Scuola milanese

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia (2012)

Scuola milanese

Pier Luigi Porta

Le origini

École de Milan, o Scuola milanese, è espressione che reca i segni di una collocazione storica ben precisa. Siamo attorno alla metà degli anni Sessanta del 18° sec. quando a Milano nasce l’Accademia dei Pugni ed esce «Il Caffè», espressione dell’Accademia stessa. Diretto di fatto dal fondatore e maestro, Pietro Verri, e redatto nelle stanze dell’Accademia, «Il Caffè» rappresenta il momento culminante di un rapido processo intellettuale di intenso successo e una tessera di rilievo nella costruzione dell’Illuminismo europeo. L’Illuminismo lombardo dei Verri e di Beccaria si inserisce infatti entro un più vasto movimento europeo, al quale attivamente contribuisce. Prospetta un programma di ricerca, di formazione e di divulgazione ad ampio spettro; al tempo stesso individua nell’economia politica l’autentica scienza nuova dell’era degli illuminati: non è per nulla ingiustificato ritenere implicito, nel parlare di Scuola di Milano tout court, un richiamo all’economia politica.

Quando Joseph A. Schumpeter, nella History of economic analysis (scritta nel 1949 ma pubblicata postuma nel 1954), esalta la Scuola milanese (accanto a quella napoletana) nell’Italia del 18° sec., riprende inconsapevolmente un’espressione di Voltaire. È in particolare Alessandro Verri, fratello di Pietro, durante il suo viaggio a Parigi (su invito degli enciclopedisti parigini e dello stesso Voltaire) in compagnia di Cesare Beccaria, nel 1766, a riportare con orgoglio al fratello quanto Voltaire si dicesse ammirato della «école de Milan», la quale «fait de grands progrès».

In quello stesso anno il pittore Antonio Perego aveva messo la firma al celebre ritratto dell’Accademia dei Pugni (ancora oggi appartenente alla collezione privata della discendenza Verri) raffigurandovi seduti a due tavoli da un lato Cesare Beccaria con Alessandro Verri, dall’altro Pietro Verri con Luigi Lambertenghi (el Luisìn) e in piedi l’abate Longo, Giambattista Biffi e Giuseppe Visconti di Saliceto. Sono costoro alcuni dei collaboratori del «Caffè» (con l’eccezione di Biffi che non giunse mai a scrivervi), cui si dovrebbero aggiungere Paolo Frisi, Gian Rinaldo Carli, Pietro Secchi e altri ancora.

La storia della Scuola di Milano è anzitutto quella di un contributo di massimo rilievo al pensiero e alla cultura economica europea nell’età dell’Illuminismo; per diversi aspetti è anche la storia di un successo incompleto e in parte mancato. Beccaria in particolare – il cui trionfo aveva suscitato immense aspettative – manca del tutto, come si accennerà, l’occasione di Parigi che avrebbe dovuto facilmente consacrare la gloria sua e la fama della Scuola di Milano. Schiavo di peculiare sensibilità affettiva, delude l’universo mondo, a cominciare naturalmente dai parigini così come dai milanesi di casa sua (i Verri sopra tutti), con un suo improvviso, inatteso e precipitoso rientro dalla capitale francese.

Di seguito esamineremo prima di tutto il carattere organico della Scuola milanese nel suo insieme a partire dalle origini, per passare poi a considerarne l’influenza.

I maggiori autori del 18° secolo

Pietro Verri e Cesare Beccaria sono senza dubbio le figure di maggiore spicco della Scuola milanese. Dalla loro esperienza è possibile trarre alcuni dei caratteri di fondo dell’esperienza della Scuola e del rilievo della medesima per una retrospettiva della tradizione italiana. Entrambi rampolli di nobili famiglie della città, giovani di eccellente cultura e formazione, si trasformano assai presto in economisti di rilievo.

Pietro Verri nasce nel 1728 e, dopo breve carriera militare alla fine degli anni Cinquanta, individua nell’economia politica il centro dei suoi interessi e ne coltiva lo studio anche per l’amicizia e l’influenza dell’ufficiale gallese Henry Lloyd (1718 ca.-1783), multiforme personaggio che nella storia del pensiero economico è ricordato in particolare per il suo lavoro sulla moneta (An essay on the theory of money, 1771) e come pioniere dell’economia matematica.

Nei primi anni Sessanta Verri fonda e anima a Milano la cosiddetta Accademia dei Pugni. Egli riunisce in casa sua, nella Contrada del Monte (oggi via Montenapoleone), un gruppo di giovani sodali i quali condividono un programma di ricerca scientifica e di conversazione culturale che trova anche espressione nel «Caffè» (1764-66), il noto periodico ispirato al modello dello «Spectator» di Joseph Addison. L’economia politica di Verri non è mai puramente accademica. Essa è continuamente alimentata dalla necessità di affrontare questioni concrete, come il problema delle tariffe, della redenzione delle regalie, dei rimedi al disordine monetario e via dicendo. Questa preoccupazione è anche resa evidente dall’attività svolta da Verri come pubblico amministratore, nell’ambito del Supremo consiglio di economia e di altri organismi. Il suo stile è spesso tagliente e venato di radicalismo. La sua posizione nell’ambito dell’Amministrazione, pur di grande rilievo, non sarà mai tale da soddisfare le sue smisurate ambizioni, né gli sarà dato di cogliere allori accademici: la cattedra milanese di economia in particolare, istituita sul finire degli anni Sessanta, toccherà infatti a Beccaria.

Gli scritti di Pietro Verri includono opere che mostrano una notevole varietà di interessi economici, storici e filosofici. Il fuoco tematico attorno al quale si raccoglie la produzione letteraria e scientifica di Pietro Verri è rappresentato, da un lato, dall’interesse per la ricerca empirica e fattuale, con la quale egli spazia dalla narrazione storica alla ricerca condotta con metodo economico-statistico, quest’ultima esemplificata al meglio dallo studio sui Bilanci del commercio dello Stato di Milano degli anni Sessanta del secolo; dall’altro lato, vi è lo sviluppo di una linea d’indagine che collega esplicitamente l’eudemonismo settecentesco con l’economia politica. Questa linea d’indagine è il filo conduttore del notevole volume dei Discorsi del Conte Pietro Verri, apparso nel 1781, nel quale lo stesso Verri riprende e riunisce le sue opere precedenti più significative – ossia, nell’ordine, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, il Discorso sulla felicità e Il discorso sulla economia politica – fondendole insieme e mostrandone i legami. Il volume si conclude con la parte dedicata all’economia politica, che idealmente sintetizza la posizione intellettuale dell’autore.

