SCUOLA E FORMAZIONE DELLE CLASSI DIRIGENTI

XXI Secolo (2009)

Scuola e formazione delle classi dirigenti

Daniele Checchi
Silvia Redaelli

Premessa

Quando si affronta il tema della formazione e selezione delle classi dirigenti, conviene innanzi tutto interrogarsi a proposito di quale sia l’impatto che le classi dirigenti possono esercitare sul benessere della popolazione. Sebbene discutere sulla qualità della amministrazione e della sua misurabilità esuli dallo scopo di questo contributo, è comunque utile richiamare alcuni principi generali che si rintracciano in letteratura.

Il primo fa riferimento alle esternalità positive (o negative) che si producono nell’organizzazione delle attività sociali a partire dalle caratteristiche di chi detiene posizioni di potere sia in ambito economico sia politico. Un elemento cruciale al favorire processi di crescita economica è che la selezione delle élites ne garantisca l’elevata qualità.

Poiché nelle società moderne la scelta occupazionale avviene in buona parte sulla base delle predisposizioni innate degli individui e sulla base degli incentivi offerti dal mercato, è evidente come la struttura dei mercati (sia economici sia politici) configuri la selezione degli individui più dotati in posizioni sociali che possono produrre maggior o minor beneficio per la collettività. Se, per es., i mercati determinano remunerazioni elevate per l’attività imprenditoriale, gli individui più abili o competenti tenderanno a orientarsi verso la produzione di beni o servizi. Se la struttura sociale assicura maggiori guadagni attraverso l’appropriazione legale o illegale di risorse altrui, osserveremo i migliori orientarsi ad attività di rent seeking (quali carriere politiche, militari, intermediazione, fino a sfociare in corruzione e attività illegali). In generale, in un contesto in cui le forze del mercato siano libere di funzionare, si dovrebbe osservare come i segnali, in termini di remunerazione delle varie scelte, determinino l’autoselezione delle persone in base alle loro caratteristiche/abilità in occupazioni che ne massimizzano la ‘produttività’. In un simile contesto, per analizzare l’impatto sul benessere sociale di una classe dirigente, diviene decisiva l’analisi dei segnali e dei meccanismi che determinano la selezione e l’autoselezione degli individui all’interno delle posizioni di vertice nella gerarchia occupazionale.

Il secondo principio è, invece, riconducibile alla teoria della circolazione delle élites, riferibile a Vilfredo Pareto (1848-1923). Nell’analisi di questo studioso troviamo almeno due idee che è utile richiamare. Data una distribuzione originaria della ricchezza che è (parzialmente o totalmente) indipendente dalle capacità individuali, la stabilità sociale richiede un minimo di permeabilità nell’accesso alle posizioni apicali per evitare che questo risultato venga conseguito attraverso il rovesciamento sociale. È evidente che l’accesso alla classe dirigente non può definirsi solo sulla base delle caratteristiche innate dell’individuo, ma si costruisce anche sulla base della trasmissibilità intergenerazionale degli elementi che caratterizzano lo status di una persona (tra questi la ricchezza e l’istruzione).

L’analisi della formazione delle élites coinvolge quindi diverse dimensioni della stratificazione sociale. Noi ci soffermeremo in particolare sul ruolo che l’istruzione, attraverso le istituzioni formative, può giocare nel processo di selezione della classe dirigente, ben consci che si tratta di una visione parziale dell’intero fenomeno. Dopo alcune indicazioni quantitative sulle caratteristiche della classe dirigente nei quattro principali Paesi europei (Italia, Francia, Germania e Regno Unito), analizzeremo le caratteristiche dei loro sistemi formativi per individuarne le proprietà che possono favorire una selezione più efficace delle potenziali élites. Passeremo poi in rassegna l’evidenza esistente sul caso italiano, e infine affronteremo alcuni nodi problematici relativi alla selezione delle classi dirigenti in una democrazia di mercato.

Le élites nei Paesi europei

In questo lavoro, adottiamo una definizione di classe dirigente basata sulla classificazione dell’International standard classification of occupations (ISCO-88, COM). Lo schema di classificazione ISCO si articola in base a due criteri, quello della specializzazione (skill specialization), che rileva i compiti e le mansioni relative a una data professione, e quello della competenza (skill level), che viene definita come capacità di svolgere i compiti relativi alla professione stessa. Questa seconda dimensione, permette di ordinare le professioni in termini gerarchici ed è riconducibile al livello di istruzione formale che è necessario allo svolgimento di una data professione (ILO 1990). In base ai suddetti criteri, la classificazione ISCO si articola in base a nove macrogruppi secondo lo schema riportato nella tab. 1.

