SATELLITI

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

SATELLITI

Giovanni Moreno

(XXX, p. 901; v. anche luna, XXI, p. 650; App. I, p. 806; III, I, p. 1006; IV, II, p. 362)

Caratteristiche generali. -Nell'ultimo ventennio, grazie soprattutto alle sonde Voyager, sono stati scoperti numerosi nuovi s. del sistema solare. Oggi se ne conoscono complessivamente 61: 3 appartengono ai pianeti interni (2 a Marte e uno alla Terra); 57 ai pianeti esterni (16 a Giove, 18 a Saturno, 15 a Urano e 8 a Nettuno); uno a Plutone. La tabella a conclusione della trattazione fornisce i dati principali relativi a ciascuno di essi. Oltre ai s. veri e propri, intorno ai pianeti esterni orbita una miriade di piccoli corpi, che formano i cosiddetti anelli.

Proprietà dinamiche dei satelliti. - Nel moto dei s. si riscontrano alcune significative regolarità: 1) le orbite sono, in generale, quasi circolari e giacciono press'a poco nel piano equatoriale del pianeta di appartenenza. Soltanto 13 s. hanno orbite inclinate di oltre 5° rispetto a tale piano: gli 8 s. più esterni di Giove (Leda, Himalia, Lisitea, Elara, Ananke, Carme, Pasifae e Sinope), i 2 più esterni di Saturno (Giapeto e Phoebe), i 2 più esterni di Nettuno (Tritone e Nereide) e l'unico di Plutone (Caronte); 2) in grande maggioranza, i s. percorrono le loro orbite in senso diretto (cioè antiorario); fanno eccezione 7 dei s. già menzionati (Ananke, Carme, Pasifae, Sinope, Phoebe, Tritone e Caronte), che si muovono nel senso retrogrado (orario); 3) tutti i s., dei quali sia stato possibile misurare la velocità di rotazione, hanno rotazione sincrona, cioè il loro periodo di rotazione è uguale al periodo di rivoluzione intorno al pianeta: essi pertanto ruotano, come la Luna intorno alla Terra, rivolgendo al pianeta sempre lo stesso emisfero. Le caratteristiche 1) e 2) rendono il moto dei s. simile a quello dei pianeti intorno al Sole: anche questi, infatti, hanno orbite quasi circolari, poco inclinate rispetto al piano equatoriale del Sole, e si muovono nel senso diretto. La terza caratteristica è quella prodotta dalle forze di marea esercitate dal pianeta, le quali rallentano la rotazione di un s., fino a portarlo nello stato di rotazione sincrona. Queste forze di marea hanno l'ulteriore effetto di allontanare progressivamente il s. dal pianeta, se il suo moto è diretto.

Il fenomeno è illustrato in fig. 1, nel caso della Terra e della Luna. Poiché la Terra ruota su se stessa con una velocità angolare maggiore di quella con cui la Luna descrive la sua orbita, il rigonfiamento di marea A tende a precedere la Luna, sicché, con la sua attrazione gravitazionale, ne accelera il moto; il rigonfiamento B produce un effetto opposto, ma di entità minore perché, essendo più lontano, esercita sulla Luna una forza più debole. Il risultato è che la Luna aumenta la sua velocità orbitale e di conseguenza si porta su un'orbita più lontana dalla Terra. Per ragioni analoghe, un s. in moto nel senso retrogrado tende, invece, ad avvicinarsi al pianeta.

Agli effetti delle forze di marea si attribuiscono anche altre caratteristiche dinamiche dei satelliti. Per es., le orbite di tre dei maggiori s. di Giove (Io, Europa e Ganimede) sono spaziate in modo che il periodo di rivoluzione di Europa è doppio di quello di Io, mentre il periodo di Ganimede è, a sua volta, doppio di quello di Europa. Non si tratta di una coincidenza casuale, ma di un fenomeno di accoppiamento (o risonanza) gravitazionale prodotto dalle forze di marea che agiscono fra questi corpi: se il periodo di rivoluzione di uno dei tre s. dovesse cambiare, gli altri due modificherebbero i loro periodi ripristinando la situazione di equilibrio iniziale. Si è anche trovato che i tre s. si muovono sulle rispettive orbite in modo che le loro longitudini λ soddisfino sempre la relazione di Laplace: λlo−3 λEuropa+2λGanimede=180° (che implica, fra l'altro, che i s. non possano mai trovarsi tutti e tre allineati dalla stessa parte di Giove).

Alcuni s., detti coorbitali, condividono una medesima orbita. Il caso più notevole è quello di Teti, Calipso e Telesto, che descrivono intorno a Saturno la stessa orbita, quasi perfettamente circolare, dando vita a una singolare situazione dinamica: infatti, i due s. più piccoli, Calipso e Telesto, occupano sull'orbita i punti di Lagrange, cioè le posizioni di equilibrio stabile per un corpo soggetto all'attrazione gravitazionale di Teti e del vicino Dione.

Origine dei satelliti. - Si può dire che i sistemi di s., che circondano i pianeti maggiori, costituiscano dei veri e propri sistemi solari in miniatura. E ciò non soltanto per le analogie dinamiche fra i s. e i pianeti rilevate sopra, ma anche perché la distribuzione spaziale dei s. ricorda, sotto vari aspetti, quella dei pianeti intorno al Sole.

La fig. 2 confronta, per es., la struttura del sistema solare con quelle dei sistemi di Giove e di Saturno. Nella parte A della figura, i pianeti, rappresentati da cerchi di raggio proporzionale alle rispettive dimensioni, sono riportati in funzione della loro distanza dal Sole (in unità astronomiche, u.a.). Nelle parti B e C sono mostrati grafici analoghi per i sistemi di Giove e di Saturno, avendo scelto in ciascun caso, come riferimento, uno dei s. interni, posto convenzionalmente alla distanza unitaria. Si nota che, in tutti e tre i sistemi, nei pressi del centro si trovano oggetti di piccole dimensioni, seguiti, a distanze intermedie, da quelli più grandi e, a distanze ancora maggiori, da altri piccoli. Nel caso di Giove, vi è poi un'altra analogia, ancor più significativa, col sistema solare: infatti, i 4 s. maggiori (Io, Europa, Ganimede e Callisto) presentano densità decrescenti all'aumentare della distanza dal pianeta, proprio come accade per i pianeti all'aumentare della loro distanza dal Sole.

