SCIPIONE Emiliano, Publio Cornelio

Enciclopedia Italiana (1936)

SCIPIONE Emiliano, Publio Cornelio (P. Cornelius Scipio Aemilianus Africanus)

Gaetano De Sanctis

Generale romano. Fu il più giovane dei figli che L. Emilio Paolo, il vincitore di Pidna, ebbe da Papiria. Nacque nel 185 o 184 a. C. Quando Emilio ripudiò Papiria, il giovanetto adottato da P. Cornelio Scipione, figlio di Scipione Africano, assunse il nome dell'adottante insieme col secondo cognome Emiliano. Partecipò alla battaglia di Pidna (22 giugno 168). Sulla sua formazione spirituale ebbero influsso, oltre alle tradizioni familiari e agli esempî degli Emilî e dei Cornelî, le relazioni cordiali col vecchio Catone e con Polibio. Il contatto con Polibio e più tardi con lo stoico Panezio fece che S. senza nulla perdere della propria romanità assimilasse quanto c'era di meglio nella cultura greca d'allora. Passò la giovinezza tra gli studî, gli esercizî sportivi e i viaggi, prediligendo particolarmente la caccia e astenendosi da quelle contese giudiziarie con cui i nobili suoi coetanei cercavano allora d'iniziarsi alla vita politica. Nel 151, quando il console L. Licinio Lucullo si apprestò a partire per la Spagna dove ardeva la guerra contro i Celtiberi, mentre nobili e popolo riluttavano egualmente a partecipare alla spedizione, S. si offerse di seguire il console come tribuno o come legato, e il suo gesto ebbe efficacia esemplare. In Spagna, dove fu accompagnato da Polibio, si segnalò all'assedio di Intercatia, poi fu inviato da Lucullo al vecchio re dei Numidi, Massinissa, per averne elefanti da guerra, e in questa occasione fu spettatore della accanita battaglia tra Massinissa e i Cartaginesi comandati da Asdrubale. Al suo ritorno in Roma si adoperò per il rimpatrio dei relegati achei. Poi passò in Africa servendo come tribuno nell'esercito dei consoli Manilio e Censorino che iniziarono nel 149 l'assedio di Cartagine. Qui ebbe occasione di segnalarsi tanto più quanto meno erano esperti i due generali. La sua sagacia e il suo valore si dimostrarono specialmente in una spedizione riuscita senza effetto che il console Manilio tentò contro Asdrubale il quale si era accampato fuori della città in una posizione fortificata presso Neferi (v.). Dopo la morte di Massinissa, che lo aveva fatto chiamare al letto di morte come nipote adottivo di quello S. da cui ripeteva la sua potenza, ne divise il regno fra i tre figli, distruggendo l'unità della Numidia, che si mostrava non scevra di rischi per Roma.

Non molto dopo, nel corso del 148, Manilio, prima di cedere il comando al suo successore nel consolato, L. Calpurnio Pisone, inviò in Roma S., il quale partì accompagnato dai voti dei soldati che auguravano egli tornasse in Africa come comandante supremo. Modestamente voleva presentare la sua candidatura all'edilità curule, giusta l'ormai usuale cursus honorum; non aveva d'altronde l'età richiesta per il consolato dalla vigente lex Villia annalis, ma la fama che si era acquistato in Africa faceva sperare che sapesse porre termine rapidamente a una guerra la quale si prolungava già troppo per la gloria e per l'interesse di Roma. Il senato lo esentò quindi dalla lex annalis ed egli fu eletto console per il 147 e, contro l'uso, ebbe, senza sorteggio extra ordinem, la provincia d'Africa con le forze necessarie per colmare i vuoti nell'esercito ivi operante e con la facoltà di far leve di volontarî tra i soci italici.

