CICALA, Scipione

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)

CICALA, Scipione (Čigala-Zade Yūsuf Sinān)

Gino Benzoni

Secondo dei tre figli maschi di Visconte e Lucrezia, nacque a Messina nell'anno 1544 (questa, senz'altro, la data più probabile nell'oscillare delle notizie tra il 1543 e il 1548) e, imbarcatosi col padre alla volta della Spagna, venne, assieme a lui, catturato dai barbareschi presso le Egadi, condotto a Tripoli e di li a Costantinopoli, ove giunge il 17 sett.. 1561. "Ay grand peur - commenta l'inviato francese Antonie de Petremol che a lungo e inutilmente cercherà di ottenere la liberazione del padre - que, pour la grande jeunesse du filz, qui n'a que dix-sept ou dix-huit ans, on le fasse turc et qu'on ne le mette dans le serrail". "Subito fu fatto turco - informa il rappresentante cesareo il 30 settembre - e posto nella camera del Gran Turco"; è "page" del sultano, conferma nell'autunno del 1562 il Petremol.

La convinzione della perfidia turca - che non esita a plasmare nell'intimo l'adolescente sì da indurlo, perdendo l'anima, a ritorcere a danno dei cristiani quell'energia e quel coraggio indefessamente dimostrati contro la Mezzaluna dal padre - non è sufficiente a tacitare inquietanti interrogativi. Possibile che la vera fede non lo abbia aiutato a resistere? Evidentemente non s'è reso conto della gravità della sua abiura: "mortuo ... in captivitate genitore tuo - gli scriverà Clemente VIII -, pollicitationibus et blanditiis ... Solymani" sedotto, ignaro "plane quid ageres", è caduto tanto in basso da negare "fidem", da abbracciare "maumethànae ... sectae errores". A maggiormente scusarlo il Bosio, il celebratore secentesco del bellicoso Ordine gerosolimitano, scriverà che il rinnegamento fu estorto all'incauto giovinetto colla promessa - peraltro non mantenuta ché Visconte suppone fantasioso il Bosio, fu poi fatto morire di veleno - di liberare il padre. Meno colorito, ma forse più veritiero il medico rodigino Giovanni Tommaso Minadoi, che avrà modo di curare il C. ad Aleppo con successo "di certo male" non meglio precisato, tenta di spiegare e il favore, goduto dal C. nel Serraglio e la posizione di rilievo subito assunta appena uscitone: "per le bellezze del corpo et per la speranza che moveva di valore fu ben veduto in modo da Selimo, già tiranno dì Costantinopoli et inimicissimo del nome latino che, a pena passato il fiore della sua giovanezza, nel qual tempo a lui era stato tanto caro, nominollo agà delli gianizari". Stando, dunque, al Minadoi (che la permanenza in Oriente autorizza a ritenere bene informato) non solo le latenti qualità belliche, ma anche e più ancora le particolari grazia ed avvenenza avrebbero attirato l'attenzione di Selim II sul C., che - già paggio di suo padre Solimano il Magnifico - ne divenne, sino all'ingresso nella maturità, uno dei favoriti. Il C. stesso, sempre secondo il Minadoi, avrebbe poi coltivato inclinazioni omocrotiche, ché pare non si possa intendere altrimenti l'allusione al fatto che, dopo uno scontro coi Persiani, riuscì a salvarsi a stento, è tutto rotto, senza bandiera, privo de tre suoi giovani a lui amicissimi et molto cari s. Indubbia, ad ogni modo, la totale assimilazione dei C. al mondo ottomano ed il suo emergervi ed affermarsi - mentre il rancore e l'odio dei cristiani lo bollano coll'infamante qualifica di rinnegato - quale Čigala-Zade Yūsuf Sinān, laddove, tuttavia, è evidente, con la conservazione del cognome paterno (Zāde significa "figlio di"), una risentita volontà di ricordare a sé e agli altri la nobiltà delle sue origini, di marcare quindi, anche col tratto onomastico, l'eccezionalità del proprio destino.

"Usci ...dal Seraglio con gran favore", annota il 2 ag. 1573 il bailo veneziano Marcantonio Barbaro, ed è "fatto capigì Con 200 aspri", cinquanta in più di quelli contemplati dalla carica. Divenuto, dunque, quapuǧi-baša - e si tratta, insiste il bailo Antonio Tiepolo, d'un "capiggibassi" pel momento "in molta gratia di questo signor" - viene incaricato, nel marzo del 1574, d'accompagnare Pietro, fratello del voivoda di Valacchia Alessandro, in Moldavia e d'installarlo al posto del destituito Jon Vodă.

Mosso, all'inizio d'aprile, con un ridotto contingente e due "sansacchi", il principe ribelle "fece intender" loro che non s'azzardassero ad "entrar nei confini". Il C. penetra egualmente, venendo però battuto - così il rappresentante genovese Battista Ferraro - "con grande mortalità" dei suoi, il 14, a Jilişte ed essendo costretto a riparare a Brăila con Pietro e i "pochi" scampati alla strage. La ribellione assume dimensioni impreviste ed esige ben altro sforzo per essere schiacciata. Donde, da parte del sultano, la mobilitazione di tutti i sangiacchi confinanti e l'appello ai Tartari che, peraltro, coi loro spietati saccheggi comprometteranno a lungo la capacità contributiva della zona. Quanto al C., rafforzato dagli effettivi del sangaq-beg di Silistre, ottiene, all'inizio di maggio, una prima affermazione a Ciocăneşti in Valacchia e si stanzia, alla fine del mese, a Isaccea donde s'accinge a passare in Moldavia. Qui, raggiunto dal consistente rinforzo di 1.500 giannizzeri, sconfigge, il 9-12 giugno, a Çahul-Roşcani Jon Vodă. E mentre il "sanzacco di Selistria" - così una "nova certa" riportata dal Tiepolo - farà "tagliar la testa" di questo incautamente messosi nelle sue mani, il C. provvede alla normalizzazione del territorio, impegnato - così il Ferraro - "a acquietar quelli populli fugiti, promitendo a tuti perdono".

Rientrato a Costantinopoli, al più presto alla fine del 1574, coll'aureola del vincitore, la brusca destituzione dell'aghà dei giannizzeri perché incapace di frenarne le turbolente richieste di revoca della proibizione del vino sgombra per lui., nel 1575. un posto ambitissimo.

"Si vede riuscito con estremo favore". osserva il Tiepolo, e la sua affermazione si consolida definitivamente colle nozze, vantaggiosissime e tali da permettergli di disporre d'enormi ricchezze, dell'ottobre 1576, con una figlia dell'influente Ahmed pascià. La madre della sposa (nonché moglie di Ahmed) era, a sua volta, una figlia della favolosamente ricca "sultana vecchia" (Mihrimah, la nonna materna della moglie del C., era l'unica figlia di Solimano e vedova del ricchissimo Rüstem pascià; detentrice, si diceva, d'un patrimonio che garantiva la rendita quotidiana di almeno duemila ducati), la quale - riferisce il bailo Giovanni Correr -, in vista del matrimonio, aveva fatto "spese grandissime in preparar la dote. Et al sposo, oltra honoratissimi presenti di robbe, mandò ... anco 30 mila cecchini ... Onde - concludeva il bailo -, per questo parentato viene egli ad haver talmente stabilite le cose sue che non può mancargli" la sanzione di "maggiori honori".

Non immediatamente però ché lo smisurato orgoglio e la straripante ambizione del C. cozzano contro appetiti altrettanto prepotenti e lottano contro propositi altrettanto smodati in un clima saturo d'odio e d'invidie, pieno d'intrighi e di vendette; né v'è alcuna possibilità di carrierar regolare nell'aggrovigliato contrastare di clan familiari e clientele politiche, in un ambiente costantemente sottoposto ai violenti sussulti ora della successione ai vertici ora degli sbalzi d'umore e ai bruschi voltafaccia del singolo sultano non insensibile alle chiacchiere alle simpatie e alle antipatie della variopinta umanità - eunuchi favoriti favorite - che petulante l'attornia. Si spiega così che - come scrive il 4 luglio 1578 il bailo Nicolò Barbarigo -, da almeno una decina di giorni, il C. sia stato "inaspetatamente dismesso "da aghà senza che si sappia "la causa di questa privatione"; a sua volta l'inviato francese Sebastiano Iuyé precisa che è stato, nel contempo, nominato "baglarbey de la Balzara", Bassora cioè, "province fort voisine d'Ormuz;" e che, per quanto abbia protestato mobilitando il suocero "et les sultannes" (la suocera, cioè, e la moglie) "pour avoir quelque autre charge" meno lontana - suo timore è quello d'esser tagliato fuori dai giochi di potere -, gli è stato impossibile rifiutare. Anzi "il luy a esté dit que, s'il avoit chère sa teste", s'afftettasse a raggiungere la sede assegnatagli; "ce qu'il faict maintenant en toute diligence".

Sbattuto, suo malgrado, in Oriente, la morte della moglie (preceduta da quella, all'inizio del 1578, di Mihrimah, sua nonna, e del padre Ahmed), alla fine del 1580, rischia - osserva il bailo Paolo Contarini - di comprometterlo ulteriormente facendogli mancare "li favori grandi che... haveva a questa Porta". Ma egli riesce a risalire la china precipitandosi a Costantino Poli per sposarvi, all'inizio del 1581, "la sorella minor della moglie morta"; guadagna così il "credito di prima" per la perdurante "auttorità della sultana" (la suocera, vedova, ribadisce il Contarini di "Acmet bassà e figlia di Rusten bassà"), non, però, senza viva opposizione da parte di Sinan pascià, il quale - così il 5 agosto il i Contarini - "ha... trattato" di far "rivocar" il C. "che andava al governo di Bagadet, havendolo trattenuto 4 giorni poco lontano da Scutareto, - volendo che fosse ritornato a quel governo... Assan bassà ... al qual dissegna di dar la figliola per moglie". Ma anche il disegno del potente albanese è sventato ché, se, come informa l'ambasciatore francese Jacques de Germigny il 19 agosto, il C. - "envoyé et jà party pour beglierbey à Babyloine", viene in un primo tempo richiamato, il sultano lo conferma poi nel governatorato. Al di là, comunque, dei complicati dosaggi di potere conseguiti a Costantinopoli nello scatenato arrembaggio alle cariche, il ruolo del C. si fa sempre più preminente nel logorante conflitto mosso dagli irriducibili Persiani.

Ardua, tuttavia, una precisa ricostruzione: gli "avisi di Persia" che via via giungono alla capitale si accavallano confusi, spesso si smentiscono sia perché non tempestivi e ormai superati da eventi successivi sia perché troppo manipolati dai principali responsabili delle operazioni inclini ad. occultare i rovesci e, in ogni caso, a scaricarne su altri la colpa. Perciò va, quanto meno, attenuata la portata del giudizio del bailo Giovan Francesco Morosini, troppo sbilanciato a favore del C. quale "uomo molto valoroso" autore di varie "onoratissime fazioni". Indubbiamente più abile degli altri comandanti turchi era, però, uomo capace di compromettere colle sue impuntature il coordinamento delle azioni belliche, come quando, nel 1583, subordina l'accettazione del governo del gran forte d'Erivan all'estensione di questo a "tutta quella provintia" e alla concessione del titolo di visir, offrendo così il destro al rivale - una "particolar inimicitia" contrapporrà sempre i due - Ferhat pascià d'approfittame per nominare in suo luogo Haydar pascià.

Nel 1585 il C., che ha conquistato varie località e battuto governatori ribelli, risulta comunque detentore del "governo" di "quella fortezza". Salvatosi a stento da uno scontro nel quale - secondo le notizie riportate in un dispaccio, del 2 ottobre, del bailo Lorenzo Bernardo - "Tocomat" pare "habbia tagliato a pezzi 304 mila turchi", il C. è presente alla successiva battaglia presso Van nel cui corso il generalissimo turco Osman pascià, ferito a morte, sul punto di spirare gli avrebbe consegnato il "sigillo", simbolo del comando supremo, così nominandolo "general in loco suo".

Così la prima versione giunta alla capitale modificata poi da un'altra assai meno patetica e assai meno favorevole al C.: Osman sarebbe morto di malattia aggravata anche da un attacco d'ira proprio contro il C. cui imputava la responsabilità, della rotta; la sua morte sarebbe stata tenuta nascosta per qualche giorno e il comando sarebbe passato automaticamente al Cicala.

Indubbia tuttavia, in un ulteriore attacco in grande stile mosso dai Persiani presso Tabrīz, la fermezza del C. nel rallentare, colla sua prolungata resistenza, lo sfondamento nemico e nel far ripiegare le truppe ordinatamente.

Certo si sarebbe verificata una rotta disastrosa, scrive il Bernardo, "se in questa battaglia non fusse stato il valor" del C. "grandissimo et la risolutione sua arditissima e improvvisa di sparar per ultimo rimedio". Vale a dire che il C., scorgendo, nell'infuriare della mischia, pericolanti i suoi, non esitò a far sparare l'artiglieria nel mucchio sì che rimase "morta gran quantità dell'una e dell'altra parte"; ottenne così che i nemici, atterriti, retrocedessero. E riuscì pure a contrattaccare cogliendo un successo: fu "la sola battaglia", commenta il Minadoi, delle cinque "seguite sotto Tauris", che sia stata "men dannosa a gli ottomani che a' soffiani".

