Scienza egizia. Cosmogonia, cosmologia e teologia

Storia della Scienza (2001)

Scienza egizia. Cosmogonia, cosmologia e teologia

Jan Assmann
Mark Smith
Jürgen Zeidler

Cosmogonia, cosmologia e teologia

Nell'Antico Egitto non è possibile separare la conoscenza che riguarda le divinità dal sapere cosmogonico, antropologico e politico. Sia quelle forze che gli Egizi hanno venerato come divine sia quei fenomeni nei quali era possibile riconoscere l'azione di tali forze facevano parte in modo strutturale del mondo terreno e non appartenevano a una realtà trascendente.

È necessario distinguere tra due forme sostanzialmente differenti di conoscenza: il sapere magico-rituale e quello letterario-sapienziale. Il primo contribuisce al normale funzionamento del mondo, in quanto accompagna e sostiene un Cosmo che è immaginato come dinamico e intrinsecamente in movimento; esso serve inoltre a incrementare il benessere politico, assimilando le norme sociali e le azioni politiche agli ordinamenti del processo cosmico, nonché a migliorare il benessere individuale (protezione dai demoni, cura delle malattie, culto dei morti) instaurando un simile legame anche nella sfera privata. Il sapere letterario-sapienziale, invece, serve a formare culturalmente gli uomini e a dare loro un orientamento normativo; poiché rientrava in questo tipo di sapere anche la conoscenza delle divinità e dei doveri degli uomini nei loro confronti, il discorso magico e quello sapienziale s'intersecano nella tematizzazione del sapere teologico.

Il sapere magico

di Jan Assmann

Il presupposto per inserire le azioni e i fenomeni terreni nel processo cosmico è quello di possedere un'esatta conoscenza delle forze che agiscono al suo interno. Il sovrano è colui che possiede questa sapienza magica del mondo, necessaria sia al normale funzionamento del mondo, sia ad assimilare gli eventi terreni all'interno di un ordine cosmico. Sulla figura del sovrano esiste un testo che si riferisce al percorso del Sole:

Il re/ adora il dio Sole all'alba/ alla sua apparizione, quando apre la sua sfera,/ quando s'innalza nel cielo come scarabeo/ egli entra nella bocca,/ egli esce dalle cosce/ alla sua nascita del cielo orientale./ Suo padre Osiride lo solleva/ le braccia di Huh e Hauhet [dèi dell'aria] lo accolgono./ Egli prende posto nella barca del mattino./

Il re conosce/ queste parole segrete pronunciate dalle 'anime orientali'/ quando esse fanno musica di giubilo per il dio Sole/ al suo sorgere, alla sua apparizione all'orizzonte/ e quando esse gli aprono i battenti delle porte/ o dell'orizzonte orientale,/ affinché egli possa viaggiare nella barca per le vie del cielo./

Egli conosce le loro nature e le loro incarnazioni/ e la loro sede nella Terra Divina./ Egli conosce il posto dove stanno/ quando il dio-Sole intraprende il cammino./ Egli conosce ogni parola che gli equipaggi dicono,/ quando trainano la barca dell'orizzonte./

Egli conosce la nascita di Ra/ e la sua trasformazione nei flutti./ Egli conosce ogni porta segreta, attraverso la quale il grande dio esce,/ egli conosce colui che è nella barca del mattino,/ e la grande immagine nella barca della notte./ Egli conosce i tuoi approdi all'orizzonte/ e i tuoi percorsi nella dea del cielo. (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 20)

Questo testo elenca tutto ciò che il re deve sapere per un'unica, seppur decisiva azione: l'adorazione mattutina del dio Sole. Egli conosce la natura del processo cosmico, la sua articolazione in fasi, il modo in cui si presenta nello scenario delle costellazioni e il suo significato salvifico di rinascita. Egli conosce le creature partecipi, le loro azioni, i loro discorsi, le loro condizioni di vita. Infine, egli conosce anche l'ambito spaziale degli eventi, le porte celesti, le barche, gli approdi, i percorsi di marcia. Egli deve conoscere tutto ciò per poter intervenire efficacemente nel processo cosmico con il suo discorso di adorazione. Egli desidera contribuire alla riuscita di questo processo, per portare armonia fra il mondo degli uomini e la riuscita cosmica, e tutto ciò gli è possibile, in quanto conosce il senso di salvezza del processo e lo esprime in forma rituale. E non è poco quello che ottiene: "io ho sconfitto Apofi per te e ho dato via libera alla tua barca, così che essa non s'incagli in uno dei banchi di sabbia di Apofi durante il grande viaggio", egli dice al dio Sole (Apofi è il nemico del dio Sole, che come serpente minaccia di far arrestare la barca solare) (Kitchen 1975-90, VI, 24.9-10). Il sovrano è il protettore di Ra-Harachti, che sconfigge il suo nemico attraverso la forza salvifica [ʒḫw, in seguito interpretato come akhu, "forza-akh"] del proprio discorso, colui che consente alla barca di scivolare verso la lontananza del cuore (Assmann 1970, p. 68). Akhu è l'espressione egizia che indica l'efficacia di questo sapere. Essa deriva da una parola, akh, che come verbo significa 'essere potenti, efficaci' e come nome 'spirito trasfigurato': si tratta quindi di una concezione del potere strettamente connessa con i defunti, in quanto è in grado di oltrepassare il confine tra la vita terrena e l'oltretomba. I defunti possiedono la capacità di agire al di fuori dell'oltretomba, sulle cose terrene, mentre il re e i sacerdoti da lui incaricati hanno il potere di entrare in relazione con i defunti e le divinità funerarie. Questo potere è preferibilmente esercitato per mezzo delle parole. Attraverso 'la forza-akh sulla sua bocca', ossia grazie alla recitazione dei testi, il sovrano mantiene il mondo in movimento e in ordine. Questo specifico sapere è codificato nei testi, i quali descrivono il processo cosmico e includono i brani che devono essere recitati durante il culto. Il sapere rituale, che abilita all'esercizio della forza-akh, fa certamente riferimento a questo mondo, anche se sempre suddiviso in terreno e ultraterreno.

Il sovrano e i suoi rappresentanti, i sacerdoti addetti al culto solare, non sono spettatori passivi del cammino del Sole. Ventiquattro ore su ventiquattro viene celebrata la 'liturgia oraria', che accompagna il Sole mediante recitazioni: un culto del tempo, un calendario ritualizzato, che rendono evidente il carattere drammatico della concezione egizia del mondo. Per gli Egizi il kósmos non è statico, non si tratta, infatti, di uno spazio ben ordinato, bensì della riuscita di un processo, il quale è continuamente messo in discussione; per questo essi temevano non tanto la possibilità che un giorno il Sole non sorgesse più, quanto che andasse perduto il senso sacrale del processo: si tratta quindi di un officium memoriae. Gli Egizi devono appellarsi alla loro memoria per mantenere presente questo sapere nella sua sacrale efficienza. Il mondo, mantenuto in movimento, è un universo dotato di significato, è il mondo del linguaggio, della conoscenza, dei rapporti e delle immagini, una lettura antropomorfa del Cosmo, che corrisponde a un'immagine cosmomorfa degli ordinamenti umani.

Il sapere magico relativo al Cosmo non serve soltanto al sacerdote addetto al culto solare per mantenere il Sole in movimento e rendere l'ordinamento politico del paese partecipe della riuscita di questo evento, ma serve anche al mago per utilizzare la salvifica forza-akh a scopo privato, soprattutto per la guarigione di una malattia: oltre a ciò, egli può addirittura usare questo sapere per arrestare il cammino del Sole, o almeno può minacciare di farlo. Poiché in un dramma, dove tutto è in relazione e dove tutto è in gioco, non esistono isolati casi sfortunati, il mago, con il giusto incantesimo, può inserire delle disgrazie nel contesto del processo cosmico e così gli dèi dovranno intervenire, in qualità di guaritori e di salvatori, semplicemente per impedire il minaccioso arresto del mondo ed eliminare l'elemento di disturbo.

La barca solare riposa e non prosegue,/ il Sole rimane fermo nella sua posizione di ieri./ Il sostentamento è senza barca, il tempio chiude,/ questa malattia manterrà il disturbo/ allo stesso posto di ieri./ Il demone della tenebra vaga, i tempi non sono separati./ Le figure dell'oscurità non si lasciano più scorgere./ Le sorgenti sono chiuse, le piante si seccano,/ la vita è sottratta ai vivi/ fino a quando Horo non sarà guarito da sua madre Iside/ e così il paziente. (Klasens 1952, pp. 31-32, 57, 96)

Le cure magiche trattano la malattia come se fosse un'invasione del caos, alla quale si cerca di rimediare mediante l'invocazione delle forze dell'ordine che hanno creato il mondo e che lo mantengono in movimento; per tale motivo il sapere magico è quello relativo alla creazione: esso mobilita la conoscenza cosmogonica, che sta nella continua riuscita del processo cosmico. Il sacerdote addetto al culto solare non fa niente altro che mantenere attivo questo stesso processo.

Una parte dei testi che codificano il sapere magico ci è pervenuta trasformata. Si tratta di cosmografie utilizzate per la decorazione delle tombe regali del Nuovo Regno, il cui scopo era da un lato quello di dotare il sovrano delle conoscenze necessarie per prendere parte, dopo la morte, a quel percorso solare che durante la vita era stato possibile grazie a queste stesse conoscenze, e dall'altro lato servivano a paragonare simbolicamente il luogo del sepolcro sotterraneo con il cammino notturno intrapreso dal Sole attraverso l'oltretomba. Proprio questo cammino viene rappresentato nella maggior parte di queste composizioni testuali e figurative, collocandolo all'interno di una mappa dell'oltretomba. Il più antico e il più classico di questi Testi oltremondani ('classico' nel senso che tutti gli altri derivano da esso) è l'Amduat (Hornung 1963-67), la cui funzione è specificata nel titolo stesso:

Conoscere gli esseri dell'oltretomba,/ conoscere gli esseri segreti,/ conoscere le porte e i sentieri, attraverso cui cammina il grande dio [il dio Sole],/ conoscere ciò che viene fatto,/ conoscere ciò che è nelle ore e le loro divinità,/ conoscere il passare delle ore e le loro divinità,/ conoscere le loro formule di trasfigurazione per Ra,/ conoscere ciò che egli grida loro,/ conoscere coloro che prosperano e coloro che vengono annientati.

Si tratta quindi di un testo che in primo luogo vuole codificare, sistematizzare e trasmettere il sapere. Nel titolo, il termine 'sapienza' o 'conoscenza' è ripetuto nove volte, mentre nel trattato liturgico-teologico sul sovrano inteso come sacerdote del culto solare questa stessa parola è usata otto volte per enumerare gli argomenti che riguardano le fasi mattutine del percorso solare.

Nell'Amduat sono contenuti anche gli argomenti che riguardano le fasi notturne. Si tratta comunque del medesimo sapere: siamo sempre di fronte alle codificazioni di quelle conoscenze magiche che secondo gli Egizi erano necessarie a mantenere il percorso del Sole. Dal modo in cui queste conoscenze sono annotate e ci sono pervenute si potrebbe concludere che si doveva trattare di una conservazione del sapere estremamente esclusiva e rigorosamente controllata. Per tal motivo nel Nuovo Regno le cosmografie compaiono quasi esclusivamente nelle tombe regali e al loro interno è continuamente sottolineato il carattere ermetico del sapere occulto. Amduat significa il testo segreto dell'oltretomba, che non è conosciuto da nessun uomo ma solo dagli eletti.