All’interno del primo macrogruppo, che identifica le posizioni di vertice nella gerarchia occupazionale, la classificazione ISCO distingue tre sottocategorie. Nella prima, che per brevità chiameremo legislatori, sono classificati i membri dei corpi legislativi e di governo, i dirigenti amministrativi e giudiziari della pubblica amministrazione e di organizzazioni d’interesse nazionale e sovranazionale. Nella seconda sono classificati gli imprenditori, gli amministratori e i direttori di grandi aziende private nei vari settori dell’economia, dall’industria ai servizi, mentre nella terza categoria troviamo gli imprenditori, i gestori e i responsabili di piccole imprese. Per quanto riguarda la nostra analisi, identificheremo gli appartenenti alla classe dirigente negli individui che ricoprono occupazioni nelle prime due sottocategorie (legislatori e dirigenti) così da comprendere nella nostra definizione esponenti della classe dirigente politica ed economica. Per garantire la piena comparabilità dei risultati fra i Paesi considerati, escludiamo il terzo sottogruppo, poiché (solo) nel caso italiano esso risulta essere particolarmente influenzato dai piccoli imprenditori artigiani. Rispetto ai recenti studi a cura di Carlo Carboni (Èlite e classi dirigenti in Italia, 2007) e dei Rapporti Luiss (Generare classe dirigente, 2007; 2008), il nostro approccio permette in primo luogo un’analisi comparativa a livello internazionale rispetto alle caratteristiche fondamentali della classe dirigente del nostro Paese.

Allo scopo di determinare la consistenza numerica e qualitativa delle classi dirigenti, utilizzeremo due fonti di dati, l’ECHP (European Community Household Panel), un’indagine longitudinale sulle condizioni di vita delle famiglie, condotta a partire dal 1994 fino al 2001 e l’indagine campionaria da cui è stata sostituita dal 2004, l’EU-SILC (European Union-Statistics on Income and Living Conditions). Entrambe le indagini, progettate e realizzate con le stesse modalità in tutti i Paesi dell’Unione Europea mediante un modello di rilevazione standardizzato, si prestano a un’analisi comparativa a livello internazionale. Ai fini della nostra indagine utilizzeremo due periodi di riferimento, il 1995 (ECHP) e il 2005 (EU-SILC), in modo da avere una fotografia dell’evoluzione della classe dirigente per Germania, Francia, Italia e Regno Unito con riferimento all’ultimo decennio. Definiti i membri della classe dirigente, si può notare (tab. 2) che a fronte di un incremento complessivo dal 5,47% al 5,99% sul totale dei Paesi considerati, la variazione temporale della classe dirigente risulta nel confronto differenziata. Si può osservare infatti una diminuzione per Germania e Italia a fronte di un incremento per Francia e Regno Unito, spiegabile con il maggior dinamismo economico fatto registrare nel decennio considerato.

Grazie alla disponibilità dei dati individuali si può scendere nel dettaglio dell’identità di questa classe dirigente e analizzare alcune delle caratteristiche fondamentali spesso al centro delle critiche volte alla classe dirigente italiana, in particolare quella di essere relativamente vecchia, poco istruita e con una sovrarappresentazione della componente maschile rispetto alle classi dirigenti degli altri Paesi europei presi in considerazione.

Come emerge dalla tab. 3, la classe dirigente italiana risulta essere la più vecchia fra quelle dei Paesi considerati, tanto nel 1995 quanto nel 2005, con un’età media, rispettivamente, di 47 e 46 anni. A seguire, in ordine progressivo di anzianità, si trovano la classe dirigente tedesca, francese e quella inglese, che in media risulta essere di 5 anni più giovane rispetto a quella italiana nel 1995, e di quasi 3 anni nel 2005. In particolare, rispetto alle corrispettive europee, la classe dirigente italiana detiene il primato in termini di percentuale di appartenenti con più di 60 anni. Tale quota nel 1995 (nel 2005) rappresentava più del 17% (9%) del totale, a fronte di una percentuale intorno al 4% (5%) negli altri Paesi (fig. 1A). Analogamente, nel 1995 la quota di ‘under 30’ nella classe dirigente italiana risultava in assoluto la più bassa a livello europeo, record superato nel 2005 solo dalla classe dirigente tedesca che era quella maggiormente interessata da un progressivo invecchiamento.