Le proprietà precedenti inducono a pensare che i sistemi di s. abbiano avuto un'origine simile a quella del sistema planetario (v. pianeti, in questa Appendice). Intorno ai nuclei di condensazione dei pianeti esterni dovettero formarsi delle ''mini-nebulose'', analoghe alla nebulosa solare, dalle quali, per accrescimento collisionale, derivarono i vari satelliti. Nella mini-nebulosa di Giove, in particolare, il riscaldamento provocato dal collasso gravitazionale fu così forte da ostacolare, nella regione più interna, la condensazione del vapore acqueo: ciò spiega perché i s. che vi si formarono (Io ed Europa) consistono prevalentemente di silicati e hanno una densità maggiore di Ganimede e Callisto, condensatisi nella regione esterna più fredda. La teoria, che abbiamo ora delineato, lascia aperti numerosi problemi. Essa, per es., non è in grado di spiegare l'origine dei s. in moto retrogrado e, più in generale, di quelli le cui orbite sono fortemente inclinate rispetto al piano equatoriale di un pianeta. Si pensa che questi s. siano planetesimi che, avvicinatisi al pianeta, rimasero catturati dal suo campo gravitazionale. Per superare le difficoltà dinamiche di tale processo, s'ipotizzano, poi, altri fenomeni: per es., le perturbazioni prodotte sull'orbita del planetesimo dal campo gravitazionale di altri s. o l'attrito con un'atmosfera planetaria assai più estesa e densa di quella attuale. Un processo di cattura viene proposto anche per spiegare l'origine dei due piccoli s. di Marte (v. oltre).

L'origine della Luna. - La Luna costituisce un caso anomalo nel sistema solare: essa, infatti, è l'unico grande s. appartenente a un pianeta interno. Nel passato, sono state proposte tre diverse teorie per spiegare l'origine del nostro s.: 1) l'ipotesi della fissione, secondo la quale inizialmente si sarebbe formato un unico pianeta, la Terra: la Luna si sarebbe poi distaccata dalla Terra, quando questa ruotava più velocemente di oggi ed era ancora in uno stato semifluido; 2) l'ipotesi del pianeta doppio, secondo cui la Terra e la Luna si sarebbero formate in modo autonomo e simultaneamente, nel luogo dove oggi si trovano, tramite il processo di accrescimento collisionale; 3) l'ipotesi della cattura, secondo cui la Luna si sarebbe formata in qualche altra regione del sistema solare e sarebbe poi passata nelle vicinanze della Terra, facendosi catturare dal campo gravitazionale di questa.

Le indagini più recenti, tuttavia, hanno dimostrato che ciascuna di queste teorie s'imbatte in difficoltà insormontabili. L'ipotesi della fissione si scontra col fatto che l'attuale momento angolare del sistema Terra-Luna è troppo piccolo per giustificare la rapida rotazione della proto-Terra, che avrebbe condotto alla separazione della Luna; inoltre, la composizione chimica della Luna differisce significativamente da quella del mantello terrestre, dal quale essa sarebbe, in questo caso, derivata. L'ipotesi del pianeta doppio implicherebbe che la Terra e la Luna, essendosi formate simultaneamente nella stessa regione della nebulosa solare primordiale, abbiano una composizione chimica simile, almeno per quanto riguarda gli elementi non volatili: il che, invece, non si verifica (la Luna contiene il 20% di silicio e il 10% di ferro, mentre la Terra contiene il 14% di silicio e il 33% di ferro). D'altra parte, l'analisi delle rocce lunari ha rivelato che la proporzione fra l'isotopo più leggero dell'ossigeno (16O) e quelli più pesanti (17O e 18O), che vi sono contenuti, è identica a quella delle rocce terrestri. Poiché è noto dallo studio delle meteoriti che questo rapporto è diverso in corpi formatisi in altre regioni del sistema solare, ciò prova che la Luna ha avuto origine nei pressi dell'orbita della Terra, in contrasto con quanto ipotizzato dalla teoria della cattura.

Le ipotesi sull'origine della Luna, formulate negli ultimi anni, utilizzano elementi delle teorie tradizionali, cercando di sintetizzarli in scenari più complessi che siano in accordo con i dati sperimentali. I maggiori consensi vanno attualmente all'ipotesi dell'impatto, secondo la quale la Terra, ai primordi della sua storia, sarebbe stata investita da un gigantesco planetesimo. Parte dei materiali espulsi nell'urto sarebbero andati dispersi nello spazio; altri, invece, rimasti in orbita intorno alla Terra, si sarebbero successivamente aggregati, formando la Luna. Questa, in origine, si sarebbe trovata assai vicina alla Terra, ma le forze di marea, agendo col meccanismo di fig. 1, l'avrebbero progressivamente allontanata fino a portarla sulla sua orbita attuale. La teoria dell'impatto supera le difficoltà dinamiche dell'ipotesi della fissione ed è congruente con la maggior parte delle caratteristiche chimiche della Luna (per es., la percentuale di ferro, le abbondanze relative degli isotopi dell'ossigeno). Rimangono, però, da spiegare alcune differenze di composizione che sono state riscontrate fra le rocce terrestri e quelle lunari.

I satelliti di Marte. - L'esplorazione dei due piccoli s. di Marte, Fobos e Deimos, iniziata negli anni Settanta con le sonde Mariner 9 e Viking, è proseguita nel 1989 con la missione sovietica Fobos 2, che ha fornito, fra l'altro, l'immagine di Fobos in fig. 3. Tuttavia, la sonda ha fallito il suo principale obiettivo, avendo perduto il contatto radio con la Terra prima dell'incontro più ravvicinato con Fobos. Fobos e Deimos hanno forma irregolare e una superficie fittamente ricoperta dai crateri, prodotti negli impatti meteoritici. Assai simili fra loro, i due s. hanno poco in comune con Marte. La loro densità relativamente bassa (∼2g/cm3) e il colore oscuro della superficie (che ha una riflettività di ∼5%) indicano che essi sono costituiti da materiali carbonacei e hanno, quindi, una composizione simile a quella dei pianetini di classe C (v. pianeti, in questa Appendice). Si pensa che Fobos e Deimos abbiano tratto origine dalla frammentazione di un unico oggetto, appunto un pianetino di tipo C, che, passando in prossimità di Marte, sarebbe rimasto catturato dal campo gravitazionale del pianeta. Fobos, d'altra parte, si trova su un'orbita instabile: esso si avvicina lentamente a Marte, sul quale, secondo i calcoli degli scienziati, dovrebbe cadere fra 50 milioni di anni.