Nell'Amduat lo spazio degli Inferi è diviso in 12 parti, corrispondenti alle 12 ore notturne: una raffigurazione in cui al tempo e allo spazio è data la stessa misura e in cui il tempo risulta essere il principio di articolazione dominante. In questo si manifesta il primato del tempo all'interno del concetto egizio del Cosmo, concepito in primo luogo come 'processo', vale a dire come ente evolventesi nel tempo, e poi come spazio. Il dio Sole attraversa l'oltretomba in barca. In ognuna delle 12 divisioni orarie è presente la barca solare, e quindi non viene descritto un momento particolare, ma l'intero corso. Ogni cerchia oraria è tripartita in senso orizzontale; nella fascia di mezzo viaggia la barca del dio Sole, di solito raffigurata su un corso d'acqua ma in parte anche sulla sabbia, mentre in quella superiore e in quella inferiore sono mostrate e descritte le creature incontrate dal dio Sole durante il suo viaggio, delle quali sono presi in considerazione soprattutto i discorsi e le azioni. Non si tratta tanto della cartografia di uno spazio, quanto piuttosto della coreografia di un rituale e proprio per questo si tratta di una descrizione che corrisponde alla concezione egizia del mondo. Il mondo è per natura caos e il Cosmo ‒ sia per gli uomini sia per gli dèi ‒ trae origine dalle celebrazioni collettive del rituale cosmico.

La raffigurazione si basa sull'idea che il corso del Sole sia simile a un viaggio in barca attraverso il cielo e l'oltretomba, e tale idea è elaborata in due direzioni.

La prima di queste due direzioni, che può essere chiamata 'specificazione', è caratterizzata dalla meticolosità e dalla dovizia dei dettagli. La magia è considerata una scienza esatta ed è questo aspetto del pensiero magico che per noi è particolarmente sorprendente. Non solo sono descritti spazi che si sottraggono a ogni possibile osservazione ed esperienza, ma la cosa singolare è che essi siano descritti così precisamente. A volte sono infatti indicate le misure esatte delle dimensioni delle ore. La larghezza è di 120 iteru (1 iteru [ı̓trw], detto anche 'miglio egizio', equivale a 10,5 km ca.), la lunghezza è di 309 iteru; di conseguenza il percorso notturno del Sole è lungo complessivamente 12×309 iteru=3708 iteru (38.934 km ca.). A questo punto risultano 120 iteru per la 'porta occidentale', attraversata dal Sole prima di scendere nell'oltretomba e, presumibilmente, lo stesso numero di iteru per la corrispondente 'porta orientale'. Secondo il calcolo di J. Zeidler risultano 254 iteru (2667 km ca.) per questo mondo e 3708 iteru (38.934 km ca.) per l'oltretomba, che corrispondono a 3962 iteru (41.601 km ca.) per la loro somma (Zeidler 1997). Ci si chiede come gli Egizi siano pervenuti a queste cifre, se si tratti cioè di speculazioni su numeri simbolici oppure su calcoli sofisticati e su estrapolazioni eseguiti a partire da dati astronomici conosciuti e da misurazioni geografiche. Notoriamente, nell'antichità l'arte del rilevamento topografico era considerata la grande conquista degli Egizi, che erano stati in grado di stimare l'intera lunghezza dell'Egitto in 106 iteru (1113 km ca.). In questo caso, tuttavia, non è tanto in questione la specificazione dello spazio, quanto quella degli avvenimenti. Il viaggio notturno del Sole è suddiviso in fasi, le quali sono illustrate sotto forma di costellazioni e di scene, alle quali prende parte una grande quantità di esseri e di divinità. Solo nell'evento del tramonto del Sole risultano coinvolti 124 esseri identificati per nome. Queste creature, e i loro nomi, non sono altro che personificazioni di quegli aspetti parziali in cui viene suddiviso il tramonto del Sole da parte di una scienza della natura cosmoteistica. L'Amduat individua 908 esseri coinvolti nel viaggio notturno, mentre la Litania di Ra, un altro di questi Testi oltremondani, distingue 75 aspetti assunti dal dio Sole durante la notte. Il rituale delle ore e gli affini riti solari scompongono la corsa del Sole in 24 fasi, alle quali corrispondono 24 aspetti del dio Sole. L'ottica cosmoteistica opera come un microscopio nell'intento di specificare; essa scompone il processo cosmico in una fantastica e impressionante quantità di componenti differenziate.

La seconda direzione assunta dal sapere magico mira alla 'concentrazione', ossia a ricondurre continuamente tutti gli eventi, nelle loro diverse scene e figure, a poche e unitarie idee di salvazione. È questo rapporto con l'efficienza salvifica dell'evento, sotto forma di rituale, che in primo luogo attribuisce un significato al tutto in generale e poi conferisce il carattere di un'interpretazione alla descrizione volta a specificare. Al centro si trova l'idea di un doppio superamento che è compiuto attraverso il rituale del viaggio notturno del Sole: il superamento del male, che nella forma del serpente Apofi minaccia di far arrestare la barca solare, e il superamento della morte. Entrambi sono manifestazioni del caos: si tratta di due aspetti dello stesso evento.

Il superamento del male è l'aspetto attivo-transitivo orientato verso l'esterno. Qui il dio Sole appare come il sovrano del mondo, che attraverso la propria parola sovrana crea l'ordine, amministra la giustizia e protegge. Da questo punto di vista il percorso solare è un processo in senso giuridico, una contesa giudiziaria nella quale sono regolati i conti con il male e il Sole è scagionato. Attraverso questo processo, il mondo diviso, divenuto ambivalente a causa della presenza del male, viene continuamente unificato, ossia reso governabile, sicuro e abitabile.

Il superamento della morte è l'aspetto passivo-intransitivo del viaggio notturno. Qui il percorso è assimilato a un processo biologico, che il dio Sole subisce di persona invecchiando, morendo e rinascendo. Il mistero della rinascita solare è posto al centro di tutti questi Testi oltremondani e, più in generale, rappresenta il dato salvifico centrale della religione egizia. A partire da questo punto di vista, l'intero Cosmo appare in una specie di prospettiva salvifica, come un accadimento soteriologico; la preminenza del tempo rispetto allo spazio è ancora evidente. Mentre il Greco ammira l'armonia del tutto, l'Egizio è affascinato dal continuo processo di giustificazione e rinascita. Il significato del mondo gli viene dischiuso nell'evento, nel processo, del movimento solare: un evento in cui il Cosmo gli appare come la quintessenza della pienezza di vita ‒ in grado di superare la morte ‒ e della potenza dell'ordine ‒ capace di esiliare il caos.

Attraverso questo rapporto con l'idea di salvezza, la visione discriminante diventa un atto di comprensione identificativa. L'uomo si riconosce nel Cosmo; è la sua morte che qui viene superata, la sua ambivalenza tra bene e male che qui viene annullata, il suo disordine che qui viene domato, il suo dominio che qui viene esercitato. A lui non interessa la connessione di causa ed effetto, l'organizzazione del processo sulla base di leggi proprie, visto che individuarle equivarrebbe a spiegare; egli è interessato maggiormente al senso soteriologico degli eventi intesi come azione e come impeto di vita. Questo è un atto di comprensione. Il Cosmo non viene spiegato ma compreso; esso racchiude un messaggio, che riguarda l'uomo, e un significato che egli può rendere attivo dentro di sé.

La scienza cosmoteistica della Natura è una questione di identificazione speculativa. Adorando le forze ordinatrici che governano il Cosmo, l'uomo mobilita il Cosmo in sé stesso; egli desidera comprenderlo per prendervi parte e cooperare con esso. Com'è affermato esplicitamente nell'Amduat, "Colui che conosce ciò è un'immagine del grande dio". Tuttavia non si tratta solo di sapere. Varianti di questa promessa recitano: "Colui che compie ciò…". Sapere e agire (gnõsis e prãxis) sono interscambiabili: il sapere cosmoteistico è applicato all'azione, è savoir faire, è la conoscenza dei riti che mantiene in moto il mondo. Il rito appartiene alla magia e alla mistica. Il mondo non soltanto è interpretato come una concatenazione di azioni divine, come un rituale celebrato dagli dèi, ma questa interpretazione viene anche inscenata in modo rituale.

In Cina e in Egitto la 'cosmicizzazione' rituale del mondo ha prodotto formazioni culturali e corpora scientifici di incredibile longevità. Come in Cina, anche in Egitto l'individuazione di un'armonia tra le cose divine e quelle umane riveste soprattutto un carattere politico; è lo Stato che fa da mediatore fra queste due sfere e le mette in una relazione di rispecchiamento reciproco, come dire che la sapienza magica del cosmoteismo è un sapere connesso con il potere.

Il sapere letterario non magico e l'immagine del mondo secondo Akhenaton

di Jan Assmann

Esiste un testo che rappresenta un'immagine completamente diversa del mondo e che risale al Medio Regno o persino alla X dinastia, ossia intorno al 2100. In esso il processo cosmico riceve per gli uomini il suo significato, non per analogia ma per causazione intenzionale. Il Cosmo è uno spettacolo diretto verso una meta: tutto accade in base al desiderio espresso dagli uomini.

Sono ben provvisti gli uomini, bestiame di dio./ Per compiacerli, egli creò cielo e Terra,/ vinse la voracità dell'acqua e creò l'aria, affinché essi possano vivere./ Sono la sua immagine, scaturiti dal suo corpo.

Egli sorge per il loro piacere,/ per loro creò le piante,/ il bestiame, gli uccelli e i pesci, affinché si nutrano./ Uccise i suoi avversari e procedette contro di loro, poiché/ progettavano una ribellione.

Per compiacerli fece apparire la luce,/ affinché vedessero, intraprese il suo viaggio./ Si eresse come una cappella attorno a loro. Quando essi piangono, egli ascolta./ Creò per loro dei sovrani e dei potenti per nascita, per rafforzare la schiena del/ debole.

Creò per loro la magia come arma, affinché respingessero la forza degli avvenimenti,/ vegliando su di loro giorno e notte./ Ha ucciso l'incurvato sotto di loro,/ come un uomo uccide suo figlio per amore del fratello./ Dio conosce ogni nome. (Quack 1992, p. 78 e segg.)

Il processo cosmico è perciò un avvenimento il cui senso si basa sul fatto che è rivolto al bene degli uomini. Essi non hanno alcun bisogno di riprodurre ritualmente un tale processo per poter prendere parte alla sua riuscita. Essi sono già partecipi e devono solo riconoscere con gratitudine questo fatto. Il senso del Cosmo è dunque chiaro e manifesto; non vi sono segreti, né misteri.

La coesistenza di questa rappresentazione del mondo con l'immagine propria dei testi magico-cultuali si chiarisce bene attraverso la diversità delle trattazioni.

Insegnamento per Merikara rappresenta una tradizione essoterica del percorso solare, che è opposta a quella esoterica dei testi magico-cultuali e che ritroviamo anche nel grande Inno ad Amon:

Sia salutato Ra, signore della Maat,/ colui che mantiene celato il suo scrigno, signore degli dèi,/ Khepri al centro della sua barca,/ colui che ordina e grazie a ciò gli dèi nascono,/ Atum che crea l'umanità,/ che distingue la sua essenza e crea il suo sostentamento,/ separa le sue qualità l'una dall'altra.

Colui che esaudisce la supplica di chi si trova nell'angustia,/ dal cuore premuroso verso chi lo chiama,/ colui che salva il timoroso dalla mano della violenza/ e colui che giudica tra povero e ricco;/ signore della conoscenza, sulle cui labbra è la parola creatrice./ Il Nilo scorre per compiacerlo,/ un signore della buona inclinazione, grande nel favore./ Quando egli si manifesta l'umanità risorge./ Dà libero corso ad ogni occhio/ ciò che può venire creato nelle acque primordiali./ Grazie al suo splendore permette la presenza della luce,/ essi gioiscono della bellezza degli dèi,/ i loro cuori risorgono quando lo vedono. […]

Colui che crea le erbe che mantengono in vita il bestiame/ e l' "albero della vita" per gli uomini,/ colui che permette ai pesci di vivere nel fiume/ e agli uccelli di volare nel cielo./ Colui che offre l'aria a chi è nell'uovo;/ colui che mantiene in vita il piccolo del serpente,/ colui che crea il luogo nel quale l'insetto vive,/ e allo stesso modo vermi e pulci;/ colui che si preoccupa dei topi nelle loro tane/ e colui che mantiene in vita i coleotteri in ogni bosco./ Sia salutato colui che tutto crea,/ l'unico con i suoi molti rami [raggi];/ colui che trascorre la notte vegliando, quando l'intero mondo dorme/ e crea ciò che giova al suo gregge,/ Atum, colui che permane in tutte le cose,/ Atum Harakhti. (papiro Cairo 58038, in Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 87)

Akhenaton si riallaccia a questa tradizione letteraria non magica, quando, alla metà del XIV sec., respinge l'immagine tradizionale del mondo e delle sue divinità sostituendola con una priva di divinità, di miti e di riti magici. Anche per Akhenaton il mondo deriva dall'agire pienamente consapevole di un dio, accanto al quale però non vi sono più altre divinità. Questo dio è il Sole, che con la sua luce produce la visibilità, il calore e le forme percettibili e, con il suo moto, crea il tempo, lo sviluppo, la formazione e la cessazione, insieme a tutto ciò che esiste.