L’ambizione di Verri, in definitiva, era stata quella di dare, specie con le Meditazioni sulla economia politica (1771), una trattazione teorica dell’economia. In quella sede trova spazio l’interesse di Verri per la dinamica del reddito o prodotto netto di un sistema. L’autore si distacca notevolmente dalla coeva posizione fisiocratica, che include nel prodotto netto le sole produzioni agricole; sottolinea in particolare l’importanza nella produzione dei rapporti di prossimità i quali favoriscono la creatività come fonte principale della pubblica felicità, vero obiettivo dell’economia politica. È proprio nell’analisi di questi aspetti che emerge la forte unità tra i lavori ripresi nei Discorsi e l’originalità del contributo della Scuola milanese nel panorama del tempo. Le fonti di Verri spaziano da Montesquieu, a John Locke e David Hume, a molti degli economisti francesi e ai maestri della ‘scuola italiana’, primo fra questi Antonio Genovesi.

Nel quadro dell’Illuminismo lombardo dell’epoca, Verri appare come la figura guida e il suo contributo all’economia politica è certamente superiore a quello di altri economisti della Lombardia del tempo, tra i quali spiccano Beccaria e Carli.

In questa sede importa principalmente rilevare come una rilettura del contributo di Verri mostri una spiccata sensibilità per il tema della pubblica felicità e per il tema della creatività come motore dello sviluppo e del progresso economico e politico. È evidente anche una specifica influenza della Scuola milanese, e di Verri in modo particolare, sull’economia di Adam Smith, che vedrà la luce con An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), opera pubblicata cinque anni più tardi rispetto alle Meditazioni di Verri. Si tratta di elementi che hanno grande importanza in sede di storia delle idee e che tendono a ridimensionare alquanto il peso e l’influenza della Scuola fisiocratica francese sulla nascita dell’economia politica, restituendo più adeguato rilievo (tra altre fonti) al canone certo non secondario dell’economia civile di tradizione italiana.

Occorre ricordare che il campo della pubblica felicità è, in buona sostanza, la forma assunta nel corso del Settecento dalla tradizione ‘civile’ in economia, una tradizione che risale in realtà all’Umanesimo italiano del Quattrocento.

Il riferimento alla ‘vita civile’ forma uno (forse il principale) dei topoi significativamente ricorrenti nella tradizione italiana, assai evidente appunto nell’età dell’Umanesimo, come componente della storia delle idee che interseca gli studi economici. Il tema ha grande rilievo anche ai fini di una opportuna distinzione sui temi economici di influenze che non possono essere genericamente ascritte (come spesso accade) solo al predominio dell’Illuminismo francese e al successo della Scuola fisiocratica.

L’economia politica, come oggi la conosciamo, ha certamente avuto un suo momento formativo importante, di enorme successo, a metà Settecento a opera di quegli autori francesi – capeggiati da un medico, fattosi economista, François Quesnay – che vennero poi chiamati con lo strano appellativo di fisiocrati. Lasciarono tal segno da continuare per quasi un secolo a esser chiamati gli economisti, per eccellenza. Sono tuttora esempio massimo di una sistematicità e un rigore del tutto francesi, specialmente proprio in tema di libertà economica. A loro si deve il conio dell’espressione laissez-faire, per significare il liberismo.

È però al tempo stesso curioso e interessante, per capire l’economia di ogni tempo, notare come il successo della Scuola fisiocratica non abbia potuto oscurare la luce intensa dell’astro nascente pochi anni più tardi, ossia di Smith, il quale si fa notoriamente egli stesso sostenitore del laissez-faire, ma in una concezione assai diversa che tratta il mercato concorrenziale come processo basato sulla continua autocorrezione piuttosto che come studio di ipotesi capaci di garantire un esito perfetto. La polemica di Smith con ‘gli economisti’ è del resto esplicita, anche se è stata a lungo decisamente sottovalutata o addirittura ignorata. Questo fatto, indubbiamente curioso, è divenuto in anni recenti (soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso) l’oggetto principe di una importante revisione storiografica che ha riguardato prima di tutto il sistema di Smith e, di riflesso, l’intero processo di creazione del pensiero economico specie nella seconda metà del Settecento. La revisione storiografica corregge la sistematica sottovalutazione delle diversificate influenze registrabili all’interno della galassia illuministica; una sottovalutazione sostanzialmente attribuibile al lungo prevalere in economia di una concezione della Scuola classica troppo esclusivamente imperniata sulla logica marxiana del sovrappiù o del plusvalore.

In Italia, in particolare, accanto a indubbie affinità con il pensiero fisiocratico, opera nel Settecento una tradizione sostanzialmente diversa, per molti versi anche complementare (il caso di Verri è al riguardo istruttivo), rispetto al cartesianesimo francese, con implicazioni e sviluppi molto più intenti a studiare la concezione e l’effettiva costruzione del bene comune che la distinzione di singoli specifici diritti (si pensi, ad es., alla polemica anticartesiana nella Napoli di Giambattista Vico). Per quanto concerne la continuità di una tale tradizione, con riferimento al contesto milanese e lombardo in particolare, ricordiamo qui l’opera e l’influenza, anche in sede milanese, di Ludovico Antonio Muratori (nato nel modenese nel 1672), il quale nel 1749, un anno prima della morte, pubblicava il saggio Della pubblica felicità, un’opera di grande successo e influenza nella Milano dei lumi. Il tema della felicità, con una accentuazione talora più sensista e materialista, ha grande spazio all’epoca anche nella cultura francese e trova significativa eco anche nella Encyclopédie. Più vicino al senso italiano è forse il taglio scelto dai Costituenti americani, là dove scrivono (com’è assai noto) di «pursuit of happiness».

La vicenda di Beccaria si svolge in stretto parallelismo con quella di Verri, di dieci anni maggiore di lui e suo mentore in diverse circostanze. Tra i caratteri di fondo dell’esperienza del «Caffè» vi sono lo spirito di ricerca e la divulgazione scientifica in generale e, più in particolare, l’avversione alla tradizione giuridica e l’enorme fiducia nelle prospettive dell’economia politica, entrambi aspetti condivisi da Beccaria. È lo stesso Verri ad acquisire l’amico al circolo intellettuale dell’Accademia, presentandolo come «profondo algebrista, buon poeta, testa fatta per tentare strade nuove se [corsivo aggiunto] l’inerzia e l’avvilimento non lo soffocano» (Memorie sincere, in Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 5° vol., Scritti di argomento familiare e autobiografico, 2003, p. 116).