Impegnato tra la fine del 1585 e l'inizio del 1586 a sovraintendere lavori di fortificazione nella zona di Van, si trattiene sino, almeno, all'estate del 1586 "alli confini di Tauris" assediata ostinatamente dai Persiani. Per quanto, rilevante il suo apporto - sventa in effetti e sblocca la pressione su Tabrīz agevolato dalle discordie tra i capi persiani e dalla loro incapacità ad usare accortamente l'artiglieria -, non ha adeguato riconoscimento: "general des occurrences - aveva rimarcato ancora il 25 nov. 1585 il Germigny - de deux armées en Perse, mais au notable desavantage" presso il sultano. Il quale, infatti, preferisce inviare al comando d'un ingente corpo di spedizione e col. titolo di generalissimo l'intrigante Ferhat pascià - divenuto da cuoco del Serraglio "visir e generale", gli aristocratici baili della Serenissima, esterrefatti di fronte ad una carriera così, per loro, insolita, non riescono a dimenticare come egli sia "bassissimamente nato" - congrande scorno del Cicala. E se Ferliat, "astretto dal bisogno", non sa fare a meno di lui, "homo ardito et pratico in questi confini", egli male s'adatta ed essergli secondo, per quanto parzialmente accontentato coll'agognata qualifica di visir. I successi conseguiti quali l'occupazione di. Nihawānd (dove fa erigere una fortezza) e Hamadān, le manovre diversive felicemente attuate come lo spostamento, del 1588, da "Aderan" ad "Acechale" per ostacolare il nemico nella sua azione di disturbo alla fortificazione in corso di Ghenge e "Carabir" lo inducono a reclamare a gran voce piena responsabilità.

L'appoggiano il governatore di Tabriz Giafer pascià e Hasan pascià, figlio del defunto primo visir Mehmet; essi "malissimo contenti" della guida di Ferhat, presentano, all'inizio del 1589, un "arz contra di lui, dicendo che poco curasse il publico bene". Al di là delle reciproche accuse d'incompetenza, si evidenziano due linee di condotta, senza che la Porta - frastornata dalla "diversità di avisi scrivendo" il C. "che li persiani si mettono all'ordine per uscire in campagna" e, di contro, Ferhat "che desiderano la pace" - sappia decidere. Non si sa a Costantinopoli - osserva il bailo Bernardo - "a chi prestare intiera fede", e si formano due partiti: i fautori del secondo accusano il C. di volere a tutti i costi la guerra sì da costringere, colle "novità" della sua impostazione aggressiva, il sultano alla "necessità" di continuarla, tanto più che siffatto "proceder" obbliga anche "i persiani a far qualche moto"; i "partiali" del C. insistono, a loro volta, sul "pericolo che potria seguire quando non sia accettato il suo raccordo" di rafforzare consistentemente il numero e la qualità degli effettivi "a quei confini". Se Ferhat offre "di continuo buona speranza di pace", il C. e Giafer insistono sulla gravità "di certa fattione...poco lontano da Dinaver, luoco" che, "occupato", nel 1588, dal C. sarebbe stato ripreso dal nemico.

La pace con la Persia del 1590 non lascia il C. inattivo ché, nominato "generale" contro i "malcontenti" di Georgia, diventa - come precisa il bailo Girolamo Lippomano -, di fatto, "generale capitano delle genti di molte provincie"; controlla abilmente la situazione mirando - precisa il Lippomano in una lettera del 2 febbr. 1591 - "più con inganni che con forze"a "sottometter compitamente" il "Giorgiano", reso esitante peraltro nello scatenare totalmente la rivolta dal fatto che il fratello è, sia pure in forma non palese, ostaggio a Costantinopoli.

Per tutto il 1590 il C. gareggia comunque con Ferhat per acquistarsi il favore di Murad III e ottenere cariche maggiori; se il rivale (già appoggiato da Baffo, la influente sultana madre) s'avvale del favore della sultana favorita Saffiyye, a lui invece ostilissima, ed ha il vantaggio del rientro nella capitale col nipote dello scià in ostaggio a garanzia di pace e con molti doni a lusingare l'avidità del sultano, il C. non si lascia distanziare sia manovrando tramite la suocera e il "capiagà" sia sborsando parecchi quattrini, sia, soprattutto. omaggiando direttamente Murad III con due doni strepitosi, entrambi registrati dal Lippomano.

Gli ha inviato - scrive il 15 sett. 1590 un pugnale "con il manego et fodro giogelato di valore di cecchini" 150 mila, "presente... accettissimo" a Murad III al pari del successivo - descritto dal bailo l'8 ottobre - consistente in due "scimitarre di finissima tempra", di fattura persiana d'estrema "vaghezza".

In tal modo, spiega il bailo, avanza vistosamente la propria candidatura a "capitano del mare", né Hasan pascià, allora detentore della carica., dispone d'analoghi mezzi per contrastarla e viene decisamente spiazzato quando il C. mette, clamorosamente, a disposizione del Gran Signore la somma, sbalorditiva, di 200 mila zecchini. Egli diventa, così, quapudàn nel 1591, in grado, finalmente, di tallonare il successo dell'odiato Ferhat: se questi è primo visir, egli è immediatamente dappresso nella gerarchia del Divano, dove ha diritto, quando sia presente a Costantinopoli, di partecipare all'amministrazione della giustizia. Maggiore ancora del prestigio, il potere reale insito nella carica: ammiraglio della flotta ottomana, responsabile dell'Arsenale, e, inoltre, precisa il bailo Matteo Zane nella sua relazione del 15943 "beglierbei dell'isole, dell'Arcipelago e delle marine".

Certo il C., tumido d'orgoglio, non ha dubbi sulle sue capacità, di gran lunga eccedenti qualsiasi, pur altissima, incombenza: a chi. con lui si complimenta replica che "capitani da mare non mancano et io sono et da mare et da terra". Sensibile - dirà di lui il bailo Girolamo Cappello - all'"aura popolare", frastornato dagli elogi della "corona di gente ignorante" da cui è "circondato", è facilmente smargiasso e fanfarone: "la sua temerità è tale che egli crede di porre in spavento tutto il mondo con il solo nome suo". "Ricco a maraviglia" aveva detto del C. il bailo Morosini, aveva usato colla massima spregiudicatezza "oro" e "donativi" a fini di carriera. Ma non s'accontenta solo della potenza e del prestigio: "huomo avidissimo", "per natura avarissimo", di "natura rapace" - come affermano concordi i baili e gli altri diplomatici occidentali - smania d'accumulare sempre più, è ossessionato dalla brama di rendere ancor più grande la sua impressionante ricchezza. Un'"indicibil avaritia", un'"insatiabil avaritia" non gli concede tregua. Le somme enormi profuse per diventare quapudán sono da considerare come un gigantesco investimento, da far fruttare. Dal "capitanato", azzarda lo Zane nella sua relazione, "cava forse" 40 mila zecchini "all'anno". Ciò significa che servono al C. almeno 5 anni di seguito di "capitanato" solo per recuperare la somma sborsata al sultano per conseguirlo. Ma il rinnovo del conferimento implica a sua volta un costo enorme: c'è, anzitutto, l'ingordigia del sultano, da placare con schiavi e "borse" ricolme di denaro, la quale è tale da trovare, alla fine del 1594, deludente l'offerta di trecentodieci prigionieri e 50 mila zecchini; e ci sono, pure, quanti gli stanno attorno - la sultana favorita, il "capiagà" - che esigono d'essere ingozzati di donativi. Come stupirsi, allora, se il C., deciso malgrado tutto questo a guadagnare, sarà colui che, come dirà il bailo Cappello, "ha cavato et succhiato tutto quel più che ha potuto da tutti li bei et altri ministri sottoposti alla sua giurisdittione"? "Attenderà a sasinar queste povere isole, sicom'è solito suo fare" scrive, il 7 ag. 1599, il dragomanno cesareo a Bernardo Rossi, segretario dell'ambasciatore imperiale a Venezia. Scontate, dunque, le estorsioni ai danni delle popolazioni ottomane delle isole e delle coste, del pari scontati i donativi estorti agli spauriti sottoposti. Si sa, ad esempio, che da Scio il C. pretende 10 mila zecchini, che poi investe, e con molto suo utile s. in "tanti mastici", la resina locale cioè, "che solo nascono, con special providenza della natura, in quella isola". Certo ogni sua venuta "in Arcipelago" è più rovinosa d'una carestia: da ognuno, osserva il 29 ott. 1594 il bailo Marco Venier, è "accusato et detestato"; gli è augurata "non pur là privatione dei capitanato, ma quqlla della vita anche"; e invano "gli emini di tutte le scale dell'Arcipelago spogliate et rubbate da lui", a discapito pure delle "entrate regie", si lamentano e spediscono "arz". Rilevante fonte di lucro aggiuntivo le tangenti che il C. esige per le cariche in qualche modo sottoposte al suo controllo e alla sua capacità di pressione, il cui ambito tenta d'allargare sino ad invadere le competenze del primo visir Ferhat, col quale per queste ed altre ragioni ha scontri clamorosi (ed una volta il C., "ch'è bestiale et precipitoso" fece "atto di por mano al pugnale", racconta il Venier) persino "in pubblico divano"; "la vergogna qui - commenta allibito lo Zane - è persa affatto", al punto che "si tratta pubblicamente de interessi per illeciti che siano"; "piaccia comunque - soggiunge - a Dio benedetto che si nutrischino queste discordie et se ne generino di maggiori". Non basta: altre ancora le fonti di guadagno del Cicala. Preposto alla sorveglianza del mare, suo compito è quello di non dar tregua ai pirati, ma ora sembra eccessivamente indulgente nel rilasciare - si sospetta dietro cospicui pagamenti - bertoni inglesi prendendo per buone le loro esibizioni d'innocenti intenti commerciali, ora sciorina una severità esemplare, persin eccessiva. E, allora, il suo tremendo "castigo" verso i corsari o presunti tali "viene attribuito molto più alla cupidità di levarli le facoltà che a volontà di assecondare alcuna giustizia". Alla Porta stessa - dove alti dignitari non esitano a definirlo "tristo et scelerato" - sono, parecchi a ritenere le sue "attioni più da corsaro che da capitano"; al limite, lungi dal distinguerlo dai pirati di cui, istituzionalmente, dovrebbe essere il persecutore, si tende a giudicarlo una sorta di pirata in grande. "È noto ladro et corsaro" - ammette col Venier Mehmet pascià - nel suo sfacciato intento di "farsi ricco di molta preda". È il C., ad esempio, che, nel 1594, "ha preso in Calavria et abbruciato una nave venetiana", inviando padrone ed equipaggio "in Barberia" perché il misfatto restasse ignoto; è il C., ancora, quello che non esita a tenere dei prigionieri fiorentini "con catene al collo a piedi et alle mani in estrema miseria", con scarsissimo "vitto", sino a quando giunge la ragguardevole "taglia".

La diplomazia occidentale è indignata contro di lui. Veemente soprattutto lo sdegno dei baili veneziani per i suoi "perversi disegni di far...preda in tutto il Colfo di Venetia", le "levate diverse robbe dalle navi et vassellì di mercanti venetiani et fatti diversi schiavi diversi sudditi loro", che poi trattiene ostinato, "indebitamente e contra i capitoli della pace" del 1573, nel suo bagno (oltre venti i sudditi veneti in questo presenti), esigendo un esoso riscatto; e al Venier, che protesta contro di lui e cerca di ottenere, premendo su altri, la liberazione, fa sapere "che se io non mi fossi astenuto di andar ad altra parte che alla sua a trattar delle cose pertinenti a lui, mi haverebbe una notte mandato a strangolar nel letto overo un giorno per stradda mi haverebbe fatto scaricar una archibusata, che mi haverebbe morto". Il C. non è solo il nemico dichiarato "capitalissimo" di "tutti li cristiani", quello che afferma "che niuna cosa bramava al mondo più che il bevere il loro sangue", ma è anche colui il quale, tra le potenze cristiane, più di tutte, odia Venezia: all'ambasciatore francese confida "che si contenterebbe di morir il giorno dietro che havesse preso Venetia". Donde il suo rabbioso sfogo nel "toccar i paesi luochi et castelli ville vasselli et mercantia di signori venetiani", la sua "perversa volontà" di danneggiarli.

Un'implicita simmetria sottende la cupa tinteggiatura operata dai baili sulla sua figura: se il C. è anzitutto antiveneziano, la Serenissima rappresenta il meglio del mondo cristiano. Se il C. è d'una grossolanità e rozzezza inaudite - uomo "bestiale" urla strepita inveisce, è "vitioso", ingurgita vorace tanto cibo, subriaca, s'intontisce d'oppio; la sua "natural bestialità" è esasperata, spiega il Venier, "dal mangiar che egli fa di certa erba che...il rende pazzo"; i lavoranti dell'arsenale in tumulto l'accusano nel 1602 di esser "buono solo per mangiare l'aflione" -, essi, i baili, colla compostezza del loro comportamento, rappresentano la civiltà. Nei confronti, del C. - che sollecita da loro ogni anno un donativo di duemila zecchini (e la consegna non deve avvenire alla presenza di testimoni!), che ora vuole "una pezza di scarlatto per la sua coperta", ora orologi, ora velluti, ora vesti preziose, ora profumi; che è talmente impudente da debordare continuamente con qualche "dimanda ingorda et insolita" da una sorta di normativa, in fatto di "presenti", consuetudinaria con una specie di tacito tariffario per le cariche più importanti; che non esita ad ironizzare pesantemente se il dono è, a suo avviso, esiguo ("mi mostrò - scrive il bailo Agostino Nani il 26 dic. 1600 - il muschio et li ogli odoriferi" datigli in omaggio da Venezia "dicendomi, in modo di burla, che quelle cose dovevano essere di gran prezzo", dal momento che erano "così poche") - i baili non oscillano solo tra stupefazione ed inorridimento. Sentono tutto l'orgoglio d'appartenere ad una Repubblica ove la ladreria individuale delle autorità è addirittura impensabile, d'essere membri d'un'aristocrazia affinata da una plurisecolare dedizione al servizio dello Stato.

Inconfondibile, dunque, il colorito ideologico dello scandalo dei rappresentanti veneti, che non inficia, tuttavia, l'esattezza delle accuse: il C. fu reàlmente razziatore e prevaricatore. D'altra parte se tale non fosse stato, anche a prescindere dal tornaconto personale, non avrebbe potuto aspirare alla carica di "capitano del mare" né, tanto meno, ottenerne il rinnovo.