Tu crei il Nilo nell'oltretomba/ e lo conduci quassù verso i tuoi amati,/ affinché l'umanità si mantenga in vita, come tu l'hai creata./ Tu sei signore di tutta quanta [l'umanità], colui che per essa si affatica./ Anche per le terre lontane tu crei il sostentamento di vita:/ tu hai collocato un Nilo in cielo, così che esso scenda a loro/ e le onde battano contro le montagne come l'oceano,/ così che i suoi campi siano ebbri nelle loro località./ Come sono saggiamente ordinati i tuoi progetti, tu signore del tempo! (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 92, 90-100)

Qui non vi è più alcun riflesso, alcuna analogia e alcun segreto, tutto è una pura e naturale evidenza, e le immagini mitiche vengono rifiutate. Invece dell'antropomorfismo proprio della comprensione mitico-magica, ci troviamo di fronte all'antropocentrismo di una spiegazione teleologica: il mondo in quanto oggetto è parte della creazione di dio. Non v'è alcuno che esista al di fuori della luce e del tempo; l'unica fonte di tutti gli esseri è il Sole che tutto crea: "Tu trai da te milioni di creazioni, dall'Uno:/ città e paesi,/ terra, strada e fiume" (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 92, 115-117). Con ciò il mondo non viene più compreso, ma spiegato.

Akhenaton ha trovato il principio unico al quale poter ricondurre tutti i fenomeni, l'unica causa in base alla quale tutto può essere spiegato in quanto effetto; da ciò egli sviluppa un sapere che non è soltanto diverso dal punto di vista contenutistico ma anche da quello strutturale. Egli non si pone in modo complementare accanto al sapere magico tradizionale, come fanno le tradizioni letterarie alle quali si ricollega, bensì ne prende il posto, soppiantandolo completamente. Non ci si deve lasciare ingannare dalla forma innologica dei testi di Amarna, né dal fatto che questi testi servissero indubitabilmente per il servizio divino: si tratta sempre di codificazioni di un sapere il cui stile enumerativo non lascia alcun dubbio. Tuttavia questo sapere ha un'altra forma: esso non è né ermetico, né magico e respinge la copiosità delle immagini e delle allegorie del cosmoteismo. Akhenaton si attiene strettamente alla realtà visibile e quando vi scopre qualcosa di oscuro, non attribuisce alcun recondito significato simbolico, bensì riconduce tutti i fenomeni al tempo e alla luce, cosa possibile soltanto a uno sguardo penetrante e al pensiero teorico. Il suo Grande inno ad Aton (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 92) tratta in questa nuova forma esplicativa tutta una serie di fenomeni, raggruppandoli in tre parti.

Una prima parte riguarda fenomeni che possono essere considerati effetti della luce e del tempo meteorologico e quindi di immediata evidenza.

a) Il sorgere del Sole: la bellezza dei raggi, tutti i terreni inondati di luce.

b) Il mezzodì: il Sole alto nel cielo riesce a illuminare ogni luogo e a circondare l'intera Terra; l'accecante fulgore dei raggi di mezzogiorno.

c) La notte come morte, caos e lontananza di dio; il sonno come assenza di vita; rapimento e furto come azione notturna delle belve e dei serpenti rappresentanti del caos; tenebre e silenzio come sintomi di morte del mondo.

d) Al mattino, gli impulsi vitali delle creature sono una reazione alla luce che ritorna: (1) gli uomini si alzano, si lavano, si vestono, pregano e vanno al lavoro; (2) il bestiame si nutre; (3) gli alberi e le piante crescono; (4) gli uccelli prendono il volo; (5) le belve del deserto danzano; (6) i pesci nel fiume guizzano.

e) La percorribilità del mondo: le navi risalgono i fiumi e li discendono, le strade sono aperte.

Segue una seconda parte, riguardante fenomeni più nascosti concernenti dapprima l'ambito microcosmico e poi quello macroscosmico, e spiegati sempre in termini di prodotti (ḫprw) del Sole.

f) Un'elencazione di fenomeni biologici, costituente una sorta di trattato embriologico sulla crescita dei bambini nel grembo materno e sullo sviluppo del pulcino nell'uovo. Qui si parla del tempo necessario alla vita nascente per svilupparsi e, secondo un modo di pensare tipicamente egizio, la vita viene associata all'aria. Infatti anche nel politeismo tradizionale il dio Khnum, che forma il bambino nel grembo materno, è venerato come dio del respiro della vita.

g) La buona organizzazione del mondo: i paesi, le razze e le lingue sono ben distinti; si è provveduto a tutto. L'Egitto possiede il Nilo per l'irrigazione, mentre gli altri paesi possiedono un Nilo celeste, che concede loro la pioggia. Tutto è in relazione con il Sole, che grazie ai suoi raggi permette a ogni cosa di crescere e per merito del suo movimento stagionale permette a ogni cosa di evolversi; egli crea l'estate e l'inverno, il caldo e il freddo.

La terza parte compie un altro salto, questa volta in direzione di un riassunto teologico-teoretico.

h) Tutto ciò che esiste e che si vede è una creazione della luce. Qui si trovano i versi sopracitati, che spiegano le città e i villaggi, il terreno, il mondo e il fiume come prodotto (ḫprw) dell'Uno. Dio è il tempo stesso, attraverso il quale e nel quale tutto vive: "La Terra nasce dal tuo cenno, come tu l'hai creata./ Tu sorgi ‒ essa vive,/ tu tramonti ‒ essa muore,/ tu sei il tempo stesso, in te si vive" (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 92, 125-128).

Qui si annuncia un sapere ‒ o una forma di saggezza ‒ che solitamente è messo in relazione soltanto con la filosofia ionica della Natura: la ricerca rivolta alla molteplicità dei fenomeni (nell'embriologia, nella meteorologia, nella teoria delle razze, nella geografia degli insediamenti, ecc.) collegata con l'indagine rivolta all'unità dei principi (archaí) e delle cause (aitíai). La caratteristica di questa forma di sapere è di non avere nulla di magico; essa rinuncia a penetrare i misteri del creatore e a comprenderli. Certamente Akhenaton vede ancora nelle cose il prodotto (ḫprw) del Sole, ma questi prodotti sono opere che dal canto loro non possiedono nulla di divino. Il mondo, chiamato in essere dal Sole mediante la luce e il tempo, è privo di divinità. Questo nuovo modo di osservare la Natura deve rompere con la divinizzazione del mondo, nel momento in cui desidera spiegare i fenomeni. Infatti, poiché ogni spiegazione procede riduttivamente, la riduzione che viene richiesta in questo caso, è la desacralizzazione del mondo; in questo modo i fenomeni divengono spiegabili come effetti di un'unica causa, prodotti di un'unica fonte.

Come nella filosofia ionica della Natura, così la sapienza naturalistica di Akhenaton è soltanto a un passo dal sapere naturalistico proprio della teologia della creazione della Bibbia. In ogni caso, per Akhenaton vale ciò che il Libro dei Re tramanda del re Salomone: "Parlò di piante, dal cedro del Libano all'issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci" (I Re, 5, 13). Nella Bibbia di una tale sapienza naturalistica sono rimaste certamente solo alcune tracce, le quali si riferiscono tutte all'Egitto. Il Salmo 104, uno dei testi più importanti al riguardo, costituisce, anche se alla lontana, una libera traduzione dell'Inno di Akhenaton, pervenuta in lingua ebraica attraverso sconosciuti tramiti cananei. Altri testi, come i discorsi di Dio contenuti nel Libro di Giobbe (Giobbe, 38-41), vengono messi in relazione con gli onomastiká egizi, i thesauri, che tutto enumerano:

Ciò che Ptah ha creato e ciò che Thot ha annotato,/ il cielo con le sue costellazioni,/ la terra con ciò che vi è in essa,/ ciò che le montagne rigurgitano,/ ciò che viene sommerso dall'inondazione,/ tutto ciò che il Sole illumina/ e ciò che cresce sul dorso della Terra. (Gardiner 1947; cfr. Alt 1951 e Rad 1955)

In questo passo, evitando di prestare attenzione alla sua arida forma di elenco, è possibile individuare anche un interesse per la conoscenza poietico-teologica.

Le cosmogonie di Eliopoli e i loro sviluppi menfiti e tebani

di Jan Assmann

Quando l'Egitto, dopo la morte di Akhenaton, ritornò alla religione tradizionale e, insieme agli antichi dèi, ripristinò quel sapere mitico-magico che per mezzo del culto manteneva il mondo in movimento, il discorso teologico si sviluppò e visse uno straordinario periodo aureo. Questo è quello che accade, da una parte, al genere esoterico delle cosmografie, all'interno del quale l'Amduat e la Litania di Ra sono ora affiancate da una serie di nuovi componimenti (il Libro delle porte, il Libro delle cripte, il Libro della notte, il Libro di Aker), dall'altra al genere essoterico degli inni i quali, sia nei loro tradizionali ambiti rappresentativi (le tombe private) sia nei papiri letterari, si presentano con singolare abbondanza. Il problema centrale di questi inni è il rapporto tra dio e il mondo, sia come relazione della divinità con la realtà fenomenica dei fatti cosmici, politici e sociali, sia come rapporto dell'Uno, dio primordiale e demiurgo che tutto crea, con le numerose divinità, con le quali coopera per stabilire la vita interna del processo cosmico.

tab. 1

Questo problema non è nuovo; esso ha una lunga storia che risale ai Testi delle piramidi (ossia alla prima metà del III millennio) e nel corso di questa storia è stato trattato parallelamente al tema dell'origine del mondo. La più antica teoria della creazione, che ha mantenuto una propria autorevolezza fino alla fine della storia della religione egizia, è fin dai tempi più remoti legata al nome di Eliopoli. La cosmogonia di Eliopoli descrive gli stadi dell'origine del mondo sotto forma di un albero genealogico con 5 generazioni (tab. 1).

