Scienza indiana: periodo vedico. La matematica e l'astronomia nei testi vedici

Storia della Scienza (2001)

Scienza indiana: periodo vedico. La matematica e l'astronomia nei testi vedici

Takao Hayashi
David Pingree

La matematica e l'astronomia nei testi vedici

Espressioni numeriche nei testi vedici

di Takao Hayashi

Poiché i testi vedici hanno carattere eminentemente religioso e sono scritti da poeti, non ci si può aspettare di trovarvi informazioni sufficienti a una descrizione sistematica delle conoscenze matematiche del tempo; vi si possono soltanto individuare nomi di numeri interi (talvolta elencati in sequenze), di frazioni elementari, di semplici figure geometriche, e inoltre reperire elementi sulla pratica della matematica. Il termine gaṇaka ('colui che calcola', 'calcolatore') compare nella Vājasaneyisaṃhitā (Raccolta propria dei Vājasaneyin; 30.20) e nel Taittirīyabrāhmaṇa (Brāhmaṇa della scuola Taittirīya; 3.4.15), nelle liste delle persone da sacrificare in occasione del puruṣamedha (rito sacrificale umano). Tuttavia va osservato che nella lista della Vājasaneyisaṃhitā il gaṇaka, destinato a essere sacrificato alla divinità di un animale marino, è di solito identificato con un astrologo, anche se nello stesso elenco (30.10), prima del gaṇaka, figura già un astrologo, nakṣatradarśa ('osservatore di stelle'), sacrificato alla divinità della saggezza. Nel Taittirīyabrāhmaṇa, invece, il gaṇaka, che è sacrificato alla divinità dei canti insieme a un suonatore di vīṇā (uno strumento a corde), è presumibilmente connesso alla musica.

Una lista di 18 campi del sapere, che inizia con i quattro Veda, compare nella Chāndogyopaniṣad (Upaniṣad dei cantori in versi; 7); essa comprende, tra l'altro, i termini nakṣatravidyā ('conoscenza delle stelle') e rāśi, termine che in genere significa 'quantità', 'numero' e che secondo alcuni qui indicherebbe l'aritmetica (Datta 1962).

Non sappiamo se in epoca vedica si facesse uso di simboli per i numeri. Secondo alcuni studiosi il termine aṣṭa nei composti aṣṭakarṇī (Ṛgveda, 10.62.7) e aṣṭāpruḍḍhiraṇyam o aṣṭāpṛḍaṃ (o aṣṭāmṛḍaṃ) hiraṇyam (Kāṭhakasaṃhitā, 13.10) farebbe riferimento a un simbolo per indicare il numero 8, ma l'ipotesi è respinta da altri (per es., Datta 1986).

Il Ṛgveda (Veda degli inni) contiene una certa quantità di espressioni numeriche. I poeti vedici avevano una particolare predilezione per il 3 e per il 7 come numeri sacri e utilizzavano frequentemente i multipli di questi, come 3×7, 33 (=3×11), 3×50, 3×70, 3×7×70, e 333 (=3×111). È stato ipotizzato che il numero degli dèi, 3339, fornito da Ṛgveda (3.3.9), rappresenti la somma di 33, 303 e 3003 (Maiti 1995). Sebbene non vi siano prove che gli Indiani di quel tempo utilizzassero una numerazione posizionale, questa somma non doveva presentare grandi difficoltà, poiché il loro sistema numerico era fondamentalmente 'decimale'. Essi impiegavano i termini eka, daśa, śata, sahasra e ayuta, per indicare i numeri 1 (=100), 10 (=101), 100 (=102), 1000 (=103) e 10.000 (=104). Per i multipli di 103 e di 104 ricorrevano spesso a espressioni basate su 102 e su 103; per esempio, 2×103=20 (vimśati)×102 (śata), 3×104=30 (triṃśat) ×103 (sahasra), ecc. Le parole 'cento' e 'mille' erano talvolta utilizzate nel senso di 'un certo numero'. Così, si narra che Indra abbia distrutto cento antiche fortezze di Śambara e ucciso centomila (śataṃ sahasram) uomini coraggiosi di Varcin (Ṛgveda, 2.14.6). Anche il numero 60 sembra avesse una particolare importanza per i poeti vedici, poiché s'incontrano espressioni come "mille e sessanta (1060) vacche" (ibidem, 1.126.3), "sessantamilanovantanove (60.099) re" (ibidem, 1.53.9) e "sessantamila ayuta (60×103×104=6×108) di cavalli" (ibidem, 8.46.22), ma non siamo in grado di valutarne la significatività.

Il Ṛgveda contiene riferimenti anche alle frazioni più comuni dell'unità: 1/2 (ardha, 'un mezzo'), 1/4 (pāda, lett. 'piede', dai 4 'piedi' di un quadrupede), 1/8 (śapha, 'dito', dalle 8 dita che compongono i 4 zoccoli di una vacca) e 1/16 (kalā, 'digito', dai 16 'digiti' della Luna).