"L'oggetto principale" - riconosce lo Zane il 19 giugno 1593 - delle sue "uscite" (che si svolgono in genere tra giugno e dicembre ed hanno per teatro il Mediterraneo tra l'"Arcipelago" e Candia con puntate verso Malta la Sicilia la costa calabra) è quello di "far denari, perché quei ch'egli portò...al re l'anno passato, che uscì ...lo hanno mantenuto in questo grado". Il che implica, appunto, il "corseggiare" che la flotta, tutto sommato modesta, da lui comandata esplica nel 1592 e 1593. Non senza un certo "ardire" se il C. nel. settembre del 1592, nel puntare verso Valona, sfiora Corfù e Zante sfidando protervo, con appena tredici galee, la rintanata armata marittima veneziana e nell'ottobre del 1591, favorito dalla latitanza spagnola, sue navi si spingono sino a Sorrento a Capri e persino nel porto di Napoli, ove, "nel far del giorno" - riferisce allibito il residente veneziano Bartolomeo Comino - catturarono "molte genti che, senza alcun sospetto, sta, vano e transitavano per li medesimi luoghi, con haver da più barche et feluche pigliati anco tutti gli uomini, si può dire sotto gli occhi di questa città".

In assenza d'una guerra esplicita, nella rinuncia d'entrambi - il mondo cristiano e il mondo ottomano - alla ricerca d'un epico scontro frontale, d'una immane battaglia navale (Lepanto, sotto questo profilo, è l'ultima), il comportamento provocatorio del C. ha un'indubbia efficacia dimostrativa; e la pretesa d'entrare nel "Golfo" della Serenissima si giustifica colla motivazione, accampata più volte dal C., di dover stroncare il "transito", a suo dire "frequentissimo", da Ancona e "dalle terre del re di Spagna" alla volta di Segna, uno dei punti caldi del conflitto turco- imperiale allora in corso. Più ambiziosi gli intenti del C. nel 1594: vorrebbe - informa allarmato il Venier - una flotta d'almeno "100 galee...cavate di questo arsenale" e, in più, "le altre che si trovano fuori".

Mentre a Costantinopoli ferve l'attività cantieristica il panico dilaga in Occidente, tanto più che :il C. sbandiera intenzioni aggressive. Vano, comunque, riesce l'affannoso perorare di Clemente VIII per una lega tra Venezia e la Spagna. Troppo bruciante, per entrambe, la memoria del "dopo Lepanto" per desiderare e realizzare un'effettiva fusione di forze. Anzi;pur nell'ascoltò formalmente deferente delle reiterate esortazioni pontificie, alla Spagna non era sgradita l'ipotesi d'un'umiliazione, anche se ad opera dei Turchi, dell'indigesta supremazia adriatica della Serenissima, mentre questa non giudicava, di fatto, molto fosca la prospettiva d'un libero scorrazzare di navi turche e barbaresche nel Mediterraneo occidentale, visto che avrebbe danneggiato Filippo II. La reciproca diffidenza - al di là della cortina fumogena di buone intenzioni e del ventilato coordinamento rappresentato dalla proposta di una simultanea concentrazione della flotta veneta a Corfù e di quella spagnola a Messina - è madre prolifica non solo di riserve mentali, ma pure di sotterfugi, più o meno cinici, di astuzie, più o meno perfide: entrambi ammiccano alla Porta, entrambi cercano d'utilizzare a proprio esclusivo vantaggio l'accesa rivalità tra Ferhat pascià e Sinan pascià, sempre in lizzapel grado di primo visir. L'odio violentissimo che divide i due compatrioti - tutti e due sono d'origine albanese -, che si alimenta anche del differente rapporto col C. cui Sinān è favorevole mentre Ferhat è ostile, oltre ad inquinare l'atmosfera di per sé satura di sospetti e turgida di rancori dei Serraglio, travalica al di fuori, nell'offinione pubblica., sì da dar luogo a due contrapposti "partiti" la cui alterna preponderanza ora produce sconcertanti oscillazioni ora stagnanti immobilismi. Fieramente antiveneziano Sinān e, di riflesso, filospagnolo (non per niente, come osserva l'ambasciatore veneto a Roma Paolo Paruta in una lett. del 24 apr. 1593, la "nova" del suo ritorno "al grado di primo visir è riuscita agli spagnoli gratissima"), filoveneziano invece Ferhat, ché così va inteso l'elogio dello Zeno quale "il più inclinato di tutti alla pace e alla quiete". Il primo, istigato dal C. preme per azioni di forza contro Venezia, il secondo se non altro per odio verso Sinān e il C. (che, divenuto acceso fautore di Sinān, era quasi leader nel "partito" che a lui s'ispirava), e non osta - così ancora lo Zeno - alli negoti "della Serenissima, "anzi..., in segreto, se non in palese, se ne mostra piuttosto favorevole". Secondo notizie raccolte dal Paruta, gli Spagnoli, già da tempo, grazie a "grossissimi presenti", s'erano accapparrati l'animo di Sinān al punto da ripromettersi "molta sicurtà alle cose loro quando ... esca armata turchesca", fiduciosi pure nel complementare antivenezianismo del C. (lo storico Andrea Morosini lo dirà "insita in Venetos odii effera rabie incensus") addebitato in ambienti veneti all'antico rancore istillato nel suo animo sin da fanciullo verso chi s'era opposto all'attività corsara del galeone paterno. Ad ulteriore spiegazione il bailo Zane aggiunge anche un preciso calcolo: il C. si mostrerebbe antiveneziano per sottrarsi all'accusa di covare nostalgie per la fanciullezza cristiana, d'essere addirittura criptocattolico. "Essendo - suppone lo Zane - ... sospetto di non dissentire da Spagna, quando tenesse anco" per la Repubblica, "crederebbono che fosse cristiano è non turco". Di più lo Zane congettura pure "che con la Spagna vi possa essere", da parte del C., "qualche segreta intelligenza o, almeno, buona disposizione perché la casa sua è stata sempre ed è tuttavia beneficata da quella corona". Esclude, comunque, che il C. possa nutrire, in cuor suo, il desiderio di ritornare a Messina a riabbracciarvi la fede cristiana: la "grandezza", le "ricchezze", la "comodità", i "figliuoli", l'abitudine stessa alla "libertà turchesca" (col che lo Zane allude a quella disinvoltura di costumi che l'Occidente condannava e, nel contempo, invidiava: "la libertà del vivere turchesco, la lussuria di quelle donne ... avriano forza di far di un santo un diavolo" aveva asserito più ammaliato che orripilato un altro bailo, Lorenzo Bernardo) tratterranno il C. "sempre in ufficio, né lo devieranno dal suo tristo sentiero".

Comprensibile, ad ogni modo, in questo intricato contesto di psicologie torbide ed interessi inconfessati, l'allarmato agitarsi della diplomazia veneta - specie del Paruta a Roma e dello Zane a Costantinopoli -, di per sé incline ad annusare ovunque l'orditura di tenebrose trame spagnole e non a torto preoccupata del malanimo verso la Repubblica del C., alla notizia che il suo fratello minore, Carlo Cicala, partito nell'aprile del 1593 da Messina, dopo una misteriosa tappa a Ragusa, era giunto, ai primi di settembre a Costantinopoli.

Che c'era sotto? Quando oramai i timori saranno svaniti, Leonardo Dorià così riassumerà la vicenda, senza, peraltro, poterla chiarire del tutto: "Carlo è stato a visitarlo...molto da grande, con fini non ben del tutto conosciuti, ma si partì finalmente da lui con poca sodisfattione. Giudicasi che la sua speranza fusse di cavare gran facoltà di danari da lui, ma che forse avenisse in tutto il contrario, pretendendo il bassà di cavare et di essere presentato et donato da lui conforme alla ingorda volontà de quelli che, essendo già christiani, si sono fatti turchi". A detta dello Zane "l'ambizione" o "l'avarizia" avevano spinto Carlo a sperare nell'"autorità" del C. presso il sultano sì da ottenere per lui l'investitura di "Bogdania o di Valacchia" (un chiodo fisso questo di Carlo se, quasi venticinque anni dopo la morte del fratello, ricomparirà, come riferisce il bailo Giovanni Cappello il 13 ott. 1630, a Costantinopoli con la "speranza di ottener per il figliolo alcuno di questi principati di Valachia o di Moldavia"). Ma, "fallito questo pensiero", aveva dirottato la sua ambizione ad una signoria sulle "isole dell'Arcipelago ad imitazione di Giovanni Miches, favorito ebreo". E, sempre secondo lo Zane, anche costretto a prender atto dell'impossibilità di conseguire questo secondo obiettivo, Carlo avrebbe finto d'adoperarsi pel suo conseguimento per stornare il crescere dei sospetti ravvisanti in lui una "spia dì Spagna", giunto ad "indagar le provvisioni dell'armata e i disegni" della Porta. Collo Zane lo stesso Carlo s'era lamentato di non riuscire a partire, perché - di fatto gli era intralciato il ritorno mentre ogni sua mossa veniva controllata. Quanto allo Zane, scaduta la sua rappresentanza, se ne tornava a Venezia perplesso: la "pratica" gli pareva "fraudolenta da ogni parte"; nel caso poi il fratello del C. si fosse fatto maomettano, "potrebbe essere istrumento atto a gran male". Ma, poiché è da supporre che il suo viaggio sia stato autorizzato dalle autorità spagnole, va pure tenuta presente l'ipotesi degli storici siciliani G. B. Caruso e C. D. Gallo, inesatti peraltro nei particolari e nella cronologia, secondo i quali Carlo "cercò - così il primo - con occulte pratiche divertire le armi turchesche" dalla Sicilia e, comunque, redargui "arditamente" - così il secondo - il fratello "d'aver impugnate le armi contro il proprio re". In tal caso i suoi personali intenti, lasciati ad arte trapelare, sarebbero serviti da copertura alla segreta missione di evitare che la forza d'urto della flotta ottomana s'abbattesse contro la Spagna ancora malconcia per la recente sconfitta dell'invincibile armata; e, nel corso del suo prolungato soggiorno costantinopolitano, nulla esclude abbia, pure, fatto intendere che, qualora la flotta turca avesse mirato a penetrare nell'Adriatico, la Spagna sarebbe rimasta a guardare. In sostanza più che i petulanti sondaggi per una bramata investitura lo scopo di Carlo sarebbe stato quello di barattare la tranquillità dei litorali sottoposti alla Spagna - a cominciare da quelli ionici e tirrenici - con una sorta di via libera al terrore turco sull'Adriatico. Come mai, allora, una volta tornato a Messina, l'effimera sicurezza della città sarà sconvolta dalla presenza della flotta guidata da suo fratello presso l'estrema punta calabra? Il fatto è che, nel frattempo, a Costantinopoli - per quanto la direzione della guerra in Ungheria spettasse a Sinān, il comando della flotta fosse rinnovato al C., entrambi accomunati dall'avversione per Venezia - era prevalso l'orientamento proveneziano di Ferhat che la Repubblica seppe abilmente convincere delle finalità esclusivamente difensive del proprio febbrile riarmo garantendo la più scrupolosa neutralità quando la Porta avesse, scaricando l'aggressività altrove, rispettato l'Adriatico. Sicché, dietro pressione di Ferhat, al C. fu espressamente proibito di recare la benché minima "molestia" alle "cose" di Venezia; e Murad III gli vieterà, pure, severamente il vagheggiato "colpo sicuro" di Candia che sarebbe risultato ampiamente remunerativo e tale da ripagare abbondantemente le spese sostenute per l'allestimento della flotta.

Così vincolato da unimpostazione che non condivide, il C. salpa, il 3 luglio 1594, con una flotta assai più ragguardevole di quella delle "uscite" precedenti, lontana però dalle proporzioni (almeno cento galee) da lui desiderate: circa sessanta, a detta del bailo Venier, le galee all'atto della partenza, cui altre, specie di "Barberia" via via s'aggiungono assieme ad un certo numero di galeotte. Può contare sulla capacità di fuoco dell'artiglieria "grossa" e su quattromila uomini, metà "spahi" e metà "armeroli callafati et altri". Dopo uno sfortunato avvio - la tempesta nello Ionio fracassa un paio di galee, la stessa capitana del C. si scontra con un'altra galea (il cui "rais" viene fatto accoppare di "bastonate" dal C. per punizione); la epidemia miete molte vittime -, il C., alla fine di agosto, è di fronte a Messina. Invia "una galea" a chiedere gli sia concesso di vedere la vecchia madre, ma non viene accontentato. Donde - così la versione da lui stesso accreditata (giunto "per vedervi", scriverà anni dopo alla madre, "mi credevo che vi haviano posto in carcere ... et per questo fu causa che io mettessi a sacco Rigio") - la vendetta della devastazione della costa calabra, dei primi di settembre.

