova riflessa l'insicurezza di tutti i rapporti all'interno del sistema di comando romano. In una certa misura tali rapporti si rispecchiano nelle forme inquiete dei s., sfilacciate da un irregolare lavoro di trapano, nel contrastante rapporto proporzionale tra le figure, piccole come bambole o eccessivamente allungate in uno stesso rilievo.

Nel corso del relativamente lungo regno di Severo Alessandro (222-235) e subito dopo, nella produzione dei s. si pone in evidenza il contrasto fra una corrente figurativa caratterizzata da forme grossolane, spezzate, inquiete e un'altra improntata a bellezza delle linee, grandezza interiore e solidità. Quest'ultima, affermatasi pienamente solo nella c.d. rinascenza gallienica, si annuncia con una progressiva monumentalizzazione, con un vistoso aumento delle proporzioni delle figure e un neoplasticismo tendente verso forme simboliche. Nel trattamento «a fiamme» della pettinatura si riconosce il cosciente impiego della tecnica del traforo come fattore stilistico. L'andamento parallelo dei canali lasciati dal traforo e, soprattutto, il virtuosismo del lavoro, perfezionatosi a partire dall'epoca di Commodo, migliorano la qualità formale e parallelamente portano a una spiritualizzazione della figura, due caratteristiche peculiari del classicismo di età gallienica. Nel frattempo, le proporzioni dei s. avevano subito sostanziali modifiche. L'aumento dell'altezza fa perdere loro gradualmente il carattere di casse, accentuando quello di monumento funerario, nel quale la rappresentazione a rilievo acquista particolare importanza. Allo stesso scopo tendono la rinnovata evidenziazione plastica, la standardizzazione della figura umana e l'addensamento della struttura del rilievo; le forme emergono grazie a un profondo intaglio sul piano di fondo del rilievo, dal quale si staglia come una parete di figure. Si riscontrano sorprendenti analogie con l'estetica di Plotino. Nella misura in cui il potere imperiale si indeboliva, emergevano ricchi esponenti della classe degli alti funzionari statali e dei grandi proprietari terrieri, nei quali sono da ricercare i committenti di tali sarcofagi. Essi si appropriano di moduli formali dei rilievi ufficiali, che agli inizi dell'epoca imperiale erano prerogativa del principe. Con il ritorno a forme proprie dei rilievi storici augustei e traianei, essi documentano il loro impegno verso lo stato esprimendo una vita interiore improntata alla filosofia e a un ideale eroico, non più concepito in senso mitico. Probabilmente la differenziazione nell'ambito dei s. con caccia al leone, sviluppatisi intorno al 230 dai s. con scene di caccia mitologica, nei tipi a una e a due scene riflette la differenziazione presente all'interno del ceto elevato romano tra viri docti e viri militares.

Nell'epoca di disordini che seguirono l'uccisione di Gallieno (268 d.C.) si produssero s. ibridi, di proporzioni eccessive e di forma particolarmente allungata, accanto a esemplari bassi. In essi si accentua la tendenza all'irrigidimento; la tecnica dell'intaglio e della levigatura fornisce i presupposti per una linearizzazione e una pietrificazione delle forme, mentre il traforo del tipo a punto e virgola nelle capigliature e nei visi sostituisce le virtuosistiche disposizioni a raggiera delle pettinature. Si afferma una concezione formale stereometrica.

La Tetrarchia segna un decisivo ritorno ai grandi formati e a una produzione di massa di qualità declinante. Divengono usuali le deformazioni espressionistiche, p.es. l'ingrandimento delle teste e delle mani in quanto parti animate ed espressive delle figure. Queste acquistano una crescente incorporeità, messa in risalto da uno stile a traforo punteggiato reso con un tratteggio «a carboncino». Allo stesso modo, caratterizzano questa nuova corrente artistica un'evidente brutalità e una consapevole sgradevolezza, risultanti da un'estrema tendenza alla condensazione mediante la sovrapposizione e l'accalcarsi di tipi di figure e schemi di gruppi. Si assiste, inoltre, a una ripresa di tipi di s. più antichi, anche di soggetto mitologico, ma lavorati nel nuovo stile stereometrico e linearistico. L'ordine e la pace del regno di Diocleziano, imposto in modo inflessibile e violento, sembrano trovare un'evidente corrispondenza nelle caratteristiche formali dei s. tetrarchia.