Non sembra che gli Indiani vedici incontrassero particolari difficoltà nell'eseguire addizioni, sottrazioni e, probabilmente, anche la moltiplicazione tra numeri interi. La divisione risultava invece assai più complicata se c'era un resto; soltanto Indra e Viṣṇu si diceva fossero riusciti a dividere mille vacche per tre: secondo lo Śatapathabrāhmaṇa (Brāhmaṇa dei cento sentieri; 3.3.1.13, 4.5.8.1), essi ottennero correttamente un quoziente di 333 con il resto di 1. Si ritiene che impliciti riferimenti a questa storia fossero presenti già in Ṛgveda, 6.69.8.

All'epoca della Yājurvedasaṃhitā (Raccolta del Veda delle formule sacrificali), al più tardi, gli Indiani avevano esteso la lista dei nomi delle potenze di dieci fino a 1012: eka (100=1), daśa (101=10), śata, sahasra, ayuta, niyuta, prayuta, arbuda, nyarbuda, samudra, madhya, anta e parārdha (1012). Questo elenco compare nei testi di entrambe le scuole yajurvediche.

Nella Vājasaneyisaṃhitā (17.2) questi termini sono utilizzati per contare il numero di mattoni impiegati nella costruzione degli altari, che aumentano in progressione geometrica di ragione 10; nella Taittirīyasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Taittirīya; 7.2.11-20) essi compaiono nelle formule sacrificali (mantra) da pronunciare in occasione di un annahoma, 'rito dell'offerta di cibo', officiato in una certa fase dell'aśvamedha, il 'sacrificio del cavallo'. Nell'annahoma un sacerdote fa una serie di oblazioni di burro chiarificato, miele, riso, orzo, ecc., al fuoco (agni), chiamate ahavanīya, nel corso della notte fino all'alba, recitando mantra che prevedono la ripetizione della seguente formula: numerale al dativo + svāhā ('salute a').

Il primo mantra recita: "Salute a uno, salute a due, salute a tre […], salute a diciannove, salute a venti, salute a ventinove, salute a trentanove […], salute a novantanove, salute a cento, salute a duecento, salute al tutto". I numeri che compaiono nel mantra sono quelli da 1 a 20, e poi 29, 39, 49, 59, 69, 79, 89, 99, 100 e 200, ma sembra che si tratti dell'abbreviazione della serie di numeri naturali da 1 a 200 o più. Secondo l'interpretazione tradizionale, "uno" rappresenta Prajāpati (signore delle creature o creatore), mentre gli altri numeri rappresentano tutte le cose del mondo originate da lui. I mantra successivi consistono nelle seguenti serie di numeri, ciascuna delle quali si conclude con le parole 'salute al tutto': i numeri dispari della serie del primo mantra più 100; 2, 4, 6, 8, 10, 12, 14, 16, 18, 20, 98, 100 (numeri pari fino a 100); i numeri dispari della serie del primo mantra da 3 a 99, e poi anche 100; 4, 8, 12, 16, 20, 96, 100 (multipli di 4 fino a 100); 5, 10, 15, 20, 95, 100 (multipli di 5 fino a 100); 10, 20, 30, 40, 50, 60, 70, 80, 90, 100 (i multipli di 10 fino a 100); 20, 40, 60, 80, 100 (i multipli di 20 fino a 100); 50, 100, 200, 300, 400, 500, 600, 700, 800, 900, 1000 (50 e i multipli di 100 fino a 1000).

L'ultimo mantra contiene i nomi delle potenze 'decimali' ricordati prima, da śata (102) a parārdha (1012): "Salute a śata, salute a sahasra, salute ad ayuta […], salute a parārdha, salute all'alba (uṣas), salute al tramonto (vyuṣṭi), salute a quello che sta per sorgere (udeṣyat), salute a quello che sta sorgendo (udyat), salute a quello che è appena sorto (udita), salute al cielo (svarga), salute al mondo (loka), salute a tutto". Le quattro frasi introdotte da "salute all'alba" sono recitate immediatamente prima del sorgere del Sole, le quattro introdotte da "salute a quello che è appena sorto" subito dopo. L'ipotesi avanzata da alcuni studiosi, secondo i quali gli ultimi sette termini (da uṣas a loka) sarebbero da interpretare come i nomi delle potenze da 1013 a 1019, sembra essere priva di fondamento.

Liste simili di nomi decimali, spesso con varianti, compaiono anche nella Maitrāyaṇīsaṃhitā (Raccolta propria della scuola Maitrāyanīya), nella Kāṭhakasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Kāṭhaka)‒ in cui parārdha designa 103, poiché 109 è stato introdotto per indicare un nuovo termine ‒, nel Pañcaviṃśabrāhmaṇa (Brāhmaṇa in venticinque libri), ecc.

È stato ipotizzato che nell'Atharvaveda (Veda degli Atharvan; 19.22.6) lo zero fosse indicato dal termine kṣudra (lett. 'piccolo', 'trascurabile') e un numero negativo dal termine anṛca (lett. 'senza inno'; ibidem, 19.23.22; Datta 1986; Shukla 1994); tuttavia tale congettura resta comunque ancora da dimostrare.