La fama di Beccaria esplode allorché nel 1764 egli pubblica un pamphlet anonimo, presso l’editore Aubert di Livorno, che reca il titolo Dei delitti e delle pene. Il lavoro discute di alcune delle questioni più scottanti del diritto penale, ossia l’impiego della tortura e della pena capitale. Nella stessa Milano l’uso di questi mezzi è prassi quotidiana. L’opera è interamente frutto dell’ambiente dell’Accademia. Così ne descrive la genesi Verri, dando al tempo stesso un’immagine realistica della figura e del carattere dell’autore:

Il libro è del Marchese Beccaria, l’argomento glielo ho dato io, e la maggior parte dei pensieri è il risultato delle conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro [Verri, fratello di Pietro], Lambertenghi e me. Nella nostra società la sera la passiamo nella stanza medesima ciascuno travagliando. Alessandro ha per le mani la Storia d’Italia, io i miei lavori economico politici, altri legge. Beccaria si annoiava e annoiava gli altri. Per disperazione mi chiese un tema, io gli suggerii questo conoscendo che per un uomo eloquente e di immagini vivacissime era adatto appunto (Memorie sincere, cit., pp. 138-39).

Beccaria nel pamphlet del 1764 adotta una concezione interamente utilitaristica intenta a perseguire la felicità pubblica. È un’argomentazione di «economia del diritto» la sua, che ricerca nella pena il risarcimento che la società richiede a chi ha provocato a essa un danno attraverso il proprio comportamento. Di qui scaturisce la critica radicale e rivoluzionaria (ben presto oggetto di violente reazioni) alle istituzioni dell’epoca, dipinte come asservite al criterio emotivo di provocare spavento con inutile crudeltà e dunque incapaci di far proprio il principio scientifico che insegna a proporzionare la pena al crimine. L’opposizione alla tortura e alla pena capitale non è dunque, in Beccaria, dettata da mero sentimento umanitario, ma da calcolo utilitaristico. La pena di morte e la tortura non servono perché non rappresentano un risarcimento e non tutelano la società. È un tema che rientra perfettamente nel programma dell’Accademia, che concepisce l’economia politica precisamente come «scienza del legislatore» (in un senso che qui appresso sarà chiarito); lo stesso Pietro Verri ne tratterà con le Osservazioni sulla tortura (1777, ma pubblicate postume nel 1804), ben note anche per essere basate su vicende poi riprese da Alessandro Manzoni nel romanzo e soprattutto nella Storia della colonna infame (1840).

Il successo di Beccaria, pur prevalentemente teorico, fu enorme e immediato e tale da superare la sua stessa immaginazione. Avesse Beccaria posseduto una tempra personale più solida, la storia della disciplina economica nella tradizione italiana sarebbe certamente stata in parte diversa. In questo è da ritrovare, come già accennato, la sorgente maggiore dei contrasti che divideranno Beccaria dai Verri anche dopo la chiusura dell’Accademia. Nel viaggio, qui ricordato in apertura, a Parigi, allora capitale culturale del mondo e sorgente della lumière, accolto con grandi onori, Beccaria fallisce l’occasione per dare una rappresentazione universale chiara e immediatamente riconoscibile nel contesto europeo e mondiale dell’attivismo della Milano illuminista: intimorito e impacciato, è incapace di rappresentare adeguatamente la rivoluzione culturale avviata sotto la direzione di Pietro Verri. A questo suo atteggiamento si deve se, ancor oggi, non è sempre facile percepire il legame che unisce il pamphlet di Beccaria, più che al diritto penale, all’economia politica nella tradizione italiana della seconda metà del Settecento.

Rientrato a Milano dal viaggio in Francia, Beccaria riceve da Caterina di Russia l’offerta di assumere un incarico in quel Paese, ma declina l’invito dopo diverse incertezze. Nella stessa Milano però è in corso la rinascita delle Scuole palatine, cui l’imperatrice Maria Teresa attribuisce un ruolo significativo nella riforma dell’istruzione superiore. Maria Teresa intende istituirvi una cattedra di economia, o meglio di scienze camerali, che all’epoca è il nome della disciplina nel mondo di lingua e cultura tedesca (Kameralwissenschaften). Questa volta Beccaria non può declinare e per la prima volta in vita sua si guadagna un impiego stabile se non fisso. È così che egli diventa uno tra i primi docenti titolari di una cattedra di economia politica al mondo, preceduto soltanto da Antonio Genovesi sulla cattedra di Napoli.

A differenza di Verri, scrittore prolifico, Beccaria ha relativamente poco al suo attivo oltre il celebre pamphlet. Notevoli sono i suoi contributi al «Caffè», tra i quali spicca il ben noto articolo Tentativo analitico su i contrabbandi (1766), uno dei primi lucidi esempi di efficace applicazione matematica a un argomento economico qual è quello degli effetti dei dazi. Le sue lezioni di economia furono pubblicate soltanto postume, nel 1804, nella collezione Custodi con il titolo di Elementi di economia pubblica.

I riformatori

Il successo e gli sviluppi dell’economia politica nel Settecento italiano possono essere visti come un sottoprodotto dell’attività di riforma. Se così è, lo è specialmente per il caso milanese. Lo spirito di riforma è l’elemento unificante e motivante delle realizzazioni della Scuola di Milano. In tutto il territorio del Nord italiano si diffonde molto presto l’eco del movimento milanese: dal Piemonte, al Veneto, all’Emilia, alla Toscana. Si stabiliscono legami personali, di affiliazione e di seguito scientifico con numerose personalità impegnate nell’elaborazione delle idee e nell’azione delle pubbliche amministrazioni in vari ambiti territoriali. «Non fu la fame – osservava opportunamente Franco Venturi (1969, p. 425) – a sospingere la Lombardia sulla via delle riforme negli anni Sessanta. Nulla di simile alla tragica carestia napoletana e neppure alla crisi che colpì Roma e Firenze». In Lombardia «la spinta di fondo fu più politica che sociale, meno passionale e più intellettuale e razionale».