Due sono i punti che caratterizzano questa teoria dell'origine del mondo: il primo è lo stretto legame fra creazione e potere, il secondo è l'incrocio complementare di cosmogonia e cosmopoiesi. La dottrina di Eliopoli consente al dio creatore Atum ('il tutto'), allo stesso tempo, di svilupparsi nel mondo e di creare il mondo. Inoltre, parallelamente a questo processo di formazione del mondo, pensato complementarmente sia come transitivo sia come intransitivo, tale teoria consente la fondazione del potere passando da una generazione divina a un'altra, fino alla quinta generazione, quando infine Horo eredita il potere e comincia a incarnarsi in ogni faraone in carica, in quanto dio della regalità storica. Le cosmogonie egizie sono anche delle cratogonie, in quanto collegano la nascita del mondo con la nascita del potere, cioè dello Stato.

a) La preesistenza. Secondo il pensiero egizio il mondo non sorge dal nulla, bensì dall'Uno; questo Uno originario si chiama Atum ed è la personificazione della preesistenza. Il nome significa contemporaneamente 'il tutto' e 'il niente', nel senso di 'non ancora' o di 'non più'. Il mistero della preesistenza è un punto che occuperà in modo particolare i successivi commentari del testo principale. Presso Atum non rimane niente: a questo dio, che si trova in uno stato di 'non ancora esistente', viene assegnato un ambiente primitivo, un caos originario, che si presenta senza luce, senza fine e senza forma.

b) Il momento cosmogonico: la nascita della luce (II generazione nella tab. 1). Il passaggio dalla preesistenza all'esistenza è interpretato come autocreazione del dio originario. Il dio dell'unità preesistente, Atum, si consolida nella forma di dio del Sole ed emerge per la prima volta dalle acque primordiali. Questo primo sorgere del Sole è inteso come atto di autogenerazione primordiale e contemporaneamente come primo stadio della genesi: la creazione della luce. Mentre il dio nasce (cosmogonia intransitiva) allo stesso tempo diviene attivo verso l'esterno (cosmopoiesi transitiva) e pone due entità, Shu e Tefnet, al di fuori di sé. Il mito ricorre, per questo scopo, alle crude immagini delle escrezioni corporali: la masturbazione, l'espettorazione di saliva e il vomito. Attraverso l'autogenerazione del dio primordiale si verifica il passaggio repentino dalla preesistenza all'esistenza; come nella Bibbia, questo cambiamento è indicato sotto forma di creazione della luce. Shu è il dio dell'aria; Tefnet è stata interpretata finora come 'umidità', anche se non è stato trovato alcun sostegno al riguardo e anzi, al contrario, tutto ciò che le concerne nei testi lascia pensare a una dea del fuoco. Aria e fuoco ‒ ossia la nascita di un'estensione inondata di luce ‒ formano il primo stadio cosmogonico. Atum stesso, nel suo passaggio dalla preesistenza all'esistenza, si trasforma nel Sole, i cui raggi sono interpretati dal mito come un vento caldo formato di fuoco e aria. Il momento cosmogonico non è altro che il primo levare del Sole. Shu e Tefnet simbolizzano, al tempo stesso, l'aspetto cratogonico di questo primo evento cosmogonico. Tefnet, la dea del fuoco dalle sembianze leonine, è anche il simbolo del potere regale, che il creatore si mette sulla fronte come diadema a forma di serpente. Shu diventa, come figlio ed erede del dio creatore, l'archetipo del re, nel ruolo di colui che possiede e dispensa l'aria e la vita.

c) La nascita dello spazio (III generazione nella tab. 1). I figli di Shu e Tefnet, o aria e fuoco, sono Geb e Nut, dèi della Terra e del cielo. Dopo la nascita della luce, nella forma di primo sorgere del Sole, nasce lo spazio cosmico che diventa visibile alla luce.

d) La nascita delle istituzioni culturali (IV generazione nella tab. 1). La quarta generazione è formata dai figli di Nut: Osiride, Iside, Seth e Nefti. Questo stadio è connesso all'idea di una fondazione delle istituzioni culturali, in quanto è con esso che nascono il tempo e la storia. Anche Horo apparterrebbe a questa generazione, sebbene di fatto, in quanto figlio di Osiride e Iside, formi la quinta generazione. Il mito però parla di cinque figli di Nut e racconta che Iside e Osiride si sarebbero accoppiati già nel grembo materno, così che essa avrebbe partorito anche il loro figlio Horo. Naturalmente il senso di questa tradizione è che con questa pentade viene messa in opera una dinamica temporale che si estrinseca, in quanto storia, nella serie infinita delle incarnazioni di Horo sotto forma di sovrano (V generazione nella tab. 1).

Il Testo della teologia menfita risale alla fine dell'VIII secolo. Si tratta di un blocco di basalto, la cui iscrizione si fa passare per la riproduzione di un antico papiro manoscritto. Nel titolo, il sovrano Shabaka (716-702) chiarisce le circostanze della redazione:

Sua Maestà fa scrivere di nuovo questo libro nella casa di suo padre Ptah. Sua Maestà lo ha trovato, come opera dei predecessori, divorato dai vermi e non lo si poteva [leggere] dall'inizio alla fine. Perciò Sua Maestà lo fa scrivere di nuovo, così che sia più bello di come era prima.

Inizialmente ci si chiedeva se il testo fosse appartenuto alla I-II dinastia oppure alla V-VI, poi sono state avanzate numerose motivazioni per far risalire quest'opera, se non del tutto, almeno in parte, alla XXV dinastia. In questo testo, il motivo della preesistenza è interpretato come se gli aspetti del caos dal canto loro derivassero dal dio Ptah, visto che la locuzione (ḫpr m) significa sia 'nascere da' sia 'divenire'.

Tabella

In qualsiasi modo si voglia completare questo testo molto lacunoso, una cosa è chiara: lo stato originale della preesistenza è ancora una volta trasceso in un dio, il quale è così rappresentato come un'unità puramente trascendente, che precede ed è posta a fondamento della preesistenza stessa. In seguito si continua a dire di Ptah:

Ptah mandò la [vita a tutti gli dèi] e ai loro ka/ mediante questo cuore a Horo,/ mediante questa lingua a Thot originato da Ptah./ Così accadde che il cuore e la lingua ricevettero il potere discrezionale su tutte le altre membra/ a causa della dottrina, secondo la quale esso [il cuore] governa ogni corpo ed essa [la lingua] ogni bocca/ di tutti gli dèi, di tutti gli uomini,/ di tutti gli animali e di tutti i vermi, che lì vivono/ poiché [il cuore] tutto pensa e [la lingua] ordina tutto ciò che essi/ desiderano./ La sua Enneade era dinnanzi a lui/ come denti, ossia il seme di Atum,/ e come labbra, ossia le mani di Atum./ Era così nata l'Enneade di Atum/ mediante il suo seme e le sue dita./ L'Enneade è in verità denti e labbra/ in questa bocca che ha pronunciato i nomi di tutte le cose,/ da cui Shu e Tefnet sono usciti, colei che ha creato l'Enneade./ Che gli occhi vedano, le orecchie odano/ e il naso respiri l'aria, sia riferito al cuore l'annuncio./ Questo è colui che fa nascere ogni cosa./ La lingua è colei che ripete ciò che è pensato dal cuore. (Righe 53-55, Junker 1941, pp. 39, 48, 55, 58)

'Fallo' e 'mano', che tramandano i simboli corporei dell'azione creatrice, sono interpretati come 'denti' e 'labbra'; i veri organi creativi sono comunque il cuore e la lingua. Poiché gli Egizi non tracciano alcun confine netto tra 'corpo' e 'spirito', anche la conoscenza e il linguaggio sono intesi come fenomeni fisici. La conoscenza nasce nel cuore sulla base dei dati sensoriali che gli vengono trasmessi ed è poi articolata dalla lingua.

L'interpretazione menfita della cosmogonia eliopolitana si sviluppa sul mistero del momento cosmogonico. 'Seme' e 'mani' sono interpretati come 'denti' e 'labbra', e dunque l'immagine della masturbazione è sostituita dall'atto del parlare. Il monumento della teologia menfita è la più elaborata rappresentazione egizia di una creazione mediante la parola, la quale differisce da quella biblica in due punti. Il primo punto è il ruolo del cuore, o per meglio dire di una concezione pianificatrice della creazione, di cui non si fa menzione nella Bibbia. L'altro punto è il ruolo della scrittura (i geroglifici), che è menzionata due volte; osserviamo che l'espressione usata dagli Egizi per indicare la scrittura geroglifica (mdw-nṯr) significa letteralmente 'parole di dio'. Questi due punti dipendono strettamente l'uno dall'altro, poiché il cuore non concepisce l'aspetto fonetico delle cose, bensì il loro 'concetto', la loro 'forma', che viene restituita dalla scrittura geroglifica la quale attraverso la forma si riferisce al concetto. La lingua dà espressione vocale ai concetti che sono concepiti dal cuore e resi visibili dalla scrittura geroglifica:

E allora nacquero tutti gli dèi,/ che sono Atum e la sua Enneade./ Egli originò anche tutti i geroglifici/ mediante ciò, quello che fu pensato dal cuore e ordinato dalla lingua./ […] Così vennero create tutte le opere e le arti,/ l'operare delle braccia e l'andare delle gambe,/ il movimento di tutte le membra in conformità alla sua disposizione/ di queste parole, che dal suo cuore furono pensate e dalla sua lingua esternate e/ che creano il sostentamento di tutto/ […]/ Così fu trovato e conosciuto/ che la sua forma è più grande di quella propria di tutti gli altri dèi./ E così Ptah fu felice, dopo che ebbe creato tutte le cose/ e tutti i geroglifici,/ dopo che ebbe formato gli dèi,/ dopo che ebbe fondato le loro città/ e fissato i loro distretti,/ dopo che ebbe stabilito le loro offerte alimentari/ e fondato le loro cappelle,/ dopo che ebbe formato i loro corpi a lui conformi, così che furono felici./ E così gli dèi entrarono nel loro corpo/ in ogni tipo di legno e minerale,/ in ogni suono e in tutte le altre cose, che crescono in lui,/ dal quale esse sono originate./ E così si radunano tutti gli dèi e i loro ka attorno a lui/ felici e stretti nel Signore delle due Terre. (Righe 56-61; Junker 1941, pp. 59, 62, 63, 65, 66)

Ptah è il dio degli artisti e degli artigiani e grazie a lui le cose acquisiscono la loro forma costante, raffigurata nei segni della scrittura ed eternamente riprodotta nella nascita e nella morte degli oggetti e degli esseri viventi. Thot, il dio della 'lingua' intesa come organo corporeo, è qui anche il dio della scrittura geroglifica ed è capace di trasformare i pensieri del cuore in linguaggio parlato e scritto. La creazione è un atto di articolazione mentale, figurativa e fonetica. Insieme alle cose e ai loro nomi nascono anche i loro segni grafici: "E così Ptah fu felice, dopo che ebbe creato tutte le cose/ e tutti i geroglifici".

La totalità della creazione è riassunta nell'espressione "tutte le cose e tutti i geroglifici". La teoria di Menfi mette in evidenza la forma grafica del mondo, interpretandolo come un testo, che Ptah ha concepito nel cuore e ha pronunciato per mezzo della lingua. Un testo nel quale Ptah si è realizzato nella realtà visibile attraverso la forma delle cose, a sua volta corrispondente ai geroglifici. Questa ardita ideazione viene esposta sempre in relazione con la teoria eliopolitana e quindi la si può ritenere un commentario, un atto di ricezione interpretativa.

La differenza decisiva tra il Testo della teologia menfita relativo alla creazione e la precedente dottrina cosmogonica eliopolitana consiste nel diverso rilievo dato allo spirito (ossia al 'cuore') e al linguaggio (alla 'lingua' come organo fisico), al piano e all'ordine. Non si tratta però tanto di una delimitazione polemica quanto di un'evoluzione successiva. Già nei Testi dei sarcofagi del Medio Regno, la cosmogonia eliopolitana aveva subito una sorta di interpretazione allegorica, che ricordava l'interpretazione dei miti di Plutarco. Shu ‒ l'aria ‒ era descritto come "vita" e Tefnet ‒ il fuoco o la luce ‒ come "verità".