La Luna. - L'esplorazione diretta della Luna, con le missioni sovietiche Lunik e quelle statunitensi Apollo, si è conclusa alla fine degli anni Settanta. Tuttavia, l'elaborazione dell'enorme mole di dati raccolti è proseguita fino a oggi, conducendo a ulteriori progressi nella conoscenza del nostro satellite. Qui discutiamo solo la struttura interna e la storia geologica della Luna, rimandando a geologia planetaria (App. IV, ii, p. 38) per le caratteristiche del suolo e delle rocce.

Struttura interna. - Le informazioni sulla composizione chimica e sulla struttura della Luna sono state ottenute da parecchie fonti, che qui nel seguito analizzeremo separatamente.

Densità: la densità media della Luna (3,33 g/cm3) è ∼60% di quella terrestre. Ciò implica che la Luna sia più povera di elementi pesanti, quali il ferro e il nichel, che sono i principali costituenti del nucleo della Terra. La composizione chimica della Luna rassomiglierebbe, piuttosto, a quella del mantello terrestre, che ha una densità quasi identica. Tuttavia, l'analisi diretta ha mostrato che le rocce lunari contengono alcuni elementi (per es., il titanio) in misura diversa rispetto alle loro analoghe terrestri (la qual cosa, come già si è detto, porta a escludere che la Luna sia una porzione del mantello terrestre separatasi dalla Terra).

Terremoti lunari: la struttura interna della Luna è stata investigata con gli esperimenti sismologici (attivi e passivi) realizzati nelle missioni Apollo, utilizzando gli stessi metodi coi quali si studia l'interno del nostro pianeta. L'attività sismica sulla Luna è assai debole: quasi nessuna delle scosse registrate ha superato il secondo grado della scala Richter, mentre l'energia liberata complessivamente dai terremoti lunari è circa cento miliardi di volte minore di quella dei terremoti terrestri nello stesso periodo di tempo. A parte le scosse dovute agli impatti meteoritici e quelle provocate artificialmente dagli astronauti con l'esplosione di cariche, i terremoti lunari osservati erano tutti molto profondi: gli ipocentri, situati a profondità fra 600 e 1000 km, si concentravano, per la maggior parte, in due fasce sismiche, entrambe situate dalla parte rivolta verso la Terra. Le modalità di propagazione delle onde sismiche hanno condotto a individuare, nel sottosuolo, due superfici di discontinuità principali. La prima, a profondità variabili fa 50 e 130 km, separa la crosta, costituita soprattutto da rocce anortositiche leggere (densità 2,9 g/cm3), dal sottostante mantello, costituito da materiali più pesanti−peridotiti−(densità 3,3 g/cm3). La seconda, a una profondità di circa 1000 km, separa il mantello dall'astenosfera, la quale probabilmente ha una composizione chimica simile a quella del mantello, ma in essa le rocce si trovano in uno stato semifuso (come è dimostrato dal fatto che le onde sismiche trasversali vengono fortemente attenuate quando attraversano questo strato).

Gravimetria: lo studio delle traiettorie dei s. artificiali in orbita lunare ha dimostrato che il campo gravitazionale della Luna ha delle irregolarità. Esso è più intenso in vicinanza dei grandi mari, costituiti da basalti, più pesanti (densità 3,3-3,4 g/cm3) delle rocce anortositiche che formano la maggior parte della crosta. I dati gravimetrici e sismici indicano che lo spessore dello strato basaltico dei mari varia fra 5 e 20 km. Queste concentrazioni di materiali più densi, che danno origine alle anomalie del campo gravitazionale, sono state denominate mascon (dall'ingl. mass concentration).

Flusso di calore: le misure effettuate nel 1979, durante l'ultima missione Apollo, hanno indicato che la superficie lunare è attraversata da un flusso di calore, proveniente dall'interno, di 0,02÷0,03 W/m2 (cioè fra la metà e un terzo del flusso di calore terrestre). Si tratta di un valore relativamente alto, data la piccola massa della Luna che, se confermato dai futuri esperimenti, avrebbe due importanti implicazioni. Da una parte, esso indicherebbe che la Luna contiene un quantitativo di elementi radioattivi percentualmente maggiore rispetto alla Terra (ciò perché il decadimento di tali elementi è l'unica fonte interna di energia plausibile); dall'altra, dimostrerebbe che, già a profondità dell'ordine di 1000 km, si supera la temperatura di 1000°C, alla quale le rocce, in accordo con i dati sismici, devono trovarsi in uno stato semifuso.

Concludendo, le varie osservazioni discusse sopra conducono alla determinazione della struttura interna della Luna, qual è rappresentata schematicamente in fig. 4. In essa si distinguono i tre strati principali già nominati: la crosta, il mantello e l'astenosfera. La crosta è più sottile dalla parte della Terra, dove, in media, è spessa ∼60 km, che non sul lato opposto dove è spessa ∼100 km. Vi sono inglobati i mari, aventi uno spessore di 5÷20 km, che si concentrano quasi tutti nell'emisfero rivolto verso la Terra. Le incertezze maggiori riguardano la regione più interna: non è chiaro, infatti, se la Luna possegga, come la Terra, un nucleo di ferro e nichel: tuttavia, se esiste, esso è certamente molto piccolo, dato il basso valore della densità media.

Storia geologica. - Per datare le varie strutture osservate sulla superficie lunare (e, quindi, ricostruire la storia geologica del nostro s.) si utilizzano due metodi: l'analisi della densità di craterizzazione del suolo e il metodo delle datazioni radioattive.