L’avvio dell’età delle riforme in Lombardia è collegato con l’azione pratica e le solide fondamenta poste, già nella Milano degli anni Cinquanta, da uomini come Pompeo Neri, Beltrame Cristiani, Gianluca Pallavicini. Tra i protagonisti vi è senza dubbio in primo piano Gian Rinaldo Carli, istriano trapiantato a Milano, forse il personaggio più illustre (dopo Verri e Beccaria) per l’ampiezza dei suoi studi e l’elaborazione di una posizione intellettuale e di politica economica di un certo impegno.

Tra quanti più vivamente avvertirono l’influenza pervasiva dei lombardi vi è certamente Carlantonio Pilati (1733-1802), veneto, il cui titolo maggiore (Di una riforma d’Italia, 1767) esprime bene lo spirito del tempo: egli produce un trattato sulla «riforma d’Italia», ossia sui «mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia».

Tra gli operatori pubblici del momento conviene citare oltre a Beltrame Cristiani (1702-1758), ligure di origine poi plenipotenziario a Milano prima dell’ascesa dei Verri, Carlo Giuseppe Firmian (1718-1782), trentino succeduto a Cristiani a Milano. Di Pompeo Neri diremo tra breve: egli fa parte di quei funzionari intellettuali toscani che, toccati dallo spirito di riforma, sviluppano poi la loro attività in diverse sedi, come accade anche a Bernardo Tanucci e a Bartolomeo Intieri, trasferitisi a Napoli.

Ancora amministratori degni di nota sono in senso lato alcuni dei membri già citati dell’Accademia dei Pugni, così come lo sono quanti valentuomini operarono a Vienna presso il Dipartimento d’Italia, come Joseph Sperges (1725-1791) o Ilario Corte o, ancora, Luigi Giusti (1709-1766). Ma troppo numerosi sarebbero i nomi da ricordare per esaurire le fila dei personaggi che operano in senso riformatore nella politica e nell’amministrazione del tempo e che si possono considerare in significativa misura influenzati dalla Scuola milanese. Ci soffermiamo qui soltanto su alcune personalità che acquistano qualche rilievo, forse non tanto o non soltanto come amministratori, ma anche come saggisti.

Gian Rinaldo Carli (1720-1795) fu uomo di successo come pubblico amministratore. Divenne il presidente del Supremo reale consiglio di pubblica economia, eretto con regio dispaccio del 20 novembre 1765. Uomo di ampia formazione umanistica e scientifica, acquisita soprattutto (lasciata la natia Capodistria) tra Modena e Padova, si avvicina all’ambiente dell’Accademia dei Pugni e al gruppo del «Caffè» al quale collabora con un saggio molto noto e discusso su La patria degli italiani (1765), pur operando peraltro largamente in parallelo e con complessiva forse minore incisività e originalità di scrittura rispetto al gruppo del «Caffè». Continuatore delle riforme, sulla scia di Neri, si oppone nella sostanza alla concezione dinamica del sistema economico elaborata da Verri, una concezione nella quale ha un ruolo implicito ma chiarissimo l’intrapresa, ossia l’attività imprenditoriale, una concezione che riconnette idealmente Verri, da un lato, con Richard Cantillon e anche con Jacques Turgot e, dall’altro, ne fa in certo senso un anticipatore di Schumpeter. In Verri non può essere trascurata la creatività imprenditoriale come fattore dinamico che non è certo frutto di mero calcolo, benché includa almeno la speranza del profitto.

Il rapporto dialettico con Verri emerge anche laddove Carli, con toni molto pragmatici, si pronunzia a favore di forme di controllo dei prezzi. Così, nel suo commento critico (1772) alle Meditazioni sull’economia politica di Verri , «lo stabilire il prezzo non è togliere la libertà – egli afferma – […] ma piuttosto è mettere i rivenditori se non in concorrenza di prezzo, almeno in concorrenza di bontà» (Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., t. 2, 2007), toccando così il tema della competizione per l’eccellenza che sa bene essere caro a Verri, il quale tuttavia non lo vede certo come alternativo rispetto al libero mercato.

Il commento di Carli all’economia politica di Verri (la «perfida glossa», come la designa Tullio Bagiotti, cit. nell’Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., t. 2, Introduzione) è certamente dettato dall’avversione a questo autore – così Carli lo dipinge – «trasportato in favore della natura e della libertà illimitata».

Massima generale: dare al commercio − scrive Carli − la libertà possibile; tenere i commercianti e gli artefici, come tutti gl’individui della società, nella possibile disciplina. Ne quid nimis (2° vol., t. 2).

Pietro non può fare a meno di rilevare che il ne quid nimis (espressione cara al Galiani dei Dialoghi, che Carli ammirava) esclude ogni massima generale, ivi ovviamente incluso il ne quid nimis medesimo.

Tra i comprimari del gruppo del «Caffè» occorre ricordare l’abate Alfonso Longo (1738-1804), uomo di grandissimo talento. Coetaneo di Beccaria, gli subentrerà come professore alle Scuole palatine, mutato il titolo del corso in Istituzioni civili ed economiche, incarico che lo stesso Longo poi lascerà nel 1782, allorché la cattedra verrà portata a Pavia, restando egli a Milano come prefetto della Braidense. Lecchese di origine, anche l’abate Longo è (come del resto Verri e Beccaria) figlio del fermento che agita e divide le famiglie nobili di Lombardia. Egli condivide lo spirito del «Caffè» nel vedere uno stretto legame tra problemi giuridici ed economici, tuttavia le sue posizioni come economista sono marcatamente più vicine alla Scuola francese. Specie grazie alla sua amicizia con Mirabeau, Longo era destinato a divenire una specie di rappresentante della fisiocrazia in Italia.

Di diversa natura e di diverso taglio è il contributo di un altro notevole partecipante del gruppo del «Caffè» come Paolo Frisi. Coetaneo di Pietro Verri, Paolo Frisi nacque a Melegnano nel 1728 e morì a Milano nel 1784. Barnabita, pur insofferente della disciplina ecclesiastica, di carattere cosmopolita e scientista, egli fu tra quanti nella Scuola di Milano stabilirono contatti duraturi, diversi attraverso i suoi viaggi, con i philosophes francesi, tra i quali d’Alembert, d’Holbach, Helvétius e Voltaire. Gli studi matematici e scientifici erano il suo campo d’azione, anche nei suoi contributi al «Caffè», all’epoca in cui venne chiamato a Milano da Firmian, dopo anni d’insegnamento a Pisa, per la docenza alle Scuole palatine. Collaborò strettamente con Verri. Avendo sviluppato forte interesse per l’economia politica, Frisi finì per essere indicato da Verri come l’editore di una delle successive riprese della sua economia politica con aggiunte e complementi che mettono in evidenza la matematica del valore in Verri e il collegamento delle Meditazioni sulla economia politica di quest’ultimo con i lavori di Henry Lloyd, con il quale lo stesso Frisi era rimasto in contatto. Quanto alla vita ecclesiastica, egli si pronunciò a favore di riforme incisive che rivelano un’esperienza sofferta, quali la riduzione al minimo degli ordini regolari, e soprattutto dei mendicanti; la fissazione dell’età minima per entrare nella vita religiosa a venticinque anni; la statizzazione delle scuole degli ordini; l’abolizione dell’Inquisizione e l’avocazione allo Stato della censura sulle stampe.