In generale, per ciascuno dei Paesi considerati, la classe dirigente appare relativamente più vecchia rispetto al totale della popolazione di occupati. Ciononostante, a fronte di un generale invecchiamento della popolazione dal 1995 al 2005, e con la sola esclusione della Germania, l’invecchiamento medio della classe dirigente è stato significativamente inferiore, se non in controtendenza come per Francia e Italia (per queste ultime si rileva una diminuzione dell’età media della classe dirigente rispettivamente dello 0,46% e del 2,35%, tab. 3). La diversa composizione per fasce di età ha una connessione diretta con i livelli di istruzione, in quanto Paesi a recente scolarizzazione di massa (come l’Italia) tenderanno a presentare livelli di istruzione mediamente inferiori nella classi di età più anziane. Poiché la classe dirigente italiana è sostanzialmente più ‘anziana’ rispetto a quelle degli altri Paesi europei, seppure con limitati segni di progressivo ricambio a vantaggio delle nuove generazioni, non ci stupiremo nel riscontrare che essa è contemporaneamente meno istruita delle altre classi dirigenti europee. Come appare evidente dalla fig. 1B, in termini di istruzione, la classe dirigente italiana rispecchia pienamente i bassi livelli riscontrabili nella popolazione da cui è tratta. Nel 1995, a fronte di quote di popolazione occupata con educazione terziaria superiori al 25% negli altri Paesi europei, l’Italia esibiva un modesto 11%. La situazione della popolazione occupata italiana è migliorata nell’arco dell’ultimo decennio, grazie all’ingresso nel mercato del lavoro di nuove generazioni con livelli di istruzione superiori, con un incremento intorno al 50% della quota di laureati, una performance comunque inferiore rispetto all’incremento del 70% osservato, per es., in Germania.

La classe dirigente italiana, come d’altronde tutte le classi dirigenti dei Paesi considerati, risulta relativamente più istruita rispetto alla popolazione, con una percentuale di laureati circa doppia. Ciononostante, nel 2005 la percentuale di classe dirigente italiana laureata si attesta al 31%, mentre negli altri Paesi tale quota supera la metà del gruppo. Da rilevare anche come l’Italia sia l’unico Paese europeo che nel 2005 esibiva ancora una quota di classe con un livello di educazione primaria superiore a due cifre (26,16%). Appare chiaro da questi numeri come il tema della formazione della classe dirigente italiana, e più in generale dell’istruzione in Italia, sia particolarmente rilevante. Il tema della formazione si collega direttamente a quello della mancanza di ricambio della nostra classe dirigente, soprattutto considerando che le generazioni più giovani sono progressivamente sempre più istruite.

Un ulteriore spunto per l’analisi ci viene dalla fig. 2 dove si è disaggregata la frazione di laureati nei vari Paesi e per i due periodi di riferimento in base al sesso. Il quadro che ne emerge evidenzia come, con la sola eccezione della Germania, la popolazione occupata femminile sia sensibilmente più istruita rispetto alla controparte maschile, avendo una maggiore quota di individui laureati fra le sue fila. Inoltre, se si analizza il trend temporale, a esclusione della Francia, la crescita della frazione di laureati dal 1995 al 2005 è stata significativamente maggiore per le donne (v. tab. 4). A dispetto di un tasso di istruzione tendenzialmente più elevato dei colleghi uomini, le donne continuano a essere sottorappresentate sia all’interno della classe dirigente sia nella popolazione occupata, in particolar modo per quanto riguarda l’Italia e la Germania. A parziale riconoscimento del maggiore incremento del livello d’istruzione, la crescita della componente femminile nella classe dirigente è stata superiore a quella rilevata all’interno della popolazione occupata. In particolare, dal 1995 al 2005, l’Italia ha registrato l’incremento maggiore, pari a circa il 57%. Tuttavia in queste statistiche si mescolano tre fattori (istruzione, anzianità e genere) che possono contribuire, sia singolarmente sia congiuntamente, all’entrare nelle classi dirigenti. Per analizzare il contributo di ciascuno di questi elementi, siamo ricorsi all’analisi statistica multivariata, riportando i risultati in forma grafica in fig. 3, dove si osservano le probabilità di essere classe dirigente in rapporto a queste tre caratteristiche. Da essa si nota che l’anzianità favorisce l’ingresso nelle classi dirigenti in tre Paesi su quattro, con esclusione del Regno Unito, dove trascorsi i 50 anni diventa piuttosto un ostacolo. Per contro, l’essere laureati ha l’impatto più forte in Francia e Regno Unito, seppure in momenti diversi della carriera lavorativa (entro i 40 anni in Francia, entro i 60 anni nel Regno Unito), mentre l’effetto si dimezza quando consideriamo Germania e, a maggior ragione, Italia. Si noti altresì che essere laureato rappresenta in modo costante un fattore di vantaggio rispetto all’età per il Regno Unito, mentre tale fenomeno si manifesta solo parzialmente per l’Italia (nella fascia d’età 30-50) e per la Francia (entro i 40 anni). Nel caso della Germania tale effetto è debolissimo e presente solo nella fascia dei quarantenni. L’essere donna comporta uno svantaggio sistematico in tutti questi Paesi, con maggior incidenza per Germania (dove si accresce con l’invecchiamento) e per il Regno Unito (dove invece si nota un recupero verso la fine della vita lavorativa).