Data la distribuzione dei crateri, prodotti dagli impatti meteoritici, nelle varie regioni, si definisce densità di craterizzazione del suolo il numero di crateri, aventi un diametro maggiore di un dato valore, che si trovano sull'unità di superficie (come unità di superficie si assume di solito un milione di km2). La densità di craterizzazione della superficie lunare è tutt'altro che uniforme: in generale, essa è maggiore negli altopiani (le regioni più elevate e di colore chiaro) che nei mari (le regioni pianeggianti e oscure). Gli altopiani sono addirittura ''saturati'' di crateri, cioè il loro numero non può aumentare perché i nuovi crateri cancellano alcuni dei precedenti. È dunque evidente che gli altopiani si sono formati prima dei mari. Tuttavia, per stabilire l'età delle diverse regioni, occorrerebbe conoscere come è variata attraverso il tempo l'intensità del bombardamento meteoritico al quale è stata sottoposta la Luna. Non disponendo di questa informazione, l'analisi della craterizzazione del suolo non consente, da sola, di giungere a datazioni assolute.

Il metodo delle datazioni radioattive, usato per stabilire l'età delle rocce terrestri, è stato applicato ai campioni di suolo lunare ottenuti con le missioni Apollo e Lunik. È risultato che i campioni provenienti dagli altopiani hanno, generalmente, età comprese fra 4 e 4,2 miliardi di anni, mentre quelli provenienti dai mari fra 3,2 e 3,9 miliardi di anni. Combinando questo metodo con quello dell'analisi della densità di craterizzazione del suolo, è stato possibile stabilire l'età anche di strutture non esplorate dagli astronauti.

La storia del nostro s., quale risulta da tutte le indagini svolte, può essere riassunta come segue. Circa 4,6 miliardi di anni fa, la Luna, appena formatasi, cominciò a raffreddarsi, generando una primitiva crosta solida. Tuttavia, le rocce che allora ebbero origine sono andate quasi tutte distrutte nell'intenso bombardamento meteoritico, che si abbatté su tutti i corpi del sistema solare nelle prime fasi della sua vita (v. pianeti, in questa Appendice): infatti, solo pochissimi dei campioni di suolo degli altopiani, che sono stati analizzati, risalgono a 4,4 e, forse, a 4,6 miliardi di anni fa. La pioggia di meteoriti si attenuò quasi bruscamente 3,8 miliardi di anni fa: gli ultimi due impatti più catastrofici furono quelli che scavarono i bacini del Mare Imbrium (il più vasto dei mari lunari) e del Mare Orientale. Proprio mentre stava per concludersi il bombardamento meteoritico più intenso (∼3,9 miliardi di anni fa) ebbe inizio una fase di attività vulcanica: immense colate di lava basaltica si riversarono nei bacini dell'emisfero rivolto alla Terra, creando i mari (fig. 5). Le eruzioni, che diedero origine ai mari, erano di tipo ''lineare'', cioè la lava, invece che da una bocca centrale, fuorusciva da fessure lunghe parecchi chilometri, che si aprivano nel terreno (caratteristiche simili, sulla Terra, hanno le eruzioni dei vulcani islandesi). Le montagne vulcaniche sulla Luna, invece, sono rare: fra le poche, sembrano esserci le colline Marius, situate nell'Oceanus Procellarum (fig. 6). Per quel che riguarda l'origine del vulcanismo lunare, si pensa che il magma eruttato provenisse da zone situate a profondità di 100÷400 km: la fusione delle rocce, al di sotto della crosta, potrebbe essere stata provocata dall'energia liberata in conseguenza degli impatti meteoritici (e questo spiegherebbe perché l'attività vulcanica ebbe inizio proprio durante le ultime fasi della grande pioggia meteoritica che investì la Luna).

Una questione controversa è la ragione per cui i mari sono quasi tutti concentrati nell'emisfero lunare rivolto alla Terra: probabilmente nell'altro emisfero non sono avvenute eruzioni perché ivi la crosta solida aveva uno spessore maggiore. Si pensa che le eruzioni vulcaniche siano cessate intorno a 3,2 miliardi di anni fa, dal momento che nessuno dei campioni di rocce analizzati risale a un'epoca più recente. La Luna sarebbe così entrata in una lunghissima fase di quiescenza. Ciò tuttavia non esclude che qualche forma di attività endogena sia proseguita più a lungo ed, eventualmente, persista ancora oggi: ciò sarebbe suggerito dalla rivelazione di tracce di gas radioattivo radon in prossimità di alcuni crateri di origine vulcanica (infatti il radon, prodotto dal decadimento dell'uranio, decade a sua volta rapidamente in altri elementi, sicché la sua presenza in superficie indica che esso è fuoruscito di recente attraverso fessure apertesi nelle rocce). Sembra comunque certo che, negli ultimi 3 miliardi di anni, la topografia del suolo lunare sia cambiata ben poco, salvo che per la formazione di alcuni nuovi crateri prodotti dagli impatti meteoritici: fra questi, Copernico (che ha un'età di ∼900 milioni di anni), Aristarco (∼250 milioni di anni) e Tycho (∼2 milioni di anni).

I satelliti di Giove. - L'esplorazione dei s. di Giove, iniziata nel 1973-74 con le sonde Pioneer, è proseguita con Voyager 1, Voyager 2 e Ulisse, che hanno visitato il sistema gioviano rispettivamente nel marzo 1979, luglio 1979 e febbraio 1992. Nel prossimo futuro, ci si aspetta di ottenere nuovi dati dalla sonda Galileo (che è stata lanciata nel 1989 e raggiungerà Giove nel 1995) e da Cassini (lancio previsto nel 1997). I s. di Giove più interessanti sono i quattro maggiori, detti galileiani: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Per quanto riguarda la composizione chimica, Io ed Europa (le cui densità sono rispettivamente 3,5 g/cm3 e 3,0 g/cm3) devono consistere quasi interamente di materiale roccioso, mentre Ganimede e Callisto (le cui densità sono rispettivamente 1,9 g/cm3 e 1,8 g/cm3) devono contenere ∼50% di ghiaccio. Ciascun s., d'altra parte, presenta caratteristiche peculiari.