Merita menzione anche la personalità e l’opera del cremonese Giambattista Biffi (1736-1807). Legato da solida amicizia soprattutto con Beccaria, attraverso l’adesione all’Accademia dei Pugni egli intese affrancarsi dal suo ambiente di origine e perseguire una carriera diplomatica. Richiamato a Cremona dalla famiglia, dovette però contentarsi di operare, sotto il profilo dell’attività amministrativa, in sede locale. Anche la sua collaborazione al «Caffè» non decollò mai realmente. Malgrado la dottrina, Biffi, uomo di vaste letture, finì per produrre soltanto memoriali, saggi e lettere: nulla di primo piano. Egli fu peraltro tra i pochi esponenti della Scuola milanese che si avvicinarono alla Massoneria. Fu maestro di cattedra della loggia cremonese, destinata poi a essere chiusa allorché Giuseppe II decise di lasciare in vita un’unica loggia lombarda, la loggia La Concordia di Milano, sorta nel 1783.

Maggiore ricchezza teorica e di ideazione presenta la produzione di Giuseppe Gorani che, nato a Milano nel 1740, sarà protagonista di diverse peregrinazioni in Europa e chiuderà i suoi giorni a Ginevra nel 1819. La sua è una vita attraversata da entusiasmi e idealità, legate a diverse letture, tra le quali Jean-Jacques Rousseau, gli enciclopedisti francesi, i fisiocrati. Su questi presupposti nacque la sua critica ai poteri costituiti, specie la nobiltà e il clero, nei due volumi, apparsi a Ginevra nel 1769 (ma con la falsa indicazione di Londra 1770), de Il vero dispotismo. Il lavoro fu apprezzato da Pietro Verri, che ne parla (in una lettera al fratello Alessandro) come di espressione di sincero «spirito di filantropia e di libertà, franca, ma lontana da ogni fanatismo». Gorani veniva a riassumere ed esprimere efficacemente il nucleo centrale della filosofia politica del gruppo del «Caffè», al quale egli finì con l’avvicinarsi, affascinato dal pensiero di Beccaria. Virtù e scienza sono le giustificazioni del vero despota di Gorani,

forza formidabile che distrugge ogni altro potere, ma che però, ben lungi di spaventare chi ne considera la struttura, può essere l’origine la più facile della pubblica prosperità, se colui in cui sono riunite tante forze, viene regolato dalla virtù e dalla cognizione de’ veri mezzi per mantenervisi (citato in F. Venturi, Settecento riformatore, 5° vol., L’Italia dei lumi, 1764-1790, t. 1, 1969, pp. 500-01).

Non si potrebbe forse meglio esprimere l’avversione ai corpi intermedi, difensori del privilegio e fomento di ineguaglianza, che anima lo spirito del «Caffè» e che Verri stesso sviluppa proprio in quel torno di tempo anche nelle sue Meditazioni sull’economia politica del 1771.

Torniamo al genio di Neri. Fu suo maestro Sallustio Antonio Bandini, grande sostenitore della libertà commerciale, con il suo ben noto Discorso sulla maremma di Siena, che – scritto nel 1737 – vide la luce soltanto nel 1775, quasi quarant’anni più tardi. Nato a Firenze nel 1706, Neri ebbe cultura prevalentemente giuridica. Giovanissimo professore di diritto a Pisa passerà, nel 1735, all’amministrazione pubblica, con una carriera simile a quella del padre, ma nella quale Pompeo giunse più in alto. Negli anni Quaranta venne chiamato a Milano da Maria Teresa come presidente dell’ufficio di censimento, ossia di quel catasto generale che era in quel momento il nodo centrale dell’intera politica economica in terra lombarda. La famosa Relazione di Neri sullo stato del lavoro per il censimento è del 1750. Fu un’opera gigantesca, condotta con spirito scientifico e competenza: un modello universale per operazioni di questo genere. La permanenza a Milano di Neri durò in realtà soltanto otto decisivi anni di intensissimo lavoro; in seguito egli tornerà in Toscana, dove morirà nel 1776, per occuparsi di materia frumentaria lungo le stesse linee antivincolistiche, di smantellamento della tradizionale politica annonaria, vigorosamente perseguite da Verri a Milano. Neri operava in condizioni ben più drammatiche per la carestia che affliggeva il territorio toscano alla metà degli anni Sessanta. Le carestie, nella visione dei riformatori lombardi, sono prima di tutto un problema di coesione sociale, ossia di economia civile.

I temi di ricerca della Scuola milanese

Passando in rassegna alcune tra le figure che popolano l’universo dell’Illuminismo lombardo, e la Scuola milanese in particolare, vediamo una varietà di posizioni e di influenze. La rassegna qui offerta non è certo esauriente, pur essendo indicativa delle tendenze in atto e delle problematiche affrontate. Bisognerebbe forse almeno estendere l’analisi al Piemonte dei fratelli Vasco, Giambattista e Francesco Dalmazzo (eroe del Risorgimento senza eroi, 1926, di Piero Gobetti): ma naturalmente anche questo non basterebbe a esaurire l’indagine e ci contentiamo dunque di aver dato assaggi di qualche significato.