Possiamo quindi riassumere questa sezione ricordando che i quattro Paesi analizzati presentano diverse modalità di selezione delle classi dirigenti, giocate tra le credenziali educative (maggiormente rilevanti per Francia e Regno Unito) ed esperienza/anzianità (maggiormente rilevante per Germania e Italia). In tutti i Paesi le donne sono in posizione di svantaggio nell’accesso alle classi dirigenti, nonostante siano più istruite delle loro controparti maschili. Passiamo ora ad analizzare quali caratteristiche dei sistemi formativi possano essere responsabili di questo risultato.

Sistemi formativi in quattro Paesi

Regno Unito

Il sistema formativo inglese è caratterizzato da un sistema secondario di tipo misto in cui, a un indirizzo prevalente di tipo unitario (comprehensive), si associa la permanenza di scuole orientate specificatamente all’indirizzo universitario (grammar schools). Esiste una possibilità di differenziazione dei percorsi alla luce delle materie che vengono preparate per l’ammissione all’università (GCE, General Certificate of Education, A level; oppure GCSE, General Certificate of Secondary Education), così come la scelta di indirizzi professionali dopo i 16 anni.

Le università, in quanto enti privati autogovernati, hanno libertà di ammissione, mentre quelle più prestigiose sono anche quelle per le quali i requisiti di ammissione (in termini di materie e di votazione) sono più elevati. Tuttavia, le tasse di ammissione sono uniformi sul territorio nazionale e arrivano attualmente a 3000 sterline per il primo livello dei corsi. Per gli studenti provenienti da situazioni disagiate è prevista la possibilità di esenzione delle tasse d’iscrizione, a cui può aggiungersi un contributo statale che può arrivare fino a 4000 sterline annue.

Esiste un’agenzia nazionale per la valutazione della qualità delle istituzioni formative (QAA, Quality Assur-ance Agency for higher education, creata nel 1997) che rende pubblico un giudizio di affidabilità o meno della formazione impartita. Così come sono previste graduatorie pubbliche tra università basate sia sui risultati della ricerca (RAE, Research Assessment Exercise), sia sugli sbocchi lavorativi degli studenti.

Gli studenti possono ottenere sostegno economico dal governo centrale, dalle autorità locali o dalle stesse università, in forma di esenzione dalle tasse e/o di assegni aggiuntivi. È prevista, altresì, la possibilità di accedere a prestiti, di ridotto ammontare, che vengono garantiti dal pubblico e sono volti al mantenimento degli studi.

Esistono, infine, istituzioni di formazione terziaria non universitaria (universities colleges, precedentemente polytechnics). Con il libro bianco The future of higher education del 2003, il governo inglese si è dato l’obiettivo di portare al 50% la popolazione frequentante l’istruzione universitaria, alzando contestualmente le tasse d’iscrizione nella forma di un credito d’imposta da riscuotere successivamente alla laurea.

Il sistema inglese esercita una forte attrattiva sugli studenti che provengono da Paesi terzi: nel 2005 la quota di studenti che frequentava le università inglesi sul totale degli studenti che studiavano in una università estera era pari al 12%, seconda solo agli Stati Uniti con il 22%.

Francia

Il sistema formativo francese è anch’esso caratterizzato da un sistema secondario unitario (collège), che si differenzia dopo i 15 anni tra un indirizzo accademico (lycée général o technologique) e uno professionale (lycée professionnel). Gli studenti che scelgono il primo indirizzo hanno accesso al sistema universitario che si differenzia tra universités e grandes écoles. Sono queste ultime (insieme agli instituts universitaires de technologie) che presentano elevati requisiti di ammissione (nel caso delle grandes écoles esistono corsi di 2-3 anni per la preparazione agli esami di ammissione). La loro creazione risale al periodo della Rivoluzione francese (1793) e la loro missione era specificamente quella di formare le classi dirigenti pubbliche attraverso una rigorosa selezione meritocratica. Gli studenti che sono ammessi a queste istituzioni d’élite sono classificati come funzionari pubblici in addestramento. In quanto membri a tutti gli effetti della pubblica amministrazione, essi ricevono un regolare stipendio per la durata degli studi (attualmente 4 anni), e si impegnano a lavorare almeno per dieci anni circa nella pubblica amministrazione o in imprese di proprietà statale.

Per tutte le altre istituzioni universitarie il requisito di ammissione è dato dal conseguimento del diploma di baccalauréat al termine della scuola secondaria (o certificato equivalente).