Io ha una crosta di vari colori, che vanno dal bianco al giallo, al rosso, al bruno e al nero (fig. 7). Le aree bianche sono coperte non di ghiaccio, come su altri s. gioviani, ma di anidride solforosa allo stato solido (su Io non è stata trovata traccia di acqua in nessuno dei suoi stati). I colori delle altre zone vengono attribuiti allo zolfo, che, a seconda delle condizioni in cui solidifica, può assumere colorazioni assai diverse. Sulla superficie del s. (caso unico fra tutti i corpi del sistema solare dotati di una crosta solida) mancano completamente i crateri da impatto. Ciò implica un'intensa attività geologica: si calcola, infatti, che, per cancellare tutti i crateri scavati dalle meteoriti, occorre che ogni milione di anni si formi un nuovo strato di crosta spesso almeno un centinaio di metri. Io è l'unico s. che certamente possieda vulcani attivi. Voyager 1, nel marzo 1979, fotografò per primo 8 eruzioni vulcaniche, 6 delle quali erano ancora in corso quattro mesi dopo, quando il s. fu visitato da Voyager 2. In seguito, nuove eruzioni sono state rivelate con osservazioni da Terra, mentre un'attività vulcanica insolitamente scarsa è stata segnalata dalla sonda Ulisse nel febbraio 1992. Le eruzioni dei vulcani di Io sono simili a enormi geyser, con getti che raggiungono altezze di centinaia di chilometri. Il materiale espulso è anidride solforosa: questa in gran parte condensa in piccoli cristalli, che precipitano al suolo, e in parte minore va a costituire una tenue atmosfera intorno al satellite. Oltre che con i geyser, l'attività vulcanica si manifesta con colate di lava, consistenti di zolfo liquido e, probabilmente, di rocce basaltiche (fig. 8). I rivelatori a raggi infrarossi a bordo dei Voyager hanno anche individuato delle ''macchie calde'', dove la temperatura era, in media, intorno ai 20°C (in contrasto con i −150°C delle aree circostanti): al centro di una di queste zone è stato identificato un lago di zolfo fuso (il punto di fusione dello zolfo è 112°C). L'intensa attività vulcanica fa pensare che lo si trovi in gran parte allo stato liquido: probabilmente, al di sotto della crosta solida (spessa al più qualche decina di chilometri) c'è un ''oceano'', formato soprattutto da zolfo e da composti di questo elemento. D'altra parte, il fatto che un corpo, relativamente piccolo come Io, sia tuttora sede di un vulcanismo attivo implica che esso possegga una sorgente interna di energia, diversa da quelle presenti negli altri s. e pianeti. Si pensa che Io sia riscaldato dagli effetti combinati dei campi gravitazionali di Giove e dei s. vicini (Europa e Ganimede). Questi ultimi tendono a impedire che la rotazione di Io sia sincrona. Tuttavia, le maree, indotte da Giove, forzano il s. in questo stato: il risultato è la dissipazione di energia meccanica in calore, che va a riscaldare l'interno del satellite. La potenza (∼100 milioni di MW) che alimenta il vulcanismo di Io è dunque, in definitiva, fornita dall'energia del moto di rotazione di Giove, che viene lentamente frenato dall'interazione col suo satellite.

Europa, pur consistendo, come Io, prevalentemente di roccia, contiene una frazione significativa (forse il 10%) di acqua. Anche la crosta di questo s. dev'essere relativamente giovane: la sua riflettività molto elevata (quasi 70%) implica, infatti, che essa sia formata da ghiaccio quasi puro, pressoché privo di detriti meteoritici. La scarsa craterizzazione del suolo (confrontabile con quella dei continenti terrestri) suggerisce che l'attività geologica sia tuttora in atto. Si pensa che, al di sotto della crosta ghiacciata, si estenda un oceano, costituito prevalentemente di acqua: di tanto in tanto, nella crosta si aprirebbero fessure attraverso le quali l'acqua si riverserebbe in superficie. Le lunghe catene collinose, visibili in fig. 9 come linee scure, si sarebbero formate in seguito alla solidificazione del materiale eruttato.

Anche Ganimede e Callisto posseggono croste ghiacciate: tuttavia, la loro più bassa riflettività (rispettivamente ∼40% e ∼20%) implica che il ghiaccio vi si trovi mescolato a detriti meteoritici. Dei due s., Ganimede ha avuto un'attività geologica più intensa: infatti la sua superficie, a differenza di quella di Callisto che è interamente ''saturata'' di crateri, presenta zone diversamente craterizzate. Su di esso si distinguono regioni oscure, più craterizzate, e regioni chiare, meno craterizzate (fig. 10). Le differenze di colore rispecchierebbero differenze di età: le aree più chiare sarebbero ricoperte da ghiaccio meno contaminato dai detriti meteoritici perché eruttato più recentemente. L'attività vulcanica di Ganimede avrebbe avuto caratteristiche simili a quella di Europa: essa, tuttavia, sarebbe cessata da almeno tre miliardi di anni.

I satelliti di Saturno. - Il sistema di s. di Saturno è stato finora visitato da tre sonde spaziali: Pioneer 11, Voyager 1 e Voyager 2 (incontri avvenuti rispettivamente nel settembre 1979, novembre 1980 e agosto 1981). L'esplorazione futura è affidata alla missione Cassini, che prevede la messa in orbita di un osservatorio intorno a Saturno e l'atterraggio di una capsula su Titano: la sonda dovrebbe essere lanciata, come si è detto, nel 1997 e raggiungere l'obiettivo nel 2004.