L’aggettivo civile ricorre di continuo nelle opere del periodo e degli autori stessi qui ricordati. Esso non ha solo l’ordinario significato di «non religioso», «laico» e simili. Ha un significato più ricco e tale da abbracciare una concezione istituzionalista del sistema economico. L’espressione economia civile, lanciata in realtà a Napoli da Genovesi, attraversa anche la scuola lombarda (Longo, per es., la riprende espressamente) e segnerà anche nell’Ottocento un filo conduttore non secondario nel percorso dell’economia politica nell’intera cultura occidentale. Per questa via l’economia politica in Italia si allontana però significativamente dalla tradizione britannica, la quale, soprattutto con David Ricardo (1772-1823), accentuerà l’autonomia dell’analisi economica per sé presa e si presterà a essere successivamente riorientata (attraverso la simbiosi con il marxismo) attorno al nodo centrale del valore, tema che invece in Italia non avrà mai un rilievo paragonabile, neppure per i marxisti italiani. Nella tradizione britannica, ad es., si usava talora irridere all’ingenuità di John Stuart Mill che, nei suoi Principles del 1848, tratta del valore in seconda battuta, come di un tema di ricerca esaurito. In realtà, superata la ‘distorsione’ marxista, la posizione di Mill appare oggi in una luce diversa e ne viene d’altro lato rivalutata la pluridisciplinarità, con un’operazione analoga a quella con cui viene riletta quella stessa caratteristica in Smith. Parallelamente la Scuola italiana viene anch’essa rivisitata.

Due caratteristiche tematiche di ricerca della Scuola milanese sono costituite dall’utilitarismo e dalla teoria economica della società civile. Iniziamo da questa seconda tematica, alla quale abbiamo già fatto ripetuto cenno, soprattutto inquadrandola nella tradizione civile tipicamente italiana. Qui è opportuno riprendere il tema da un’altra prospettiva, che è quella del collegamento con la tradizione anglosassone dell’economia prericardiana.

Il centro dell’attenzione è ancora soprattutto l’opera di Pietro Verri, in cui il ruolo fondamentale della concorrenza e del mercato si collega strettamente con la concezione della società civile come entità distinta dallo Stato, secondo una linea di pensiero che nel mondo anglosassone acquista crescente rilievo tra Sei e Settecento con la critica a Hobbes. Si ritrova in Verri una ‘scienza del legislatore’ (che, non casualmente, è la definizione che Smith stesso darà dell’economica politica nel 1776) alla quale contribuisce quella componente della cultura francese che è più vicina allo spirito britannico (Montesquieu); oltre, naturalmente ai maggiori autori britannici (Locke, Hume), nelle cui riflessioni il legislatore compare come figura pubblica che codifica i nessi costitutivi della società civile. Il discorso, in Verri in particolare, non si presenta né come mero economicismo, né come teorizzazione dell’uomo politico o del potere politico. Sono qui presenti i caratteri di una tipica concezione della civitas che ha le sue radici appunto in Montesquieu e nella tradizione anglosassone. La lotta di Verri contro l’arbitrio e il privilegio non va dunque confusa con la teorizzazione dell’assolutismo politico e con la distruzione in chiave assolutistica e livellatrice dei corpi intermedi.

Montesquieu, nella sua discussione dei governi dispotici, scrive:

Dopo tutto quello che abbiamo detto, sembrerebbe che la natura umana dovrebbe ribellarsi senza posa contro il governo dispotico. Eppure, nonostante l’amore degli uomini per la libertà, nonostante il loro odio per la violenza, la maggior parte dei popoli vi sono sottomessi. Ciò è facile da comprendere. Per formare un governo moderato bisogna combinare i poteri, regolarli temperarli, farli agire; dare, per così dire, un contrappeso a uno per metterlo in grado di resistere a un altro; è un capolavoro di legislazione che il caso fa di rado e che di rado è concesso di fare alla prudenza. Al contrario un governo dispotico salta, per così dire, agli occhi; è lo stesso dovunque: poiché per stabilirlo bastano le passioni, chiunque è capace di farlo (L’esprit des lois, libro V, cap. XIV; trad. it. 1989, 1° vol., p. 211).

La salvaguardia dal dispotismo è dunque legata allo sviluppo del governo limitato dal potere supremo della legge. Nella concezione di Montesquieu il potere supremo della legge non può stabilirsi e perdurare se non vi sono istituzioni indipendenti − i pouvoirs intermédiaires − cui la legge attribuisce identità e poteri. È questa una concezione che esalta la centralità della società civile intesa come rete di rapporti sociali all’interno della quale si colloca la stessa autorità politica ossia l’autorità di governo. Molta filosofia politica al riguardo ci insegna a riconoscere un parallelo tra il più celebre capitolo dell’Esprit des lois − il VI del libro XI (De la constitution d’Angleterre) − e un testo sulla divisione dei poteri precedente di mezzo secolo e quasi altrettanto celebre, il capitolo XII (Of the legislative, executive, and federative power of the common-wealth) del II trattato sul governo di John Locke (Two treatises of government, 1690). Entrambi i testi parlano della costituzione britannica.

Non è casuale che Locke e il barone di Montesquieu siano tra le massime fonti di Verri; è questo un fatto che qualifica la concezione costituzionalista di Verri, la quale è anzitutto parte della sua formazione filosofica prima di essere la fonte di concrete proposte di riforma giuspubblicistica specie all’epoca della Rivoluzione francese e dopo la scomparsa dell’imperatore Giuseppe II. Sotto il profilo filosofico, del resto, proprio la congiunzione tra eudemonismo e società civile è all’origine della propensione di Verri per l’economia politica.

Dalla biografia di Pietro Verri sappiamo che fu soprattutto l’amicizia con l’inglese Henry Lloyd che lo iniziò ai vasti problemi della politica e dell’economia. Da Lloyd egli trae ispirazione e stimolo a riflettere, come scrisse Franco Venturi, sul «‘paradosso’ del dolore e del piacere» e da quello a passare «alla spiegazione del sorgere e svilupparsi del commercio, della moneta, del mercato» (1969, cap. 3, p. 514). Secondo Venturi, certe espressioni caratteristiche di Verri (come i «bisogni artefatti») sarebbero eco del testo di Lloyd. Già nel «Caffè», Verri scrive che il più

dolce, il più benefico impero è quello delle leggi; esse non conoscono parzialità, non hanno affetti; sode, immutabili, ordinano lo stesso ad ognuno. [...] La grand’arte del legislatore − premette − è di sapere ben dirigere la cupidigia degli uomini. Allora si scuote l’utile industria dei cittadini; l’esempio, l’emulazione e l’uso fanno moltiplicare i cittadini utili, i quali cercano a gara di farsi più ricchi col somministrare alla patria merci migliori a minor prezzo. [...] La libertà e la concorrenza − prosegue − sono l’anima del commercio; cioè la libertà che nasce dalle leggi, non dalla licenza. Quindi ne segue che l’anima del commercio è la sicurezza della proprietà fondata su chiare leggi, non soggette all’arbitrio; ne segue pure che i monopolj, ossia i privilegi esclusivi sieno perfettamente opposti allo spirito del commercio (Sulla interpretazione delle leggi, t. 2, f. XXVIII).