Giunto appena in Utica nella primavera del 147, ebbe notizia della sorpresa che il legato C. Ostilio Mancino aveva tentata dalla parte del mare in assenza del proconsole Pisone contro uno dei quartieri della città. S. accorse immediatamente con le forze di cui disponeva, mentre invitava Pisone a raggiungere senza indugio il campo assediante, e poté disimpegnare Mancino, ma dovette evacuare la posizione da lui occupata. Poi, assunto il comando, ristabilì tra gli assedianti la disciplina e tentò egli stesso una sorpresa sul quartiere di Megara. Anche questa, che sul principio parve coronata dal successo, terminò con l'evacuazione della posizione occupata entro le fortificazioni della città. Ma ebbbe il resultato che Asdrubale, il quale, lasciato ad altri il comando a Neferi, stanziava allora dinnanzi a Cartagine sull'istmo presso l'accampamento romano, abbandonò il suo campo per correre al soccorso degli assediati presi dal panico, e il campo cadde nelle mani degli assedianti. Allora S., munendo di saldissime fortificazioni tutta la fronte dell'istmo che congiungeva Cartagine con la terra ferma, poté iniziare il blocco effettivo della città dalla parte di terra. Non era effettivo invece il blocco dalla parte di mare perché la squadra romana assediante non poteva sempre impedire gli sbarchi di vettovaglie. Ma S. iniziò la costruzione di una lunga diga per chiudere la bocca del porto, opera colossale e faticosissima che richiese varî mesi di assiduo lavoro. I Cartaginesi frattanto avevano in segreto scavato un canale che doveva condurre direttamente dal loro porto militare interno al mare in luogo dove la diga romana non poteva pervenire, e al tempo stesso avevano costruito o riattato una flotta da guerra capace di contrastare il mare ai Romani. Ma questo loro tentativo non riuscì e, disfatta la nuova armata cartaginese e occupata la banchina a sud del nuovo canale, il blocco fu ormai completo dalla parte di mare come dalla parte di terra. Dell'inverno 147-6 profittò S. per togliere ai Cartaginesi il punto d'appoggio che rimaneva loro fuori delle mura, cioè il campo di Neferi. Questo e la vicina città caddero dopo accaniti combattimenti in mano di S., validamente coadiuvato dal re numida Gulussa. Ormai le condizioni di Cartagine erano disperate, e Asdrubale cercava di trattare la resa. Ma S., esasperato anche dalle crudeltà dei Cartaginesi verso prigionieri romani, rifiutò di guarentire agli assediati vita e libertà. Poi, quando li credette per fame indeboliti e demoralizzati, ordinò l'assalto che questa volta fu coronato dal successo.

S. non assisté senza emozione profonda alla caduta di Cartagine e ci narra Polibio, che vi era presente, di avergli udito recitare i versi con cui in Omero è presagita la caduta di Troia, pensando che un simile fato poteva colpire anche Roma. D'intesa poi coi dieci legati inviatigli secondo l'uso dal senato romano, S. procedette alla totale distruzione di Cartagine e all'organizzazione della nuova provincia d'Africa. Tornando in Roma S. trionfò solennemente e assunse il cognome di Africano. Nulla tenne per sé del bottino. Alle città greche di Sicilia restituì le opere d'arte che i Cartaginesi ne avevano asportate; come documentano due epigrafi di Terme (N. Scavi, 1935 p. 202).

Negli anni successivi S. Emiliano fu l'uomo più potente di Roma così come il maggiore Africano era stato tale nel decennio dopo la seconda punica. Ma mentre questi aveva dato alla politica estera dei Romani un indirizzo nuovo, l'Emiliano non innovò sostanzialmente nulla né in politica interna né in politica estera. Censore nel 142 con L. Mummio, il distruttore di Corinto, si segnalò soltanto per l'antica severità con cui tenne quella magistratura. Poi fu incaricato di una legazione insieme con L. Metello Calvo e Sp. Mummio per ispezionare l'Oriente, assicurarvi la tranquillità, provvedervi contro la pirateria senza che anche questa missione riuscisse a creare nulla di durevole.

Il protrarsi nella Spagna della guerra numantina fece che si dovesse ricorrere per una seconda volta all'opera sua. Dispensato dalla legge che vietava la rielezione al consolato, fu eletto console la seconda volta per il 134, e gli fu assegnata anche ora extra ordinem la guerra contro Numanzia con la facoltà di condurre seco volontarî, ma non di far leve.