Titano è il maggior s. di Saturno (e il secondo in ordine di grandezza, dopo Ganimede, dell'intero sistema solare). È l'unico s. a possedere un'atmosfera densa (Io, come si è detto, ne ha una, ma molto rarefatta): la pressione al suolo, secondo le osservazioni di Voyager 1, è ∼1,6 atmosfere. Il costituente principale dell'atmosfera è l'azoto, con un'abbondanza di oltre il 90%. Come secondo componente, le osservazioni indicano il metano (1÷2%), anche se non si può escludere l'argo (la cui abbondanza non si è ancora riusciti a determinare). È stata poi rivelata la presenza di tracce di parecchi altri gas (etano, propano, acetilene, etilene, acido cianidrico, anidride carbonica, ecc.). La fig. 11 mostra la distribuzione delle nubi e l'andamento della temperatura e della pressione con l'altezza. Si distinguono due strati di nebbie di composizione chimica incerta: uno, sottile, a un'altezza di ∼300 km, e l'altro, più spesso e denso, fra i 150 e i 200 km. Questi banchi di nebbia, di colore arancio e blu (fig. 12), impediscono l'osservazione della bassa atmosfera, dove ci si aspetta la formazione di nubi di metano. Date le temperature esistenti nell'atmosfera e sulla superficie del s., il metano dovrebbe esistere in tutti e tre gli stati (solido, liquido e gassoso), dando luogo a un ''ciclo'', analogo al ciclo dell'acqua terrestre. La meteorologia di Titano potrebbe, pertanto, presentare fenomeni (piogge, nevicate) simili a quelli che si verificano sulla Terra. Grandi incertezze esistono sulla natura della superficie del s.: esso potrebbe essere ricoperto da un immenso oceano, costituito prevalentemente di etano e metano, o possedere, invece, una crosta solida, con bacini di idrocarburi liquidi di dimensioni limitate (laghi, mari). Le condizioni ambientali esistenti su Titano rendono ivi probabile la formazione di molecole organiche complesse: l'esplorazione di questo s., pertanto, è di estremo interesse anche per comprendere meglio l'evoluzione chimica pre-biologica, sviluppatasi sul nostro pianeta.

Altri quattro s. di Saturno, oltre Titano, hanno diametri maggiori di 1000 km: in ordine di grandezza, Rea, Giapeto, Dione e Teti. Rea e Dione presentano un aspetto simile: entrambi hanno una crosta ghiacciata densamente craterizzata, attraversata da caratteristiche strisce chiare (fig. 13). La natura di queste bande è controversa: poiché esse si estendono lungo profonde vallate, è possibile che abbiano tratto origine dalla condensazione di vapore acqueo e altri gas, fuorusciti da fessure apertesi nella crosta. Anche Teti ha una crosta ghiacciata. In essa, a parte i numerosi crateri da impatto, si riconosce un'unica struttura, che rivela un'attività geologica endogena: un canyon, lungo circa 2000 km, largo circa 100 km e profondo 4 o 5 km (fig. 14). Si pensa che questa immensa vallata si sia formata quando Teti, raffreddandosi, solidificò internamente: l'acqua, che costituisce gran parte del s., ghiacciando, dovette aumentare di volume e spaccare la crosta, che era già solida. Non è chiaro, però, perché in questa si sia prodotta un'unica grande frattura, invece che tante più piccole. Giapeto presenta una singolare asimmetria fra i due emisferi: uno è brillante, mentre l'altro è molto oscuro e di colore rossiccio (fig. 15). L'emisfero chiaro ha una crosta ghiacciata, densamente craterizzata, come quella di altri s. di Saturno. L'emisfero oscuro, di cui non si riesce a osservare la craterizzazione, sembra essere ricoperto di sostanze carbonacee, forse simili a quelle che costituiscono molti pianetini. Sull'origine di questi materiali si formulano due ipotesi: una endogena, secondo cui essi sarebbero stati eruttati dal sottosuolo, e una esogena, secondo cui si tratterebbe di detriti meteoritici.

I satelliti di Urano. - L'unica sonda spaziale, che abbia fino a oggi esplorato il sistema di Urano, è Voyager 2, che lo ha attraversato nel gennaio 1986. Quattro dei 15 s. di Urano hanno diametri maggiori di 1000 km: in ordine di grandezza, Titania, Oberon, Umbriel e Ariele. Dai valori delle loro densità, si deduce che essi debbano consistere, come i s. di Saturno, per circa la metà di rocce (silicati) e per l'altra metà di ''ghiacci'' (non soltanto di acqua, ma probabilmente anche di altre sostanze, come metano e ammoniaca). Ariele ha avuto, a quanto sembra, la vita geologica più intensa: essa è documentata sia dalla presenza di grandi canyon sia dal fatto che in certe aree i crateri da impatto più antichi sono stati cancellati. Sugli altri tre grandi s. di Urano vi sono scarsi segni di attività endogena: il più notevole è rappresentato dalle vallate di Titania, visibili in fig. 16.

Interesse maggiore desta, d'altra parte, un s. più piccolo, Miranda. Esso è il s. di Urano meglio studiato perché la sonda Voyager è passata ad appena 36.000 km di distanza dalla sua superficie, fotografandola con una risoluzione di ∼500 metri. Le immagini ottenute hanno mostrato strutture assai eterogenee: valli, fratture, canyon, montagne, crateri. Nella fotografia di fig. 17 si notano, per es., due regioni adiacenti, che hanno caratteristiche e, probabilmente, età molto diverse: quella in alto è densamente craterizzata; l'altra, in basso, è meno craterizzata e solcata da profonde striature. L'intensa attività geologica di Miranda costituisce un enigma, date le dimensioni relativamente piccole di questo corpo. È stato suggerito che esso discenda da un s. primitivo, che sarebbe andato distrutto in un catastrofico impatto meteoritico: i frammenti, rimasti in orbita intorno a Urano, si sarebbero poi riaggregati, formando Miranda. Ciò spiegherebbe perché oggi, sulla superficie del s., si trovino a contatto strutture fra loro diversissime: se le cose sono andate davvero così, ci troveremmo, insomma, davanti a un gigantesco puzzle i cui pezzi sono stati mescolati e poi messi nuovamente insieme in modo casuale.

I satelliti di Nettuno. - Come il sistema di Urano, anche quello di Nettuno è stato finora esplorato soltanto dalla sonda Voyager 2, che lo ha attraversato nell'agosto 1989. Il maggior s. di Nettuno è Tritone, uno dei pochissimi a possedere un'atmosfera. Benché assai rarefatta (la pressione al suolo è di appena 2 × 10−5 atmosfere), quest'atmosfera, formata soprattutto di azoto, è in grado di sostenere una tenuissima nebbia, a quote di 5-10 km. La superficie del s. presenta una notevole varietà di strutture, di cui alcune (per es., le chiazze scure circondate da un bordo brillante, visibili in fig. 18) attendono ancora un'interpretazione soddisfacente. Sulle regioni polari si estendono vaste calotte, costituite da ghiaccio di metano e di azoto. A causa dell'inclinazione del suo asse di rotazione, su Tritone, nel corso dell'anno nettuniano (che dura ∼165 anni terrestri), si verifica un marcato ciclo stagionale, che conduce alla sublimazione periodica di parte dei ghiacci polari. Nel passato, Tritone è stato certamente sede di un'intensa attività geologica, documentata, per es., da estesi terreni terrazzati di chiara origine vulcanica. Questa attività, forse, non è estinta: nelle immagini riprese dalla sonda Voyager sembrerebbe, infatti, di distinguere due ''pennacchi'' di fumo, prodotti da eruzioni vulcaniche in corso.