Le conoscenze geometriche

di Takao Hayashi

È probabile che il teorema di Pitagora, esplicitamente enunciato e utilizzato dagli autori degli Śulbasūtra (Aforismi sulla costruzione di altari), fosse già noto al più tardi all'epoca dei Brāhmaṇa.

Nello Śatapathabrāhmaṇa (Brāhmaṇa dei cento sentieri; 10.2.3.18) è spiegato come viene progressivamente aumentata l'area degli altari del fuoco (agni). L'altare di base, chiamato "il sette volte agni", ha un'area di sette puruṣa quadrati e mezzo (un puruṣa, o 'uomo', è pari all'altezza del sacrificante con le mani tese verso l'alto); nei riti successivi officiati dallo stesso sacrificante essa viene aumentata di un puruṣa quadrato fino a ottenere l'altare "centouno volte agni". L'aumento dell'area doveva essere effettuato probabilmente prendendo come puruṣa un nuovo valore, maggiore del precedente (ibidem, 10.2.3.6, dove si fa riferimento all'incremento delle misure lineari, prakrama 'passo' e vyāma 'braccio', utilizzate per scopi simili). In altre parole, se m e x denotano rispettivamente l'area aggiunta e la lunghezza del nuovo puruṣa misurato rispetto al vecchio, si ha la relazione 7,5+m=7,5×x2, cioè x2=2(7,5+m)/15 o, equivalentemente, x2=1+(2m/15). La prima di queste tre relazioni è utilizzata negli Śulbasūtra di Kātyāyana (5.4-5), la terza in quello di Baudhāyana (2.12). Kātyāyana costruisce due quadrati, uno di sette puruṣa quadrati e mezzo, l'altro di un puruṣa quadrato (prendendo m=1), poi li somma mediante il teorema di Pitagora ottenendo un quadrato che divide in 15 parti uguali (molto probabilmente di forma rettangolare) e trasforma infine due di queste in un quadrato (anche per questa operazione ricorre al teorema di Pitagora; v. il procedimento di trasformazione di un rettangolo in un quadrato, cap. IX, par. 2). Il lato del quadrato ottenuto in questo modo è il nuovo puruṣa da utilizzare per costruire l'"otto volte agni". Baudhāyana e l'autore dello Śatapathabrāhmaṇa non enunciano esplicitamente il procedimento da seguire, ma non vi è motivo di dubitare che anch'essi usassero un metodo simile, basato sul teorema di Pitagora.

Lo Śatapathabrāhmaṇa sembra fare riferimento all'inverso del teorema di Pitagora, il quale si può enunciare dicendo che se la somma delle aree dei quadrati costruiti sui due lati di un triangolo è uguale a quella del quadrato costruito sul lato restante, allora i due lati formano un angolo retto. Il brano in questione fornisce le istruzioni per la costruzione della mahāvedi (lo spazio in cui sorge il grande altare), che deve avere la forma di un trapezio isoscele con base maggiore di lunghezza 30 vikrama, base minore 24 e altezza 36 (ibidem, 3.5.1.2-6). Lo Śatapathabrāhmaṇa non spiega come costruire tale trapezio, ma è probabile che si usasse il triangolo rettangolo di lati 15, 36 e 39 vikrama, formato dalla metà della base maggiore del trapezio (15) e dalla mediana dello stesso o, in alternativa, i triangoli di lati 12, 16 e 20 vikrama e 15, 20 e 25 vikrama, formati l'uno dalla metà della base minore (12) e da un segmento della mediana tagliata dalla diagonale, l'altro dalla metà della base maggiore (15) e dal resto della mediana.

Il primo triangolo è effettivamente usato nello Śulbasūtra di Āpastamba (5.2) in uno dei quattro metodi prescritti a tale fine. Gli ultimi due triangoli sono simili al triangolo rettangolo di lati 3, 4 e 5 che fu adoperato per determinare una linea ortogonale alla linea est-ovest ottenuta servendosi delle ombre di uno gnomone in occasione di un rituale agnicayana officiato in Kerala nel 1975 (Staal 1983, I). È anche documentato un altro metodo, il cosiddetto metodo del 'pesce', che impiega una specie di compasso senza fare ricorso al teorema di Pitagora. Pertanto, non si può escludere che anche lo Śatapathabrāhmaṇa usasse lo stesso metodo per determinare la posizione della base maggiore e della base minore data la mediana.

Stelle e costellazioni

di David Pingree

In passato sono state avanzate molte speculazioni fantasiose e inattendibili sul preteso significato astronomico dei testi vedici. In questa sede si cercherà di non tenere conto di tali interpretazioni e di circoscrivere la discussione ai significati manifesti di quei passi in cui gli autori dei Veda fanno esplicito riferimento a fenomeni astronomici oppure descrivono alcuni aspetti della teoria astronomica; si farà cenno solamente ad alcuni dei tentativi di individuare riferimenti a particolari stelle o pianeti.