Risulta, dunque, evidente che non è già la presenza di istituzioni o corpi intermedi con rilevanza costituzionale l’obiettivo della critica di Verri. Il problema che egli pone è invece quello di impedire la formazione del privilegio e di liberare eventualmente il sistema nel quale il privilegio abbia messo radici. Diversamente, infatti, si impedirebbe il raggiungimento del fine cui debbono tendere le operazioni della pubblica economia con il «rendere difficile l’industria de’ cittadini», com’egli scriverà più tardi nelle Meditazioni sull’economia politica. Infatti i «corpi delle arti e dei mestieri non producono il bene per cui furono istituiti»; essi «tendono a diminuire l’annua risproduzione». Quest’ultimo è l’argomento ultimamente decisivo sul quale l’autore poggia il richiamo contro «lo spirito di lega e monopolio» che sortisce l’effetto di «diminuire il numero dei venditori interni» con conseguente accrescimento del prezzo delle merci, diminuzione del numero dei contratti, freno all’industria e all’annua riproduzione. Il rimedio sta allora nell’aprire «la strada ampia e libera a chiunque di esercitar la sua industria dove più vuole»; solo per tal via si vedrà «l’abbondanza scorrere dovunque guidata dalla concorrenza, inseparabile compagna di lei; [...] così nelle società accader deve che tutto prenda lena e vigore e si riscaldi, quando il desiderio di migliorare la sorte non incontri ostacolo, e possa per ogni dove spignersi e largamente e sicuramente signoreggiare» (Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., t. 2, 2007, pp. 426-31). Il rimedio sta nella promozione di una buona e saggia legislazione; quando il privilegio è radicato può tuttavia ben essere necessario uno speciale temporaneo intervento dell’autorità politica (ecco il ‘vero dispotismo’ di Gorani) allo scopo di ristabilire la funzionalità del sistema.

Lungi dal forzare e prescrivere, le leggi debbono invitare e guidare; il principio regolatore è che «una legge, che abbia contro di sé la natura e l’interesse di molti, non può mai essere costantemente e placidamente osservata, né portare fauste conseguenze alla città». «La grand’arte del legislatore è, e sarà sempre, quella di far coincidere l’interesse privato col pubblico», Verri scrive nelle sue riflessioni Sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio de’ grani (1769). Gran parte dell’arbitrio, come dimostra la storia del milanese, risiede nell’accumulo di poteri e privilegi da parte non tanto dei corpi intermedi, ma più precisamente dei livelli intermedi di governo. In particolare il codice promulgato, egli scrive nelle Memorie storiche sull’economia politica dello Stato di Milano (1765), sotto la dominazione spagnola è ispirato a principi contrari alla libertà e all’industria; ivi si considerano «i senatori e i curiali come padroni della nazione, e non fatti per lei» (Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., t. 1, 2006, pp. 374-75). Contro il principio stabilito da Montesquieu, in una stessa magistratura si è riunito il potere legislativo e il potere esecutivo:

In somma fu tolta dalle radici quella sicurezza civica che era una delle cagioni dell’antica prosperità; tutto divenne contenzioso, precario e incerto; l’arbitrio del giudice prevalse ad ogni legge; non fu più la provincia governata dalle leggi, e cominciò il governo degli uomini.

Costantemente reiterata è, in Verri, l’opinione che nelle «nazioni illuminate gli uomini vanno direttamente, e obliquamente vanno le leggi; ma quanto sono minori i lumi di un popolo, tanto vanno più direttamente le leggi e obbliquamente gli uomini», come egli scrive nelle Meditazioni di economia politica (§ XXVII, in Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., t. 2, 2007, p. 511). Così nel campo dell’annona egli censura l’aspirazione dell’uomo volgare a ricondurre il vivere civile al limitato orizzonte della propria mente:

L’uomo volgare sempre più voglioso d’imprimere il moto alla società, e di crearvi qualche cosa del suo, anzi che indirettamente incanalare e rendere cospiranti le azioni, colle sue mani grossolanamente tasteggia e scompone la gran macchina della civile società, gli ordigni sottilissimi della quale gli sfuggono dallo sguardo; ma l’uomo che ha meditato vede che nessuna nazione è tanto stolida da privare se stessa del necessario alimento, a meno che per un artificioso sistema di vincoli non succeda un rigurgito contrario alla natura; vede che nella politica più giova il lasciar fare che il fare (Leggi vincolanti, parte prima, 1769, Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., t. 2, 2007, p. 260).

È da queste considerazioni, svolte sul tema dell’annona, che Pietro Verri trarrà poi la chiusa delle Meditazioni sull’economia politica del 1771, circa il «carattere di un ministro di economia». Suo primario compito è quello di

[r]imuovere gli ostacoli, abolire i vincoli, spianar le strade alla concorrenza animatrice della riproduzione, accrescere la libertà civile, lasciare un campo spazioso all’industria, proteggere la classe dei riproduttori con buone leggi [...]; assicurare un corso facile, pronto i disinteressato alla ragione de’ contratti; dilatare la buona fede del commercio col non lasciare mai impunita la frode (Economia politica, § XL, Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., t. 2, 2007, p. 559).

La formula «attivo nel distruggere, cautissimo nell’edificare» riassume, correttamente intesa, quello che potremmo chiamare il moderatismo politico di Pietro Verri e, insieme, la sua concezione dell’ordine sociale.

Altro aspetto centrale alla Scuola milanese, indispensabile pilastro dell’economia espressione della Scuola, è il collegamento con l’analisi della felicità e l’indole del piacere e del dolore. Come già accennato sopra, vi è un importante collegamento che lega insieme i tre Discorsi (dolore, felicità, economia politica). Un aspetto centrale della formazione della ricchezza in una condizione civile della società è rappresentato, secondo Verri, dalla prossimità tra gli esseri umani e dalla facilità con la quale legami diretti e indiretti possono introdursi. «Non è male il ripeterlo – egli scrive nelle Meditazioni sulla economia politica – quanto l’uomo è più isolato e distante dagli altri suoi simili, tanto più si accosta allo stato selvaggio; all’opposto tanto più si accosta allo stato dell’industria e della coltura, quanto è più vicino a un più gran numero di uomini». Come conseguenza «deve farsi ogni studio possibile per accostare l’uomo all’uomo» (§ XXV, pp. 505-06).