Il satellite di Plutone. - L'unico s. noto di Plutone è Caronte, scoperto nel 1978 da J.W. Christie, con osservazioni da Terra. La fig. 19 riproduce la fotografia che per prima suggerì la presenza del s., visibile come un rigonfiamento nel disco del pianeta. Anche se è difficile valutare separatamente le masse del pianeta e del suo s., si stima che la massa di Caronte sia ∼1/10 di quella di Plutone: Caronte sarebbe, dunque, il s. più massiccio del sistema solare in proporzione al pianeta cui appartiene (al secondo posto, in questa classifica, è la Luna, la cui massa è ∼1/80 di quella della Terra). Caronte ha, probabilmente, una densità media simile a quella di Plutone, ma la sua crosta è di natura diversa: consisterebbe di ghiaccio d'acqua, mentre quella di Plutone è costituita prevalentemente di metano ghiacciato. Una differenza così netta di composizione chimica fra due corpi vicini, che, presumibilmente, hanno una medesima origine, è sorprendente. La spiegazione più plausibile risiede nella diversa intensità dei loro campi gravitazionali. In origine, sia Plutone che Caronte dovevano possedere un mantello costituito da uno strato più interno di ghiaccio d'acqua e uno esterno di metano solido (che è più leggero dell'acqua). La sublimazione del metano, prodotta dalla radiazione solare, avrebbe creato una tenue atmosfera intorno a entrambi i corpi: tuttavia, mentre Plutone avrebbe trattenuto il metano gassoso, Caronte, dotato di un campo gravitazionale più debole, lo avrebbe perduto. La progressiva sublimazione del metano avrebbe, alla fine, portato allo scoperto lo strato di ghiaccio d'acqua sottostante, che su Plutone, invece, rimarrebbe nascosto sotto la coltre di metano ghiacciato.

Gli anelli dei pianeti. - Caratteristiche generali. - Gli anelli sono insiemi di piccoli corpi (da pochi micron a qualche centinaio di metri), che si muovono come s., su orbite circolari, nel piano equatoriale di un pianeta. Ne sono provvisti i quattro grandi pianeti esterni. Nel passato, l'unico sistema di anelli noto era quello di Saturno. Gli anelli degli altri pianeti sono stati individuati solo recentemente: quelli di Urano nel 1977, osservando da Terra l'occultazione di una stella; quelli di Giove nel 1979, dalla sonda Voyager 1; quelli di Nettuno nel 1984, grazie a un'occultazione stellare (che, tuttavia, rivelò soltanto la presenza di ''archi'' di anello intorno al pianeta) e poi, nel 1989, da Voyager 2. Fra gli anelli dei vari pianeti sussistono importanti differenze. Saturno possiede il sistema di anelli di gran lunga più grande, avente una massa complessiva di 1018 kg (equivalente a quella di un s. di diametro ∼250 km). Seguono il sistema di Urano, con una massa ∼1000 volte più piccola, quello di Nettuno (della cui massa, però, manca una stima) e, infine, quello di Giove, il più tenue, con una massa equivalente a quella di un s. di appena 30 m di diametro. Per quel che riguarda le dimensioni delle particelle, negli anelli di Urano prevalgono oggetti relativamente grandi, con diametri dell'ordine del metro; in quelli di Saturno, oggetti di dimensioni che variano dal centimetro al metro; in quelli di Nettuno e di Giove, grani di polvere assai minuti. Le particelle degli anelli di Saturno hanno un'elevata riflettività (50÷60%), mentre quelle degli altri pianeti sono più oscure: si pensa che le prime consistano soprattutto di ghiaccio e le altre di silicati o di sostanze carbonacee.

Struttura dei sistemi di anelli. - La fig. 20 riassume schematicamente la struttura dei quattro sistemi di anelli. Le distanze, dal centro di ciascun pianeta, sono espresse in raggi planetari. Le frecce indicano il raggio di Roche (v. oltre). Il sistema più semplice è quello di Giove, che consiste di un anello principale circondato da aloni di polvere assai rarefatti. Saturno ha il sistema più complesso. Partendo dall'interno, si distinguono: l'anello D, così tenue da essere invisibile da Terra, che si estende dai limiti dell'atmosfera fino a un'altezza di ∼14.000 km; l'anello C, un po' più denso, che arriva fino a ∼32.000 km; l'anello B, il più luminoso e il più ricco di particelle, che si estende fino a ∼57.000 km; la divisione di Cassini (così chiamata dal nome del suo scopritore), che non è uno spazio del tutto vuoto, come sembra da Terra, ma è anch'essa permeata da particelle sia pure più rade rispetto alle zone adiacenti; l'anello A, che si estende da ∼62.000 km a ∼77.000 km di altezza e ha una densità intermedia fra quelle degli anelli C e B; uno spazio vuoto, largo ∼4000 km, al quale segue l'anello F, sottile e isolato. All'esterno di questi anelli principali, si trovano due aloni di polvere molto tenui (gli anelli G ed E). In contrasto con la loro enorme estensione, gli anelli hanno uno spessore piccolissimo (〈200 m). Riguardo alle dimensioni dei corpi che li costituiscono, l'anello B contiene gli oggetti più grandi, con diametri che possono arrivare fino a qualche centinaio di metri; gli anelli A e C contengono soprattutto oggetti di dimensioni centimetriche; quelli più esterni (F, E, G) soltanto particelle molto piccole, con diametri da un micron a qualche millimetro. Le fotografie a elevata risoluzione scattate dalle sonde Voyager (fig. 21) hanno rivelato che gli anelli hanno una struttura fine, inosservabile da Terra, che consiste di migliaia di sottili ''anellini'' (ingl. ringlets), separati da spazi dove le particelle si diradano. Vi sono anche alcune vere e proprie ''lacune'', praticamente prive di particelle: fra le più notevoli, la divisione di Keeler e la divisione di Encke, che cadono nella regione più esterna dell'anello A. Il sistema di Urano comprende 9 anelli, denominati nell'ordine, procedendo dall'interno verso l'esterno, 6, 5, 4, α, β, η, γ, δ, ε (fig. 22). Fra gli anelli di Saturno e quelli di Urano vi è un'importante differenza: mentre nei primi la distribuzione delle particelle è quasi continua, con brevi lacune, nei secondi le particelle sono concentrate in fasce sottili, inframezzate da vuoti assai ampi. Il sistema di Nettuno, infine, consiste di 4 anelli principali, ancora privi di nomi definitivi. Di particolare interesse è l'anello esterno, nel quale, in certe zone, si presentano addensamenti di polvere (i cosiddetti archi), che, nelle prime osservazioni da Terra, avevano fatto pensare che questo anello avesse una struttura discontinua.