Le tasse di ammissione anche in questo caso sono fissate dal governo centrale a livelli relativamente bassi (nel 2006-07 erano pari a 162 euro per un programma di primo livello, 211 per un corso di laurea magistrale e 320 per un corso dottorale). A questo si aggiunge la possibilità, per gli studenti provenienti da famiglie in difficoltà economiche, di ottenere un contributo aggiuntivo (che varia tra 1300 e 3500 euro per anno), spesso sostituito da benefici in natura (sistemazione in pensionati, contributi pasto).

Non esiste un sistema di valutazione esterna delle istituzioni universitarie (anche se un’agenzia ad hoc è stata creata nel 2006), le quali sono tuttavia incoraggiate a sviluppare procedure di autovalutazione interna.

Germania

Il sistema tedesco è organizzato su base regionale (Länder) anche se vi è un consistente sforzo di omogeneizzazione a livello federale. Esso è caratterizzato da un orientamento precoce degli studenti al termine della scuola primaria (10-11 anni) secondo un sistema tripartito che dà accesso a diverse opportunità a livello terziario. L’indirizzo accademico (Gymnasium) prevede la prosecuzione a livello universitario, quello tecnico (Realschule) permette la prosecuzione solo in alcuni indirizzi (Fachhochschulen) e/o l’ammissione alla formazione terziaria non universitaria (Berufsakademien), mentre l’indirizzo professionale (Hauptschule) non prevede la prosecuzione a livello universitario.

Il requisito di ammissione è il possesso di un diploma di un corso secondario a orientamento accademico (Abitur) o tecnico (Hochschulreife), anche se esistono altri canali d’ingresso per persone con esperienza lavorativa. Le università non possono invece introdurre requisiti di ammissione.

Fino al 2005 non vi erano tasse di ammissione a ogni istituzione terziaria, anche se fissarle è competenza regionale. È prevista la possibilità di introduzione, fino a un massimo di 500 euro annui. Esiste inoltre la possibilità per gli studenti in difficoltà finanziarie di ottenere un contributo federale, fino a un massimo di circa 6000 euro annui, di cui la metà viene erogata con obbligo di restituzione successivamente al conseguimento del titolo universitario.

In anni recenti vi è stata una crescente attenzione al processo di accreditamento delle diverse istituzioni universitarie, che tuttavia si esaurisce in un controllo di tipo procedurale-amministrativo. Esistono diverse agenzie esterne di valutazione a base regionale che sono però principalmente orientate alla misurazione della qualità dell’insegnamento impartito.

Italia

Anche il sistema italiano, come quello francese o tedesco, è caratterizzato da un indirizzo non unitario a livello di scuola secondaria. A differenza di quello tedesco, tuttavia, il sistema formativo italiano garantisce una maggiore libertà di scelta a livello di indirizzo secondario e l’ammissione all’università è condizionata esclusivamente all’avere conseguito un diploma di maturità quinquennale. Se si escludono alcuni indirizzi specifici (accademie di belle arti, Accademia nazionale di arte drammatica, istituti superiori per le industrie artistiche, conservatori di musica, Accademia nazionale di danza), in Italia è pressoché assente una formazione terziaria non universitaria.

L’ammissione all’università non è selettiva (a esclusione delle professioni mediche e di altri eventuali corsi, soggetti ad autorizzazione ministeriale), mentre l’ammontare delle tasse di iscrizione ha un minimo fissato dal governo (175 euro nel 2006) e un tetto massimo dato dal non dover eccedere in aggregato il 20% delle entrate ricevute dal governo centrale. In media le tasse universitarie si aggirano a poco meno di 1000 euro annui. La fornitura di sostegno economico agli studenti universitari è demandata alle agenzie regionali (ISU, Istituto per il diritto allo Studio Universitario), anche se va rilevato come si realizzi frequentemente la situazione di studenti in possesso di requisiti di reddito che vengono esclusi dal conseguimento di prestazioni di sostegno per carenza di fondi.

Le università sono soggette a procedure di accreditamento le cui informazioni vengono analizzate da un’agenzia nazionale di nomina governativa (CNVSU, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario) che ha come obiettivo principale la valutazione delle risorse disponibili.

Nel panorama dell’università italiana spiccano tuttavia centri di formazione di ‘eccellenza’ fra cui la Scuola normale superiore di Pisa. Istituita per decreto napoleonico agli inizi del 19° sec. come succursale dell’École normale supérieure di Parigi, la Normale prevede una rigida selezione iniziale tramite concorso degli studenti ammessi a ciascuna delle due classi di studio, la classe di Scienze e quella di Lettere e filosofia. Una volta operata la selezione, e condizionatamente al mantenimento di una votazione media superiore al 27, la Normale fornisce gratuitamente ai propri allievi vitto e alloggio, nonché il completo rimborso delle tasse universitarie e un modesto contributo mensile allo studio. Accanto alla continua selezione dei propri studenti, la Normale si contraddistingue anche per un favorevole rapporto fra numero di studenti e numero di docenti (circa 3 a 1).