In quest'epoca la produzione dei s. cristiani assume piena coscienza della sua funzione di dar spazio nei fregi delle casse e dei coperchi al mondo figurativo vetero e neotestamentario; per loro tramite ricevettero nuovo impulso anche i tradizionali soggetti dei s. pagani, come sembrano dimostrare i favori riscossi da s. con soggetti mitologici alla fine del III sec. e lo sviluppo conosciuto nel IV sec. dai s. raffiguranti scene di caccia o la teoria delle stagioni.

Le fasi storico-artistiche della produzione dei s. nel IV sec. non possono prescindere dalla produzione dei s. cristiani. Nella pur compatta serie di s. illustranti battute' di caccia si evidenzia una linea di sviluppo che consente di distinguere una prima fase costantiniana (306/12-324/30), una fase tardo-costantiniana (324/303 70/90) e una fase post-costantiniana (370/90-410/12). La prima fase costantiniana è caratterizzata da un cosciente rinnovamento, da un senso di solidità e da uno stile calligrafico e decorativo. In tale rinnovamento della produzione del rilievo funerario, comparabile alla Regeneratio Imperii, i processi di disgregazione del brutalismo tetrarchico subiscono una battuta d'arresto e si elaborano corpi solidi, quasi cubistici, bei panneggi disegnati coinè a carboncino e teste a prisma. La resa sproporzionata della figura umana ne porta avanti la spiritualizzazione. Mani e teste sono di notevoli dimensioni, mentre i corpi appaiono subordinati. Nel complesso lo stile è pesante e rigonfio. Il lavoro del trapano si concentra soprattutto nella capigliatura.

Con il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli (326), l'arte dei s. si trova a dover fare i conti con la produzione artistica locale. Nei s. di epoca tardo-costantiniana, che denotano un raffinamento proprio all'ambiente aulico, si avverte in modo crescente l'impronta del «bello stile» della nuova capitale. Questa fase è caratterizzata dallo sviluppo di un nuovo tipo di compagine del rilievo, che segna la transizione all'arte bizantina, e che, per analogia con la lavorazione dei coevi vetri diatreta, riceve la definizione di «rilievo a rete». Nelle proporzioni delle figure si notano un allungamento e un marcato arrotondamento delle teste e delle spalle. Tutti i contorni perdono angolosità e spigolosità per divenire curvilinei. Il panneggio, morbido, forma avvallamenti; la spiritualizzazione raggiunge . rapice.' La massima realizzazione dell'epoca* è il s. di Giunio Basso del 359 d.C.

La fase post-costantiniana segna l'esaurirsi della produzione dei s. romani a rilievo. Testimoniata soltanto da esemplari cristiani, è caratterizzata da figure schematizzate e appiattite, contorni irrigiditi, traforo a punti e stile monotono.

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(B. Andreae)

S. cristiani . - Roma e l'Occidente. - L'impostazione della ricerca sui s. cristiani può avvalersi dell'ausilio di un eccellente e non comune strumento di lavoro costituito dal primo volume del repertorio degli antichi s. cristiani (Deichmann, 1967), comprendente gli esemplari provenienti da Roma e da Ostia. Questa raccolta sistematica ha finora dato impulso a numerose ricerche inerenti al rapporto intercorrente tra lo stile e la tecnica di fabbricazione, ricerche che da un lato tendono a chiarire interrogativi concernenti la cronologia e i raggruppamenti e dall'altro permettono di porre nuovi quesiti sulle diverse iconografie e sulla loro esegesi.