Caratteristiche dinamiche degli anelli. - In assenza di perturbazioni, ci si aspetta che le particelle degli anelli ruotino intorno a un pianeta nel suo piano equatoriale, descrivendo orbite circolari. Infatti, una particella che percorra un'orbita ellittica o inclinata interseca le traiettorie delle particelle vicine, collidendo con queste frequentemente: e il risultato di tali urti è una sorta di attrito che finisce col portare la particella su un'orbita equatoriale e circolare. La struttura degli anelli è coerente, nelle linee generali, con questa aspettativa, anche se presenta certe peculiarità dinamiche che non è facile interpretare. Il problema principale è rappresentato dai bordi netti di alcuni anelli e, più in generale, dalla loro struttura fine, fatta di ringlets, dove si addensano le particelle, alternati a fasce più o meno vuote. Si pensa che la dinamica delle particelle sia influenzata dal campo gravitazionale di s., sia vicini sia (se di massa notevole) lontani. Per es., i bordi dell'anello B di Saturno sarebbero prodotti da effetti di risonanza col s. Mimas. Un ruolo particolare è svolto dai cosiddetti s.-pastore, che, col loro campo gravitazionale, confinano le particelle di certi anelli a una banda assai sottile: un esempio del fenomeno è illustrato in fig. 23, che mostra l'anello F di Saturno ''controllato'' dai due piccoli s., Pandora e Prometeo, situati intorno a esso. L'interpretazione di altre caratteristiche degli anelli rimane controversa: fra queste, la forma ellittica dell'anello ε di Urano e le concentrazioni di particelle che danno luogo agli ''archi'' nell'anello esterno di Nettuno.

Origine degli anelli. - L'esistenza degli anelli è certamente legata agli effetti delle forze di marea che un pianeta esercita sui corpi circostanti. Intorno a ogni pianeta c'è una regione di spazio, entro la quale queste forze sono così intense da disgregare un s. che ivi si trovi, vincendo la forza di attrazione gravitazionale che tiene unite le sue parti. Il raggio di tale regione sferica è detto raggio di Roche, dal nome del matematico francese che per primo ne calcolò il valore. Va precisato che in questo calcolo il s. viene considerato come una sfera liquida, priva di coesione. È pertanto possibile che un s., nel quale le forze di coesione sono invece notevoli, rimanga intero anche se la sua distanza dal pianeta è minore del raggio di Roche. Tuttavia, tutti i s. maggiori si trovano a distanze dai pianeti maggiori di questo limite. Entro il raggio di Roche, vi sono soltanto s. molto piccoli e gli anelli. Questa circostanza è fondamentale per spiegare l'origine degli anelli. Sono state proposte, al riguardo, due teorie principali. Secondo la prima, il materiale che costituisce gli anelli di un pianeta non sarebbe mai riuscito ad aggregarsi in un unico s., perché il processo di accrescimento sarebbe stato bloccato dalle forze di marea. Secondo l'altra teoria, invece, gli anelli deriverebbero dalla frammentazione di corpi più grandi, avvenuta nelle immediate adiacenze del pianeta. Si può pensare che un s., essendosi avvicinato troppo al pianeta, sia stato disgregato dalle forze mareali oppure sia stato distrutto da una collisione catastrofica con una meteorite. In entrambi i casi, i frammenti, trovandosi a distanze dal pianeta inferiori al raggio di Roche, non avrebbero avuto la possibilità di aggregarsi nuovamente in un unico corpo. Non è tuttora chiaro quale dei due modelli sia più attendibile.

Un'altra questione, strettamente connessa all'origine degli anelli, è la loro età. Per gli anelli di Saturno si stima che almeno gli oggetti di dimensioni superiori al centimetro possano permanere sulle loro orbite per miliardi di anni: essi, pertanto, potrebbero avere avuto origine all'epoca stessa (4,6 miliardi di anni fa) in cui si formò il sistema solare. Assai più giovane sembra essere, invece, il sistema di Urano, le cui particelle avrebbero una vita media di soli 100 milioni di anni, a meno che il loro moto non sia stabilizzato da s.-pastore ancora sconosciuti. Infine, nel caso di Giove, bisogna pensare che i suoi tenui anelli vengano continuamente alimentati da nuove particelle, perché queste hanno una vita media di soli 250.000 anni. Vedi tav. f.t.

Bibl.: D. Morrison, T. Owen, The planetary system, Reading (Mass.) 1988; T. Ecrenaz e altri, The solar system, New York 1990; W.K. Hartmann, Moons and planets, Belmont (California) 1993. I risultati delle ricerche correnti vengono pubblicati su varie riviste, fra cui: Journal of Geophysical Research, Planetary and Space Science, Icarus, Science.

Letture di carattere divulgativo: T.V. Johnson, L.A. Soderblom, Io, in Le Scienze, 186 (1984); R.H. Brown, D.P. Cruikshank, I satelliti di Urano, Nettuno e Plutone, ibid., 205 (1985); T.V. Johnson e altri, I satelliti di Urano, ibid., 226 (1987); J.N. Cuzzi, L.W. Esposito, Gli anelli di Urano, ibid., 229 (1987); P. Bianucci, La Luna, Firenze 1988; J. Konoshita, Nettuno, in Le Scienze, 257 (1990); R.P. Binzal, Plutone, ibid., 264 (1990); K.R. Lang, C.A. Whitney, Wanderers in space, Cambridge 1991.

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