SCOMUNICA

Federiciana (2005)

SCOMUNICA

DDiego Quaglioni

La pena ecclesiastica della scomunica colpì per la prima volta l'imperatore Federico II come reo di aver contravvenuto ai patti giurati col pontefice Onorio III nel luglio 1225 (v. San Germano [1225], dieta di). Nella scomunica, altre volte minacciata dallo stesso Onorio III, Federico II incorse solo dopo la morte del papa, avvenuta il 18 marzo del 1227, e la subitanea elezione del suo successore, il cardinale vescovo di Ostia Ugolino dei conti di Segni, decano del Sacro Collegio, che divenne papa con il nome di Gregorio IX.

Con il trattato di San Germano Federico II si era solennemente obbligato a intraprendere la crociata per la restituzione della Terrasanta entro e non oltre la data del 27 agosto 1227 e a mantenervi mille cavalieri per un biennio ("notum facimus universis quod nos transibimus in subsidium Terre Sancte ab instanti augusto presentis tertie decime indictionis ad duos annos, et per biennium tenebimus ibi mille milites ad numerum"; Historia diplomatica, II, 1, p. 501). La questione della crociata, a lungo agitata e tenuta sospesa dall'imperatore, occupato a tessere rapporti diplomatici con i potentati islamici, venne alle strette quando la spedizione, iniziata dal porto di Brindisi l'8 settembre 1227, s'interruppe a Otranto dopo sole quarantotto ore di navigazione, a causa di un'epidemia (v. Crociata). Gregorio IX accusò l'imperatore di aver eluso il voto ingannando la Sede Apostolica e lo dichiarò scomunicato ab omnibus evitandus con l'enciclica In maris amplitudine del 10 ottobre 1227 (ibid., III, pp. 23-30), temperando successivamente la censura con un monito che lasciava intendere la possibilità del ritorno di Federico II nel grembo della Chiesa (ibid., pp. 32-34).

Si trattò di un provvedimento "che le circostanze non giustificavano, ma che trovava la sua origine nella valutazione che il Papa faceva di tutto il comportamento dell'imperatore" (Fasoli, 19662, p. 130). Federico II tentò di dimostrare l'infondatezza delle accuse, indirizzando il 6 dicembre "universis crucesignatis", da Capua, una protesta per l'ingiustizia commessa ai suoi danni e confermando la promessa della crociata (Historia diplomatica, III, pp. 36-48). Convocata una dieta a Barletta, nominato reggente nel Regno di Sicilia Rainaldo di Urslingen e disposta la propria successione nella persona del figlio Enrico, Federico II intraprese quella che è ricordata come 'la crociata di uno scomunicato', e che la storiografia ha giudicato una "pseudo-crociata" (Fasoli, 19662, p. 131). Superando le difficoltà frappostegli, a causa della scomunica, dagli ecclesiastici e dagli stessi Ordini militari, l'imperatore avviò infatti con il sultano d'Egitto quelle trattative diplomatiche che riuscirono là dove un'impresa militare difficilmente avrebbe potuto risultare vittoriosa. Federico II riuscì in tal modo a ottenere, con concessione decennale rinnovabile, le città di Gerusalemme, Nazareth e Betlemme, garantendo tuttavia la libertà di culto ai musulmani e incoronandosi re di Gerusalemme nella chiesa del S. Sepolcro.

Lo scandalo suscitato dall'impresa, parimenti nel mondo musulmano e cristiano, fu complicato dall'inizio di operazioni belliche nelle terre della Chiesa e nel Regno di Sicilia, dopo il rinnovo della scomunica da parte del papa, che da Perugia il 26 giugno 1229 proclamava i comuni italiani sottratti al debito d'obbedienza verso l'imperatore (Historia diplomatica, III, pp. 145-147). Sempre da Perugia, il 18 luglio, Gregorio IX scriveva al re di Francia denunciando il pactum execrabile contratto da Federico II con gli infedeli, per il quale questi avrebbe automaticamente abdicato alla dignità imperiale e al potere della spada, concessi dal papa con l'incoronazione in S. Pietro al fine e col solenne giuramento di liberare i Luoghi Santi (ibid., p. 147).

Federico II, che nel giugno 1229 aveva fatto trionfalmente ritorno nel Regno, impiegò un anno a ristabilire rapporti pacifici con il pontefice. La pace fu conclusa nel luglio del 1230, sulla base di una reiterata promessa del rispetto delle libertà ecclesiastiche e a riconoscimento della dipendenza feudale del Regno di Sicilia dalla S. Sede (v. San Germano [1230], pace di). La concordia fu sancita solennemente in un colloquio ad Anagni, di cui lo stesso imperatore dava notizia agli inizi di settembre in un'enciclica indirizzata regibus omnibus, nella quale egli, precisando di aver ottenuto l'assoluzione dalla scomunica, proclamava il raggiungimento di una più stretta unione "in eo vinculo charitatis quo sacerdotium et imperium ad invicem sunt coniuncta" (ibid., p. 228). Il papa, dal canto suo e a conferma di una linea ecclesiologica di chiaro stampo innocenziano, in luogo del vinculum charitatis preferiva sottolineare la prontezza della devozione filiale, la reverenza e l'umiltà esibite dall'imperatore in segno di servitium (ibid., pp. 228-229).