Nel Ṛgveda si hanno due termini principali col significato di 'stella'. Uno è stṛ, che compare sempre allo strumentale plurale (stṛbhis); l'altro è nakṣatra, che potrebbe però, almeno in alcuni passi, designare il Sole. Un'altra parola che nel Ṛgveda (I, 24, 10), come anche in testi più tardi, compare col significato di 'stella' è ṛkṣa (propriamente 'orso'; ma il termine non designa la costellazione dell'Ursa Maior, che nella tradizione indoiranica non era concepita come un'orsa). L'unica stella di cui sicuramente si fa menzione nel Ṛgveda è Tiṣya (avestico Tiṣtrya, cioè Sirio), nominato in V, 54, 13 ("Tiṣya dal cielo") e in X, 64, 8, ove è descritto come un arciere che si trova in compagnia di Kṛśānu e Rudra. Si aggiunga però che i termini aghās e arjunī in X, 85, 13 potrebbero designare i nakṣatra Maghās e Phalgunī. Questa interpretazione è confermata dalla versione atharvavedica della medesima strofa (Atharvaveda, XIV, 1, 13), nella quale aghās e arjunī sono appunto sostituiti da Maghās e Phalgunī. Anche lo Śatapathabrāhmaṇa (II, 1, 2, 11) identifica il nakṣatra Arjunī con Phalgunī.

Tav. I

Nella sezione più antica dell'Atharvaveda (Libri I-XVIII) sono nominati molti altri nakṣatra. Alla strofa VI, 110, 3, si fa uso dell'espressione "generato sotto nakṣatra", nato cioè quando la Luna si trovava in Jyeṣṭhaghnī (in seguito Jyeṣṭhā), nei Vicṛtau di Yama (il nakṣatra Vicṛtau fu in seguito chiamato Mūla). I Vicṛtau sono menzionati anche in II, 8, 1, in III, 7, 4, e in VI, 121, 3. Nei casi in cui, poi, le parti di un bovino sono identificate con vari esseri divini, il collo corrisponde al nakṣatra Revatī, le spalle alle Kṛttikās (Atharvaveda, IX, 7, 3). È però solo in Atharvaveda, XIX, 7, 2-5, che sono menzionate le ventotto costellazioni, nakṣatra; nella Tav. I se ne riportano i nomi, insieme con quelli delle stelle identificate come loro stelle principali (yogatārā), in base alle coordinate fornite dal Paitāmahasiddhānta (Siddhānta di Brahmā; inizi del V sec. d.C.).

Tav. II

Le identificazioni delle stelle principali in base alle coordinate fornite dai siddhānta medievali non sono però necessariamente significative quanto ai nakṣatra del periodo vedico. Altre liste di ventisette nakṣatra (ventotto in Maitrāyaṇīsaṃhitā, I, 13, 20, ove il nakṣatra aggiuntivo è il ventesimo della lista dell'Atharvaveda, Abhijit) ricorrono, assieme ai nomi delle relative divinità, nelle descrizioni del rituale agnicayana esposto dallo Yajurveda (Veda delle formule sacrificali). Nella Tav. II è riportata la lista fornita dalla Taittirīyasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Taittirīya; IV, 4, 10, 1-3), con le varianti ai nomi dei nakṣatra che risultano dalla Kāṭhakasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Kāṭhaka; XXXIX, 13) e l'elenco delle divinità corrispondenti.

Diversi fattori ‒ l'elenco inizia con le Pleiadi; ciascuna costellazione è associata a una divinità; ciascuno dei tre nakṣatra, Phalgunī, Aṣādhās e Proṣṭhapadās, corrisponde a una singola costellazione mesopotamica (rispettivamente UR.GU.LA, PA.BIL.SAG e AS̆.GAN) ‒ indicano che l'elenco indiano dei nakṣatra è una versione ampliata dell'elenco delle costellazioni situate sul percorso della Luna fornito dal compendio cuneiforme MUL.APIN.

Il Taittirīyabrāhmaṇa (I, 5, 1) dà un elenco di ventisette nakṣatra che occupa una posizione intermedia tra quello della Taittirīyasaṃhitā e quello della Kāṭhakasaṃhitā. L'elenco comprende Invakā, Bāhū, Āśreṣās, Pūrve Phalgunī, Uttare Phalgunī, Hasta, Niṣṭyā, Viśākhe, Rohiṇī, Mūlavarhaṇī (associata alla divinità Nirṛti), Pūrvā Aṣāḍhās, Uttarā Aṣāḍhās, Śroṇā, Pūrve Proṣṭhapadās, Uttare Proṣṭhapadās e Apabharaṇīs. Più avanti (III, 1, 1-6) lo stesso testo, unico tra i Brāhmaṇa, descrive i sacrifici ai nakṣatra (nakṣatreṣṭi). Come nella Maitrāyaṇīsaṃhitā in questo rituale sono venerati ventotto nakṣatra. Tra questi, i primi quattordici, detti 'nakṣatra degli dèi', sono seguiti dalla Luna piena, in modo tale che il mese sia equivalente a Vaiśākha e sia amānta, cioè 'terminante con la congiunzione', mentre i secondi quattordici, detti nakṣatra di Yama (che è la guida degli antenati defunti), sono seguiti dalla notte di Luna nuova. Con questo ordinamento il mese ha trenta giorni, mentre la lista di ventisette o ventotto nakṣatra presuppone un mese siderale. I nakṣatreṣṭi sono dunque artificiali e ineseguibili in pratica.