Se si mettono in relazione i dati di Regno Unito e Francia, da cui emerge che il possesso di un titolo universitario ha un impatto nell’ingresso nelle classi dirigenti, con i sommari elementi qui richiamati sulla struttura dei sistemi formativi, si possono avanzare alcune ipotesi interpretative: 1) una credenziale educativa è efficace nel promuovere l’ascesa sociale di chi la detiene se e solo se è in grado di segnalare le capacità del possessore. Tale funzione di signaling è possibile se, e solo se, il processo per il suo conseguimento è di tipo selettivo. Il sistema inglese è selettivo all’ingresso, permettendo una stratificazione spontanea del sistema universitario tra università di eccellenza e altre università. Viceversa, nel caso del sistema francese la separazione è intenzionale e discende dal disegno istituzionale di scuole di eccellenza con accesso selettivo. Nel caso tedesco e in quello italiano, il libero accesso all’università, unito all’assenza di centri d’eccellenza, ne riduce il carattere di segnalazione. È vero che nel caso di questi due Paesi vi è un processo di selezione sociale che opera a partire dalla scuola secondaria e che continua a operare anche a livello universitario attraverso gli abbandoni in corso, ma evidentemente l’efficacia di questo segnale è molto più debole; 2) per essere credibile, un segnale non deve essere distorto da fattori confondenti. In particolare, l’assenza di forme di sostegno allo studio per gli studenti universitari differenzia l’Italia dal resto dei Paesi. Il fatto di non possedere una laurea, infatti, può essere indicatore di scarsa capacità individuale così come di mancanza di risorse finanziarie a livello familiare. Se la seconda causa potesse essere esclusa dalla presenza di sussidi pubblici per gli studenti meritevoli ma bisognosi, ecco allora che il segnale si rafforzerebbe. Vale anche il caso simmetrico: incontrare un individuo con una laurea in un Paese dove non vi sono forme efficaci di sostegno allo studio può essere indicativo delle sue capacità individuali ma anche della famiglia di origine; 3) la qualità di una formazione universitaria non può essere basata solo sulla valutazione della didattica, specialmente quando quest’ultima sia impostata su autovalutazioni o valutazioni di natura puramente procedurale. Una valutazione della qualità della formazione offerta non può prescindere dalla valutazione della produttività scientifica degli accademici impegnati in loco, e questa valutazione non può essere realizzata che da agenzie esterne al sistema universitario per evitare forme di collusione tra valutatori e valutati. L’importanza e il valore di quest’attività di valutazione possono essere identificati non solo negli incentivi che essa produce sulle stesse università sottoposte a valutazioni che vengono spinte alla competizione sulla qualità dell’offerta formativa, ma anche nella capacità di attrazione degli studenti migliori, sia in ambito nazionale sia estero. In un contesto di crescente integrazione anche i sistemi universitari dei diversi Paesi sono sottoposti a una competizione internazionale sempre maggiore, sia nell’ambito della ricerca sia in quello della formazione. Pur tenendo conto del ruolo giocato dall’apprendimento della lingua inglese (fatto questo che induce un numero crescente di università non inglesi a impartire corsi in lingua inglese), è evidente che il sistema universitario anglosassone è caratterizzato da un sistema efficace di valutazione della ricerca, un ottimo posizionamento delle proprie università all’interno dei ranking internazionali e si distingue per l’attrattività che esercita verso studenti provenienti dagli altri Paesi.

L’Italia e la sua classe dirigente

Le principali caratteristiche della nostra classe dirigente sono state recentemente approfondite da Carboni in Élite e classi dirigenti in Italia (2007) e nei due Rapporti Luiss Generare classe dirigente (2007, 2008). Nel primo studio, seguendo un metodo posizionale, si identificano i membri della classe dirigente attraverso l’analisi di circa 5500 curricula tratti dallo Who’s who di personaggi ‘famosi’ che ricoprono posizioni di vertice in diversi ambiti di attività: economico, politico, istituzionale, culturale, scientifico e religioso. Il quadro che ne emerge, consistentemente con quanto rilevato dalla nostra analisi e confermato anche, su diverse fonti di dati, dai Rapporti Luiss, è quello di una classe dirigente ad assoluta prevalenza di uomini (circa l’88%), tendenzialmente vecchia (l’età media si aggira sui 61 anni) e caratterizzata da un tasso di ricambio relativamente basso (due terzi di coloro che risultano nello Who’s who del 2004 erano già presenti nella rilevazione del 1998). Per quanto riguarda il livello d’istruzione, ancora il primo studio sottolinea un progressivo incremento della percentuale di classe dirigente in possesso di una laurea: tra il 1990 e il 1998 la percentuale passa dal 66% al 78% per poi arrivare all’87% nel 2004. Un ulteriore spunto di analisi riguarda la tipologia di laurea posseduta che vede una sostanziale prevalenza di lauree in giurisprudenza e in settori umanistici, a scapito di lauree in ambito scientifico-economico.