La particolare attenzione rivolta ai s. a fregio dell'età costantiniana provenienti da Roma venne ancora accresciuta nel 1974 in seguito all'eccezionale rinvenimento di due esemplari di eccellente qualità, allorché, durante alcuni lavori stradali all'uscita dell'abitato di Trinquetaille presso la periferia di Arles, venne riportato alla luce il sotterraneo di una camera funeraria. Si trattava di tre s. integri, strettamente accostati l'uno all'altro, con le inumazioni intatte (ora nel Musée Lapidaire d'Art Chrétien di Arles). Uno di questi s. è di grandi dimensioni, decorato con scene bibliche disposte a fregio su due registri: esso risultava affiancato da un s. decorato con una scena di caccia, iconograficamente nella tradizione pagana, ma di cronologia avanzata; il terzo s. presenta un fregio con soggetti biblici, con al centro la figura di un orante. In esso era seppellita la matrona Marcia Romania Oelsa - come si evince dall'epigrafe - moglie di Flavius Janurrinus, vir clarissimus, ex consul Ordinarius, il quale aveva ricoperto il consolato nel 328 d.C. Il primo s., lavorato anche sulla fronte del coperchio, reca al centro del

registro superiore un clipeus a forma di conchiglia contenente il doppio ritratto di un anziano con il laticlavio e della sua giovane moglie, mentre entrambi i medaglioni previsti per l'iscrizione sul coperchio sono vuoti. Da un punto di vista stilistico e iconografico questa importante opera si può accostare al s. «dogmatico» del Museo Pio Cristiano (già Lat. 104), il quale è famoso tanto per la scena della creazione di Eva - interpretata dalla vecchia critica in senso trinitario - quanto per l'immediata parentela del suo rilievo con i fregi tardoantichi dell'Arco di Costantino.

L'officina del s. «dogmatico» è stata oggetto di un'indagine rilevante, metodologicamente innovativa, sulla tecnica della plastica dei s. in età costantiniana a Roma. In base a un esame minuzioso delle tracce di lavorazione, K. Eichner è riuscito a individuare i tratti della produzione industriale e i sistemi di distribuzione della manifattura statale, cioè imperiale, della capitale. Lo studioso spiega con convincenti argomentazioni gli enigmatici e differenziati stili del rilievo tetrarchico e costantiniano, che dagli studi di G. Rodenwaldt in poi sono stati riportati all'impiego consapevole - o al mancato impiego - del trapano, come forme condizionate dalla tecnica dei diversi stadi di rifinitura. Di conseguenza l'«intento stilistico» risulterebbe dipendente dalla decisione dei committenti che, a seconda della possibilità economica e del tempo disponibile, si accontentavano di avere s. più o meno elaborati. I risultati degli studi di Eichner, rilevanti anche per l'Arco di Costantino e per la Base dei Decennali, a buon diritto hanno trovato grande considerazione. Eppure rimane sorprendente che anche in cerchie di personaggi abbienti tali rilievi «incompiuti» siano stati accettati come pienamente compiuti e che potessero determinare in maniera così ampia lo stile dell'epoca costantiniana.

Gli interrogativi posti da H. Brandenburg sulla c.d. ars humilis dei cristiani avrebbero condotto lo studioso ad affermare che questo tipo di produzione non sia da imputare in nessun modo a una mancanza di mezzi economici, né sia da interpretare come una caratteristica peculiare dell'umiltà cristiana, bensì si configuri come il tratto distintivo di una tendenza anticlassica, che segnala il radicale cambiamento dell'antica cultura. Questa tendenza venne tuttavia costantemente intersecata da correnti stilistiche per la cui definizione era usuale l'impiego del concetto rivisitato di «rinascenza». Un definitivo giudizio dello sviluppo che, dopo l'esaurimento della produzione di massa di età costantiniana, subì senz'altro l'influenza orientale, non è in alcun modo ancora possibile. Già nel 1954 F. Benoit aveva impostato criticamente lo studio di s. cristiani tardoantichi di Arles e Marsiglia, almeno in parte superato dal lavoro di P. Borracino sui s. del primo periodo cristiano di Marsiglia uscito nel 1973 e dall'articolo di P. A. Février del 1978 sulla plastica funeraria di Arles, mentre B. Briesenick ha pubblicato un catalogo tipologico e cronologico dei s. della Gallia sud-occidentale; infine H. Schlunk e M. Sotomayor hanno messo a disposizione, attraverso un repertorio critico, il materiale spagnolo, formato non solo da pezzi importati da Roma, ma anche da quelli di produzione regionale, in parte derivanti direttamente dai modelli orientali. Per il resto si deve attendere il completamento dei volumi del repertorio dedicati all'Italia, alla Francia e alla penisola iberica.