La Luna è definita nell'Atharvaveda (V, 24, 10 e VI, 86, 2), nella Taittirīyasaṃhitā (III, 4, 5, 1) e in altre fonti "signore supremo dei nakṣatra". La descrizione delle costellazioni situate sul percorso lunare fornito in MUL.APIN è conforme all'elenco dei nakṣatra. Nella Taittirīyasaṃhitā (II, 3, 5, 1-3) si narra la leggenda secondo la quale Prajāpati avrebbe dato le sue trentatré figlie a Soma, la Luna (maschile in sanscrito). Dapprima questi si unì alla sola Rohiṇī, ma alla fine fu costretto a unirsi anche a tutte le altre. Poiché il nome di uno dei nakṣatra è appunto Rohiṇī, si deve concludere che da questa storia ebbe origine il mito secondo il quale la Luna trascorre una notte con ciascuno dei ventisette o ventotto nakṣatra di un mese siderale. L'ideatore del mito ignorava però che le figlie di Prajāpati sposate da Soma erano ben trentatré e che, dal punto vista grammaticale, molti dei nomi dei nakṣatra sono duali o plurali, e maschili o neutri, mentre soltanto pochi di essi sono singolari e femminili.

Tra tutti i tentativi, poco convincenti, di rintracciare nomi di stelle nei Veda, l'unica certezza è la menzione delle sette stelle delle Kṛttikā nella Taittirīyasaṃhitā (IV, 4, 5, 1) e nel Taittirīyabrāhmaṇa (III, 1, 4, 1). Esse erano denominate Ambā, Dulā, Nitatni, Abhrayantī, Meghayantī, Varṣayantī e Cupuṇīkā. Esiste una famosa storia riportata dallo Śatapathabrāhmaṇa (Brāhmaṇa dei cento sentieri; II, 1, 2, 3-4) che spiega perché non si deve preparare il fuoco sacro mentre il Sole si trova nella costellazione delle Kṛttikā, nonostante che Agni, il dio del fuoco, sia la divinità di quel nakṣatra e il guardiano dell'Est. Secondo tale storia, i sette personaggi femminili che formano le Kṛttikā sono sposati con sette stelle dette Saptarṣi (i Sette Ṛṣi, Ursa maior). Esse non possono però coabitare con i loro mariti poiché le Kṛttikā non deviano mai dall'Est, mentre i Saptarṣi 'sorgono' sempre a nord. Questo mito non è spiegabile, come fece taluno, asserendo che lo Śatapathabrāhmaṇa fu composto allorché le Pleiadi si trovavano sull'equatore nel 3000 a.C.; piuttosto, esso riflette l'associazione, presente in MUL.APIN, del Carro (MAR.GID.DA, Ursa Maior) con il vento del nord e di MUL.MUL (le Pleiadi) con il vento dell'Est.

Un'altra stella, Arundhatī, è descritta come la consorte dei Sette Ṛṣi, in un tardo testo vedico, il Taittirīyāraṇyaka (Āraṇyaka della scuola Taittirīya; I, 7, 3). Nella tradizione successiva, invece, Arundhatī è la moglie del ṛṣi Vasiṣṭha. Quest'ultimo probabilmente corrisponde, se la descrizione di Varāhamihira nella Bṛhatsaṃhitā (Grande saṃhitā; XIII, 1-6) è stata interpretata correttamente, a ζ Ursae Maioris, nel qual caso Arundhatī sarebbe la piccola stella Alcor.

Il Sole e la Luna

di David Pingree

Il Ṛgveda (I, 115, 5) afferma che una faccia del Sole è eternamente bianca e l'altra nera. Tale idea è chiarita da un altro tardo inno (X, 37, 3), ove si afferma che il Sole (dopo il tramonto) si muove verso est presentando la faccia scura, e si leva (a est) con l'altra faccia, che è luminosa. Dunque, il Sole di giorno attraversa il cielo mostrando la sua faccia luminosa, e di notte ritorna mostrando la faccia scura. Non si muove al di sotto della Terra né intorno a un'alta montagna, come nelle teorie indiane più tarde. Questa idea è ripetuta nell'Aitareyabrāhmaṇa (Brāhmaṇa di Aitareya; III, 44, 6-9). Secondo lo Śatapathabrāhmaṇa (Brāhmaṇa dei cento sentieri; VIII, 7, 2, 4-5) il Sole, di notte, si muove intorno al margine del cielo, girando a destra, cioè in senso orario. In numerosi passi del Ṛgveda (I, 191, 8; III, 15, 2; VII, 63, 5, come anche X, 37, 3 già citato) è detto che il Sole sorge a est. Ciò non implica necessariamente che esso sia stato al di sotto della Terra; il Sole semplicemente si leva dal margine del cielo.