Il conflitto tra Gregorio IX e Federico II era destinato a riaprirsi cinque anni dopo, con un nuovo scambio di accuse e con la ripresa di un'attività diplomatica, che non ottenne però alcun risultato. Tre anni più tardi, il 28 ottobre 1238, a una delegazione ufficiale inviata presso l'imperatore a Cremona e composta dai vescovi di Würzburg, Worms, Vercelli e Parma, Federico II aveva risposto punto su punto, mostrandosi ad unionem et pacem paratus (ibid., V, 1, pp. 249-258). Davanti alla perdurante diffidenza del papa, sostenitore delle città lombarde ribelli all'Impero, e sospettando che la S. Sede preparasse nuove censure, Federico II il 10 marzo 1239 indirizzò da Padova una lettera ai cardinali, chiedendo che si impedisse al papa di pronunziare contro di lui una nuova e ingiusta sentenza di scomunica e minacciando, nel caso che Gregorio IX persistesse nel proposito, di usare del suo buon diritto alla difesa ("injurias [...] injuriis propulsare"; ibid., pp. 282-284).

La sentenza di scomunica fu pronunciata il 20 marzo 1239, domenica delle Palme, e motivata con una lunga e circostanziata serie di accuse, che andavano dalla sedizione al tentativo di cacciare il papa da Roma, dalla violazione delle libertà ecclesiastiche all'occupazione di territori appartenenti alla Chiesa (l'anno prima Federico II aveva proclamato re di Sardegna suo figlio Enzo), fino agli ostacoli posti al recupero della Terrasanta; il papa scioglieva i sudditi dall'obbedienza a Federico 'detto imperatore' e minacciava di procedere a tempo debito contro di lui come gravemente sospetto di eresia, "secundum quod in talibus requirit ordo juris" (ibid., pp. 286-289). Nello stesso giorno fu data notizia della scomunica all'arcivescovo di Milano (ibid., pp. 289-290), proprio mentre in Padova, davanti al popolo congregato solennemente in Prato della Valle, "sedens in eminentiori loco in suo throno" Federico si mostrava a tutti hilaris et jocundus, mentre Pier della Vigna parlava sapientemente in suo nome per celebrare l'alleanza tra l'imperatore e il popolo patavino (ibid., pp. 283-284).

Il 7 aprile Gregorio IX pubblicò l'enciclica Sedes Apostolica, con la quale si disponeva che si desse universalmente notizia della scomunica, dell'anatema e dell'interdetto fulminati contro l'imperatore. Il documento, tacciando Federico di ingratitudine verso la Chiesa, enumerava con maggiori particolari i capi d'accusa e confermava l'intenzione di procedere contro di lui come infamato "de aliis magnis et gravibus [...] criminibus" (ibid., pp. 290-294). Il 20 aprile, da Treviso, l'imperatore rispondeva con una celebre lettera ai principi cristiani, nella quale non si limitava a respingere le accuse ma, affermando che il papa aveva proceduto contro il parere della maggior parte del Sacro Collegio e per istigazione dei soli cardinali lombardi, chiamava a soccorso i sovrani della cristianità, "ut totus mundus noscat quod honor omnium tangitur" (ibid., pp. 295-307). Non meno celebre è la lettera inviata da Federico, lo stesso 20 aprile, ai romani e al senatore dell'Urbe (ibid., pp. 307-308), vero e proprio manifesto di una concezione altissima del supremo potere secolare e del suo legame inscindibile con Roma ("nostri caput et auctrix imperii"), concezione ormai evocata al di là dei contingenti motivi del conflitto con Gregorio IX e nella quale si è voluto vedere l'annunzio di una 'modernità' politica, o per lo meno di atteggiamenti propri dello spirito laico e dello stato moderno.