Una serie di nuovi studi si occupa di problemi iconografici e iconologici. I. Rilliet-Maillard e D. Stutzinger si rifanno in vari modi allo sviluppo dei ritratti, per arrivare a determinare una cronologia sulla base dei mutamenti delle forme. Ma particolarmente ricca di risultati - oltre alla ricerca di E. Dinkier, sul tipo del Cristo-Asclepio sui frammenti policromi - si è dimostrata l'indagine su due scene bibliche: la creazione dell'uomo e la resurrezione dei morti. H. Kaiser-Minn rintraccia le prime rappresentazioni cristiane della creazione dell'uomo, elaborate sul modello dei s. con Prometeo, su s. urbani di età costantiniana. Viene riscontrata un'influenza reciproca sorprendente tra la struttura figurativa pagana tardoantica e quella paleocristiana, riconducendola al patrimonio giudaico di idee diffuso nella letteratura pagana di età imperiale. C. Nauerth, occupandosi delle molteplici forme di rappresentazione cristiana del tema della morte e delle scene di resurrezione, arriva alla conclusione che esse o sono influenzate dall'ambiente oppure erano già state formulate in contesto pagano. Per entrambe le scene si è potuto perciò dimostrare che le leggi del linguaggio figurato erano indipendenti dal contenuto pagano o cristiano e che la tradizione artistico-artigianale non veniva condizionata, nella scelta del proprio mezzo espressivo, rispetto al cambiamento del contenuto figurativo.

Ricco di risultati è lo studio dello sviluppo della scena del gallo del IV sec. d.C. Post ha dimostrato come la scena del gallo, da iniziale rappresentazione di Pietro, dopo il 350 si trasformi in quella di Cristo trionfante attraverso il suo inserimento nelle raffigurazioni della «traditio». Il gallo non è più soltanto un attributo di Pietro nella scena in cui rinnega Cristo, ma si trasforma in simbolo di luce, battaglia e vittoria.

Ravenna, Costantinopoli e l'Oriente. - Si deve a Kollwitz e a Herdejürgen l'elaborazione del repertorio dei s. ravennati, edito nel 1979 con il volume 8,2 del Corpus dei s. antichi.

I s. cristiani qui raccolti vengono considerati i più recenti prodotti dell'importante officina ravennate di s. pagani, che già dal tardo periodo adrianeo produce s. «a cassone» e subito dopo anche s. architettonici. E stato già da tempo constatato che queste forme tipiche nel V e VI sec. furono soggette a un massiccio influsso proveniente dalla capitale dell'impero romano d'Oriente. Fino a che punto si sia trattato della recezione di tipi costantinopolitani non era stato tuttavia possibile verificare sulla base degli esemplari conservati nella capitale. Perciò hanno provocato scalpore due «pseudo-s.» provenienti da una necropoli situata nel quartiere di Istanbul Taşkasap, rinvenuti ancora in situ nel 1958 come lastre di chiusura di sepolture. Questi esemplari hanno innescato una discussione che ha portato nuovi contributi alla conoscenza della scultura funeraria costantinopolitana. Un gran numero di frammenti di rilievi figurati provenienti dalla città e dai dintorni di Istanbul si vennero pertanto a caratterizzare come parti di «pseudo-sarcofagi». Il loro numero è stato accresciuto da molti altri pezzi, in parte ancora intatti, portati alla luce durante scavi e lavori di costruzione. Soltanto alcuni di questi sono già stati pubblicati, come la lastra, di alta qualità formale, articolata in tre nicchie, con raffigurazione di miracoli, proveniente da una camera tombale messa in luce ad Ambarliköy, un luogo costiero situato a 30 km a O di Istanbul (Istanbul, Museo Archeologico, inv. 5769). Per materiale (calcare) e tecnica di lavorazione si può affermare che l'esemplare di Ambarliköy e quelli di Taşkasap provengono dalla stessa officina. La loro datazione può essere con certezza fissata all'inizio del V sec., tanto più che E. Rosenbaum-Alföldi li considera in stretto rapporto con i due s. a colonne provenienti da Adrasso (Balabolu) e databili in età teodosiana. Una cronologia così alta potrebbe convenire anche alle lastre a rilievo da Taşkasap, già datate dallo scavatore intorno al 500 d.C., poiché questa camera tombale si trova all'interno della cinta muraria cittadina eretta all'epoca di Teodosio. In questo contesto deve essere considerato come il ritrovamento più importante e recente (1984) la scoperta di un'altra camera tombale cristiana del V sec. immediatamente davanti a Silivrikapi. La camera con volta a botte è stata ritrovata in perfetto stato e inviolata, adorna di una decorazione vegetale a tralci. All'interno delle camere si trovano cinque sepolture a parete, chiuse da lastre decorate a rilievo. La sepoltura principale si trova rialzata sopra mensole, nella parete di fronte all'ingresso. La lastra di chiusura, l'unica a essere realizzata in marmo proconnesio, è ornata da una croce accuratamente lavorata, affiancata da due thymiatèria (o candelabri). Le altre lastre, poste a coppia lungo le pareti laterali, sono in semplice calcare, probabile indizio del rango inferiore dei defunti. Queste lastre in calcare recano tuttavia una decorazione figurata: a destra della sepoltura principale è rappresentato il sacrificio di Isacco, a sinistra è raffigurata la consegna delle Tavole della Legge a Mosè. In ciascun caso una scena unica occupa per intero la superficie del rilievo. Anche la rappresentazione di Cristo come maestro tra due gruppi di Apostoli, sei per parte, a sinistra accanto all'ingresso, non presenta articolazione del campo figurativo, mentre la lastra collocata a destra dell'ingresso, per la sua struttura tripartita in nicchie corrisponde a quella di Ambarliköy. Al posto delle raffigurazioni di miracoli presenta, sotto l'arcata centrale, una croce su un altare (?) tra due cortine, sotto i timpani a destra e a sinistra una figura maschile nel tipo dell'«orante» e una «orante» con bambino.