"Io sto nuotando e sono molto stanco,/ le mie membra [?] sono pesanti./ Mio figlio Vita è ciò che solleva il mio cuore [ossia 'desta la mia coscienza'] / Egli vivificherà il mio spirito, dopo aver raccolto queste/ mie membra, che sono molto stanche."/ Allora il Nun [le acque primordiali] parlò ad Atum:/ "Bacia tua figlia Maat, dalla al tuo naso !/ Il tuo cuore vive se ella non si allontana da te./ Maat è tua figlia,/ insieme a tuo figlio Shu,/ il cui nome è Vita./ Tu mangerai da tua figlia Maat;/ tuo figlio Shu, egli ti solleverà. (de Buck 1935-61, vol. II, pp. 34g-35h [80]; cfr. Bickel 1994, pp. 48-49)

Allora disse Atum "Tefnet è la mia figlia viva,/ ella è insieme a suo fratello Shu./ Vita è il suo [di Shu] nome,/ Maat è il suo [di Tefnet] nome./ Io vivo insieme ai miei due figli,/ insieme ai miei gemelli,/ tra i quali io sono,/ l'uno sulla sua schiena, l'altra sul mio ventre./ Vita dorme con mia figlia Maat,/ una in me, uno attorno a me,/ io mi sono sollevato tra di loro, poiché le loro braccia mi avvolgevano". (de Buck 1935-61, vol. II, pp. 32b-33a [80]; cfr. Bickel 1994, pp. 49-51)

In un livello successivo dell'interpretazione, in uno stesso testo, Shu-Vita e Tefnet-Maat sono indicati anche come "Neheh-Eternità" e "Djet-Eternità": "Poiché Shu è Neheh, Tefnet è Djet" (de Buck 1935-61, vol. II, p. 28d [80]; cfr. Bickel 1994, p. 134); "Io sono Neheh, il padre degli dèi Heh, mia sorella Tefnet è Djet" (de Buck 1935-61, vol. II, p. 22a; p. 23a,c [78]; cfr. Bickel 1994, pp. 134-135). Neheh e Djet sono concetti che indicano la quantità e l'immensità del tempo. Perciò Neheh indica l'incessante movimento del tempo che ruota su sé stesso, Djet l'infinita e costante durata di ciò che si è realizzato e compiuto nel tempo. Secondo questa interpretazione, dunque, il tempo ha origine contemporaneamente alla luce, nei suoi due aspetti di ripetizione ciclica e di stabile durata. La preesistenza qui viene interpretata come inconsapevole movimento del dio primordiale Atum nel flusso primordiale, nel Nun, al quale sono associati, come ulteriori aspetti del caos originale, la tenebra (Kuk), l'eternità (Huh) e l'assenza di strade (Tenemu). L'attimo cosmogonico è descritto come il momento in cui Atum perviene alla coscienza e passa dalla stanchezza, che lo rende incapace di agire, alla consapevolezza, alla volontà e all'azione. Questo momento dell'autocreazione è caratterizzato come 'autotriplicazione', "quando egli era l'Uno e divenne Tre" (de Buck 1935-61, vol. II, p. 39e [80]; cfr. Bickel 1994, p. 79). I testi chiariscono che questo processo non deve assolutamente essere rappresentato come se si trattasse di procreazione o di nascita, poiché come afferma il dio dell'aria Shu: "Non mi ha fatto nascere attraverso il suo pugno, non mi ha reso gravida col suo pugno" (de Buck 1935-61, vol. I, p. 354c; cfr. Bickel 1994, p. 79). Si è sempre dato per scontato che questa affermazione si rivolgesse contro la cruda immagine della masturbazione, ma al riguardo l'egizio non si è mai scandalizzato. Ciò che qui viene rifiutato è piuttosto l'idea che Atum avrebbe creato Shu e Tefnet. Il momento cosmogonico non deve essere pensato come una creazione ma come una automanifestazione. Shu e Tefnet erano accanto ad Atum prima del mondo intero e hanno formato con lui l'Unità primordiale, che poi è divenuta trina.

In questi testi però non si trova ancora nulla di quella intenzionalità sistematica propria della cosmogonia menfita. In essi il mondo, sulla base di un modello 'biomorfo', nasce come involontaria e istintiva escrezione e automoltiplicazione. Il concetto centrale della cosmogonia eliopolitana è ḫpr 'divenire, nascere da, emanare, svilupparsi, assumere una forma, trasformarsi'. Il locus classicus di questa dottrina è il Libro del conoscere il ḫprw [divenire] di Ra, che è tramandato da un papiro magico-cultuale di Epoca Tarda. In questo testo la concezione eliopolitana viene estesa all'elemento dell'intenzionalità e al motivo del cuore pianificatore:

Libro del conoscere il ḫprw [divenire] di Ra e le trappole di Apofi. Da dire:/ Il Signore del Tutto parla dopo aver assunto la forma:/ Io sono colui che nacque come Khepri,/ come nacqui, si formò la creazione./ Tutto il creato ebbe origine, dopo che io sono sorto./ Fu copioso ciò che nacque, poiché uscì dalla mia bocca,/ ancor prima ebbe origine il cielo, ancor prima si formò la Terra,/ prima il suolo e i vermi furono creati in questo luogo./ Io mi consolidai in loro nelle acque primordiali e nell'inerzia/ senza ancora avere trovato un luogo su cui fossi potuto stare./ Divenni akh-attivo mediante il mio cuore,/ progettai mediante il mio volto,/ prima ancora di aver espettorato Shu e sputato Tefnet,/ ancor prima che fosse creato un altro, che avesse agito insieme a me./ Pianificai con il mio proprio cuore/ e una folla di creature originò dalla creazione/ mediante il sorgere del partorire/ e da quello, ciò che provenne dal loro partorire. (Abrasax 1991, vol. II, pp. 1-31)

A ciò segue un lungo racconto, nel quale è trattata la cosmogonia vera e propria, che si svolge nei seguenti stadi (v. anche tab. 1): (1) autosoddisfazione attraverso la masturbazione; (2) autotriplicazione mediante l'escrezione di Shu e Tefnet; (3) origine del genere umano dall'occhio che piange; (4) nascita del potere quando l'occhio si alza verso il serpente posto sulla fronte del demiurgo (diadema del potere); (5) nascita di Geb e Nut da Shu e Tefnet; (6) nascita di Osiride, Iside, Seth, Nefti e Horo, da Geb e Nut.

Il papiro contiene ancora una seconda versione, più dettagliata, di questo testo, che inizia nel modo seguente:

Libro del conoscere il ḫprw [divenire] di Ra e la trappola di Apofi:/ da dire:/ il Signore del Tutto parla: come io nacqui la creazione originò./ Io sono sorto nella forma di Khepri,/ che è sorto per la prima volta./ Io sono sorto nella forma di Khepri./ La mia sortita significa che la creazione sorse,/ poiché io ero là prima dei tempi primordiali, che io ho creato […]/ Io ho fatto tutto ciò che volevo in questa terra./ Io mi sono espanso in essa, ho stretto la mano quando ero solo,/ quando essi non erano ancora nati, quando io non avevo ancora espettorato Shu/ e non avevo ancora sputato Tefnet./ Io stesso ho prodotto la mia bocca/ magia è il mio nome./ Io sono colui che è sorto nelle forme/ poiché originai nella forma di Khepri./ Io sono sorto sotto i tempi remoti (io sono sorto contemporaneamente ai tempi primordiali)/ così che una folla di creature ebbe origine al principio,/ ancor prima che una delle creature fosse originata su questa Terra./ Io ho formato ciò che esiste quando ero solo,/ quando niente altro era formato, che fosse con me creato in quel luogo/ nel quale mi sono trasformato in questo mio ba,/ nel quale mi sono rinforzato nel Nun e nell'inerzia,/ ancor prima che trovassi un luogo, nel quale poter stare./ Divenni akh-attivo con il mio cuore,/ pianificai con il mio volto./ Io ho creato un'altra forma,/ affinché fossero numerose le forme di Khepri./ Là ebbero origine i loro parti/ in forma dei loro figli. (ibidem)

Segue una versione ancora più dettagliata degli stessi sei stadi della cosmogonia. Questo testo è una fuga sul tema ḫpr, 'l'origine, l'assunzione di una forma'. Il mondo nasce con l'autocreazione di un dio, che nel processo della sua creazione si trasforma in questo mondo e poi gli dà una forma nell'ambito del suo cosciente tornare a sé pianificante (snṯı̓) e creativo (ı̓rı̓). In seguito il mondo continua a svilupparsi ulteriormente in modo spontaneo attraverso l''altra forma' della riproduzione sessuale (msı̓).

Le teorie tebane del periodo ramesside, che riguardano la creazione, sviluppano i principî eliopolitani in un'altra direzione, che evidentemente si basa sulle concezioni cosmogoniche del periodo di Amarna. Akhenaton aveva ricondotto l'intera realtà fenomenica all'operato del Sole, che con il suo irradiamento creava la luce e il calore, e attraverso il suo movimento dava luogo al tempo e all'evoluzione. Tuttavia questo modo di creare era indicato da Akhenaton con il concetto di ḫpr, ricollegandosi così strettamente all'insegnamento cosmogonico eliopolitano. La totalità del mondo percettibile è designata come una metamorfosi o una realizzazione del dio.

"Tu esegui milioni di trasformazioni, nelle quali sei l'Unità:/ città, paesi, terreni,/ strada e fiume" (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 92, 115-117).

In questo testo il rapporto tra dio e il mondo non è dato né nella forma tradizionale di una reciproca modellazione fra mondo divino e quello umano, né nella forma biblica di una separazione rigorosa tra creatore e creazione, bensì come una compenetrazione così stretta da apparire quasi panteistica. Il confronto tra 'milioni' e 'unità' formula un concetto di unità-totalizzante che nell'epoca ramesside giocherà un ruolo centrale.

Creazione e manifestazione

I teologi tebani dell'epoca postamarniana hanno ulteriormente sviluppato, in due direzioni, l'esigenza di Akhenaton di dare una spiegazione teologica del mondo: in una direzione essi hanno sostituito il principio 'Sole' con un modello ternario di elementi dispensatori di vita, ossia luce, aria e acqua, attraverso cui il dio Uno anima il mondo, mentre nell'altra direzione essi hanno completato il paradigma della cosmogonia, caratterizzato dalla parola chiave ḫpr 'divenire', mediante il paradigma della manifestazione, caratterizzato dalla parola chiave ba 'anima'.

ARIA

Tu hai assunto la tua forma come alito di vento,

affinché lo offrissi al naso;

si vive se tu desideri.

Tu sei il creatore che partorisce, essi nascono

dalla tua bocca, dai tuoi occhi, dalle tue lacrime.

ACQUA

Il Nilo fluttua dalla sua grotta,

esso attende per uscire fuori da te.

LUCE E TEMPO

Re della pienezza temporale come capo degli dèi,

essi vedono e vivono attraverso di te.

Il cielo porta il tuo ba e solleva la tua lucentezza,

l'oltretomba racchiude il tuo cadavere e salva il tuo corpo,

questa terra porta la tua immagine.

(Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 98, 28-39)

La teocosmologia dell'epoca di Amarna in questo testo è oltrepassata da due punti di vista. In primo luogo, il dio non è identificato con il Sole: quest'ultimo è invece solo il suo ba, cioè la sua manifestazione sensibile ed esperibile, oltre la quale il dio ha anche un "cadavere" e un'"immagine". Il dio inoltre abita e riempie un mondo immaginato a tre piani con tre manifestazioni completamente diverse. In secondo luogo, il dio non opera soltanto per mezzo della luce e del tempo, come se fosse il Sole, ma anche grazie all'aria (che qui, come al solito, è considerata responsabile dello sviluppo embrionale nel grembo materno) e per mezzo dell'inondazione del Nilo. è da qui che nasce una teologia cosmoteistica, che nel mondo sensibile riconosce il corpo di un dio invisibile.