Saccheggiate Bovalino Careri Ardore è - quando ormai le autorità spagnole hanno fatto sgombrare la città -, tra il 2 e l'8 settembre, la volta di Reggio, messa a fuoco (prodigo di particolari, iI residente veneto a Napoli, Girolamo Rannusio, precisa: il C. "ha levato dalli campanili... le campane, gettate a terra le immagini dei santi, ... desolate le chiese...facendo in fine dare il fuoco ... Ha poi mandato a tagliare tutti li morari del territorio"), limitandosi la resistenza degli abitanti all'attacco di manipoli di "spahi" avventuratisi nelle campagne circostanti. Ci fu pure - mentre l'incursione prosegue a danno di varie località tra le quali Bianco Montepaone Sannicola Cirò - un provocatorio sbarco presso Messina e l'incendio dimostrativo d'un mercantile nello stretto. Seguono vari sbarchi, una puntata oltre Taranto, due scontri colle milizie di don Carlo d'Avalos, la cattura di cinque navi cariche di grano; quindi la flotta volge a sud puntando verso "Malta picciola" apportandole "gran danno". Sconcertante il ritardato arrivo, del 25 settembre, a Messina della flotta spagnola guidata da Giannandrea Doria, quando ormai Reggio è distrutta da un pezzo: vivissimo, a detta del Paruta, il "dispiacere" del papa, grande la sua "meraviglia" di fronte a tanta "tardità". Affiorano addirittura sospetti di connivenza: il C., colla sua condotta apparentemente aggressiva suggellata dalle fumanti rovine di Reggio, tendeva a coprire la rinuncia ad attaccare la vulnerabilissima Messina. Si subodorano patteggiamenti: in definitiva la Spagna, pur collo scotto dei danni alla costa calabra, viene leggermente colpita. Che Reggio sia stata il capro espiatorio per salvare il gioco delle parti? Come mai, d'altronde, al l'avvicinarsi della flotta turca, le autorità, anziché esortare i suoi abitanti alla difesa, hanno loro ingiunto d'allontanarsi col denaro e le masserizie? che non si tratti d'un copione concordato? L'incendio della città, di fatto, confermò agli occhi dell'opinione pubblica l'irriducibilità dell'antitesi ispano-ottomana; felici dello scampato pericolo i già atterriti Messinesi, che invano avevano reclamato a gran voce l'arrivo tempestivo del Doria, tendono ad ignorare il collegamento tra la loro immunità e le rovine al di là dello stretto. S'accontentano di sfoghi di postumo sdegno: messinese è Nicolò Antonio Colosso, l'autore del concitato poemetto Rhegias seu turcarum expeditio in siculum fretum... (Messanae 1595) infarcito di vituperi contro il C.; e in questo è il maggiore dei fratelli del C. ad esprimere, a posteriori, spiriti bellicosi contro l'ormai lontano quapudān, "almae desertor fidei, generisque infamia nostri". Lo sfida, addirittura, a duello: "mecum decertet sinite hic" fa dire l'autore a Filippo Cicala. Può proclamarlo ad alta voce: il fratello rinnegato ha altro cui pensare.

Rientrato, infatti, il 12 dicembre, a Costantinopoli, "con poca allegrezza - si compiace il Venier - forse per non esser riuscito...di far alcuno di quei tanti miracoli ch'haveva promesso al re", è accolto da questo con minacciosa freddezza. La sua disgrazia è ormai imminente, tanto più che, morto il 20 genn. 1595 Murad III, cresce ancor più - divenendo da sultana "favorita" sultana "validè" o "madre" - l'influenza di Saffiyye, la quale, assieme a Ferhat, convince il successore, suo figlio, Maometto III, à destituirlo - "è stato deposto dal capitaniato del mar con gran suo scorno" annuncia esultante il 31 gennaio il Venier - e a sostituirlo col cognato Halil pascià, un acerrimo avversario del C. ("stanno tra di essi come il cane et la gatta" noterà Leonardo Donà).

Umiliato ma non sconfitto, il C. s'adopera per recuperare il proprio prestigio dapprima senza fortuna: offre invano ad Halil 50 mila zecchini "sempre che l'havesse fatto rimetter al suo primo luogo di bassà della Porta"; suoi "seguaci" istigano la "sollevatione" degli spahi, dell'aprile, tumultuanti per le vie di Costantinopoli con grandi urla contro Ferhat. Ma la loro rabbia viene da un lato domata dall'intervento dei giannizzeri dall'altro ammorbidita con gran profusione di denaro, mentre il C. viene allontanato da Costantinopoli, "privato di ogni grado et confinato ...in Natolia". Per pochissimo però, ché, richiamato, già il 18 maggio è di nuovo nella capitale; di nuovo "visir della Porta, ma però nel quinto luogo, che è sotto di Alil", non si ritiene perciò soddisfatto e diserta il "divano" accampando pretesti di malattia. Temporaneamente ibernato nella carica minore di comandante della flotta del Mar Nero, per la quale pretende, comunque, non volendo sottostare ad Halil, piena autonomia, l'eccessiva ingerenza della sultana madre, venuta in uggia allo stesso Maometto III, il sopravvento del vecchio Sinān e la contemporanea rovina di Ferhat (privo d'autorità presso le truppe, screditato da una serie di rovesci bellici, già nel luglio lo si cerca per levargli "la testa"; riesce a fuggire e a nascondersi sino a quando, catturato, viene strangolato nell'ottobre) concorrono ad agevolare la tenace volontà di rimonta del Cicala.

Per quanto inviso a molti, per quanto sgradito allo stesso sultano, impossibile non ricorrere a lui in un periodo tanto difficile - la guerra coll'Impero va male, persiste l'esiziale tensione tra spahi e giannizzeri, minata la disciplina dell'esercito, questo si batte sempre peggio - per la Porta: "li Turchi - osserva, nel 1595, Filippo Pigafetta - hanno solo tre huomini di reputatiope da guidar esserciti, Iaffer ...Cicala...Sinan".

Non stupisce perciò debba - suo malgrado. (sua aspirazione sarebbe stata quella d'essere nominato ancora quapudān) - partire, nel giugno del 1596, assieme al sultano contro l'impero, nell'intento di rivitalizzare il disastroso andamento del conflitto e di restaurare l'obbedienza e la combattività delle truppe. Enorme lo sforzo bellico messo in atto dalla Porta: giunge notizia - scrive il 16 settembre il nunzio apostolico a Graz Girolamo da Porcia - "il numero de' Turchi esser quasi infinito come che passi un milione di persone". Quanto al C., raggiunta Sofia, si distacca dal corpo di spedizione guidato da Maometto III, e si dirige verso la Transilvania con "circa 140 mila uomini" secondo le informazioni pervenute al Porcia. Confuse e, ad ogni modo, catastrofiche, le notizie che giungono a Costantinopoli: si dice - scrive il Venier il 22 agosto - che abbia subito "una gran rotta", con "perdita...di 60 mila...soldati" rimanendo ferito se non addirittura morto; più tardi le notizie "dal campo" si fanno, più circostanziate, anche se continua l'incertezza. Intanto il C. è vivo, quasi "risuscitato". Vera, invece, la voce della grossa sconfitta: "è stato detto che il re habbi mandato "avanti in soccorso alla assediata "Hvan" il C., "il quale, partito con 100 mille et più dei migliori combattenti sia stato rotto da' christiani con perdita di tutta la sua gente". Certa, comunque, la partecipazione del C. all'assedio di "Agria" (o Eger o Erlau), che cade in mano turca, il 15 ottobre, e successivamente all'immane battaglia, del 23-26 ottobre, voluta dall'arciduca Massimiliano e dal principe di Transilvania, Sigismondo Báthory, a Mezö-Keresztes, località "non procul ab Agria...tanta camporum planitie - così Giovanni Decio Barovio (Baronyai Decsi János), autore d'una storia De rebus ungaricis - ut facile spatium dimicandi...praebere possit" al cozzo di due grandi eserciti.

In questa, anzi, egli gioca un ruolo decisivo. Quando ormai il sanguinosissimo braccio di ferro inclina dalla parte imperiale al punto che il sultano si sottrae, con la guardia di 6 mila spahi, con furibondo galoppo al pericolo, il C., acquattatosi assieme ai giannizzeri e ad altre truppe scelte e a parte della cavalleria, attende, il 26 ottobre, impavido l'irruzione degli Imperiali, ormai sicuri della vittoria, nel campo turco, "fino appresso del padiglion del Gran Turco Esultanti, gridando "vittoria, vittoria" tale è l'attendibile relazione che viene trasmessa a Venezia da Praga dall'ambasciatore Francesco Vendramin - gli Imperiali iniziano "a robar dentro" ai "padiglioni" e stanno - così il pur propagandistico Avviso della gran battaglia...presso Agria...dove s'intende la morte di...70 mila turchi...e la perdita di solo 5 mila fanti e 500 cavalli de' nostri (Roma 1596) - "per metter mano al tesoro contenuto in quello del sultano" stravolti dal miraggio d'uno strabiliante bottino e già litiganti per la sua spartizione, quando il C. - così, ancora, nella relazione pervenuta al Vendramin - di slancio, "con la retroguardia della cavalleria, entrando per fianco nei nostri", li sgomina. "Coeperunt primum aliquot cataphracti germanici, mox etiam transylvanici ac ungari retro fugam arripere" scandisce il Barovio; "cominciorno a rompersi da se stessi, a buttar via le armi e fuggirsene" insiste la versione notificata dal Vendramin. E il panico dilagò anche tra le truppe sopraggiungenti mentre i Tartari si preoccupano di trucidare a sciabolate i fuggitivi non annegati nella vicina palude.

Contrastanti le versioni dei contendenti: la propaganda imperiale, gonfiando le perdite nemiche e riducendo molto le proprie, parla della battaglia come d'una vittoria che poteva risolversi in un trionfo se lo incauto arraffare di parte dei soldati in campo turco non li avesse esposti al tempestivo agguato del C.; pei Turchi, invece, si sarebbe trattato d'uno scontro durissimo, le cui sorti, dapprima favorevoli all'Impero, furono del tutto capovolte dall'impeto determinante dell'imboscata del Cicala. Certà, comunque, la carneficina, e indubbia, per entrambe le versioni, l'importanza della mossa del C. il quale coglie il più grande successo della sua vita.

Il 27 ottobre il sultano, felice dello scampato pericolo (scriverà alla madre di dovere la "vita" a "lei che l'ha generata et da poi" al C. "che l'ha salvato"), riconoscendo al C. il merito non solo della felice sortita ma anche quello dell'impostazione stessa della battaglia per essersi opposto al ripiegamento generale che egli'avrebbe, dapprima, voluto, stacca solennemente, di fronte all'esercito schierato, il preziosissimo airone dal proprio turbante, glielo dona e lo nomina primo visir, collocandolo, così, al vertice della gerarchia ottomana.

Appagato finalmente nella sua più torturante ambizione, il C. però ha il torto d'esordire con misure d'inaudita violenza. Convinto, non senza ragione, che il tarlo della diffusa indisciplina e il costante stillicidio delle diserzioni fossero i veri responsabili della limitata forza d'urto d'un esercito peraltro numericamente traboccante, ingenuamente ritenne bastasse una teatrale esibizione di dispotica e crudele severità per trasformarlo rapidamente in una compagine efficiente e obbediente. D'altra parte il comando supremo rappresentava l'agognata occasione per legittimare gli sfoghi d'una ferocia a lungo repressa, per ammantare colla nobilitante giustificazione del ripristino dell'ordine le proprie sanguinarie propensioni.

Gesto iniziale de 1 nuovo primo visir la meticolosissima rassegna delle truppe, dalla quale risulta che troppi mancano all'appello. Bollati come disertori, viene loro ritirato il soldo; e i 30 mila timarioti d'Anatolia mancanti all'appello sono colpiti coll'abolizione del timar e la confisca dei beni. Non basta: ordina la caccia dei responsabili, dispone gravi sanzioni pecuniarie, decide la pena capitale per chi è fuggito di fronte al nemico. Molte teste rotolano recise in truculente esecuzioni, anche quella di Yunus agà dei muteferrik. E al sangue preferisce, in altri casi, l'umiliazione architettata con perfidia sottile: fatti vestire d'abiti donneschi Djahi e Sohrab, quest'ultimo pascià d'Aleppo, a rimarcarne la codardia dimostrata in battaglia, li espone agli impietosi lazzi della truppa, al ludibrio di tutto il campo. Quanto a Gazi-Ghiray, il khān di Crimea non comparso ad Erlau e fattosi sostituire dal fratello Fethi Ghiray, il C. ne delibera precipitosamente la destituzione a vantaggio del secondo.

Ma siffatto procedere - più brutale che severo, più esagitato che sistematico -, lungi dal rafforzare la sua autorità, esaspera l'avversione contro di lui, suscita ulteriori fughe ed aperte resistenze, costituisce una sorta d'incunabolo della prossima dilagante ribellione in Asia alimentata soprattutto dai defraudati timarioti anatolici; ché quivi i perseguitati riparano, si coalizzano, preparano le sacche di future tenaci dissidenze, mentre esplode immediata, in Crimea e nelle zone limitrofe, una violenta opposizione in appoggio al khān privato del comando. Ne approfitta, a Costantinopoli, l'implacabile rancore di Saffiyye che si somma alle rimostranze contro il C. di quanti erano stati partigiani di Ferhat, si allea colla esacerbata ambizione del genero (nonché cognato del sultano) Ibrahim reclamante la rioccupazione del "suo loco" di primo visir. Poco saldo nelle sue decisioni, Maometto III si lascia rapidamente convincere e toglie, nel dicembre, il primo, visirato al C. restituendolo ad Ibrahim. E mentre, il 22 dicembre, il sultano rientra a Costantinopoli, al C. - avvisa il bailo Girolamo Cappello - è imposto bruscamente di "restar di là da Andrinopoli", venendo poi confinato ad Akşehir, in Anatolia, coll'incubo, in più, d'essere eliminato poiché - così Lazzaro Soranzo - la sultana madre, "come sogliono far le donne ch'amano o odiano grandemente, non cessa di pregar il figliuolo che lo faccia morire, non potendo tolerare ch'uno schiavo habbia havuto tanto ardimento di volerla porre in disgratia". La contrastano, sia pure copertamente, come scrive il Cappello, "i dipendenti" del C., i quali "sussurrano che le donne governano et che manderanno in rovina l'imperio, per la salute del quale desiderava il Cicala di esser lasciato andar in pellegrinaggio alla Mecca".

"Molto ricco - ripete il Soranzo -, di grand'ingegno", abilissimo nel dividere i suoi avversari e nel "destreggiar", il C. sa, ancora una volta, padroneggiare la situazione ed uscire indenne dal terribile rischio. Nominato dapprima, - nel dicembre del 1597, "beglerbeg" della Siria, di lì continua a riproporsi come "capitano del mare". Con successo, ché il 21 apr. 1598 il Cappello annuncia l'invio di quattro "chiaussi" a Damasco per "richiamarlo" a ricoprire la "rinnovata autorità".