Alla radice della stretta relazione esistente tra «prossimità» (misurata dall’esistenza di legami) e formazione della ricchezza vi è, secondo Verri, il processo mediante il quale i bisogni artificiali possono nascere nella condizione civile della società. In effetti quanto più «le nazioni diventano cólte, o sia quanto più s’accresce il numero delle idee e dei bisogni presso gli uomini, tanto maggiormente si vede introdurre il commercio tra nazione e nazione» (§ I, p. 395).

La formazione di bisogni artificiali («bisogni artefatti» scrive Verri, ossia bisogni che nascono dalla interazione tra esseri umani e che tale interazione presuppongono) viene considerata come un’importante condizione per lo sviluppo dell’industria e del commercio, una volta che una nazione ha sorpassato quello stato ‘infelice’ nel quale vi è «eccesso dei bisogni sopra il potere» di soddisfarli, condizione storica nella quale il «bisogno spinge l’uomo talvolta alla rapina, talvolta al commercio» (§ I, p. 396).

La condizione civile, secondo Verri, è dunque predisposta attraverso la formazione di bisogni artificiali, come dato caratteristico di un Paese che «dallo stato della vita selvaggia comincerà a scostarsi». Tuttavia, il pieno sviluppo della condizione civile richiede che una nazione, «conoscendo nuovi bisogni e nuovi comodi, allora sarà forzata ad accrescere proporzionalmente la sua industria e moltiplicare l’annua massa de’ suoi prodotti; cosicché oltre il consumo ella ne abbia tanto di superfluo, quanto corrisponde alla straniera derrata che dovrà ricercare dai vicini. Ed ecco dunque come a misura che si moltiplicano i bisogni di una nazione, naturalmente tendano ad accrescersi l’annuo prodotto del suolo e l’industria nazionale» (Meditazioni sulla economia politica, in Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, 2° vol., Scritti di economia, finanza e amministrazione, t. 2, 2007, p. 396).

L’argomentazione mette bene in evidenza il posto centrale dei bisogni e dei desideri nella teoria della formazione della ricchezza sociale di Pietro Verri. «I selvaggi sono poco infelici perché hanno pochissimi bisogni» (p. 397); in altri termini bisogni e risorse sono in tal caso ben proporzionati gli uni rispetto alle altre. L’espansione dei bisogni, che può intervenire in un successivo momento, deriva dalla comunicazione delle idee tra gli individui e i gruppi sociali ed è essa stessa all’origine di quel transeunte stato di ‘infelicità’ nel quale i bisogni umani superano la capacità di dare a essi soddisfazione; il procedere dell’incivilimento conduce una nazione a un migliore equilibrio tra bisogni e capacità e, mentre comporta, attraverso l’interazione sociale, la comparsa di nuovi bisogni, favorisce al tempo stesso lo sviluppo di nuove capacità a soddisfare quei bisogni mediante industria e commercio. In altre parole, il progredire dell’incivilimento sovverte inizialmente l’originario equilibrio tra bisogni e capacità, ma assicura anche che nuove capacità si formino così da raggiungere alla fine un nuovo equilibrio.

Queste espressioni di Verri sono anche un richiamo alla seconda delle tematiche di ricerca, sopra indicate come caratteristiche degli economisti milanesi.

La base di molte delle argomentazioni di Verri, specie quelle che attengono al tema dell’economia dinamica dell’innovazione e dello sviluppo, sta nella concezione verriana della ricerca del piacere, come assenza di dolore, unita con la tesi della stratificazione o gerarchia dei piaceri che la scuola del «Caffè» introduce e che Verri illustrerà più ampiamente nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773). In particolare vi sono al primo gradino piaceri fisici e più in alto piaceri morali, secondo una concezione che, sulla scia di Verri, qualifica in modo essenziale l’utilitarismo nel pensiero economico dei lombardi. Molti autori di Scuola francese, in questo seguiti più tardi da Jeremy Bentham, rifiutano differenziazioni qualitative dell’esperienza edonistica. La posizione dei milanesi è dunque imperniata su un utilitarismo raffinato e differenziato al suo interno; una posizione che nell’Ottocento sarà anche caratteristica di Mill.

L’importanza della Scuola milanese, così come l’abbiamo qui caratterizzata e contestualizzata, risiede anche nella vastità dei suoi insegnamenti, la cui dimensione è stata solo in parte riconosciuta. Anche su ciò è in corso una revisione storiografica di qualche significato. Il termine civile verrà ripreso nell’Ottocento da Gian Domenico Romagnosi (che parlerà di incivilimento o concorrenza, per es., in Della libera universale concorrenza nell’ordine sociale delle ricchezze [1827], in Economisti italiani del Risorgimento, a cura di A. Garino-Canina, 1933, pp. 4-13) e fornirà un fondamento essenziale alla formazione e alla costruzione dell’economia pubblica di Carlo Cattaneo che mette l’accento sull’intelligenza creatrice e sull’innovazione. La differenza rispetto al Settecento è che né Romagnosi né Cattaneo sono menzionati nella classica History di Schumpeter.

Opere

L’Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, a cura di L. Firpo, G. Francioni, è tuttora in corso. Qui si segnalano il 1° vol. (Milano 1984), dedicato a Dei delitti e delle pene; il 2° vol. (Milano 1984), a cura di L. Firpo, G. Francioni, G. Gaspari, che include i saggi pubblicati ne «Il Caffè»; il 3° vol. (Milano 2012), a cura di G. Gaspari, contenente la I ed. critica degli Elementi di economia pubblica e i Discorsi.

Per quanto riguarda l’Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, è in via di completamento la prima serie. Qui si richiamano il 3° vol. (Roma 2005), a cura di G. Panizza, che include i Discorsi del Conte Pietro Verri del 1781; il 2° vol. (in due tomi, Roma 2006 e 2007), a cura di G. Bognetti, A. Moioli, P.L. Porta, G. Tonelli, in cui si trovano gli Scritti di economia, finanza e amministrazione.

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P.L. Porta, R. Scazzieri, Il contributo di Pietro Verri alla teoria economica. Società commerciale, società civile e governo dell’economia, in Pietro Verri e il suo tempo, a cura di C. Capra, 2 voll., Milano 1999, pp. 813-52.

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