Nel Ṛgveda non si fa cenno al moto annuale del Sole, sebbene in I, 164 le sue conseguenze (l'alternarsi delle stagioni) siano implicite nel paragone tra l'anno (solare) e una ruota. La strofa 2 dello stesso inno menziona il carro a una ruota (del Sole), al quale 'sette' sono aggiogati; è un carro tirato da un cavallo con sette nomi. Altrove nel Ṛgveda (VI, 44, 24) si fa menzione del carro (del Sole) a sette raggi, ma non si specifica il percorso lungo il quale esso è condotto.

Comunque il Sole si muova, esso influenza la Luna. Un inno del Ṛgveda (X, 138, 11) contiene questa similitudine: "Egli [Ayāsya, 'l'Agile'] prende le ricchezze nella fortezza proprio come il Sole [prende la luce] della Luna [in congiunzione]". Secondo un'altra strofa (IX, 76, 4) la Luna "è strofinata dal missile [raggio?] del Sole"; altrove "è coperta tutt'intorno dai raggi del Sole" e ancora (X, 68, 10) "il Sole e la Luna sorgono insieme". Quest'ultimo passo è oscuro; gli altri, invece, potrebbero indicare che si pensava che la Luna fosse illuminata dal Sole.

Gli autori degli inni del Ṛgveda credevano che le eclissi fossero provocate da demoni. In V, 40, 5-9, il demone (asura) Svarbhānu è rappresentato come responsabile di un'eclissi di Sole. Con la sua 'quarta preghiera' (che di certo non è un metodo per predire le eclissi, come ipotizzato da alcuni studiosi), il veggente vedico (ṛṣi) Atri avrebbe trovato il Sole, che era stato nascosto dalla tenebra iniqua. L'impresa di Atri è riferita anche nell'Atharvaveda (XIII, 2) e nello Śatapathabrāhmaṇa (IV, 3, 4, 21). È la Taittirīyasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Taittirīya; II, 1, 2, 2) a gettare luce sul senso dell'espressione 'quarta preghiera'. Vi si narra che quando il demone (asura) Svarbhānu trafisse il Sole con la tenebra, gli dèi desiderarono un'espiazione da parte sua. Quando per la prima volta allontanarono la tenebra (con il loro rituale), la notte scura divenne manifesta; quando lo fecero per la seconda volta essa si fece rossa e quando lo fecero una terza volta, essa divenne bianca; l'eclissi dev'essere stata particolarmente importante, poiché richiese ben quattro rituali. Un'altra storia su Atri che, per mezzo del sacrificio, salva il Sole dalla tenebra con la quale Svarbhānu lo aveva trafitto, è riportata dal Kauṣītakibrāhmaṇa (Brāhmaṇa della scuola Kauṣītakin; XXIV, 3-4). Il medesimo Brāhmaṇa (XIX, 3) descrive il movimento del punto in cui sorge il Sole lungo l'orizzonte orientale da sud a nord per sei mesi e da nord a sud per altri sei mesi. La stessa idea è ripetuta nel Kauṣītakibrāhmaṇa (XXV, 1), nella Taittirīyasaṃhitā (VI, 5, 3) ed è implicita nello Śatapathabrāhmaṇa (II, 1, 3). Anche questa descrizione è derivata da una fonte cuneiforme collegata o identica al MUL.APIN.

I calendari

di David Pingree

Anche i calendari vedici furono fortemente influenzati da elementi mesopotamici, come quelli del MUL.APIN. Un testo chiave per la comprensione dei particolari di questa influenza è un inno tardo del Ṛgveda (I, 164). Il verso 11 allude metaforicamente al calendario ideale babilonese di dodici mesi di trenta giorni, che costituiscono un anno di 360 giorni; l'anno solare è descritto come una ruota a dodici raggi su cui stanno 720 figli appaiati. Una simile interpretazione di questa metafora è confermata da una strofa dell'Atharvaveda (IV, 35, 4) e da numerosi passi dei Brāhmaṇa (per es., Aitareyabrāhmaṇa, II, 2, 17, e Kauṣītakibrāhmaṇa, XI, 7; XVI, 9; XIX, 8). Altrove nelle stesse fonti (per es., Atharvaveda, XIII, 3, 8, e Aitareyabrāhmaṇa, IV, 12, 6) si afferma che un mese si compone di trenta giorni. In connessione con questo calendario ideale, come nel MUL.APIN, ne fu elaborato uno reale in cui i mesi erano sinodici e le intercalazioni (mesi intercalari) ripristinavano le occorrenze dei fenomeni nella stagione appropriata. Un tredicesimo mese è menzionato nel Ṛgveda (I, 25, 8) e nel Kauṣītakibrāhmaṇa (I, 1; V, 8; VII, 10; XXV, 11). In un commento in prosa che segue un verso dell'Atharvaveda (V, 6, 4) si trova l'enigmatica affermazione che "il tredicesimo mese è la casa di Indra", ma nei testi più antichi dello Yajurveda questo mese è denominato Aṃhasaspati ('Signore della perplessità') (Vājasaneyisaṃhitā, VII, 30 e XXII, 31) oppure Saṃsarpa "per il controllo della perplessità" (aṃhaspatyāya) (Taittirīyasaṃhitā, I, 4, 14, 2).

tab. 1

I passi appena citati dalle due Saṃhitā dello Yajurveda forniscono anche i nomi dei dodici mesi normali dell'anno, basati sulle loro caratteristiche meteorologiche. La Vājasaneyisaṃhitā (XIII, 25; XIV, 6, 15, 16 e 27; XV, 57) e la Taittirīyasaṃhitā (IV, 4, 11) stabiliscono anche i sei ṛtu ('stagioni'), formati dalle coppie successive di mesi indicate nella tab. 1.