Un aspetto fondamentale nello studio delle classi dirigenti ha necessariamente a che fare con i suoi processi di formazione.

L’Italia si caratterizza per l’assenza di serbatoi di formazione delle élites quali, per es., le grandes écoles in Francia e centri di eccellenza di rinomata tradizione sul modello Oxbridge per il Regno Unito. Come nota Giulio Sapelli in un recente studio (2004), la mancanza di specifici centri di formazione, insieme al venire meno del ruolo formativo storicamente svolto dai partiti di massa, ha contribuito al declino della classe dirigente italiana che, facendosi portatrice di istanze particolaristiche, è a sua volta venuta meno al perseguimento dell’interesse generale e alla visione complessiva del benessere della società. Sia nell’ambito politico sia economico, la selezione della classe dirigente sembra operare principalmente attraverso meccanismi di cooptazione e/o relazionali piuttosto che tramite meccanismi di mercato basati sul merito.

A conferma di queste critiche, ricerche in ambito sociologico hanno analizzato i meccanismi di selezione delle classi superiori attraverso lo studio della mobilità intergenerazionale della classe dirigente stessa. Antonio Schizzerotto (1993) fornisce una prima analisi dei processi di mobilità e della struttura di classe delle posizioni al vertice della gerarchia occupazionale. Nel contesto sociale italiano, a sua volta caratterizzato da un livello assai modesto di mobilità intergenerazionale, la classe dirigente (imprenditori, politici, liberi professionisti, dirigenti) si contraddistingue per una sostanziale chiusura alle prospettive intergenerazionali di accesso a essa a partire da posizioni non privilegiate, e per una sostanziale ereditarietà soprattutto delle posizioni imprenditoriali e professionali collegata alla trasmissione intergenerazionale di capitali e di attività ben avviate.

Il problema relativo alla selezione della classe dirigente in un contesto che appare caratterizzato da un elevato tasso di autoreclutamento diviene dunque quello del favorire un accesso basato sul merito, facilitando di conseguenza tanto una maggiore mobilità sociale quanto un maggior ricambio all’interno della classe dirigente stessa.

Il declino della classe dirigente italiana, da più parti evidenziato, può essere ricondotto fra le molte possibili concause, da un lato all’incapacità del sistema universitario di fornire segnali e incentivi adeguati alla selezione degli studenti migliori, dall’altro all’incapacità della classe dirigente esistente di rinnovarsi costantemente per accogliere i migliori prodotti del sistema universitario stesso.

A testimonianza indiretta di quest’ultimo punto si può notare come il mercato del lavoro italiano, a tutti i livelli, si caratterizzi per una scarsa capacità sia di attrarre giovani lavoratori di talento dall’estero, sia di trattenere i propri (il cosiddetto fenomeno del brain drain), con chiare conseguenze negative nel lungo periodo in termini di potenziali di crescita economica. Evidenza in tal senso può essere trovata nello studio del 2003 di Sascha O. Becker, Andrea Ichino e Giovanni Peri. L’Italia, nell’ambito dei Paesi considerati, risulta essere quello meno in grado di attrarre laureati stranieri (nel 1999 solo 0,3% a fronte dell’1,7% del Regno Unito), mentre risulta essere quello maggiormente esposto all’emigrazione verso l’estero dei propri laureati (nel 1999 il 2,3% contro lo 0,6% dei laureati tedeschi).

Alcune considerazioni aggiuntive devono essere avanzate in merito ai peculiari processi di selezione che riguardano la classe dirigente in ambito politico.

In uno Stato democratico quale quello italiano, la capacità del sistema di selezionare un politico di ‘qualità’ dipende da un lato dai meccanismi che determinano la selezione dei potenziali candidati, dall’altro dai meccanismi che influenzano gli stessi risultati elettorali. Tali temi sono stati estensivamente analizzati nella letteratura di political economy. Riprendendo il lavoro di Timothy Besley (2005), il pool dei potenziali candidati dipende dalla relativa attrattività dell’attività politica in rapporto alle opportunità di mercato. Se l’attività politica consente l’appropriazione di rendite elevate e garantisce sostanziosi benefici economici, il pool di coloro che vorranno concorrere alla competizione elettorale sarà necessariamente vasto, comprendendo anche soggetti la cui motivazione etica all’attività politica e all’impegno saranno inferiori a quelli che si osserverebbero in un contesto in cui il rendimento dell’attività politica sia allineato a quello di altre occupazioni sul libero mercato.