Accanto al paradigma cosmogonico del 'divenire' e del 'creare', che rende sincronico il rapporto tra dio e mondo, nell'epoca ramesside appare un nuovo modello, che si potrebbe chiamare 'paradigma della manifestazione'. Entrambi i paradigmi, che non si escludono affatto, ma che anzi s'integrano in modo complementare, sottolineano l'unità del dio alla quale si resterà fedeli anche dopo l'epoca di Amarna e nel contesto di una religione politeistica tradizionale di nuovo pienamente restaurata. Quello che è nuovo in questi testi è il forte accento posto sulla segretezza del dio Uno: entrambi i paradigmi vertono attorno alla segretezza di questo Uno. L'inno seguente, del quale citiamo soltanto un breve passo, celebra la segretezza dell'Uno all'interno del paradigma dell'origine e della creazione:

L'Uno che diede inizio al divenire ai primordi,/ Atum, che creò all'inizio, la cui genesi non si conosce,/ al quale nessun dio precede,/ del quale nessun altro dio fu capace di dire quale sia il suo aspetto, colui che formò il suo stesso uovo,/ la forza, segreto nella nascita, colui che creò la sua bellezza,/ dio il più divino, che si originò da sé,/ dal quale ogni dio ricevette vita, dopo che egli stesso iniziò ad essere. (Černý 1957, p. 106)

Quest'idea di un dio "segreto nella nascita", "il cui luogo di origine non si conosce", la cui nascita non ha alcun testimone, il quale ha mantenuto segreta la sua stessa natura (e questo punto è decisivo) a tutti coloro che sono venuti dopo di lui e che da lui sono discesi ‒ "colui che formò sé stesso e rimase nascosto agli dèi e agli uomini" ‒ è divenuto un tema centrale della teologia ramesside. La teologia del dio Amon di Tebe ‒ antipodo della religione di Amarna e cui era rivolto tutto l'odio di Akhenaton ‒ ha creato e favorito il paradigma della manifestazione e ha trasformato in questo senso l'idea della segretezza e dell'unicità del dio originario. Il rapporto temporale tra preesistenza ed esistenza è stato trasformato in un rapporto ontologico. Nel paradigma della manifestazione, l'Uno si è celato in un aldilà ontologico e non temporale. Per questo è opportuno citare, anche se in modo parziale, un Inno ad Amon:

Uno è Amon, che si mantiene loro [agli dèi] nascosto,/ che si cela agli dèi, nessuno conosce la sua natura./ Egli è più lontano del cielo,/ e più profondo dell'oltretomba./ Nessun dio conosce la sua vera forma,/ la sua immagine non viene mostrata nei rotoli scritti./ Egli è troppo misterioso, per essere scoperto,/ troppo grande per essere esplorato,/ troppo potente per essere conosciuto./ Nessun dio lo può chiamare col suo nome,/ egli è il garante del ba, il quale mantiene celato il suo nome come il suo segreto. (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 138)

L'Uno-Amon oltrepassa il cielo e l'oltretomba, le regioni del mondo più sacre e nascoste. Non è possibile esprimere alcuna affermazione che lo riguardi. Le scritture non lo mostrano. Nessuna teoria lo può spiegare. Il suo nome è impronunciabile. L'ultimo verso unisce i due motivi centrali e mostra la loro affinità intrinseca: "il garante del ba" "mantiene celato il suo nome". Ba è la parola egizia per 'anima', il concetto centrale del paradigma della manifestazione. Il garante del ba si manifesta nel mondo animato, come l'anima invisibile si manifesta nel corpo animato. Il dio viene chiamato ba perché non ha alcun nome. Amon è soltanto uno pseudonimo che si riferisce al dio nell'ambito della sua manifestazione visibile. Quando ci si riferisce al nascosto, gli inni lo chiamano ba o "ba segreto".

Nel paradigma della manifestazione, il rapporto dell'Uno con il mondo è decronologizzato; mentre si manifesta come mondo, rimane dio e soltanto dio. L'Uno non si pone come il dio primordiale che precede la creazione del mondo, la cui unità nell'atto della cosmogonia dà luogo alla molteplicità, ma piuttosto l'Uno rimane nel molteplice, una forza nascosta, chiamata ba e che si manifesta nelle figure degli dèi. Un inno del re Ramesse III inizia nel seguente modo: "Io voglio iniziare a lodare la sua grandezza come Signore degli dèi,/ come ba dai volti segreti, grande in maestà,/ colui che nasconde i suoi nomi e cela la sua immagine,/ la cui forma non è conosciuta dall'origine" (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 196, 12-15).

Nei versi seguenti l'inno sviluppa l'idea diffusa secondo la quale il nascosto si manifesta nel mondo sotto forma degli elementi che elargiscono la vita, come la luce, l'aria e l'acqua. Il testo loda Atum come il "dio cosmico", il cui corpo è il mondo e che vive nella luce, nell'aria e nell'acqua come l'anima vive nel corpo. Un gruppo di inni, particolarmente significativi da un punto di vista teologico, è iscritto sulle pareti di un tempio costruito dal sovrano persiano Dario I, nell'oasi di el-Kharga. Tutti quanti lodano il Tutto-Uno nascosto. Uno dei testi è intitolato Il grande inno segreto ad Amon-Ra, pronunciato dagli otto dèi primordiali e inizia con questi versi: "Sia salutato, tu l'Uno, che si fece in milioni,/ che si dilata in spazio e in tempo senza confini,/ forza allestita, che originò da sé,/ eruzione primordiale dall'enorme fiamma,/ ricco incanto dalla forma segreta,/ il ba segreto, al quale viene mostrata profonda riverenza!" (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 129, 1-6)

L'"Uno che si fece in milioni" è una locuzione egizia per esprimere il concetto del Tutto-Uno. Poiché egli va oltre gli dèi del politeismo tradizionale, conosciuti nominalmente, non può essere chiamato per nome. La sua perifrasi più estesa è il "ba segreto", il potere nascosto che si manifesta nel mondo. Questo testo è già presente in un papiro magico dell'epoca ramesside (quindi precedente di 700 anni) e verrà ancora citato nel tempio di File dell'epoca imperiale romana. Un inno della XXI dinastia inizia così:

Questo dio sublime, il signore di tutti gli dèi,/ Amon-Ra, signore di Karnak, Primo di Tebe,/ l'illustrissimo ba, che originò in principio,/ il grande dio che vive di Maat./ Il primo dio originario che creò gli altri dèi primordiali,/ dal quale ogni dio generò./ Il dio Uno che si fece in milioni./ L'Uno unico che creò ciò che esiste,/ che fondò la Terra in principio./ Segreto nella nascita, ricco nelle incarnazioni, la cui origine non si conosce. (Ägyptische Hymnen und Gebete, nr. 131, 1-10)

In questi Inni, il concetto di ba indica l'Uno nascosto, che si manifesta nel mondo in quanto mondo, mentre in altri testi, al contrario, serve a descrivere le numerose manifestazioni, nelle quali l'Uno è percepibile all'interno del mondo. Il concetto, così utilizzato, appare già nel Medio Regno. Nei Testi dei sarcofagi il ba del dio viene considerato la sua manifestazione cosmica esperibile attraverso i sensi. Così, il vento è ritenuto il ba del dio dell'aria, Shu, in cui, grazie alle formule 75-82 dei Testi dei sarcofagi, si vuole trasformare il defunto.

Nel Libro della vacca celeste, dunque al più tardi sotto Tutankhamon, si trova un brano che contiene una teologia del ba più elaborata:

Il ba di Shu è il vento/ Il ba di Neheh è la pioggia/ Il ba della tenebra è la notte/ Il ba delle acque primordiali è Ra/ Il ba di Osiride è l'ariete di Mendes/ Il ba di Sobek sono i coccodrilli/ Il ba di ogni dio sono i serpenti/ Il ba di Apofi è nella montagna orientale/ Il ba di Ra è in tutta la Terra. (Hornung 1982, pp. 26-27)

tab. 2

Le forze divine si manifestano nei fenomeni della sfera biocosmica, come il vento, la pioggia, la notte, i coccodrilli o i serpenti. Nell'epoca ramesside diventa evidente anche una teoria che si serve del concetto di ba per sviluppare una dottrina degli elementi a partire dagli dèi delle quattro generazioni proprie dell'enneade eliopolitana. I ba di Ra, di Shu, di Geb e di Osiride saranno collegati alla tetrade di luce, aria, terra e acqua. Queste concezioni culminano nella dottrina dei dieci ba di Amon, contenuta in un lungo inno, composto da dieci canti, ciascuno dedicato a un ba, dei quali però si sono conservati solo i primi tre; per fortuna, in un inno introduttivo, nella forma di canto mattutino, sono citati tutti i dieci ba, in modo che il sistema di essi possa essere riconoscibile (tab. 2).

I primi cinque ba rappresentano gli elementi che governano il mondo, donandogli la vita. La prima coppia di ba è data dal Sole (Ra) e dalla Luna, i quali sono anche definiti come gli occhi del dio cosmico; seguono poi il ba di Shu e quello di Osiride, che indicano l'aria e l'acqua, mentre come quinto ba, per la Terra, non viene, come ci si aspetterebbe, il ba di Geb ma quello di Tefnet. L'inno offre l'interpretazione teologica: Sole e Luna non rappresentano la luce bensì il tempo, che qui appare come un'energia cosmica portatrice di vita. La luce è assegnata al ba di Tefnet, la dea dell'ureo fiammeggiante. Qui abbiamo il tempo, l'aria, l'acqua e la luce come elementi che elargiscono la vita. Tutti e cinque i ba portano sul capo l'emblema della loro manifestazione cosmica: il Sole, la Luna, l'aria rappresentata da una vela, tre ciotole d'acqua (nw) e una fiaccola.

La seconda cinquina di ba rappresenta cinque classi di esseri viventi. Questa teologia distingue la vita cosmica da quella animale: alle cinque energie cosmiche che hanno elargito la vita, corrispondono le cinque classi di creature animate che l'hanno ricevuta. Si tratta di uomini, quadrupedi, uccelli, animali acquatici e terrestri, come serpenti, scarabei e defunti. Il ba degli uomini è antropomorfo e si chiama 'ka del re', il ba dei quadrupedi è leoncefalo e si chiama 'Ariete degli arieti', il ba degli uccelli è antropomorfo e si chiama Harakhti, il ba degli animali acquatici è coccodrillocefalo e si chiama 'ba di coloro che sono in acqua', il ba degli abitanti della Terra ha la testa di serpente e si chiama Nehebkau (v. tab. 2).

Qui il concetto non serve a indicare l'unità nascosta, ma al contrario a designare l'immanenza divina differenziata. Nei testi magici dell'Epoca Tarda incontriamo i sette ba di Amon fusi in un essere mostruoso a sette teste, ciascuna di un animale diverso, e con la maschera di satiro propria del dio nano Bes:

Bes con sette teste,/ egli incarna i ba di Amon-Ra, […]/ del dio del cielo, della terra, dell'oltretomba, dell'acqua e delle montagne./ Colui che mantiene segreti i suoi nomi agli dèi,/ del gigante dai milioni di cubiti,/ della forza, che fissò il cielo sul suo capo,/ dal cui naso l'aria esce, per animare tutti i nasi,/ colui che come Sole sorge per illuminare la terra,/ dagli emissari del suo corpo il Nilo scorre per vivificare ogni bocca. (Sauneron 1970)

Questa figura ‒ chiamata 'Bes Pantheos' ‒ compare sulle stele magiche e sugli amuleti, e diviene molto diffusa nell'Età Tarda. Tutti gli dèi sono riuniti nel mostruoso dio Bes, che qui serve come maschera del dio-tutto, privo di nome, di immagine e di raffigurazione. Questa immagine non descrive solo il dio nascosto, ma anche il montaggio delle sue diverse manifestazioni terrene sotto forma di maschera. Nello stesso papiro egli viene raffigurato ancora una volta, anche se con nove teste. Il testo descrive l'immagine come "uomo con nove teste su un unico collo e precisamente un volto di Bes, una testa d'ariete, di falco, di coccodrillo, di ippopotamo, di leone, di toro, di scimmia e di gatto" (Sauneron 1970). Questo Theòs Pántheos compare nei papiri magici greci come Enneamorfo, 'dalle nove forme' (Abrasax, p. 10). Per noi questa tradizione è interessante soprattutto perché descrive un anello di congiunzione tra la teologia dell'epoca ramesside (XIII-XII sec.) e quella dell'Epoca Tarda greco-egizia, alla quale risalgono i testi ermetici. La magia qui serve come un mezzo per garantire continuità nella trasmissione. Lo scopo magico, per il quale questo abbozzo di dio teologicamente elevato è stato impiegato, è esattamente così generale e ampio come lo stesso dio. Da lui ci si aspetta protezione contro tutti i pericoli immaginabili. Questa forma di 'panteismo', come culto del Pántheos, nella magia si è dimostrata un'idea estremamente efficace. La figura del dio cosmico nascosto gioca un ruolo sia nei papiri magici greco-egizi sia nel Corpus Hermeticum e nel corso dell'Ellenismo sarà applicata anche a Iside. Iside sarà infatti venerata come la divinità che è uno e tutto: una quae es omnia verrà chiamata in un'iscrizione di Capua, mentre in un inno di Isidoro da Narmouthis sarà esaltata come "unica che tutto sei" (moúne sỳ eĩ hápasai, Vanderlip 1972, p. 18 e segg.). Iside sarà chiamata "dagli innumerevoli nomi" (myriṓnyma), espressione con cui si vorrà indicare che tutti i nomi divini in ultimo si riferiscono a lei e che tutti gli altri dèi sono solo aspetti della sua natura che abbraccia ogni cosa; si tratta della stessa idea che compare nel Corpus Hermeticum: tutti i nomi si riferiscono all'Uno (Asclepius, III, 20a).