Nello scontro andava a fondo l'equilibrio e il reciproco controllo delle due supreme autorità universali, poiché "la disputa degenerò d'ambo le parti in polemica violentissima, condotta con le accuse più atroci e le ingiurie più infamanti, e da parte di Federico con gravi provvedimenti contro gli ecclesiastici del regno" (Morghen, 19723, p. 177). La risposta del papa ebbe del resto toni e contenuti apocalittici. L'enciclica papale del 21 giugno 1239, indirizzata a tutta la cristianità, è dominata dal motivo dell'Anticristo (v. Anticristo/Messia) e s'inizia appunto con un forte richiamo al libro dell'Apocalisse: "Ascendit de mari bestia blasphemie plena nominibus, que pedibus ursi et leonis ore deseviens ac membris formata ceteris sicut pardus, os suum in blasphemias divini nominis aperit, tabernaculum ejus et sanctos qui in celis habitant, similibus impetere jaculis non omittit" (Historia diplomatica, V, 1, p. 327). Il papa accusava l'imperatore di voler abolire lo stesso evangelo cristiano "stylo pravitatis heretice", chiamando i fedeli a resistere contro la bestia apocalittica: "caput, medium et finem hujus bestie Frederici dicti imperatoris inspicite diligenter" (ibid.). L'accusa di eresia, sostenuta con le prove della reiterata negazione federiciana della plenitudo potestatis papale, toccava anche argomenti di schietta natura teologica, come l'incredulità dimostrata dall'imperatore verso il Cristo (che egli avrebbe considerato un impostore al pari di Mosè e di Maometto) e in particolare verso il dogma dell'incarnazione, e chiudeva con un'accusa che oggi si direbbe di 'razionalismo scientistico', che allude all'atmosfera culturale caratteristica del regno federiciano: "Hanc heresim illo errore confirmans quod nullus nasci potuit cujus conceptum viri et mulieris conjunctio non precessit, et homo nihil debet aliud credere nisi quod potest vi et ratione nature probare" (ibid., p. 340).

Non posero fine alla contesa la morte di Gregorio IX, nel 1241, e l'elezione al pontificato del canonista genovese Sinibaldo Fieschi, che, assumendo il nome di Innocenzo IV, mostrava chiaramente di voler perseguire il programma innocenziano di rottura dell'equilibrio ideale, riposto nel principio della separazione della giurisdizione secolare dall'ecclesiastica, e rivolto all'affermazione senza riserve della supremazia pontificia. Ogni trattativa era perciò destinata a fallire. Innocenzo IV si rifugiò a Lione, dove convocò un nuovo concilio nel quale, il 17 luglio del 1245 (v. Lione I, concilio di), scomunicò solennemente e depose l'imperatore, bandendo contro di lui la crociata. La sentenza di deposizione, che comincia con le parole Ad apostolicae dignitatis, ricapitolava l'intero complesso delle accuse già rivolte a Federico da Gregorio IX, insistendo soprattutto sulla sua perniciosa amicizia verso i saraceni ("conjunctus amicicia detestabili Sarracenis"), ma evitando di andare oltre la proclamazione del sospetto veemente di eresia, proprio sulla base di quel diritto civile nel cui corpus la federiciana Constitutioin basilica beati Petri (v.) era stata accolta in forma di autentica e al fine di combattere i nuovi movimenti ereticali: "Nonne igitur hec non levia, sed efficacia sunt argumenta de suspicione heresis contra eum, cum tamen hereticorum vocabulo illos jus civile contineri asserat et latis adversus eos sentenciis debere succumbere qui vel levi argumento a judicio catholice religionis et tramite detecti fuerint deviare?" (ibid., VI, 1, p. 326). Per il papa e per il concilio, insomma, l'imperatore era meritevole di condanna a norma della sua stessa legge.

La scomunica e la sentenza di deposizione, respinte dall'imperatore come inique e giuridicamente invalide perché affette da gravissimi vizi procedurali (enciclica del 31 luglio 1245, da Torino; ibid., pp. 331-337), costituirono una svolta radicale nella vita della cristianità medievale e delle sue istituzioni politiche. Inserita nel Liber Sextus di Bonifacio VIII sotto il titolo De re iudicata (cap. 2, VI, ii, 14), la costituzione Ad apostolicae dignitatis si affiancò da allora alla decretale Venerabilem di Innocenzo III (cap. 34, X, i, 6) formando la base 'costituzionale' delle relazioni tra Chiesa e Impero, nel riconoscimento del diritto della S. Sede a esaminare (ed eventualmente riprovare) la persona dell'eletto al soglio imperiale e a deporlo con giusto giudizio se infedele alla Chiesa.

Fonti e Bibl.: Historia diplomatica Friderici secundi, II, 1; III; V, 1; VI, 1. G. Fasoli, Aspetti della politica italiana di Federico II, Bologna 19662; R. Morghen, Medioevo cristiano, Bari 19723; Probleme um Friedrich II., a cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen 1974; Politica e cultura nell'Italia di Federico II, a cura di S. Gensini, Pisa 1986; E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 19883; D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990; A. Melloni, Innocenzo IV. La concezione e l'esperienza della cristianità come 'regimen unius personae', Genova 1990; D. Quaglioni, Politica e diritto al tempo di Federico II, in Federico II e le nuove culture. Atti del trentunesimo Convegno storico internazionale (Todi, 9-12 ottobre 1994), Spoleto 1995, pp. 1-26; P. Racine, Federico II di Svevia. Un monarca medievale alle prese con la sorte, Milano 1998.

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