Un interessante spunto di riflessione in tal senso si trova in un recente contributo di Stefano Gagliarducci, Tommaso Nannicini e Paolo Naticchioni (2008a). Analizzando il caso italiano, gli autori evidenziano come la possibilità istituzionalmente garantita di continuare a esercitare contemporaneamente all’attività parlamentare una professione nel settore privato influenzi negativamente la qualità dei politici eletti e la loro produttività politica. Oltre che dall’attrattività dell’attività politica, la selezione dei potenziali candidati dipende anche dalla relativa probabilità di successo nella competizione elettorale di politici ‘cattivi’ e politici ‘buoni’. Idealmente, la selezione dovrebbe sempre favorire i candidati potenzialmente migliori. Tuttavia, quando i candidati vengono scelti dai partiti, e nel caso in cui questi ultimi siano interessati anche all’estrazione di rendite, la qualità potrebbe essere ritenuta di intralcio al conseguimento di interessi di parte o ancora, all’interno dei partiti, la selezione dei candidati potrebbe operare tramite criteri di conoscenza personale piuttosto che attraverso il criterio del merito.

Chiaramente anche la qualità e la libertà dell’informazione influiscono sulla selezione dei potenziali candidati. Da ultimo, la selezione della classe politica dipenderà dalla sua accountability, ossia da come il sistema politico obbliga la sua classe dirigente a rispondere del proprio operato, tipicamente attraverso le opportunità di essere rieletta e rimanere in carica.

Conclusioni

L’analisi che abbiamo presentato nelle pagine precedenti suggerisce l’esistenza di una relazione tra selezione delle classi dirigenti e assetto del sistema formativo, in particolare a livello terziario. Tuttavia, ogni sistema di segnalazione, per essere efficace, deve essere validato dal sistema politico e/o dal sistema economico-produttivo, dal momento che la selezione che esso produce deve essere del tutto funzionale ai ruoli da ricoprire.

Una funzione essenziale assolta, seppure indirettamente, dalle istituzioni formative, è quella della omogeneizzazione dei sistemi valoriali e della creazione di reti di relazioni interpersonali. Provenire da istituzioni di eccellenza deputate alla formazione della classe dirigente diventa così un segnale che si autoconferma. La modalità con cui questo può avvenire dipende dalla forma specifica che i ‘quasi-mercati’ dell’istruzione assumono nei diversi Paesi. Nel caso degli Stati Uniti, e in misura minore nel Regno Unito, la selezione all’ingresso avviene sia sulla base del merito, sia sulla base della capacità/possibilità di pagare le rette d’accesso.

All’altro estremo, nel caso francese è la regolazione pubblica del processo selettivo che assicura un risultato analogo. Nel caso tedesco sembrano esservi meccanismi di validazione della selezione che sono centrati sul prestigio individuale dei professori cui è associata la formazione. Nel caso italiano non sembra invece rintracciarsi alcun percorso privilegiato che risulti legato alla formazione delle élites. In conseguenza di questo specifico motivo la creazione di network relazionali avviene attraverso circuiti alternativi che esulano dalle istituzioni precipuamente deputate alla formazione. Per assurdo, anche questo sistema di reclutamento della classe dirigente si fonda su meccanismi di validazione. In assenza di processi formativi comuni, il network di relazioni fiduciarie necessarie allo svolgimento delle attività dirigenziali tende a essere assicurato dal senso di appartenenza ai partiti, alle organizzazioni oppure alle dinastie di potere. In un mondo dove non è possibile segnalare le proprie capacità, non più il criterio del merito, ma quello della semplice ‘appartenenza’ fornisce ipso facto informazioni sulle caratteristiche non osservabili degli aspiranti membri alla classe dirigente.

Da questo punto di vista lo stesso istituto della ‘raccomandazione’, che nel contesto estero assume la veste di conferma di segnali oggettivi (la lettera di reference di un docente di un’università prestigiosa a proposito di un laureato della stessa università è un segnale che si autorafforza), si trasforma nel contesto italiano in un segnale di appartenenza a una rete relazionale autoreferenziale, cui appartiene sia il raccomandante sia il raccomandato.

Chiaramente, non vi sarebbe nulla di scandaloso in questo sistema qualora vi fosse la possibilità di una validazione esterna della capacità gestionale degli appartenenti alla rete stessa. Tuttavia, in assenza di riscontri oggettivi, il sistema di selezione della classe dirigente italiana rischia il collasso. Alla luce di queste considerazioni, riteniamo che favorire lo sviluppo d’istituzioni formative d’élite ad accesso strettamente meritocratico (di cui pure esistono esempi illustri quali la Normale di Pisa) rappresenti la politica più efficace allo scopo di sconfiggere il clientelismo e il familismo che affliggono la selezione di molta della classe dirigente nel nostro Paese e ne impediscono il rinnovamento.

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