Ovviamente risulta conveniente che questi nomi 'meteorologici' debbano in primo luogo comparire in congiunzione con il nome (oppure con i nomi) del mese intercalare che conserva i loro caratteri.

Gli inizi della tendenza a denominare i mesi in base ai nakṣatra si possono rintracciare in altri passi della Taittirīyasaṃhitā, nei quali si fa riferimento a Tiṣyāpūrṇamāsa (II, 2, 10, 1) e, in relazione alla cerimonia di consacrazione (dīkṣā) di un sacerdote e all'inizio dell'anno, a Phalgunīpūrṇamāsa e Citrāpūrṇamāsa (VII, 4, 8); tali termini composti fanno riferimento alla notte di Luna piena, quando la Luna si trova, rispettivamente, nei nakṣatra Tiṣya, Phalgunī e Citrā. Phalgunī paurṇamāsī ('dalla Luna piena') è menzionata anche in connessione con la cerimonia di dīkṣā nello Śatapathabrāhmaṇa (II, 6, 3, 11-12) e come la prima notte dell'anno (IV, 2, 2, 18). Il Kauṣītakibrāhmaṇa (IV, 4) ripete quest'ultima affermazione e inoltre attesta che la Luna piena in Pūrvaphalgunī segna la fine di un anno, mentre la Luna piena in Uttaraphalgunī segna l'inizio di quello successivo (V, 1); in questo caso l'espressione 'Luna piena' va intesa come 'il mese in cui si verifica il plenilunio'. Tali mesi sono presumibilmente pūrṇimānta, cioè hanno fine con la Luna piena.

tab. 2

In un altro passo del Kauṣītakibrāhmaṇa (XIX, 2-3) tre mesi hanno nomi basati sui nakṣatra nei quali idealmente si verificano i rispettivi pleniluni: Taiṣa, Māgha e Caitra. In questo brano Māgha è considerato il primo mese dell'anno e Taiṣa o Māgha adhika ('intercalare') l'ultimo mese dell'anno precedente. Questi mesi sono amānta, cioè hanno fine la notte della congiunzione di Sole e Luna, la notte di amā ('assenza della Luna'). Anche nello Śatapathabrāhmaṇa troviamo nomi di mesi basati sui nakṣatra: Vaiśākha (XI, 1, 1, 7) e Māgha (XIII, 8, 1, 4). L'elenco completo dei mesi il cui nome si basa sui nakṣatra, affiancato dalla lista dei loro precedenti nomi di origine meteorologica, è riportato nella tab. 2.