Cosmogonie demotiche

di Mark Smith

Due sono le principali cosmogonie demotiche giunte sino a noi, entrambe scritte su papiro, ma sfortunatamente nessuna delle due è completa. Una di esse (papiro Berlino 13603) è attualmente conservata nell'Ägyptisches Museum di Berlino, mentre i frammenti che compongono l'altra sono divisi fra tre collezioni: il Carsten Niebuhr Instituttet for Naerorientalske Studier di Copenaghen, l'Istituto papirologico G. Vitelli di Firenze e la Beinecke Rare Book and Manuscript Library di New Haven.

Il papiro Berlino 13603, il più antico dei due manoscritti, risale al I sec. a.C. e proviene da Abusir el-Meleq, un villaggio situato a est del Fayyum.

All'inizio della narrazione ‒ o, almeno, all'inizio della parte conservata ‒ che riguarda la creazione del Cosmo, tutto è coperto dalle acque dell'oceano primordiale. La prima creatura che emerge è il dio Ptah: egli incarna la Terra appena emersa dalle profondità degli abissi. Il testo spiega che il centro del suo culto, Menfi, è stato chiamato 'Terra' proprio in considerazione di questo evento, cosicché è molto verosimile che questo sia il luogo dell'apparizione della divinità.

Ptah creò poi i membri dell'Ogdoade, un gruppo di otto divinità, quattro maschili con teste di rana e quattro femminili con teste di serpente; in seguito si aggiunse un'ulteriore coppia: Amon e la sua controparte Amaunet. Ptah trasportò l'Ogdoade a Ermopoli, il suo centro di culto situato nel Medio Egitto. Qui, dopo che essi ebbero assunto la forma di tori e di vacche, iniziò un processo di fusione: i quattro elementi maschili si unirono in un unico toro nero e i quattro femminili in una vacca nera, chiamati rispettivamente Amon e Amaunet.

Il toro nero, cercando di montare la vacca nera, disperse il suo seme che, anziché fecondarla, cadde in una massa d'acqua nota come 'il grande lago', dove fecondò un loto; da questo emerse, nella forma di uno scarabeo, il dio Sole bambino Pra, chiamato anche Pshai, che più tardi assunse le fattezze di un bambino coronato con l'ureo regale; a questo punto le divinità, che avevano assunto la forma del toro e della vacca neri, ritornarono alle loro forme originali. Il testo spiega che questa è l'origine dei molti nomi e delle numerose sembianze assunte dai componenti del pantheon egizio. L'Ogdoade, tutta insieme, proclamò la nascita della nuova divinità solare. Il bambino aprì gli occhi e da essi cominciarono a sgorgare lacrime. Queste erano le lacrime da cui avrebbe avuto origine l'umanità.

Se Menfi era il centro di culto di Ptah, Eliopoli, la sua controparte orientale, lo era del dio Sole. Entrambe avevano anche altri nomi: Menfi, per esempio, era chiamata anche 'le Mura Bianche' e 'la Bilancia delle Due Terre'.

Il manoscritto prosegue con una sezione che, sebbene molto danneggiata, sembra ricapitolare il racconto della nascita del dio Sole. Subito dopo è introdotto un argomento nuovo in cui si spiega come Ptah creò il sostentamento per tutti gli esseri viventi e come, per mezzo dell'inondazione del Nilo, fece in modo di mantenerlo in continuazione. Il motivo della bisessualità è qui in primo piano: come Ptah, l'inondazione è maschile e femminile insieme. Dell'orzo e del farro, i due cereali dai quali principalmente dipende il sostentamento degli Egizi, è detto che il primo è prodotto dalla metà maschile dell'inondazione, mentre il secondo è prodotto dalla sua metà femminile. Il resto del papiro Berlino 13603 tratta essenzialmente dell'eziologia.

L'altra cosmogonia demotica è stata scritta nel II sec. d.C. Essa proviene da Tebtunis nel Fayyum, dove probabilmente era conservata nella biblioteca del tempio. Nella sua forma attuale il papiro si compone di più di quaranta frammenti di diverse dimensioni, distribuiti nelle tre collezioni di Copenaghen, di Firenze e di New Haven citate all'inizio.

Anche questa cosmogonia ‒ almeno per la parte conservata ‒ inizia al tempo in cui tutto era sommerso dalle acque dell'oceano primordiale. Nelle sue profondità il dio Pshai trovò un luogo di sabbia su cui sostare e lì si alzò in piedi. Le acque nascondevano anche una pianta che crebbe e diventò un cespuglio, il quale galleggiando andò alla deriva finché si fermò in un luogo che deve essere identificato probabilmente con Ermopoli, dove Pshai si stabilì e sparse il suo seme. Sebbene il testo che segue sia mal conservato, la conseguenza di questo atto è quasi certamente la procreazione del figlio di Pshai, Ptah, che subito dopo appare per la prima volta nel testo.

Ptah creò gli otto membri dell'Ogdoade ermopolitana e diede loro i nomi. Successivamente, queste divinità iniziarono a fondersi le une nelle altre: le quattro componenti maschili in un unico dio e le quattro femminili in una sola dea. Alla fine questa coppia si unì in una singola divinità, identificata con Amon, che assunse la forma di un toro nero con otto diversi aspetti (ipostasi), una per ciascun membro dell'Ogdoade e ciascuna con i suoi poteri e attributi.

Il testo successivo descrive le attività dei quattro venti del cielo, in cui si può riconoscere un'ulteriore manifestazione di Amon. I quattro venti, infatti, si uniscono in uno solo, che separa il cielo dalla Terra e forma o fertilizza un uovo, dal quale si dice che uscirà il dio Sole Pshai. Questa è la stessa divinità che figura nella sezione di apertura della cosmogonia, dove fino a questo momento, tuttavia, conduceva la sua esistenza nascosto all'interno dell'oceano primordiale. Il fatto che Pshai esca dall'uovo rappresenta, dunque, non la sua creazione, ma piuttosto la sua prima manifestazione nel Cosmo creato.

In seguito, il dio Sole chiamò all'esistenza tutti gli altri dèi. Una sezione del testo molto mal conservata potrebbe descrivere la ribellione contro la divinità solare che si suppone essere avvenuta subito dopo la sua nascita, la sconfitta dei suoi nemici con l'aiuto di Thot e della vacca divina, e la sua elevazione al cielo insieme a questa dea. Dopo di ciò i membri dell'Ogdoade morirono e furono sepolti a Tebe. Thot, in veste di delegato del dio Sole in Terra, effettuò i riti funerari in loro favore prima di ascendere egli stesso al cielo come dio Luna.

Il testo prosegue raccontando la nascita di Horo e il suo nascondiglio nei papireti di Chemmi. Successivamente sono trattate l'origine e la natura della vita e della morte; si spiega come i mari, le montagne e le colline si siano formati, che cosa provochi l'inondazione del Nilo, perché gli animali si riproducano e le piante crescano, e come siano stati creati i minerali all'interno della Terra. Ciò che colpisce maggiormente dell'opera nel suo insieme è l'importanza del ruolo assegnato all'oceano primordiale nel funzionamento del Cosmo, dall'inizio dei tempi fino al presente.

È difficile accertare la data effettiva di composizione di queste cosmogonie. Sebbene siano chiaramente basate su fonti egizie precedenti, esse incorporano alcuni elementi nuovi. Nell'insieme non c'è ragione di supporre che siano molto più antiche dei manoscritti che ce le hanno conservate. Entrambi i testi hanno una forma narrativa con alcuni passaggi descrittivi o didattici. Tuttavia, il papiro di Copenaghen-Firenze-New Haven è introdotto da una preghiera o invocazione a Pshai, mentre il papiro Berlino 13603 contiene lodi rivolte direttamente a Ptah; in esso un narratore racconta di aver riferito la storia della nascita del dio Sole a un re (il cui nome non è menzionato), il quale la fece trascrivere nei libri dei templi. Queste caratteristiche fanno sorgere interrogativi riguardo al genere cui appartengono i testi, difficilmente risolvibili a causa del loro imperfetto stato di conservazione.

Oltre alle opere descritte, vi sono frammenti di altre opere cosmogoniche demotiche a Copenaghen, a Firenze e in altre località, che ancora attendono di essere studiate. Inoltre, informazioni sulla cosmogonia possono essere dedotte da altri tipi di testi demotici, come, per esempio, un Inno ad Amon scritto su un óstrakon del British Museum (EA 50601), in cui si lodano le attività del dio come antichissimo creatore (Smith 1977). Gli Insegnamenti del papiro Insinger, ora a Leida, contengono una lunga sezione in cui sono enumerate le opere divine grazie alle quali il Cosmo ha iniziato a esistere e poi ha mantenuto la sua continuità (Lexa 1926, vol. I, pp. 101-104). Un trattato astronomico (papiro Carlsberg 1) spiega l'origine delle stelle, il loro sorgere e il loro tramontare. Un passo di un'opera narrativa nota come la Storia di Setne e Siosiri (papiro British Museum 10822) completa utilmente la cosmogonia del papiro Berlino 13603 ‒ il quale, come abbiamo visto, attribuisce a Ptah la separazione del cielo dalla Terra ‒ facendo invece riferimento a una variante, nota anche attraverso altre fonti, in cui una tale azione è attribuita a Thot (Griffith 1900, vol. I, pp. 184-185). Per fare luce sulla concezione egizia della creazione del mondo è dunque utile fare riferimento a un'ampia gamma di fonti demotiche e non soltanto ai testi specificatamente dedicati a tale argomento.

Teologie locali dei templi egizi di epoca greco-romana

di Jürgen Zeidler

Due sono i temi di particolare interesse nei testi cosmogonici attinenti alle teologie locali dei templi di epoca greco-romana: la presentazione degli elementi che costituiscono l'ordine del mondo e l'illustrazione dei processi che hanno formato il mondo e che operano in esso.

I fondamenti ontologici di tale cosmogonia furono posti nel II millennio e non furono più modificati sino alla fase finale della cultura egizia. In base ad essi il mondo presenta una struttura costituita da quattro livelli: preesistenza (sostanza primordiale pre- ed extramondana); metatrascendenza (dio originario-demiurgo primordiale); trascendenza (mondo divino, cioè fenomeni cosmici come il cielo, il Sole, la collina primordiale, ecc.); realtà (esseri viventi, ossia i fenomeni della realtà tangibile). Questi quattro ambiti ontologici sono creati nel processo cosmogonico secondo la successione citata e non si distaccano l'uno dall'altro, bensì si sovrappongono come cerchi concentrici. Per esempio, il Nun (cioè le acque primordiali preesistenti) pervade gli altri tre ambiti ed è sempre presente sullo sfondo, come la matrix di una creatio continua.

Centrale, per la comprensione di queste cosmogonie è il concetto di preesistenza. Esso si basa sull'idea, tipicamente egizia, che soltanto ciò che ha forma può esistere veramente. Nelle più antiche cosmogonie all'inizio compare la materia primordiale, informe e senza struttura alcuna (le acque primordiali del Nun), da cui nasce, attraverso un atto di autocreazione spontanea, il demiurgo; il rapporto di successione cronologica è manifestato esplicitamente mediante la metafora del 'padre Nun'. A partire dal XIII sec. si nota un mutamento in questa formulazione: la successione temporale (e causale) di Nun e del demiurgo è reinterpretata come una compresenza temporale; viene così a mancare la causazione diretta del demiurgo da parte di una materia primordiale informe e il Nun diventa la forma preesistente del demiurgo.

Nel I sec. a.C., nei grandi templi di Edfu e Dendera il processo di causazione è concepito al contrario: non è più il demiurgo a nascere dalla materia primordiale, bensì è lui a creare tale materia come la propria personificazione preesistente, vale a dire non ancora appartenente all'ordine cosmico successivo; con ciò il demiurgo è posto al principio del mondo, il quale viene da lui creato ex nihilo.