Assunse il comando in Tarragona dove trovò l'esercito demoralizzato e indisciplinato. Si occupò prima di tutto di ristabilire ordine e disciplina e di esercitare i soldati, poi li condusse contro i Vaccei per devastarne il territorio e impedire che recassero soccorsi ai Numantini; e di lì infine procedette contro Numanzia, la piccola città celtiberica che da tanto tempo resisteva vittoriosamente ai Romani. S. disponeva di due legioni molto indebolite nelle precedenti campagne e solo in piccola misura rinforzate con i volontarî che conduceva dall'Italia; dunque di 10-12 mila soldati romani e italici, e in tutto di 15-20 mila uomini compresi gli ausiliarî africani, orientali e iberici. Che con queste truppe egli non ritenesse opportuno di venire a battaglia campale coi Numantini, le cui forze si possono calcolare approssimativamente ad 8 mila guerrieri, era ben naturale, sia per risparmiare le truppe italiane appartenenti a quella borghesia della penisola già troppo decimata dalle guerre precedenti, sia fors'anche per scarsa fiducia nell'efficienza bellica degli ausiliarî. Si limitò pertanto a cingere Numanzia con una linea di circonvallazione lunga 9 km., appoggiata a sette accampamenti fortificati di cui due, uno a nord nella località detta Castillejo e uno a sud sull'altura detta di Peña Redonda, ospitavano il grosso delle due legioni romane e i comandi legionari. Compiuta nell'autunno 134 questa mirabile opera di circonvallazione, per nove mesi con tenacia romana S., sempre all'erta per frustrare ogni tentativo di sorpresa, attese che la fame riducesse gli assediati all'estremo. Un tentativo di soccorso ideato dalla gioventù di una città vicina fu represso con prontezza ed energia, onde dopo nove mesi gli assediati, che avevano fatto disperata resistenza, furono dalla fame ridotti in condizioni così orribili da dover cedere. Molti erano periti, altri si diedero la morte, pochi si arresero a discrezione.

La preoccupazione per l'esaurimento della borghesia italica, che spiega la condotta di S. a Numanzia, ispirò pure il tentativo che fece contemporaneamente a Roma il cognato di S. Ti. Gracco per rinsanguare mercé la legge agraria la borghesia rurale. Ma tale tentativo parve a S. riprovevole come rivoluzionario. Già nel campo di Numanzia, pervenutagli la notizia della morte di Tiberio, di questa si dice riconoscesse con una citazione omerica la legittimità. Più nettamente ancora mostrò la sua avversione alle riforme, quando, tornato trionfante a Roma, tutti gli sguardi si rivolsero a lui, come all'uomo più autorevole e più stimato della repubblica, il vero princeps della città. Nel 131 si oppose alla proposta di C. Papirio Carbone che, prendendo motivo dai conflitti sorti intorno alla rielezione di Ti. Gracco, permetteva la iterazione e la continuazione del tribunato, e riuscì a farla respingere. In tale circostanza, richiesto dinnanzi al popolo del suo giudizio sull'uccisione di Ti. Gracco, rispose che lo riteneva giustamente ucciso (iure caesum: questo, senza la limitazione condizionale data da Velleio Patercolo, sembra il testo autentico della risposta). Ma nel 129 egli intervenne più decisamente contro la legge agraria che, nonostante la morte di Tiberio, era tuttora in vigore. Occasione furono le proteste degl'Italici lesi dalla legge, in quanto essa confiscava a benefizio di cittadini romani non abbienti l'ager publicus, occupato dai soci oltre i limiti fissati dalla legge stessa. Il primo passo fu quello di togliere la giurisdizione ai Triumviri agris dandis adsignandis incaricati di eseguirla: con che l'efficacia della legge era ridotta quasi a nulla. Ma S. voleva addirittura abrogarla nella parte concernente la occupazione fatta da soci, appoggiato in ciò dal favore degli stessi soci e del partito senatorio, lieto di soffocare così le agitazioni agrarie. Cicerone dipinge lo stato d'animo dei Romani durante le Feriae Latinae di quell'anno, quando da un lato si sperava da S. la salvezza della repubblica e si pensava anche a rinnovare per lui la dittatura ormai obliterata da quasi un secolo e dall'altro pendevano su di lui oscure minacce. Dopo le Feriae egli parlò al popolo e al Senato lamentandosi di quelli che aizzavano contro di lui la plebe o che lo minacciavano. Dopo l'ultimo suo discorso in senato fu ricondotto a casa dai senatori e da una folla di popolo tra cui soci italici. Ritiratosi nella propria camera con in mano le tavolette cerate per preparare il discorso che doveva tenere il giorno seguente, fu trovato morto nel suo letto la mattina appresso.