Comprensibile il rammarico del bailo: il C. non è solo responsabile di tanti danni ai mercantili veneti, ma esprime anche un orientamento pericolosissimo per Venezia. Suo mai smentito e "sempre" sostenuto "concetto" - così ne sintetizzerà la convinzione il nunzio a Venezia Offredo Offredi in una lettera del 1° febbr. 1603 - quello dell'opportunità di "concluder la pace con l'imperatore et travagliar la Signoria", pertinace la sua volontà antiveneziana. "Principal oggetto" del C. - aveva scritto ancora il 2 genn. 1597 il Cappello - il "romper la pace" veneto-turca.

Rientrato a Costantinopoli solo il 5 luglio con voluta lentezza a dimostrazione che non gli era necessario precipitarsi ad occupare una carica di cui egli e non altri era degno, salpa, il 26, con quarantacinque galee, alle quali s'aggiungono poi "le barbaresche, che - suppone il Cappello - non saranno più che otto".

Se il motivo ufficiale della spedizione è quello di far sentire alle reggenze barbaresche l'autorità della Porta, l'episodio più significativo e più colorito agli occhi dei contemporanei è, invece, d'indole privata, dettato dal desiderio del C. di rivedere la madre. Ancorata la flotta a Pellaro, probabilmente forte d'assicurazioni precedenti cui non sarebbe stato estraneo il diretto interessamento del papa e dell'imperatore, il 20 settembre si rivolge al viceré di Sicilia duca di Maqueda, al comandante delle galee stanziate a Messina don Pedro de Leyva e alla madre esponendo il - desiderio di vedere quest'ultima, "senza danno né male di alcuno", prima di proseguire il "camin" suo. Sono ormai "30 0 40 anni" - insiste, piuttosto generico in fatto di cronologia - da che "son partito...et più non vi ho visto. Desideria...prima della morte vederve ...si voi amati me come io amo voi, cercati di haver licentia". Immediato cortesissimo il consenso del viceré; il che avvalora l'ipotesi di antecedenti contatti tra il C. e le autorità spagnole e spiega il reciproco sforzo di fair play, ché il C. accetta la visita dì due irruenti cappuccini i quali non solo l'esortano a risparmiare le coste d'Italia ma anche l'implorano a tornare al cristianesimo ottenendo, per uno, il salvacondotto per la predicazione in terre musulmane Il duca di Maqueda è disposto ad inviare "la senora Lucretia ... en una galera de fanal ... con sus hijos y nietos", purché, a sua volta, il C. mandi, in malleveria, "a qui con dos galeras de fanal" il suo primogenito "en retines, que stara en poder del capitan... de Leyva". Nessuna esitazione da parte della madre: ha "il medesimo...desiderio...di rivederve dopo così lungo tempo...insieme con vostri fratelli et nepoti". Così avvenne. E all'incontro si diede una clamorosa risonanza: la flotta, schierata, salutò con una rumorosa salva di cannonate l'arrivo di Lucrezia. Salita a bordo coi parenti, seguirono gli abbracci i reciproci riconoscimenti l'offerta di doni; e sul contenuto dell'intimo commosso appartato colloquio tra madre e figlio i contemporanei amarono sbizzarrirsi. Quanto al C. - ad evitare dubbi sulla sincerità della sua fede islamica - dapprima farà circolare la voce che aveva colto l'occasione per tentare d'indurre a farsi turco il fratello Carlo; quindi amplierà questa prima versione sostenendo che avrebbe tentato di convincere la madre e tutti i parenti di seguirlo abbandonando il cristianesimo. Donde le veementi maledizioni, in Occidente, contro la sua perversa ostinazione di rinnegato. Di fatto ci fu, ben presto, il patetico definitivo commiato: "alla partenza si abbrazzarono e stettiro cossì un bon pezzo per tenerezza, piangendo tutti dui", annota un cronista del tempo. Breve parentesi, ben presto riassorbita dal proseguimento della rotta.

Si succedono, infatti, un poco convinto tentativo su Gozzo, l'ammonitorio sbarco a Tunisi turbata dalla ribellione, la punizione della popolazione di Chio rea di non essersi opposta ad una velleitaria incursione nemica, uno scontro non felice con vascelli inglesi, la protezione ai "galeoni che vengono di Alessandria" contro le "insidie" dell'Ordine di Malta, la cattura, presso Cerigo, d'una nave diretta a Genova e in genere la caccia, nello Ionio e nello Egeo, ad "ogni sorte di vascello che sia carico over ridotto per caricar grani".

Ritornato a Costantinopoli il 17 genn. 1599, le trame degli "ernuli", specie di Halil, allora governatore della capitale, non riescono a scalzarne la posizione, ché non solo, grazie ai molti "donativi fatti in Seraglio", egli "si conserva nel suo stato", ma riesce pure ad ottenere per Mahinud, il suo primogenito, "l'honore di cadilschiero della Gretia". Quando il C. esce, alla fine di luglio, dai Dardanelli con una quarantina di galee, lo vincola la "commissione ristretta - così almeno Giovanni Carlo Scaramelli, residente veneto a Napoli - di custodire li mari" e di "tenere in freno la Grecia et l'Arcipelago da qualche sollevatione de' cristiani habitanti". Il Turco, scriverà il 29 ottobre a Filippo III il viceré di Napoli conte di Lemos, è "mas amigo de quietud i sossiego que de guerra"; in altri termini, la spedizione del C. non è tale da suscitare grande apprensione. Toccati vari porti egei, fermatosi a Navarino, il 10 settembre il C. - fatta propalare la voce che sarebbe piombato a predare Lanciano in occasione della fiera - entra, invece, nel golfo di Squillace e getta l'ancora di fronte a Stilo e vi attende, da terra, segnali convenuti per lo sbarco. Questi non giungono; distacca, allora, 4 galee dalla flotta perché si avvicinino alla costa, ma le loro segnalazioni, del 13 e 14 settembre, non sono ricambiate. Venuti meno i previsti collegamenti ("no hablando ninguna correspondencia - ci si affretta ad avvisare, il 17 settembre, il viceré di Napoli - pues que la mayor parte de los coniurados estan présos i los otros huidos"), al C. non resta che proseguire verso lo stretto di Messina, ancorare nell'insenatura di San Giovanni, un po' a sud di Reggio, ove rimane tre giorni, ripartendo il 18 settembre dopo aver catturato "doi navi grosse ragusee cariche di grano con tutta la gente" ed "una navetta ...carica di salumi calavresi per la Sicilia".

Magro surrogato per il C. che aveva mirato ad impadronirsi di Catanzaro e Crotone ("la più forte piazza" del Regno) per costituire, estendendo di lì il suo dominio su tutta la Calabria e in Puglia, una sorta di principato che, sgombro dalla presenza spagnola, sarebbe divenuto tributario, in qualche modo, della Porta.

È comprensibile che il C., stanco d'organizzare insidie contro i rivali e di sventare le loro, insofferente della necessità dei continuo versamento di donativi, spaventato dalla disgrazia di tanti alti dignitari, logorato dalla tensione di dover costantemente fronteggiare l'antipatia delle sultane gli umori variabili dei sultani (senza trascurare quelli di quanti, nani eunuchi donne, loro stavano dappresso), umiliato dall'impossibilità di compiere operazioni in grande stile (per far ciò avrebbe dovuto disporre d'una flotta almeno quadrupla!) e dall'obbligo di dover sottostare ad un'impostazione che non condivideva, abbia aspirato, in cuor suo, ad una signoria personale che lo sottraesse, una volta per, tutte, alle beghe e ai rischi della vita di corte, che lo premiasse coi prestigio d'un comando finalmente non vincolato. Di fatto, per quanto ricco e potente, la sua posizione era sempre precaria, revocabile, la sua stessa vita insicura: un proprio dominio sarebbe stato una soluzione ottimale. Troppo cauto però, troppo accorto calcolatore, troppo, esperto simulatore., troppo addestrato dal periglioso cabotaggio di tanti anni per lanciarsi in pericolose avventure, per abbandonarsi a mosse avventate. Tant'è vero che sa prontamente e tempestivamente ritrarsi.

Ma la rinuncia alla sua segreta aspirazione non autorizza a sorvolare sull'episodio, forse il più affascinante della sua esistenza. Chi doveva attenderlo sulla costa ionica, fargli segnali e rispondere ai suoi, agevolarne lo sbarco per unirsi a lui nello sforzo di buttare a mare gli Spagnoli? Ci fu un momento in cui il disegno ambizioso del potente rinnegato parve saldarsi coll'ansia palingenetica del "maldito heresiarca" Tommaso Campanella, che, a detta dell'avvocato fiscale di Catanzaro Luigi Xarava, aveva "contaminado la mayor parte de la gente" calabra "con su abominable y falsa dotrina".

Il brivido di rivolta d'una plebe cenciosa contro una miseria senza remissione avrebbe dovuto congiungersi colla determinazione di affermazione personale del C.; il ribellismo latente in una popolazione abbrutita, le urgenze sovversive di intellettuali in preda ad un malessere estremizzato, l'aspirazione campanelliana al regno della libertà, anzitutto di coscienza, e della giustizia si sarebbero, paradossalmente, incontrate coll'energia militare d'un uomo del tutto estraneo alle loro motivazioni. Ma non per questo i ribollimenti dell'insubordinazione, l'esagitazione delirante di nobili spiantati e riottosi, le smanie escatologiche di "clerici et religiosi", che il nunzio Giacomo Aldobrandini definisce "selvaggi o coniugati", riconoscentisi nella communitas vagheggiata da Campanella perdono la loro carica antagonistica, si appiattiscono. Proprio il fatto che si rivolgano ad un famoso rinnegato è, anzi, indicativo della tensione disperata e della volontà di violenza senza ritorno sottese alla congiura, orribile pel conte di Lemos sommandovisi "el delito de la rebelion" con quello "de la heregia". L'odio per l'esistente - le autorità spagnole e locali, la miseria, la religione stessa - è tale che s'attende l'arrivo delle navi turche, si spera nell'intervento d'un rinnegato, ci si allea coll'inferno. Gli allarmatissimi e scandalizzatissimi "avvisi" del tempo, le eccitate lettere dei diplomatici insistono su questo punto, oscillanti tra furibonda condanna e attonito sbalordimento: si tratta d'un "dissegno" senz'altro "diabbolico"; "ne volevano mettere in potere de' Turchi e di Mahumet e del diavolo" "pensarono diabolicamente...di vendicarsi de' loro nemici con l'armi turchesche, etiamdio col sacco et sterminio della patria et perditione delle anime proprie andandosi poi a far turchi"; calamitati dal rovinoso allettamento della "libertà di conscientia" erano "disposti ad ogni diabolica impressione". Tanto spesso impreparate e inefficienti a fronteggiare le incursioni turche e barbaresche al punto da far sospettare siano state talvolta - è il caso dell'indisturbato incendio di Reggio del 1594 - scientemente tardive, le autorità spagnole reprimono, in questo caso, tempestive e spietate, la congiura. Anzi il suo soffocamento, così diligente nell'estensione delle indagini e degli arresti, nell'inseguimento d'ogni possibile ramificazione, nell'esempio ammonitorio delle esecuzioni capitali, nelle centinaia di anni di carcere comminati, ha tutto il sapore d'una dispiegata manovra preventiva, il cui successo fu salutato con plauso in tutto il mondo cattolico. "Tutta l'Italia - così al viceré il rappresentante toscano Giulio Battaglino - restarà in obligo a S. E. dhavere scoverto et remediato sì opportunamente ad un fuoco di arme turchesche et di heresia che la haveria contaminata tutta". Nessuno, in effetti, come s'è visto, attese il C. sulla costaionica. Certi, ad ogni modo, pei contemporanei gli accordi coi congiurati: "haveva un trattato in Catanzaro...con alcuni frati"; "haveva intelligenza in Catanzaro...et altri luoghi...per introdurlo et al suo arrivo s'havevano da inalberar le insegne turchesche"; "autore di tutto il trattato maneggiato a lungo col C. per lettere, messi et indirizzi di rinegati calabresi a Costantinopoli è stato un frate, famosissimo, letterato, detto il Campanella". Anche se le versioni via via s'ingrandiscono e si coloriscono, anche se tante ammissioni nascono deformate estorte colla tortura e colla minaccia della morte, - sono comunque indubbie le trattative, avviate nel giugno, tra Murat rais (che comanda le galee barbaresche al seguito del C.) e Maurizio de Rinaldi (il "capo secolare" della congiura secondo il residente veneto a Napoli Scaramelli, "la cabeça de toda esta maquina" a giudizio del viceré), e proseguite sino ad un qualche accordo cui fecero da tramite elementi della nutrita colonia di rinnegati calabresi - circa "i due terzi", secondo lo Scaramelli, dei rinnegati ivi riparati - presente a Costantinopoli. Ed è certo che, anche se il tentativo andò a vuoto, la memoria della congiura, proprio nei suoi termini estremi (dannarsi l'anima facendosi turchi), resiste come stimolo ad un sia pure disperato riscatto: i Calabresi affermano, ha modo di postatare il residente veneziano Pietro Bartoli, "palesemente che si darebbero, se havessero chi li volesse ricevere, non solamente a' turchi, come tentarono di fare cinque anni sono, ma anche a peggior generatione più tosto che vivere sotto a questo governo".

Quanto al C., probabilmente ignaro dei groviglio di disperazione e speranza con cui lo si era atteso, rientra, il 3 dicembre, a Costantinopoli, dopo aver devastato Santa Maura divenuta ricettacolo di pirati operanti indiscriminatamente a danno di cristiani e maomettani e aver debellato i corsari Deli Ali e Hasan incamerandone i bottini. Vibranti le proteste contro il suo operato da parte dei baili veneziani Girolamo Cappello e Vincenzo Gradenigo per l'"abbruciamento della marciliana Gotarda" e la cattura di ventitré soldati, che in effetti è costretto a rilasciare, destinati da Candia a Tine. Ancor più accese le rimostranze dell'ambasciatore francese il quale non si limita a reclamare il risarcimento d'un vascello da lui preso, ma, accusandolo di connivenza colla Spagna e d'ostilità verso il proprio paese, ne esige la destituzione. E, anche se non viene accontentato, le sue accuse valgono ad offuscare il già scosso prestigio del C. e sono prontamente utilizzate dai suoi rivali instancabili nel cercare di metterlo in difficoltà.