Nelle teorie cosmogoniche precedenti permane dunque un elemento di inesplicabilità non accessibile all'umanità, poiché certamente nessuno può sapere qualcosa sul tempo che precede la propria nascita, nemmeno lo stesso demiurgo. Neppure per il tramite della rivelazione divina (il sogno, l'oracolo, ecc.) è possibile conoscere il tempo delle origini. Con le grandi cosmogonie dei templi di Edfu e Dendera il tempo che precede la creazione è invece assoggettato alla capacità intellettiva umana: il punto di partenza è dato da un demiurgo il quale dispone di tutto il sapere che riguarda la creazione. Queste cosmogonie rappresentano pertanto il tentativo di razionalizzare ciò che inizialmente era inesplicabile e di farne un tema per la riflessione dell'uomo.

Di seguito si darà una descrizione delle principali cosmogonie dei templi greco-romani, seguita da un'analisi dei loro contenuti.

La cosmogonia del tempio di Horo a Edfu

Uno degli esempi più importanti di cosmogonia si trova nel tempio di Horo a Edfu e s'accompagna a una scena rituale. L'iscrizione, che si trova sul lato orientale interno del muro di cinta, è databile all'epoca di Tolomeo X (88-80 a.C.). Non si sa con certezza quale sia l'origine del testo, anche se probabilmente è stato redatto per la prima volta in epoca tolemaica.

Il testo è particolarmente lungo e complesso, e vi si possono riconoscere più livelli critici; esso comincia in modo repentino, cosicché i primi eventi della cosmogonia possono essere ricostruiti soltanto approssimativamente. All'inizio esiste Horo, il demiurgo, sotto forma di occhio preesistente. Come prima azione, il demiurgo crea due specchi d'acqua chiamati Waret e Hebebet; dà poi vita agli dèi Wai e Aa, i quali appartengono al gruppo degli Shebtiu, che assistono il demiurgo nella cosmogonia. Il testo vero e proprio inizia quando le acque entrano in conflitto e l'occhio di Horo s'abbassa a separarle. Un fascio di canne viene 'visto' dalla fantasia creativa del dio e in tal modo è portato all'esistenza; le canne quindi si separano quando Aa, che aveva nuotato qua e là, tocca la riva.

Il secondo livello ontologico si raggiunge attraverso la trasformazione del demiurgo nel falco Heter-Her. Egli 'vede' un'ala in modo analogo al fascio di canne precedente; in seguito emergono alcune strisce di sabbia a sostegno dei suoi piedi. Il demiurgo diventa allora il falco Siau e, di conseguenza, appare anche l'altra ala.

Il dio, dispiegando le ali, dilata lo spazio del mondo creato; egli vola al terzo livello della trasformazione ontologica divenendo Api, il disco solare alato. Sono poi creati gli dèi superiori e inferiori, e il dio solare è collocato nel cielo. Si passa quindi alla creazione di un luogo di pena, dov'è collocato il nemico degli dèi Sesi (Apofi). Il demiurgo è infatti il signore del terrore, colui che sconfigge gli avversari. Dopo ciò compare Tatenen (la Terra emersa) ed è creato il collegio divino dell'Ogdoade insieme con Thot.

Il quarto livello ontologico si costituisce attraverso la trasformazione del demiurgo in Horo Sekhem-Her. Segue la fase del 'plasmare ciò che è destinato' attraverso l'apparizione del dio Khnum; è dato un nome alle sponde, sono create le piante verdi ed è creato il primo uomo, mentre le acque sono respinte. La cosmogonia termina con una lode al demiurgo.

La cosmogonia sul secondo pilone di Karnak (portale di Evergete)

Un altro importante testo si trova nel tempio di Amon-Ra a Karnak, iscritto su due lunghe linee orizzontali su entrambi i lati della porta centrale del secondo pilone (portale di Evergete). La lingua si riallaccia al medioegizio classico del II millennio (neo-medioegiziano). La datazione del testo originale è incerta e dubbia appare anche la possibilità che si tratti di una raccolta di diversi testi isolati. Questa cosmogonia prevede la preesistenza dell'acqua primordiale Nun e l'implicito stabilirsi del secondo livello ontologico, grazie alla creazione di Amon da parte del padre Nun. Amon porta sin dall'inizio sulla fronte l'ureo, il serpente nero simbolo regale. Con il fuoco (bsjt) dell'occhio dell'ureo è 'cotta' Tebe, che diventa la collina primordiale emergente dalle acque. Amon progetta quindi l'ulteriore sviluppo del Cosmo, creando Tatenen (la parte emersa della Terra) e l'Ogdoade delle divinità, cioè i principî primordiali.

Il terzo livello ontologico si realizza mediante la trasformazione di Amon in un bambino sublime (ḫi špsy), che sorge da un fiore di loto nel mezzo delle acque primordiali. Poiché in Egitto (come anche in India) esiste un legame culturale-associativo fior di loto-Sole, cioè occhio-Sole, ne segue, come evento successivo, l'illuminazione della Terra attraverso i due occhi di Amon: il Sole e la Luna. Dall'occhio (Sole) escono lacrime (rmyt), che danno origine agli uomini (rmṯ), mentre dalla saliva (ntt) della sua bocca nascono gli dèi (nṯrw).

La cosmogonia nel tempio di Khonsu nell'area templare di Karnak

I testi cosmologici del tempio di Khonsu a Karnak sono raccolti in due scene rituali che hanno per oggetto la consegna di una statua raffigurante la Maat a diverse divinità. Il testo principale si trova nel registro inferiore della parete occidentale della sala V (direttamente dietro al santuario). Poiché i cartigli regali sono vuoti non è possibile datare esattamente l'iscrizione. Le altre pareti erano già state decorate nel 1153-1146 e intorno al 150 a.C.; È assai probabile che anche i testi cosmogonici siano stati incisi tra la metà del II sec. a.C. e il I sec. d.C. L'epoca d'origine dei testi è databile nell'intervallo tra il 1200 a.C. e il I sec. d.C.; la lingua, ispirata al medioegizio classico, non indica a priori una redazione in quell'epoca.

All'inizio della cosmogonia sono già presenti Ptah (cioè Tatenen) e l'acqua (mw, cioè Nun). Non può essere stabilito a chi dei due spetti la precedenza temporale. Il secondo livello ontologico si costituisce grazie alla trasformazione del demiurgo Ptah nel primo serpente; sotto questa forma egli crea il cielo e la Terra. Il cielo sputa un uovo, che, fecondato dal demiurgo, si trasforma in un secondo serpente; questo, identificato con Amon, ingoia l'uovo (mitica gravidanza nella gola), al cui interno si forma il gruppo divino dell'Ogdoade. Attraverso ulteriori trasformazioni e accoppiamenti nascono poi la Terra e il Sole. Qui il testo s'interrompe.

La cosmogonia di Neith nel tempio di Esna

Nel tempio di Esna, a sud di Tebe, sono venerate due divinità, Khnum criocefalo, cioè con testa d'ariete, e Neith antropomorfa o in forma di vacca, che sono le figure principali del racconto della creazione. Il testo della cosmogonia di Neith è nella zona centrale della seconda colonna del primo colonnato nella parte destra dell'ipostilo; l'incisione risale all'epoca dell'imperatore romano Traiano (98-117). Non è stato possibile finora datare l'origine del testo utilizzando criteri linguistici.

Nella cosmogonia di Esna, il primo livello ontologico presuppone la preesistenza dell'acqua primordiale Nun, che è il corpo della creatrice androgina Neith. Il secondo livello è costituito dalla mutazione di Neith in una vacca; segue immediatamente il terzo livello ontologico, nel momento in cui la creatrice si trasforma in un pesce (Lates niloticus), per potersi muovere nel Nun. Con i suoi sguardi la dea rischiara, e così nasce la luce; per il suo bisogno di quiete essa trasforma una zona del Nun in terraferma e risplende sopra il luogo. In conformità ai nomi pronunciati sorgono le città di Esna e il suo corrispondente nel Basso Egitto, Sais, e poi il resto dei luoghi e l'intero Egitto. Sia i nomi enunciati che i luoghi sono riferiti etimologicamente gli uni agli altri: per esempio "splendere" (bʒq) ed "Egitto" (bʒqt). Per alleviare la sua solitudine, Neith crea trenta dèi e insieme ad essi si dirige a Esna-Sais, dove crea una collina. La dea procede quindi a una serie di creazioni: dalle lacrime nascono gli uomini, dalla saliva gli dèi e da un'espettorazione della sua bocca Apofi e con esso la ribellione contro l'ordine cosmico; infine, dalla sua afflizione nasce Thot, attraverso la cui intelligenza si pone termine alla ribellione. Il terzo livello ontologico si conclude con le sette parole della creazione, pronunciate da Neith. Il livello successivo si realizza tramite la sua trasformazione nella Vacca-Ahet che, recatasi a Sais, si trasforma nella Vacca-Wereret, cioè nella forma cultuale propria di quella città. Il racconto della creazione termina con la descrizione dell'immagine di culto e dell'organizzazione delle sue feste.

La teologia della luce

Confrontando fra loro le varie cosmogonie si nota che, mentre nel II millennio la nascita della luce coincide con la creazione del Sole, nel I millennio, al contrario, si parla di due differenti tipi di luce, che sono indicati con parole diverse: per esempio, a Esna sono usati i termini sšpw e ḥḏḏwt. Nei testi successivi la prima luce a essere creata appartiene al terzo livello ontologico e la seconda, che è quella solare, al quarto. In questo modo la luce primaria è una creatura del mondo divino, che non può essere vista dagli uomini normali, mentre può essere percepita dagli dèi e dalle anime defunte (akh). L'idea di una duplice creazione della luce era probabilmente la conseguenza di un'intensa discussione sulla questione della presenza della luce nell'aldilà. Secondo il punto di vista tradizionale, la risposta a tale questione era affermativa, poiché sembrava che nel regno dei morti si provvedesse anche ad altre necessità umane, come la nutrizione e l'alloggio: "La tua [del demiurgo] anima (ba) è in cielo, lontana sopra l'umanità; i suoi raggi toccano le caverne dell'oltretomba" (tomba di Tjai, in Assmann 1983, p. 19). Questa descrizione contribuisce di certo all'immagine serena dell'aldilà egizio, differentemente da quello mesopotamico o greco. Contro quest'idea tradizionale prese però corpo, a partire dall'epoca di Amarna (1350 ca.), una lenta opposizione e spiegazioni sempre più naturalistiche iniziarono a confluire nelle cosmologie. Già nell'Inno ad Aton di Akhenaton troviamo scritto: "tu tramonti nell'orizzonte occidentale, così il mondo è nella tenebra, nella condizione di morte. I dormienti [i morti] sono nella camera, con il capo coperto, nessun occhio vede l'altro". Dubbi circa la presenza della luce nell'aldilà si trovano specialmente in Tjanefer, il terzo sommo sacerdote di Amon (1184-1153 ca.):

La presa degli spiriti luminosi e dei defunti non ti può raggiungere. Tu sei molto lontano da loro; essi non ti possono vedere, poiché tu sei in cielo e ti allontani velocemente verso le zone 'superne'. [Per ciò che riguarda] i tuoi raggi, essi vengono visti da coloro che sono sulla Terra, [ma] non sono visti da coloro che stanno sotto il suolo. Tu vieni [?] verso di loro, mentre sei molto chiaro e grande, [ma] [per loro] molto scuro e coperto [macchiato e sporco]. [Allora:] la luce è per loro un 'tabù'; tu non puoi destinare loro niente di ciò che è in te. (Assmann 1983, p. 203)

La doppia creazione della luce, presente nell'Età Tarda, si colloca su questo sfondo e si profila come una soluzione del conflitto; qualora nel mondo divino, prima della creazione del Sole, fosse stato presente un tipo di luce, allora questa avrebbe potuto operare anche laddove la luce solare non poteva inoltrarsi, attraverso la Terra sino all'oltretomba. Soltanto la luce solare terrena è confinata alla superficie terrestre. La rappresentazione, propria della cosmologia egizia, della luce del mondo divino concorda con quella tardoantica della luce come forza ordinatrice dell'Universo.

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