Oltre ai passi citati, alcuni altri indizi sembrano indicare, sia pure in maniera non decisiva, che nel più antico calendario vedico i mesi fossero pūrṇimānta. In un inno del Ṛgveda (II, 32), per esempio, Rākā, la notte di Luna piena, è invocata (nelle strofe 4-5) prima di Sinīvalī, la notte che precede la amā (nelle strofe 6-7). Due volte nella Taittirīyasaṃhitā (I, 8, 8 e III, 4, 9) e due volte nell'Aitareyabrāhmaṇa (III, 3, 47 e VII, 7, 11) l'ordine con il quale ci si rivolge alle dee delle quattro notti critiche di un mese è come segue: Anumati, la notte prima della Luna piena; Rākā; Sinīvalī; e Kuhū, la notte di Luna nuova. Secondo la tradizione i tre sacrifici Cāturmāsya dell'anno hanno inizio nelle notti di Luna piena (Taittirīyasaṃhitā, I, 6 e Śatapathabrāhmaṇa, I, 6, 3, 36 e II, 5, 3, 48). Nel passo del Kauṣītakibrāhmaṇa sopra citato (V, 1) si afferma che la serie annuale di sacrifici comincia nella notte in cui la Luna piena si trova in (Uttara) Phalgunīs, e le altre due quando la Luna piena è in Aṣāḍhās e Kṛttikās rispettivamente. Se supponiamo che tali testimonianze siano sufficienti a sorreggere la tesi che il mese vedico fosse originariamente pūrṇimānta, è possibile considerare l'uso dei mesi amānta come un'innovazione introdotta nell'India vedica insieme con gli altri elementi del calendario mesopotamico che abbiamo già posto in evidenza. Infatti i mesi amānta compaiono in associazione con alcuni dei suddetti elementi in un passo del Kauṣītakibrāhmaṇa (XIX, 2-3), qui già discusso. In un altro passo del medesimo Brāhmaṇa (I, 3) si raccomanda di riaccendere i fuochi sacrificali a metà della stagione delle piogge (Śrāvaṇa e Bhādrapada) quando la Luna si trova in Punarvasū. La Taittirīyasaṃhitā (I, 5) e lo Śatapathabrāhmaṇa (II, 1, 2, 10) avevano collocato la riaccensione dei fuochi semplicemente (nel momento in cui la Luna si trova) in Punarvasū. Nel Kauṣītakibrāhmaṇa si osserva che la Luna non è (necessariamente) in Punarvasū nel pūrvapakṣa, la prima metà crescente di un mese amānta (in Śrāvaṇa), ma che, se la precedente Luna piena si era effettivamente trovata in Aṣāḍhās, nella notte di Luna nuova (all'inizio di Śrāvaṇa) la Luna si troverà in Punarvasū; e questo perché quattordici nakṣatra o notti separano Punarvasū da Uttara Aṣāḍhās. L'uso dei mesi amānta è testimoniato dall'impiego del termine pūrvapakṣa, attestato anche nell'Aitareyabrāhmaṇa (IV, 25, 3) e nella Taittirīyasaṃhitā (III, 4, 9, 6). In quest'ultimo passo Rākā è collocata, come è proprio di un mese amānta, nel (cioè, alla fine del) pūrvapakṣa. Nel brano sopra citato dell'Aitareyabrāhmaṇa, e in diversi passi dello Śatapathabrāhmaṇa (IV, 7, 4, 7; VIII, 4, 2, 11), troviamo, in opposizione al pūrvapakṣa, un aparapakṣa (l'altra metà, calante, del mese), menzionato da solo in un terzo passo dello Śatapathabrāhmaṇa (XI, 1, 5, 3). In un altro punto dello stesso Brāhmaṇa (VIII, 4, 3, 18), i nomi pūrvapakṣa e aparapakṣa sono paragonati a due termini tecnici alternativi yava e ayava. Questi ultimi compaiono anche nella Vājasaneyisaṃhitā (XIV, 26 e 31) e nella Taittirīyasaṃhitā (IV, 3, 10; V, 3, 4). Inoltre, nel Taittirīyabrāhmaṇa (III, 10, 1) sono forniti i nomi dei quindici giorni dello śuklapakṣa ('metà crescente') prima di quelli del kṛṣṇapakṣa ('metà calante'). Infine, il nome stesso di uno dei più importanti rituali vedici, il Darśapūrnamāsa, 'Visione [della Luna nuova] e Luna piena', attesta che in questo calendario liturgico vedico la Luna nuova precede la Luna piena.

Come già osservato, i sacrifici Cāturmāsya, che hanno a che fare con la Luna piena, suddividono l'anno in tre periodi di quattro mesi ciascuno ‒ Vasanta, Grīṣma e Śarad. Che questa sia la più antica pratica vedica è dimostrato da una strofa del Ṛgveda (X, 90, 6) in cui, nel corso della descrizione del sacrificio del Puruṣa da parte degli dèi, è detto che Vasanta è l'ājya ('burro semifluido'), Grīṣma l'idhma ('combustibile') e Śarad lo havis ('oblazione'); si veda anche Ṛgveda, I, 164, 2, ove si afferma che la ruota che rappresenta l'anno è dotata di tre mozzi. La maggior parte dei passi dello Yajurveda, dell'Atharvaveda e dei Brāhmaṇa fa riferimento a sei stagioni (unendo spesso le ultime due nel composto Hemantaśiśira). Generalmente si ritiene che questo cambiamento rifletta l'avanzare degli Ārya nella piana gangetica, ma incidentalmente rafforza l'idea che i sacrifici Cāturmāsya, e perciò i mesi pūrṇimānta, appartengano al periodo, anche se finale, della composizione del Ṛgveda.

Secondo l'Atharvaveda (IX, 6, 45-46) e il Taittirīyabrāhmaṇa (I, 5, 3, 1), il giorno (nei testi vedici non si menziona tithi nel senso attribuito a questo termine dal Jyotiṣavedāṅga, Membro ausiliario del Veda sull'astronomia, e da altri trattati astronomici di epoca successiva) ha inizio con il sorgere del Sole. Ciò rende verosimile l'ipotesi che le origini del sāvana ('tempo solare') indiano classico, ossia del nychthēmeron a partire dall'alba, risalgano a epoca vedica, sebbene non si abbia la certezza che per gli Indiani vedici il giorno, inteso come arco delle 24 ore, avesse inizio all'alba o al tramonto. Il nychthēmeron fu ulteriormente suddiviso in trenta muhūrta, secondo alcuni passi dello Śatapathabrāhmaṇa (XII, 3, 2, 5), ove un anno è pari a 360 giorni, ossia 10.800 muhūrta. Il Taittirīyabrāhmaṇa (III, 10, 1) fornisce i nomi dei quindici muhūrta del giorno e dei quindici della notte. In nessun testo vedico si fa cenno ai sessantesimi di un nychthēmeron (ghaṭī o nāḍī).

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