Ancora capitano del mare, le sue "uscite" si risolvono in passeggiate zigzaganti nel Mediterraneo orientale, con "poco honore della sua riputazione", addirittura "con indiguità e senza frutto", salvo l'accanimento nell'imporre sempre più pesanti contributi "a quei infelici sudditi" cui, si può dire, ha "succiato il sangue", sàlvo l'impegno nel trattare "malissimo...le isole dell'Arcipelago dalle quali...ha procurato di cavar quella maggior parte di denaro che si è potuto" sì da potersi presentare al sultano con "borse" ricolme di "talleri" e "zecchini". D'altronde, per quanto insista per disporre d'una flotta d'almeno cento galee oltre alle "ordinarie guardie", salpa con poco più di dieci il 16 luglio 1600, con circa trentacinque il 30 giugno 1601 (e con queste non esce da Navarino alla notizia che il 5 agosto Gian Andrea Doria lascia Trapani colla flotta), con trentasette il 28 giugno 1602 (e questa volta tenta, invano, di sbarcare a Reggio), con ventidue e otto galeotte il 12 luglio 1603. Non ha "altro fine - commenta il bailo Agostino Nani nella sua relazione del 1603 - che di arricchirsi col desolare le isole e col bottinare qualche vascello"; volto più a conservare la propria posizione che ad ulteriori affermazioni, si preoccupa della carriera del figlio che "disegna" d'"apparentare in qualche sultana". La stanchezza e l'età si fanno sentire; il terribile rinnegato fa meno paura, sembra ripiegare su se stesso. Quando, però, nel marzo del 1601, scoppia il "tumulto" degli spahi esteso alle stesse guardie del palazzo e si esige la testa del "capiagà" di altre personalità del Serraglio e persino della sultana madre, mentre Maometto III tremebondo si dimostra incapace di padroneggiare la situazione, è il C. che l'affronta con fermezza. Dapprima, accompagnato dal muftì e dall'emiro primo predicatore, si reca nella moschea di S. Sofia ove i ribelli s'erano raccolti e tenta coraggiosamente di placarli; quindi, inascoltati i suoi appelli, tratta separatamente coi giannizzeri, li distacca dalla sedizione e infine tacita gli sconcertati spahi persuadendo il sultano a distribuire prontamente il ricavato dei timari di loro spettanza.

Un C. vigoroso difensore dell'autorità e dell'ordine, dunque, intimamente preoccupato della tenuta di quell'Impero di cui ha abbracciato la fede e assorbito i costumi. Eppure la riesumazione di documenti vaticani ha indotto il Rinieri e in parte pure l'Oliva ad ipotizzare un C. che, contro tutto e malgrado tutto, non ha lasciato spegnere, in cuor suo, la favilla della primitiva fede cristiana. Già il cronista messinese Gallo, fattosi portavoce d'affermazioni alimentate dai familiari del C. a Messina, s'era fatto garante del geloso mantenimento, da parte del rinnegato, d'"alcune vestigia di pietà cristiana". Di più: avrebbe conservato, ben nascosto, un crocefisso; avrebbe, recitato il rosario; si sarebbe adoperato a vantaggio degli schiavi cristiani; avrebbe cunato la speranza d'un clamoroso rientro, alla luce del sole, nel cattolicesimo. E la fiammella della fede, celata per decenni sotto la spessa cenere d'un'abilissima dissimulazione, sarebbe divenuta violenta fiammata se le circostanze gli avessero concesso di porsi a capo d'una gigantesca ribellione, che, in concomitanza con un'energica spallata dall'esterno, avrebbe fatto crollare il dominio ottomano. Punto di riferimento, questa volta, delle aspirazioni del C. non la potenzialità rivoltosa d'una plebe immersa nella miseria e sensibile alla rottura radicale prospettata da un frate indisciplinato, ma il pontefi e Clemente VIII colla sua ossessiva convinzione, puntualmente registrata dai rappresentanti di Venezia a Roma, "che si possa con assai facilità debellare li Turchi", che fosse doveroso approfittare della "grandissima declinatione" della loro potenza. Gli stessi nunzi insistono ribadendo che le notizie concorrono tutte ad assicurare "che l'obbedienza l'ordine l'osservanza è talmente declinata che facilmente andrebbe in rovina quell'imperio se ci fosse chi lo contrastasse". La corruzione dilagante nell'apparato burocratico, l'indisciplina delle truppe, le rivalità del Serraglio, le defezioni locali erano tutti sintomi d'un ineluttabile rovinoso sfascio. In competizione, di fronte alla storia, con Pio V - se questi è stato il papa della vittoria sui Turchi, eglì. si candida a promotore e artefice del loro tracollo -, Clemente VIII, per quanto debba ammettere che, "ivi capo a dieci anni di pontificato", non gli è riuscito d'"unire le forze christiane contra l'inimico comune", s'ostina testardo ad interpretare ogni difficoltà dell'Impero ottomano come il momento decisivo offerto dal "signor Dio" perché i principi cattolici, sotto la sua guida, ne approfittino. Lo stesso incontro, del 1598, tra il C. e la vecchia madre - nel quale, secondo la versione fatta interessatamente circolare dai Cicala di Messina, l'orgoglioso capitano del mare avrebbe fatto intendere quanto meno una disponibilità a ritornare cattolico - esaltato ad arte da due "consobrini" del C., gli intriganti ed invadenti gesuiti Antonio e Vincenzo Cicala, riempie di speranza l'animo del pontefice. S'affretta ad auspicare - nel rallegrarsi con Lucrezia con una calorosa lettera del 27 nov. 1598 - che il C. "redeat non solum ad...matrem secundum carnem, sed ad matrem, secundum spiritum,...ecclesiam catholicam"; nel contempo invia Antonio Cicala, "vir religiosus et zelo Dei praeditus", dapprima, alla fine del 1598, all'imperatore, quindi, nell'aprile del 1599, a Filippo III per sottoporre ad entrambi le sue, peraltro nebulose, speranze sul Cicala.

Il C., intanto, profondendo tutta la sua abilità manovriera, riesce ad ottenere, nella primavera del 1600, l'investitura pel fratello Carlo del ducato di Nasso e d'altre isole Cicladi purché s'impegni "di condurvi" pure "la madre, la moglie et li figlioli" e facendogli inoltre presente che "non occorreva ... se ne venisse se non con risolutione di farsi turco". Molto più attenuato, a quest'ultimo proposito, il testo della patente di Maometto III - almeno nella versione italiana trasmessa al Senato dal bailo -, ché vi viene detto come la concessione a Carlo valga, "a pato però di portar la madre in queste bande", "in sua vita" e cori condizioni analoghe a quelle ottenute da "Giosef hebreo". E, già il 24 apr. del 1600, il C. aveva anticipato al fratello che avrebbe potuto "haver, per amor mio, Nixia con le altre isole nello stesso modo" di "Rabì Giosef Nassi et che l'entrate habbiate a consegnarle all'arsenal del gran signore"; quanto al "negotio della buona pace tanto...desiderato dai...popoli" - evidentemente Carlo s'era proposto come mediatore tra l'Impero e la Porta - il C. aggiungeva che punto irrinunciabile per l'avvio, delle trattative era la restituzione di Strigonia (cioè Esztergom). "Se Vostra Signoria - insisteva col fratello il C. - conoscerà che con questi pati potrà trattare e concludere ..., doverà affaticarsi per fare qualche buon frutto, ma altrimenti la cosa sarà difficile.

Carlo Cicala, dunque, - mentre il conflitto, ristagna in guerra di posizione tra forze equivalenti, incapaci entrambe d'un decisivo sfondamento - diventa una sorta d'ufficioso portavoce di reciproche avances ai fini d'una pace cui i due antagonisti sono del pari interessati. Questi gli "altri più secreti interessi" che, sin dall'inizio delle manovre per l'insediamento di Carlo a Nasso, il bailo Cappello rappresentante d'uno Stato cui non spiaceva affatto che, alleggerendo la pressione a proprio danno, Turchi e Imperiali continuassero a logorarsi impantanati in un confronto privo di sviluppi - aveva annusato sospettoso. Ma, nemmeno in seguito, anche se sa, che Carlo riceve una pensione dalla Spagna, sarà in grado di precisarli; riesce, peraltro, il 1° luglio 1600, a trasmettere copia d'una lettera del C. al fratello. Ma è poca cosa. Si ha, anzi, l'impressione che il C., vera volpe in fatto di simulazione e dissimulazione, programmasse ad arte la divulgazione di scampoli della sua corrispondenza contando a loro insaputa - sulla venalità e corruttibilità degli interpreti prevedibilmente pressati dalla curiosità indiscreta dei rivali e dei personale delle varie ambasciate. Convinto si tratti d'un'occasione eccezionale, scambiando l'interessatissimo ed ambizioso Carlo Cicala per un aspirante crociato dall'adamantino entusiasmo, Clemente VIII indirizza a lui - così nel breve dell'8 maggio 1600 - il "propinquus" Vincenzo Cicala, "presbyter Societatis Iesu"; questi - assicura il papa - "negocium illud totum... optime tenet quod nosti et de quo a...Antonio Vincentii fratre ex cadem societate ac tuo item cansanguineo saepe nobiscum tractatum est ...Perspicies - gli chiedeva - pro tua prudentia et iudicio totius negotii statum ...ut cetera quae res postulat super aedificari magnoque animo totum opus promoveri ac, Deo bene iuvante, absolvi possit ac debeat...tu igitur,...age, pro tua virtute, quemadmodum de te nobis pollicemur". Al venale maneggione di sondaggi di pace turco-imperiali l'ingenuo Clemente VIII affida una parte di primo piano nel suo candido disegno (peraltro emerso in un clima di diffusa aspettativa: pure Campanella, nella Monarchia di Spagna, ipotizza, per "espugnar il Turco", il "mezzo di qualche capitano che sia stato cristiano...come il Cicala") d'abbattere, una volta per tutte, la scricchiolante impalcatura del colosso turco. E tutto sembra congiurare - ma fino a che punto in buona fede? - a farlo sperare.I preliminari della progettata impresa si svolgono rapidi, senza intoppi: a Nasso s'incontrano i tre Cicala, Vincenzo Carlo e il C., quest'ultimo preoccupato - una volta esauriti i segreti colloqui - d'ostentare "pochissimo conto tanto del padre quanto del fratello" che tratta, in pubblico sprezzantemente. Carlo, che rifiuta di farsi turco (al contrario però del suo segretario e d'altri tre del seguito che preferiscono sistemarsi presso il C.), non ottiene il "ducato di Nixia" e rientra, nel dicembre del 1600, a Messina, dopo aver comunque svolto, assicurerà il bailo Nani, un lavoro di spionaggio per conto della Spagna che lo paga. Vincenzo si precipita a Roma ed è prontamente spedito in Spagna, donde riparte, nell'ottobre del 1602, latore d'una generosa (apparentemente, in realtà per niente impegnativa) profferta di Filippo III.

Inteso - così il re di Spagna - che il C. "sta rissoluto di riddursi alla nostra santa fede e di esseguire il suo intento, col favore d'Iddio et assistenza dell'armi di Sua Santità e mie, mettendo le provincie e regni...soggetti al dominio turchesco nel gremio della ...Chiesa" e, "desiderando io sommamente di vedere eseguito così santo proposito,...sono venuto a prometerli, in caso della sua reduttione e di quel dominio alla Santa Sede, l'aiuto et favor mio con li miei esserciti e armate di mare e di terra". Magnanimo a buon mercato Filippo III ammette - in caso di crollo dell'Impero ottomano - il papa conceda al C. "l'investitura di tutto quello che adesso possiede il Turco..., eccettuando solamente il regno di Gierusalem col ducato di Athene et Neopatria" che il re riserba alla propria "maestà". Solo l'ottimismo a tutta prova di Clemente VIII poteva accontentarsi d'una dichiarazione così esilarante e, sulla base di questa, inviare, a sua volta, il 5 apr. 1603, due brevi "dilecto filio nobili viro Scipioni Cicadae". In uno, più diffuso, il papa si complimenta fervorosamente col C. perché, come gli hanno detto "Carolus et Vincentius", non solo intende abbandonare "pravos errores" della falsa fede, riparando, assieme ai suoi, nell'accogliente "gremium ...Ecclesiae", ma anche, al di là della conversione individuale, "regna provincias et dominia universa per...Turcarum tyrannum, occupata in potestatem tuam redigere atque ad agnitionem christianae fidei et...Ecclesiae oboedientiam traducere...etiam lateque propagare". Il C. agisca pure contando sull'appoggio suo, dell'imperatore, il quale, "cum opus fuerit, armis et militibus se tibi praesto semper adfuturum libentissime promisit", nonché di Filippo III che l'assisterà "non modo terrestribus sed maritimis copiis et ingenti pecuniarum summa". Semplicissimo il rituale proposto dal papa per la conversione: può avvenire "publice vel privatim prout casus exegerit" alla presenza d'un prete o d'un frate d'un notaio e d'un paio di testimoni. Dopodiché il papa promette l'investitura, valida anche pei "descendentes", di tutto il dominio ottomano (eccezion fatta per le terre riserbate al re cattolico e all'imperatore) inclusi gli ampliamenti che il C., novello campione di Cristo, farà. Più stringato l'altro breve presenta le garanzie pontificie in fatto d'appoggio bellico: "in primis statim ac tu contra Turcarum tyrannum insurrexeris et publice arma converteris praeter Rodulphum et Philippum..., caeteros quoque christianos principes...auctoritate apostolica excitabimus et commonebimus ut corum armis et militibus tibi assistant opportunamque opem afferant". Certo l'intervento di tutti gli ordini militari d'Italia nonché di quello gerosolimitano "cum eorum triremibus"; da parte sua il papa assicura "triremes" della S. Sede fornite d'armi e d'uomini "quantum fieri potest". A meno di non supporre un Clemente VIII in vena di scherzare - ma, per quel che si sa, non era uomo amante di celie -, il piano suona grottesco, delirante: il galoppo sfrenato delle speranze al posto d'un minimo di sforzo di dettaglio strategico-organizzativo, un infantile vaneggiare al posto d'un accenno ad effettivi impegni, soldati navi denaro promessi senza precisarne l'entità.