Le lastre tombali di Silivrikapi - tenendo conto delle reciproche relazioni all'interno dello spazio della tomba - sono state probabilmente scolpite solo dopo essere state messe in opera. Questo fatto potrebbe spiegare le irregolarità e i difetti su altri rilievi del gruppo quali conseguenze dell'occultamento a opera delle lastre vicine (cfr. p.es. il rilievo Mendel n. 668 della basilica di Studios).

Una sicura analisi critica di questo gruppo di manufatti non è tuttavia ancora possibile, finché il volume del repertorio dei s. cristiani comprendente Istanbul e il resto dell'Oriente verrà edito. Punto di riferimento a oggi non ancora superato resta la raccolta dei s. di Costantinopoli dei secoli IV-VI, presentata nel 1962 da G. Bovini. A essa si riallaccia anche l'importante contributo di F. W. Deichmann sulla problematica dei s. costantinopolitani e ravennati. Lo studioso riconosce negli «pseudo-s.» di Taşkasap lavori provinciali di officine tracie e bitinie, le quali copiavano le fronti di s. marmorei di più alta qualità. In base a ciò si può concludere che questi s. con figure disposte tra colonne o sotto nicchie devono essere attribuiti a botteghe costantinopolitane che avrebbero accolto la tradizione dei s. microasiatici a colonne, prodotti a Dokimeion (Frigia) fino all'incirca al 270 d.C. Attraverso Costantinopoli questa tradizione sarebbe poi pervenuta a Ravenna (v.).

Le lastre di chiusura provenienti da Ta§kasap forniscono la prima testimonianza dell'esistenza di s. a colonne a cinque comparti a Costantinopoli. Più frequentemente però si incontra il tipo tripartito in cui è presente un'arcata tra due frontoncini (Ambarliköy, Silivrikapi), oppure un frontoncino tra due arcate. S. cristiani in calcare di questo tipo (con motivi simbolici in luogo della decorazione figurata) sono stati trovati già intorno al 1900 da A. M. Ramsay in Isaura-Dorla e da lui resi noti (JHS, XXIV, 1904, pp. 260-292). Finora non si ha alcun confronto con le rimanenti provincie dell'Asia Minore e del Vicino Oriente.

Se si fa eccezione per i due s. teodosiani a colonne, la consueta tabula ansata compresa tra due croci, corone o rosette caratterizza la modesta decorazione dei monumenti cristiani, anche di quelli della necropoli di Adrasso in Isauria, pubblicata da E. Alföldi-Rosenbaum nel 1980.

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(C. Belting-Ihm)