Antichi e moderni si sono pronunziati variamente sulla morte di S. attribuendola a causa naturale o ad assassinio (qualche antico suggerisce l'ipotesi del suicidio, ma questa va scartata come assurda). Un'inchiesta giudiziaria per allora non si fece e solo in contingenze assai mutate l'oratore Crasso nel 119 accusò C. Papirio Carbone di quell'assassinio intentandogli un processo, non sappiamo bene sotto quale imputazione. Alcuni schiavi di S. sottoposti alla tortura confermarono l'accusa e Carbone si uccise prima del giudizio. Ma né le confessioni fatte dagli schiavi sotto la tortura, contrastanti con loro dichiarazioni anteriori, né il suicidio di Carbone che, turbolento e malvisto per il suo opportunismo da tutti i partiti, aveva ogni ragione di temere una condanna anche prescindendo dalla sua colpabilità nella morte di S., sono argomento bastevole per la tesi dell'assassinio come d'altronde non c'è nulla che renda sicura la tesi della morte naturale.

Non è facile un giudizio equo su S. Emiliano. Morigerato, probo, disinteressato, amantissimo della patria, sempre pronto a tutto per servirla, pieno del senso della sua dignità personale e di quella di Roma, consapevole delle gravi responsabilità che incombevano su di lui e risoluto con rigido senso del dovere ad assumerle senza esitazione, egli si distingueva dagli antichi leggendarî rappresentanti delle virtù romane, i Curî e i Fabrizî, solo per il fondamento di dottrina stoica che egli dava alle sue idealità politico-morali e per la larghezza dei suoi interessi culturali che lo avevano reso amico di Polibio e di Panezio, protettore e, a quanto si diceva, anche collaboratore di Terenzio, familiare di Lucilio. Appunto come simbolo della più pura e alta romanità S. fu esaltato a gara dai posteri. È d'altronde innegabile che, se fu un prode e valente ufficiale, le guerre affidategli non gli posero, come il suo avo adottivo, tali problemi tattici e strategici da metterlo sulla via di concezioni audaci o di geniali innovazioni, richiedendo da lui soltanto valore, tenacia e spirito d'organizzazione, che egli dimostrò di possedere in modo eminente. In politica estera e in politica interna ai problemi gravissimi posti dalle conquiste e dai loro effetti politici, morali ed economici egli credette di trovare la soluzione soprattutto nell'attaccamento più tenace alle istituzioni dei padri e nel ritorno alle loro virtù. Nulla fece per lenire le sofferenze del proletariato, perché seppure fu ispirata da lui la legge agraria proposta da C. Lelio nel 140, essa fu lasciata cadere appena si vide l'opposizione che scatenava. Fermo nel suo conservativismo, si contentò di rendere inefficaci, come troppo rivoluzionarî i provvedimenti di Ti. Gracco e solo si sforzò d'impedire ingiustizie a danno dei suoi commilitoni italici: ma non s'avvide che questi erano palliativi e che il problema italico s'avviava inevitabilmente a una soluzione rivoluzionaria, se non trovava una soluzione adeguata per via legale. Rispetto ai popoli soggetti al predominio romano la sua politica fu di stroncare con le più esemplari punizioni i loro tentativi di riscossa o di ribellione, e d'impedire al tempo stesso, per via giudiziaria, le angherie a loro danno. Quanto poco, nonostante i suoi sforzi generosi a quest'ultimo scopo, si potesse ottenere in tal modo, mostrò l'assoluzione scandalosa di L. Aurelio Cotta, da lui tratto in giudizio per concussione (138). Lo scopo d'altronde di quelle repressioni, di rendere definitivi i successi conseguiti e risparmiare ulteriori sacrifizî alla borghesia italiana, già tanto provata, spiega come S., nonostante la sua moderazione e umanità, si allontanasse da quell'indirizzo di relativa clemenza e magnanimità verso i vinti di cui in condizioni molto diverse aveva dato esempio il maggiore Africano.