Il C. - ma occore dirlo? - si guardò bene dal tentare alcunché. E, per quanto il muftì divenutogli avverso si sforzasse di metterlo in cattiva luce insistendo sul mancato passaggio al maomettanesimo della madre e del fratello, non riuscì a scalfire la fama di zelante maomettano da lui abilmente alimentata. La ribadivano le parole impresse sul suo vistoso sigillo, la tenevano desta l'ospitalità da lui offerta a fra' Dionisio Ponzio, il domenicano "companero del Campanela - così il conte di Benavente a Filippo III - en...la rebelion de Calabria", il quale, fuggito dal carcere napoletano, era riparato a Costantinopoli installandosi "en casa del Cigala".

Più informato il milo aveva avvisato, ancora il 26 dic. 1599, come il Ponzio, "vestito l'habito turco", andasse dicendo di "conoscer almeno 300 in Calavria et fra questo alcuni di conto, li quali tengono la setta maumetana". Si poteva, quindi, ritentare meglio la fallita ribellione. A tal fine, aizzava, predicando "in italiano" i "giovani rinnegati facendo pessimi offitii con la sua lingua et afferma che presto uscirà di prigione il...Campanella et ch'ancor lui venirà" a Costantinopoli. Per il Rinieri e l'Oliva, entrambi convinti (il secondo, però, con parecchie perplessità) del criptocristianesimo del C., l'appoggio fornito a fra' Dionigi e il favore fornito alla sua forsennata propaganda anticristiana vanno considerati abilissima copertura da parte d'un uomo che, proprio per meglio tramare la rovina della Porta, doveva. esibire quotidiane prove d'ineccepibili convinzioni musulmane irrobustite, per di più, da un ostentato, fanatismo anticattolico. Ma è ipotesi poco credibile. Altrimenti il C. avrebbe almeno abbozzato una mossa in un momento effettivamente difficile per la Porta: alla guerra rinvigorita in Ungheria si sommano le zuffe sanguinose, ad Aleppo e Damasco, tra giannizzeri, la ribellione del visir Aga Agi che, forte di un seguito di 50 mila uomini, devasta intere province battendo le truppe contro lui inviate; alla Mecca e nella zona del Mar Rosso si verificano terribili esplosioni d'odio, da parte degli Arabi, contro le autorità e i soldati turchi; lo scià di Persia 'Abbā's il Grande nel giugno del 1603 scatena l'offensiva, quindi batte Ali pascià, occupa, il 21 ottobre, Tabrīz e via via guadagna ulteriori territori sino a spingersi all'assedio d'Erivan, la capitale dell'Armenia.

Lungi dall'approfittare della situazione - quale migliore occasione per ribellarsi alla Porta e per tentare, nella rovina dell'Impero turco, un'affermazione personale? - il C. pare solo preoccupato di sottrarsi a pericolose responsabilità. Volutamente prolunga la sua permanenza in mare "dubitando - scrive il bailo Francesco Contarini il 20 dic. 1603 - di essere astretto ad accettar il carrico di primo visir" (il più prestigioso ma anche il più esposto ché, in genere, al primo visir sera soliti addebitare la responsabilità delle sconfitte e su di lui i sultani tendevano a dirottare l'ira dei sudditi), da lui temuto e "abborrito ... in estremo". Rientra a Costantinopoli solo il 2 genn. 1604 nella speranza che il nuovo sultano, il giovanissimo Ahmed I subentrato al padre Maometto III morto il 22 dic. 1601 non riprenda le insistenze perché "vadi generale in Persia, dal qual carico ha procurato per tutte le vie possibili disobbligarsi". E, mentre Clemente VIII già lo vede a capo d'un immane esercito puntare, anziché contro'Abbā's, sulla stessa capitale e trionfare all'insegua della croce, mentre, assecondandolo, il nipote card. Pietro Aldobrandini chiede, il 28 febbr. 1604, al viceré di Sicilia duca di Feria di sollecitare "l'espedizione del conte Carlo Cicala in Levante per il negozio che ella sa", mentre a Roma si attendono grandi cose da "l'improvisa morte del Gran Turco", lo scompiglio della successione, l'aggressione persiana, le ribellioni dilaganti e una "buona congiontura" che promette "gran servizio al christianesimo" -, il C., come scrive il bailo, pensa solo a rinviare il più possibile l'assunzione del comando. "Fa ogni giorno, pagliando, tentativo ed adopera tutti gli artificii possibili per non esser costretto" a mettersi in marcia, "non ostante l'ordine replicato et severo del gran signore che debba, in ogni modo, andar in Persia". Finalmente, riferisce il 18 maggio il segretario veneziano del bailo Gabriele Cavazza, ingiunzione di partire ha il sopravvento sulla sua anguillesca "sagacità": "astretto a far piantar a Scutari li suoi padiglioni e di passar ancor lui di persona con molta pompa et con altretanta aflitione", inizia, il 5 giugno, con un, folto contingente di truppa la marcia d'avvicinamento.

Lento faticoso aggravato da difficoltà di approvvigionamento il cammino che, dopo una lunga sosta a Conia, in Caramania, si conclude, in autunno, ad Erzurum, in Armenia. Se lo scià "ta, maggior essercito del re di Vienna s, il C. dispone di almeno 100 mila uomini, dei quali, però, non più della metà sembrano atti al combattimento. Entrambi riluttano di fronte ad un cozzo campale sì che prevalgono le "scaramuccie tra antiguardie". Sopraggiunto, rigidissimo, L'inverno, la pressione dei comandanti induce il C. - che avrebbe preferito puntare su Erivan - a fissare i quartieri più a sud, a Van. Riguadagnata Erzurum il suo svantaggio rispetto ad 'Abbā's si fa più evidente: questi comanda truppe galvanizzate da una lunga serie di successi, il C. invece deve accontentarsi d'un esercito raccogliticcio, scoraggiato, indisciplinato (ed egli ha, tra l'altro, cercato di riportare all'obbedienza gli spahi, al solito brutalmente, facendo giustiziare una ventina di "caporioni"). Scoraggiante la e risegna e di fatto, così informa il bafio Ottaviano Bon il 15 apr. 1605, non ha "più di 20 mila soldati de fattione et il resto da conto, che parte i sono morti dal freddo et dalli patimenti et gran parte si sono fuggiti". Angosciante il "bisogno de militia, de animali et denari", mentre nella capitale il suo prestigio scema rapidamente: "fra' grandi...è in malissimo concetto", ché l'accusano d'aver ceduto "per denari al signor di Chiler, ch'è persiano, ... Aleppo", d'aver fatto avvelenare Alimet pascià (uno dei capi ribelli a lui ricongiuntisi) "per donativi havuti" dai Curdi, e, soprattutto, d'aver "disfatto" quello ch'ega, in origine, "il più florido essercito che mai fusse stato in Asia". La tattica dflatoria di 'Abbā's si rivela fruttuosa: "il pensiero che hebbe il re di Persia di non combatter" il C. "con fine che il tempo et altri accidenti lo distruggessero... gli è riuscito... perché esso" C. "si ritrova abbandonato da molti et consumato dalli disagi" scrive il Bon il 15 maggio. Pare che non possa contare che su 15 mila soldati validi mentre le truppe destinategli stentano a raggiungerlo, "stante le ribellioni et l'opinione che hanno di lui per esser avaro et per trattar molto male li soldati". "La debolezza dell'essercito" del C. "si conferma da tutte le parti", insiste il Bon l 15 giugno, laddove si sa, invece, che "il Persiano si trova in Tauris ... ben armato". Giustamente il C. tergiversa ed evita l'impatto colle preponderanti forze di questi. Dopo aver presieduto alla difesa di Van assediata, avvisa - stando, almeno, ad una lett. del bailo del 6 novembre - che, "havendo ricevuto le munitioni mandategli...et essendogli capitate le militie di Damasco...Aleppo e altri luochi" d essendosi, inoltre, accordato col grosso dei Curdi, aveva ricostituito l'esercito - ora "era di 57 mila combattenti" - deciso a puntare su Tabrīz, donde lo scià s'è staccato col grosso della cavalleria. A metà novembre circa - lo apprendiamo sempre dal Bon attento selezionatore delle notizie che via via pervengono alla capitale - lo scià è a mezza giornata da Tabrīz e con grosso numero di cavalleria ed il C. si ferma "a Salmas".

L'immane confronto - più subito che voluto dal C. pressato e sopraffatto dalla smania di combattere degli ufficiali e dei governatori che avevano contagiato la truppa della loro certezza di vittoria - avviene, sulle rive del lago d'Urmia, il 25 novembre, con esito disastroso pei Turchi. Per quanto il C. si fosse premurato di disporre in ranghi serrati la fanteria proteggendola, sulla testa e ai fianchi, coi carriaggi e l'artiglieria, incautamente impazienti d'inseguimento i suoi sottoposti scardinarono la compattezza da lui opportunamente contrapposta agli impeti reiterati della cavalleria persiana. Sì che fu vittima d'una manovra analoga - uno sfondamento di sorpresa - a quella che l'aveva fatto trionfare a Mezö-Keresztes.

"In questa sanguinosa e grandissima fattione", riassume il Bon, durata un intero giorno con ingentissime perdite anche persiane, i curdi sono tutti fuggiti, sono rimasti sul campo i sangiacchi, 9 berglierbei e il pascià di Damasco nonché 30 mila soldati. Gli altri sono stati fatti prigionieri dai Persiani che si sono pure impadroniti di 50 pezzi d'artiglieria e delle munizioni al completo. Quanto al C., che s'era tenuto discosto dal pieno della mischia, "disperato di poter resister alla furia" nemica, "si risolse, senza far prova di sé e della sua militia che lo guardava, di lasciar tutte le bagaglie in preda al nemico per trattenerlo", fuggendo con 1000 giannizzeri e 1.600 spai "con la maggior celerità possibile", non inseguito dai Persiani paghi d'impadronirsi delle "bagaglie" e di saccheggiare i "padiglioni" abbandonati.

Riparato dapprima a Van, qui troppo tardi lo raggiungono, colle loro truppe i pascià d'Aleppo e d'Arzinga. Scaricando l'onta della sconfitta (pur nella confusione delle cifre delle fonti, fu certo gravissima "rotta di quasi tutto l'esercito turchesco") su di loro - mossisi in ritardo sarebbero stati i veri colpevoli! - e sfogando l'insita ferocia, il C. fa troncare il capo ad entrambi, provocando, così, la ribellione dei fratelli del primo che tanto costerà alla Porta. Quindi, mentre i Persiani si estendono ampiamente, il C. arretra ulteriormente sino a Diyarbakir, di cui è, allora, governatore il figlio Mahmud; e di qui, informa sempre il Bon, spedisce "huomini suoi... alla Porta per aspettare ordine rissoluto di quello che haverà a fare, essendo in dubbio del stato suo". Nella capitale, intanto, "le fattioni sono divise et molti vorrebbono che fosse fatto masul et altri che fosse confirmato, nel generalato col sigillo per haver la suprema autorità nel comando". Prevalgono, sia pure a fatica, i secondi; ma quando, finalmente, il sultano si decide "a confermar" il C. "con titolo di primo visir con le solite et ample auttorità. ma senza però il sigillo" e "la voce" si diffonde "con molto contento delli partigiani di esso" C., è "sopravenuta nova - riferisce il bailo il 29 marzo 1606 - della morte" del C. "seguita" a Diyarbakir - "nelli primi di febraro".

La notizia getta lo scompiglio negli ardui organigrammi di potere della Porta: occorre, infatti, "pensar ad altro soggetto". Ed, inoltre, ci sono le sue sbalorditive ricchezze che attendono rapaci prelievi. Come un avvoltoio Aḥmed I s'affretta "a spogliar il suo bagno de schiavi", circa cinquecentosettanta, facendo pure "bollar tutte le casse" delle sue residenze di Costantinopoli e Pera e inducendo la vedova a consegnare, pel momento, 150 mila zecchini. Ma fa gola soprattutto "il tesoro grande d'oro et zogie" che si dice il C. abbia accumulato. "Dopo il corso de tanti anni fatto con tanta sua riputatione et ricchezza - commenta il Bon - ... ha finito li suoi giorni vituperosamente et è passato con disperatione...morendo fra' suoi nemici all'eterna dannatione". Se il bailo, da buon cristiano, lo mette all'inferno, nemmeno i correligionari ne parlano bene: "chora contra di lui si ragiona che sempre sia vivuto con poco amore a questo imperio et sempre inclinato a Spagna". Si trovava soprattutto scandaloso che, leggendariamente ricco, non avesse utilizzato il suo denaro per far costruire, al pari d'altri rinnegati, una moschea o per istituire una fondazione pia. Quanto al suo enorme e "bel palazzo", donde deriva il nome, Cağaloğlu, d'un odierno quartiere di Istanbul, "posto sopra il canale che va alla bocca del Mar Negro, stimato delli più belli...in queste parti", vien subito assegnato ad un cognato del sultano, Davut pascià. Ciò non significa, comunque, che la famiglia del C. cada in disgrazia ché il figlio Mahmud è incaricato, "quale vice generai", di "far la sua massa di gente" a Diyarbakir e sarà destinato, inoltre, ad una brillante carriera (sarà governatore di Cipro e Trebisonda, pascià di Babilonia, e risulta in temporanea difficoltà. nel 1633 quando viene esiliato da Murad IV). Pure, un altro figlio del C., di cui peraltro si sa ben poco, Hüseyin bey, sarà governatore di Chio. Morto da qualche anno probabilmente a Candia nel 1656, Mahmud, un avventuriero valacco vissuto per qualche tempo a Costantinopoli riuscirà - spacciandosi per lui ed assicurando che la fede degli antenati l'aveva indotto, a convertirsi rinunciando alle ricchezze e agli onori goduti presso i Turchi - a circolare per qualche anno in Occidente (accolto a Messina solennemente dall'arcivescovo Simone Carafa, abbracciato come cugino dal figlio di Carlo Cicala, raccomandato dal viceré don Pedro d'Aragona a Clemente IX e da questi ad altri principi), circondato dal prestigio di convertito e di figlio del grande C., generosamente foraggiato da pensioni e donativi del papa dell'elettore di Baviera della Serenissima del duca di Savoia del granduca di Toscana di Luigi XIV del governatore delle Fiandre e della regina di Spagna. Spintosi a Londra, l'impostura vi è smascherata ed il "falso Cicala", cacciato per ordine di Carlo II, fa perdere le sue tracce. L'episodio resta, comunque, eloquente testimonianza del fascino che ancora esercitava nel mondo cristiano la figura, enigmatica per l'Occidente, del C.: doveva essere ben grande, se, a tanti anni dalla sua scomparsa, bastava passare per suo figlio per campare allegramente. La persistente suggestione non è ascrivibile alle dimensioni, più o meno rilevanti, della sua statura, alle doti, più o meno accertate, d'ammiraglio e di generale. C'è, in detta suggestione, una componente ambigua torbida propria d'una psicologia collettiva nutrita d'altisonanti idealità cristiane e, nel contempo, incline ad apprezzare ed invidiare le ricchezze e gli onori, a concepire la vita come affermazione individuale di pochi e, correlatamente, come subordinata obbedienza di tutti gli altri. Proprio per questo la figura del rinnegato è inquietante: tradisco la fede, danna la propria anima ma, nel contempo, consegue onori grandissimi e ricchezze spropositate. Quando mai un cristiano è balzato, in breve, dallo squallote della servitù al fulgore della gloria e della potenza? Chi, in Occidente, ha mai avuto, come il C., quasi seicento schiavi? Chi, morendo, avrebbe potuto lasciare "facoltà per doi millioni d'oro"? Donde l'interesse morboso con cui s'è guardato al C., misto d'odio esorcistico e d'invidia malsana. La stessa speranza di Clemente VIII d'un C. non perso per la fede - opportunamente attizzata da due furbacchioni pensionati dalla Spagna come Antonio e Vincenzo Cicala (che cercheranno di disturbare, per conto di don Francesco de Castro, i tentativi di mediazione francesi tra Venezia e Roma all'epoca dell'interdetto e che Paolo V vorrà "disfatti di gesuiti": per adoperarli "in questi negocii" più liberamente) - deriva pure dalla difficoltà ad accettare l'enormità d'una voluta scelta del male. La parabola tranquillizzante del figliol prodigo troverà nelle fandonie del "falso Cicala" la conferma di cui l'Occidente ha bisogno. D'altronde l'impegno del Rinieri, alla fine dell'800, di costruire un C. in cuor suo cristiano, la speranza dell'Oliva - che ristudia. il C. all'inizio del '900 - che "il sentimento cristiano, in lui assopito ma non estinto" possa averlo indotto, in punto di morte, "a trar profitto del breve" pontificio del 5 apr. 1603 "per chiudere la vita nelle grazie della Chiesa", sono ben indicativi della difficile digeribilità, anche dopo secoli, della figura del rinnegato. L'approccio continua a suscitare la sensazione - in genere esorcizzata e repressa, prima d'essere formulata - della pluralità dei modi d'esistere, della varietà, e quindi della relatività, dei modi di credere e delle bandiere all'insegna delle quali ammazzare. Quanto al nome di battesimo del C., lo ritroviamo in un discendente del fratello Carlo - appunto Scipione Cicala dei principi di Tiriolo -, innocuo membro dell'Arcadia quale "Demalgo Dinosteniese", autore, tra l'altro, della tragedia La Cleopatra... (Napoli 1736).

Fonti e Bibl.: La più attendibile fonte occidentale sulla vita del C. è costituita dalla corrispond. dei baili venez. a Costantinopoli in Archivio di Stato di Venezia, Senato. 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Botta, Storia d'Italia..., III, Lugano 1832, pp. 437, 439; J. von Hammer-Purgstall, Hist. de l'Emp. ottoman..., Paris 1836-1839, VI, p. 196; VII, pp. 33, 57, 108, 210, 213, 214, 219 ss., 280, 298, 303, 327-332, 393, 409; VIII, pp.16, 44, 57, 61 s., 86 ss., 400 s.; XVI, p. 103; E. P. Shirley, The Sherloy brothers…, Chiswick 1848, pp. 31, 57; B. Poujoulat, Hist. de Constantinople..., II, Paris 1853, p. 117; A. de Lamartine, Hist. de la Turquie, III, Paris 1855, pp. 70, 87, 107-110, 131, 134; J. W. Zinkeisen, Gesch. des osmanischen Reiches, III, Gotha 1855, pp. 389, 604, 661 s., 665 s.; L. von Ranke, Die Osmanen und die spanische Monarchie..., Berlin 1857, p. 56; D. Spanò Bolani, Storia di Reggio Calabria., I, Napoli 1857, pp. 285-299 passim;T. Lavallée, Hist. de la Turquie, II, Paris 1859, p. 31; G. E. Di Blasi, Storia... di Sicilia, III, Palermo 1864, pp. 103-104, 106-107; D. Muoni, Tunisi. Spedizione di Carlo V... 1535..., Milano 1876, p. 56;E. S. Creasy, History of... 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Rinieri], Clemente VIII e Sinan Bassà C. ..., in La Civ. cattolica, s. 16, IX (1897), pp. 693-707; X (1897), pp. 151-161, 272-285, 671-686; XI (1897), pp. 153-172, 410-420, 653-663; XII (1897), pp. 154-167, 417-435; s. 17, I (1898), pp. 165-176;E. Sayous, Hist. ... des Hongrois, II, Budapest-Paris 1900, p. 327; A. De Lorenzo, Nostra Signora della Consolazione protettrice... di Reggio..., Roma 1902, pp. 63-81, 202-208, 211, 213-218;P. Pozza, Giannone e Botta contro... Campanella in Fanfulla della domenica, XXIX (1907), 35 p. 3;G. Oliva, Sinan-Bassà (S. C.), in Arch. stor. messinese, VIII (1907), pp. 267-303; IX (1908), pp. 70-202;N. Iorga, Gesch. des osmanischen Reiches..., III, Gotha 1910, pp. 183-187, 245 s., 322 s., 395, 401, 415, 432;F. Fiorentino, Studi e ritratti della Rinascenza, Bari 1911, p. 378; K. J. Basmadjan, Hist. ... dis Arméniens..., Paris 1917, pp. 22 s.; H. Brown, Ilviaggio di V. Gradenigo, bailo..., in Scritti.. in mem. di G. Monticolo..., Venezia 1922, p. 63;E. Rossi, Storia della marina dell'Ordine di S. Giovanni..., Roma 1926, p. 55;V. Spreti, Enc. stor.-nob. it., II, Milano 1929, p. 459;M. Kravjànzki, IlProcesso degli uscocchi, in Arch. ven., s. 5, V (1929), p. 254; A. Ferrari, Ilpensiero socialista... antico e mod., in Nuova Riv. stor., XIII (1929), p. 423;L. von Pastor, Storia dei papi..., XI, Roma 1929, p. 216 (a p. 509 cenno a Vincenzo Cicala); N. Buta, Ipaesi romeni in... "avvisi" della fine del Cinquecento, in Diplomat. Ital., a C. della Scoala română din Roma. II, Roma-Bucureştĭ 1930, pp. 77, 146;A. Decei, "Avvisi" riguard. i paesi romeni... 1596-1598, ibid., IV, ibid. 1939, p. 48;N. Valeri, Campanella, Roma 1931, p. 19; G. Bascapè, Le rel. fra l'Italia e la Transilvania nel sec. XVI..., Roma 1931, p. 187;T. Bertelè, Ilpalazzo degli amb. ven. a Costantinopoli..., Bologna 1932, p. 133n. 61;O. Pinto, ...G. Balbi e il suo maggio in Mesopotamia..., in Rend. della R. Acc.. dei Lincei, cl.scienze mor. stor. fil., s. 6, VIII(1932), pp. 723, 733;A. Rivolta, Cat. dei codd. pinelliani dell'Ambrosiana..., Milano 1933, p. 2;M. Nani Mocenigo, Storia della marina veneziana..., Roma 1935, pp. 88 s.;R. Quazza, Prep. straniere, Milano 1938, p. 19; A. Ciorănescu, Jean de Saul-Tavannes en Valachie, in Humanisme et Renaissance, VII (1940), pp. 273, 278, 283;A. Valori, Cond. e generali del Seicento, Roma 1943, pp. 88s.; L. Firpo, Lo Stato ideale della Contror. ..., Bari 1957, pp. 199-200;G. Cozzi. Il doge N. Contarini ..., Venezia-Roma 1958, p. 364;F. Seneca, Ildoge L. Dond..., Padova 1959, pp. 288, 293 ss.;P. Pirri, L'interdetto di Venezia e i gesuiti..., Roma 1959, pp. 82 n. 34;A. Tenenti, Naufrages, corsaires et assurances.. à Venise..., Paris 1959, p. 237;G. Valente, Le incurs. turchesche, in Almanacco calabrese, X(1960), pp. 86 ss.;Id., Vita di Occhiali, Milano 1960, pp. 28, 45 s.; R. De Mattei, Un'orazione di S. Ammirato alla Rep. di Venezia..., in Arch. stor. it., CXIX (1961), p. 94;A. Ballesteros y Beretta, Rist. de España..., VI, Barcelona 1961, pp. 993, 1002;F. Giunta, Civiltà siciliana, Vicenza 1961, p. 60;S. Bono, I corsari barbareschi, Torino 1964, pp. 158, 354;L. Gambi, Calabria, Torino 1965, p. 173(erroneo però il "calabrese" appioppato al C.); F. Braudel, La Méditerrande... à l'ép. de Philippe II, Paris 1966, I, pp. 282, 450; II, pp. 457, 470 s., 506 s., 510 s. (nella trad. it., Torino 1976, Scipione diventa, erroneamente, Lanfranco nell'Indice e, anche, nel testo a p. 1276. Il C. vi è nominato alle pp. 1259, 1276, 1319, 1320, 1323, 1325);D. C. Giurescu, Ion Vodă..., Bucarest 1966, passim;British Museum, Gen. Cat...., New York 1967, V, col. 403(ove, però, il C. è confuso con l'albanese Sinān pascià); XXI, col. 296;N. H. Biegman, The Turco-Ragusan relationship..., The Hague-Paris 1967, pp. 8, 83, 112; Storia del mondo moderno, III, Milano 1968, pp. 465, 482, 483; The Cambridge history of Islam, I, Cambridge 1970, p. 339;C. Falconi, Storia dei papi..., IV, Roma-Milano 1972, p. 510;P. Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, p. 217;direttamente condotto su fonti turche il mémoire datt. di M. Berindel, La révolte de Ion Vodă..., presentato nel 1972alla parigina Ecole pratique des hautes études; A. Cremonesi, La sfidaturca contro Venezia e gli Asburgo, Udine 1976, pp. 237, 322s.; G. Benzoni, Gliaffanni della cultura, Milano 1978, pp. 149-152, 154; Enc. Ital., X, p. 198.

Nutrita la letteratura turca. In aggiunta alla bibl. richiamata nelle voci a lui dedicate in Islam Ansiklopedisi, III, pp. 161-164e Encyclopédie de l'Islam..., I, pp. 875 (e cenni sul C. in I, p. 189; III, pp. 706, 975; IV, pp. 618, 1179)e, soprattutto, in Encyclopaedia of Istam, II, pp. 33 s. (e cenni sul C. in I, pp. 8, 267, 904), si ricordano: Kâtip Celebi, Tuhfetül-Kibar fîesfari'l-bihar (Omaggi alle autorità marinare), a c. di O. S. Gökyay, Istanbul 1973, pp. 147-148, 209; B. Kütükoǧlu, Osmanli-Iran Siyasi Münasebetleri, I, 1578-1590 (le relazioni dell'Imp. ottomano con l'Iran dal 1578 al 1590), Istanbul 1962, passim; Meydan Larousse..., II, Istanbul 1969, pp. 729, 944;I. H. Danismed, Izahli Osmanli Tarihi Kronologisi (Cronologia dettagliata della storia ottomana), Istanbul 1972, pp. 177ss.; S. Eyice nomina il C., accennando alla sua cattiva fama per non aver fatto edificare alcunché, in un elenco dei vari Sinān pascià del sec. XVI in Vakiflar Dergisi (Rivista delle fondazioni), X (1973), p. 315 n. 39;Id., Trakya` da meydan şadirvanlari (Fontane pubbliche nelle piazze in Tracia), in Mansel'e Armaǧan (Studi in onore di A. M. Mansel), Ankara 1974, pp. 831-845. Su Antonio e Vincenzo Cicala cfr. Paolo V e la Rep. ven. ... docc., a c. di E. Cornet, in Arch. ven., V (1873), p. 288;P. Pirri, L'interdetto di Venezia... e i gesuiti... Roma 1959, pp. 81 ss., 87;e sul primo anche Carlo Emanuele I e la contesa fra la Rep. ven. e Paolo V..., a c. di C. De Magistris, Venezia 1906, pp. 162, 207, 215, 471, 473.

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