S. recitò e pubblicò non poche orazioni (intorno all'impresa d'Africa nella sua censura in difesa degli antichi costumi, contro la giurisdizione dei triumviri graccani, ecc.) che gli procurarono fama di eloquenza e che rendevano testimonianza tanto della sua romana gravitas quanto del suo studio della retorica greca. Cicerone peraltro, a cui egli pareva troppo arcaico, lo considera evidentemente come inferiore ai maggiori oratori di quell'età. Noi abbiamo di queste sue orazioni varî frammenti, tali da dare una qualche idea del carattere della sua eloquenza e dell'influsso su di essa delle teorie retoriche degli stoici. Ma la sua importanza nella storia della letteratura e in generale della cultura romana non si limita a queste sue prove oratorie. "Nella cooperazione dei Romani e dei Greci che si radunavano intorno a Scipione si attuò la parte essenziale di quel moto da cui fu elaborata la nuova cultura greco-romana" (Leo).

Bibl.: Manca su S. una monografia rispondente alle esigenze odierne degli studi storici. I dati delle fonti sono raccolti compiutamente presso F. Münzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, col. 1439 segg.; ivi anche la più antica bibliografia. Delle storie di Roma cfr.: C. Neumann, Geschichte Roms während des Verfalles der Republik, I, Breslavia 1881, passim; A. H. J. Greenidge, A History of Rome, I, Londra 1904, passim; Cambridge Ancient History, VIII-IX, Cambridge 1930-32, passim; G. Bloch e J. Carcopino, Histoire Romaine, II, i, Parigi 1935, passim. - S. e la terza punica: J. Kromayer e G. Veith, Antike Schlachtfelder, III, 2, Berlino 1912, p. 705 segg.; id., Schlachtenatlas, II, f. 11-12, Lipsia 1922; U. Kahrstedt, Geschichte der Karthager, Berlino 1913, pp. 639, 648 segg.; S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du nord, III, Parigi 1918, p. 336 segg. - S. e Numanzia: A. Schulten, Numantia. Die Ergebnisse der Ausgrabungen 1905-1912, III, Die Lager des Scipio, Monaco 1927; id., Geschichte von Numantia, Monaco 1933, p. 85 segg. (cfr. G. De Sanctis, in Riv. di Filol., n. s. VII [1929] p. 257 segg.). - S. come politico e le sue ultime vicende: J. Carcopino, Autour des Gracques, Parigi 1928, p. 83 segg.; A. Ferrabino, Sogno di Scipione, in Atene e Roma, III, i (1933), p. 171 segg.; K. Bilz, Die Politik des P. C. Scipio Aemil., Stoccarda 1936. - S. come oratore: H. Malcovati, Oratorum Romanorum fragmenta, I, Torino 1930, pp. 110 segg., 233 segg. (raccolta dei frammenti); R. Reitzenstein, Scipio Aemilianus und die stoische Rhetorik, in Strassburger Festschrift zur XLV. Versammlung deutscher Philologen, Strasburgo 1901, p. 143 segg.; A. Cima, L'eloquenza latina prima di Cicerone, Pisa 1903, p. 98 segg.; P. Fraccaro, Studi sull'età dei Gracchi, in Studi storici per l'antichità classica, V, p. 362 segg. - Sul circolo di S. e la sua efficacia nella cultura greco-romana: F. Leo, Gesch. d. röm. Literatur, I Berlino 1913, p. 315 segg.; M. Pohlenz, Antikes Führertum, in Neue Wege zur Antike, s. I, fasc. 3, Lipsia 1934, p. 114 seg.; R. M. Brown, A study of the Scipionic circle, in Iowa Studies in classical philology, n. 1, Diss., Iowa 1934.

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